Il paesaggio nel cinema: tre sguardi
Dal cinema al digitale, dal digitale al cinema
Negli ultimi anni del Novecento, l’affermazione del cinema digitale ha prodotto una svolta che quasi sicuramente può essere definita epocale al punto da poter dire che sta nascendo una nuova forma di rappresentazione, diversa dal cinema. Quest’ultimo, infatti, deriva dal Cinématographe dei fratelli Lumière, che era fotografia in movimento, e apparteneva ancora ai dispositivi di riproduzione del reale costruiti nell’Ottocento. Il cinema, come evidenziato da Edgar Morin (Le cinéma ou l’homme imaginaire, 1956; trad. it. 1962), stava fra due mondi, il reale e l’immaginario: da una parte, era riproduzione tecnica del mondo visibile ma, dall’altra, era piena trasfigurazione, immaginazione, narrazione, mitopoiesi, invenzione di mondi diegetici. Queste, possiamo dire, erano le due anime del cinema. Che cosa è accaduto poi, con le tecnologie e le immagini digitali?
I nuovi strumenti che producono immagini per via informatica possono fare anche a meno di un referente autentico, e con ciò avvicinano l’immagine digitale più alla pittura che al cinema (cfr. Costa 2002). Con il pennello elettronico si possono creare ambienti mentali, più che reali, spazi, figure, oggetti inesistenti, o appartenenti al dominio della mente, con o senza cinepresa; si possono anche modificare in maniera sostanziale luoghi fotografati dal vero, sintetizzare in un unico luogo molti luoghi diversi fra loro, creando spazi inverosimili, come le città immaginarie di A.I. Artificial intelligence (2001; A.I. Intelligenza artificiale) di Steven Spielberg (n. 1946), oppure si possono far recitare immagini di attori morti da tempo. Sembra quindi che il digitale prenda sopra di sé la dimensione di finzione caratteristica del cinema, e lasci libera l’altra anima, quella che guardava, o guarda al reale.
Non si può dire, quindi, che il cinema sia morto o stia morendo, anzi si può affermare che il cinema si sta dividendo in due, che le sue due anime si stanno separando. La finzione assoluta viene delegata allo spettacolo virtuale, e quello che resta del cinema può finalmente dedicarsi alla sua vocazione primitiva: guardare il mondo, documentare, raccontare la vita reale, osservare, scoprire ciò che l’occhio umano, condizionato dal mondo dei fini e delle utilità, di solito non riesce a vedere. Sta accadendo in sostanza qualcosa di simile a quello che accadde nella pittura con la nascita della fotografia. Come osservava a metà del 20° sec. André Bazin (Qu’est-ce que le cinéma? 1. Ontologie et langage, 1958; trad. it. Che cosa è il cinema?, 1973, p.10), la fotografia, prendendo su di sé il compito di riprodurre le immagini del reale, liberava la pittura dall’onere del realismo e permetteva la nascita della pittura astratta o di ogni altra pittura sperimentale.
In maniera molto simile, adesso, l’immagine digitale, che è più vicina alla pittura, lascia il cinema libero di proseguire nella direzione originaria: la ricerca e la scoperta del reale. Il cinema, insomma, sta ritornando, o almeno potrebbe ritornare, a essere Cinematografo.
Così, all’inizio del 21° sec., la rappresentazione visiva sembra dividersi lungo due grandi strade. Una è la costruzione di mondi e paesaggi fittizi e immaginari, attraverso programmi e strumenti informatici: questi mondi non sono mai esistiti, esistono solo sullo schermo che li rappresenta e nel programma informatico che li contiene. Film come A.I. Artificial intelligence, la serie futuristica su Matrix (a partire dal 1999) o quella su Terminator (a partire dal 1984) sono chiari esempi del potere illimitato dell’immagine digitale. La seconda strada è la vocazione realistica del cinema, un realismo trasfigurato ed esaltato dalla fotografia, riscattato dal banale ed elevato a poesia, di cui parlava Siegfried Kracauer (Theory of film, 1960; trad. it. Film. Ritorno alla realtà fisica, 1962). Il Cinematografo era rappresentazione di qualcosa o qualcuno che era stato là, davanti alla cinepresa, al momento delle riprese. Il concetto di ‘profilmico’ (nel senso di ciò che sta davanti alla cinepresa), elaborato da Étienne Souriau negli anni Cinquanta, è oggi più che mai uno strumento essenziale per distinguere il cinema tradizionale dal cinema digitale. Nel digitale infatti il profilmico non esiste, o per lo meno non è necessario, e non esisterà più fra non molto, poiché non è indispensabile alla formazione di immagini.
Il cinema, quindi, liberato dagli obblighi della finzione, può ormai cercare nuove, o vecchie, strade, può tornare alla visione del mondo, visione certamente non oggettiva ma soggettiva, personale, fenomenologica; può anche cercare nuove e più espressive forme di contaminazione fra finzione e realismo, o fra narrazione e documentario, come sta già accadendo in questi primi anni del 21° secolo.
Il paesaggio nel cinema
Se il Cinematografo, almeno nelle intenzioni dei Lumière, aveva come scopo quello di guardare il mondo, viaggiare alla scoperta di genti, culture sconosciute per portarle a casa, non era certo per rispettare la natura, ma per dominarla e soggiogarla alla scienza. Ben presto, però, il cinema narrativo ridusse nuovamente il paesaggio al ruolo di sfondo teatrale, di accompagnamento musicale visivo per le storie raccontate e la drammaturgia dei personaggi: si scoprì che le cascate o il mare in tempesta potevano enfatizzare un dramma criminale o sentimentale, come il deserto poteva essere una forte metafora dell’erotismo e così via. Solo la rivoluzione lenta ma inesorabile del cinema moderno, che parte dal Neorealismo e arriva fino ai giorni nostri, ha restituito al paesaggio tutta la sua autonomia e anche la sua complessità e le sue contraddizioni, per arrivare addirittura fino al contrasto fra la drammaticità degli eventi umani e l’indifferenza della natura.
Questa nuova prospettiva corrisponde anche alla scoperta delle altre culture, alla crisi dei miti razionalisti e positivisti, come il progresso assoluto o il be-nessere industriale che, verso la fine del Novecento, hanno svelato i loro difetti o addirittura disastri (in-quinamento, distruzione ambientale, sfruttamento distruttivo delle risorse) e i loro innegabili limiti (ov-vero l’impossibilità di ricondurre tutto il mondo e tutte le culture al razionalismo occidentale).
Ma come si è manifestato, che tappe ha attraversato questo rovesciamento della prospettiva, per cui l’uomo non è più centro e dominatore del mondo rappresentato? L’inizio appartiene alla crisi della cultura industriale, ma le conseguenze culturali e artistiche, come accade spesso, si stanno sviluppando intensamente solo adesso, negli ultimi anni del 20° e nei primi del 21° secolo. Se è vero che ogni immagine documenta la cultura e l’ideologia di colui che l’ha prodotta, molto più dell’oggetto che esibisce (P. Sorlin, Les fils de Nadar, 1997; trad. it. 2001), sarà più interessante e produttivo esaminare non tanto quali paesaggi nuovi o antichi il cinema ci mostri, ma con quale occhio e con quale sguardo mutato si rivolga a essi, e li inserisca nelle sue storie.
Sotto questo aspetto, nel cinema contemporaneo si possono distinguere almeno tre grandi tipologie di paesaggio collegate a tre tipologie culturali o, per meglio dire, a diversi modi di guardare il mondo.
In primo luogo, si può cercare di comprendere quale fine abbia fatto l’antico sguardo positivista dominatore europeo, e come affronti la scoperta dei limiti dell’uomo occidentale, tenendo presente che nelle opere dei maestri europei il paesaggio non è mai stato uno sfondo ma si è rivelato un vero e proprio interlocutore dei personaggi.
In secondo luogo, si può verificare come il cinema americano, forse il maggiore responsabile della sottomissione del paesaggio alla finzione, all’inizio del nuovo secolo ne stia recuperando il senso, collegandolo alle radici della cultura americana, soprattutto al trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson e di Walt Whitman, ma anche a una visione che non abbandona i suoi miti (l’eroe, la vittoria del bene) bensì li rielabora in funzione della crisi della razionalità occidentale.
In terzo luogo, si cercherà di evidenziare come proprio il cinema asiatico (medio ed estremo orientale) e quello africano abbiano molto da dire su questo tema, forse perché, avendo una tradizione cinematografica meno forte e meno consolidata, un occhio più vergine e meno contaminato dai grandi modelli commerciali e spettacolari, si collegano più facilmente all’esperienza del Neorealismo reinventandola secondo le proprie forme culturali. Dopo tanti anni di sistematica trascuratezza, ignoranza e distruzione del paesaggio ora è proprio in questi Paesi emergenti che lo sguardo del cinema (almeno quello che non si propone intenti unicamente commerciali) appare più vivace, più sensibile alle nuove problematiche ecologiche e ambientali, più giovane e pronto ad accogliere sia le grandi eredità della tradizione, sia le grandi necessità ecologiche del nuovo secolo.
Lo sguardo europeo: uno sguardo dominatore?
Nella cultura cinematografica europea la tradizione pittorica appare sedimentata in forme profondamente metabolizzate, e in ragione di ciò molti autori, a volte senza esserne consapevoli, altre volte intenzionalmente, perseguono un cinema pittorico in cui la durata dell’inquadratura e il montaggio, diverso da quello classico, danno al film una dimensione visiva più che narrativa e chiedono allo spettatore una maggiore attenzione per le immagini rispetto alla storia raccontata. Si tratta di un cinema quasi sempre girato in ambienti reali, con paesaggi urbani e naturali affascinanti o, al contrario, sconvolti dalla speculazione e dall’industrializzazione. Si recupera in tal modo il senso originario della veduta Lumière, dopo la parentesi della narrazione classica in cui le immagini erano subordinate alla narrazione, e spesso i paesaggi erano assenti. Del resto, proprio questa è una delle differenze principali fra cinema americano e cinema europeo: la veduta paesaggistica in Europa ha sempre avuto un ruolo significativo, e in molti casi ha addirittura conteso il primato alla storia raccontata. In questo, la produzione europea è fortemente debitrice nei confronti dell’esperienza delle avanguardie degli anni Venti (italiane, tedesche e russe) che hanno propiziato l’aspirazione poetica del cinema, parallela e contrapposta a quella commerciale-spettacolare.
Nel cinema europeo dei nostri anni troviamo molto spesso una nuova originale mescolanza o compresenza di documentario e narrazione, in cui l’autore – da Werner Herzog (n. 1942) a Edoardo Winspeare (n. 1965)– sia per illustrare le condizioni di vita, sia per descrivere sistemi, abitudini, tradizioni antiche e in via di sparizione inserisce una storia minima dentro uno scenario paesaggistico e/o urbano che gli interessa mostrare. Ha contribuito a questa nuova visione anche la grande lezione dell’antropologia moderna, da Franz Boas a Claude Lévi-Strauss a Ernesto De Martino. Ed è questo, nella prospettiva del nuovo secolo, l’aspetto più nuovo del cinema europeo, ma anche del cinema nel suo complesso, in cui la narrazione classica appare fortemente ridimensionata. Si viene a sviluppare in sostanza una netta distinzione fra il cinema artistico-espressivo, che fa ricorso sempre più volentieri a modelli di tipo documentaristico, e il cinema commerciale-spettacolare, che affonda sempre più vertiginosamente nelle strutture ripetitive dell’immaginario (cfr. M. Pezzella, Estetica del cinema, 1996).
Gli eredi più radicali del Cinematografo Lumière e delle avanguardie francesi sono Jean-Marie Straub (n. 1933) e la sua compagna Danièle Huillet (1936-2006), che propongono un cinema di assoluta visione, in cui la storia, se c’è, viene raccontata generalmente dai personaggi in scena, proprio come nel teatro greco antico. Dopo opere memorabili sulla bellezza del paesaggio italiano, Straub e la Huillet, considerati sempre come un unico autore, hanno continuato a filmare con lunghissime inquadrature fisse, o lentissime panoramiche sullo spazio circostante, in modo da restituire con una chiarezza e limpidezza cristallina sia il senso stesso dello spazio (uno spazio per lo più naturale, fatto di case e paesaggi come in Sicilia!, 1999, tratto da Elio Vittorini) sia il senso del cinema come sguardo sul mondo (il più radicale ritorno ai Lumière). In anni recenti hanno filmato il testo di un autore a loro caro da sempre, Cesare Pavese, nelle cui opere la natura e il mito sono costantemente al centro di ogni narrazione, come nei Dialoghi con Leucò filmato da Straub-Huillet nel 2006 con il titolo Quei loro incontri. In quest’opera il loro radicalismo giunge a effetti stupefacenti: i dialoghi che, com’è noto, hanno per protagonisti alcuni eroi e divinità elleniche che riflettono sul mondo, sulla vita e sulla natura, sono fatti recitare ad alcuni contadini di Buti (un piccolo paese della Maremma pisana, strana enclave in cui si è conservata una tradizione antichissima, riconducibile al teatro greco), ponendoli fermi di spalle o di quinta rispetto alla cinepresa e con lo sguardo rivolto verso le colline toscane e il cielo. In questo modo, le loro riflessioni acquistano una dimensione remotissima, arcaica: il film, di difficilissima visione, richiede una grande attenzione e una assoluta rinuncia al divertimento tipico del cinema spettacolare-commerciale, ma in cambio ci permette di cogliere la straordinaria bellezza di un mondo presente, vivo e fremente, con gli alberi che tremano al vento oppure brillano sotto il sole: come apparisse anche a noi per la prima volta.
Cinema anch’esso carico di una intensa ricerca visiva è quello di Bruno Dumont (n. 1958), che collega il ricordo dei paesaggisti fiamminghi alla descrizione del mondo moderno, o pseudomoderno, poiché ci mostra anche e soprattutto i residui arcaici, animali o ferini, della presunta umanità. A Bailleul, vicino a Lille e al confine fra Belgio e Francia, dove sono girati quasi tutti i suoi film, nelle fredde campagne del Nord, immobili come nell’antica pittura olandese, si vedono alberi, terra, erba e zolle grondanti di pioggia, tanto vicini che sembra di sentirne l’odore. La terra e la cittadina, immersa in un turpe sonno, carico di pregiudizi e xenofobia, i fuochi all’aperto, la neve e la pioggia, fanno da sfondo a vicende sessuali truculente e selvagge, dove contadini giovani e spesso mentalmente ottusi o disturbati, vivono in mezzo alla tecnologia più avanzata ma con una mentalità brutale e selvaggia, intenti alla fatica, al cibo e al sesso. Soprattutto il sesso, ridotto a pulsione fisiologica, appare il fulcro di una tragedia che potremmo definire apocalisse dei sentimenti, e appare come uno svuotarsi angosciato di chi non riesce a dare identità né senso alla propria esistenza confusa. In Flandres (2006), i due protagonisti Barbe e Demester si accoppiano come animali fra l’erba fredda o nella stalla, fra il letame e gli altri animali, alla ricerca di una tenerezza che non possono trovare né in sé stessi né negli altri. Li divide una guerra misteriosa combattuta in Africa, metaforica, indefinita e feroce come nei film di Stanley Kubrick. Fra massacri e violenze sessuali il protagonista ritorna a casa sconvolto e forse comincia a cercare amore, oltre che sesso, ma resta pur sempre incapace di esprimersi. Nel precedente Twentynine Palms (2003) l’orrore si consuma nel deserto californiano. Qui paesaggio ed eros formano una coppia motrice vertiginosa ma senza nessun riscatto romantico; e i personaggi sono capaci di regredire alla più assurda criminalità senza nemmeno rendersene conto: è la carne incapace di accedere all’anima e di riscattarsi dalla brutalità della natura indifferente. I paesaggi di Dumont, nella loro algida purezza e durezza, sono in terribile e feroce contrasto con il tormento, il vuoto, la miseria e l’orrore interiore dei personaggi che li abitano e che ci lavorano, e che solo in rari momenti, o solo per un istante, quando il desiderio d’amore vince la solitudine, riescono ad accedere alla condizione di esseri umani. Se lo spazio si dilata mostruosamente dal dettaglio al totale esterno, il tempo subisce le stesse contrazioni e dilatazioni. Lunghe inquadrature silenziose e fisse con i personaggi immobili, fanno da contrasto a scene tagliate bruscamente, con azioni interrotte a metà; di ogni evento Dumont ci mostra appena quanto basta per capire che cosa sta succedendo e passare ad altro, con salti temporali continui che ci impediscono di ricostruire la successione cronologica e la durata della storia, in una frettolosa e angosciata tensione che ricorda il Robert Bresson (1907-1999) di Au hasard Balthazar (1966), o di Mouchette (1967), dove pure si trattava di descrivere l’ottusa violenza e l’angosciosa miseria della campagna francese.
Su un registro completamente differente si pone il francese Raymond Depardon (n. 1942), i cui film si muovono sempre sul confine fra documentario e narrazione, spesso partendo da fatti di cronaca per costruire opere di intensa ricchezza paesaggistica e poetica. In Un homme sans l’Occident (2002) Depardon ritorna nel Ciad dove aveva ambientato La captive du désert (1990; La prigioniera del deserto) per riprendere lo scenario terribile del deserto in modo ancora più sublime, con una fotografia in bianco e nero e vecchie cineprese. Da grande documentarista-antropologo qual è sempre stato, compie qui uno strano percorso all’indietro, per cogliere frammenti di vita dei nomadi berberi scomparsi o in via di sparizione e ‘documentare’ una storia dell’inizio del Novecento. Documentario e film storico s’intrecciano in maniera originale. Al fine di evitare ogni equivoco spettacolare, il film è parlato in berbero; soltanto una voce narrante spiega e racconta in francese ciò che sta accadendo, nello stile inaugurato molti anni prima da Luchino Visconti (1906-1976) con La terra trema (1948). Le immagini mostrano scene della vita del cacciatore Alifa, le guerre disperate e perdenti contro i bianchi e contro le tribù nemiche, le migrazioni senza pace nello sterminato deserto, dune e rocce senza una palma, in una tempesta di sabbia che non cessa quasi mai e che spesso rende le immagini illeggibili. Girato senza il sonoro, con un commento inciso successivamente, in postsincronizzazione, il film afferra e restituisce allo spettatore una profonda impressione di mistero, il mistero del deserto. Più che la storia racconta la grandezza del paesaggio, in cui la sabbia si confonde con il cielo, la sofferenza silenziosa della fame e della sete, la grande dignità dei nomadi.
Più narrativa e commerciale, la regista danese Susanne Bier (n. 1960), in Brødre (2004; Non desiderare la donna d’altri), usa la storia di un militare della task force in Afghānistān, spinto dai Ṭālibān a uccidere un compagno di prigionia, per mettere a confronto due paesaggi: la tranquilla Copenaghen, con i suoi autobus e le strade piene di gente e di negozi, opposta all’orrore e alla desolazione del deserto afgano. Il paesaggio e i suoi misteriosi abitanti diventano uno specchio in cui si riflette l’anima criminale dell’uomo occidentale, pronto a uccidere chiunque, anche i suoi compagni. L’alterità per la regista danese è dentro di noi, mentre quella che ci appare di fronte è solo un riflesso della nostra stessa violenza.
Anche nel cinema italiano il paesaggio appare specchio dell’alterità interiore e del mistero che una persona, una famiglia, un paese possono nascondere. Gabriele Salvatores (n. 1950) nel film Io non ho paura (2003) raggiunge un’alta integrazione fra paesaggio reale e paesaggio simbolico. La storia di un bambino ricco, rapito e nascosto in un profondo buco, in mezzo a un campo di grano, che viene scoperto e liberato da un altro bambino, racconta un sequestro, ma anche l’universale paura infantile del buio, dei vermi e degli insetti che acquistano una dimensione fortemente surreale. Il film, infatti, si mantiene costantemente sospeso fra reale e immaginario, grazie al punto di vista prescelto, per cui il paesaggio e l’estate meravigliosa di una vacanza nel Meridione si trasformano in un vero e proprio rito d’iniziazione agli orrori della vita adulta e della società contemporanea.
Il paesaggio regionale e la coscienza dello sguardo antropologico si rivelano una grande chiave di volta del nuovo cinema italiano. Dagli anni Novanta vi è stata una vera e propria esplosione di regionalismo cinematografico, in cui le tradizioni più arcaiche si assommano e si ibridano con le innovazioni tecnologiche più recenti per mostrare spesso le aberrazioni della cosiddetta modernità. Alessandro Piva (n. 1966) in Lacapagira (2000), ambientato nell’orrore della periferia barese, fra giovani drogati e abbandonati da tutti al loro destino, mostra il degrado urbano della città e la disperazione giovanile. Lo stesso fa Luigi Faccini (n. 1939), che nel suo bellissimo e terribile Giamaica (1998) va alla ricerca dei ghetti romani e dei meticci che li abitano, per raccontare i loro sogni, la loro musica, la loro disperazione e le loro tragedie. Più controllato, il Nord Italia cerca di mantenere un’immagine censurata e spesso oleografica del suo paesaggio: ma una Torino più originale e meno da cartolina è indubbiamente quella di Gianluca Maria Tavarelli (n. 1964), mostrata in dieci luoghi diversi e dieci piani-sequenza che raccontano la nascita, la durata e la fine di una relazione amorosa (Un amore, 1999). Mentre una Napoli meno ovvia e conosciuta, con la sua singolare mescolanza di poveri e ricchi negli stessi quartieri, si affaccia in molti altri film (anche opere prime) di ambientazione locale, come Domenica (2001) di Wilma Labate (n. 1949), vita quotidiana di una bambina orfana e sola ma non priva di coraggio e di spirito di iniziativa. Nel film di Matteo Garrone (n. 1968) L’imbalsamatore (2002), dietro la storia patetica e inquietante di un misero camorrista omosessuale si profila il paesaggio sconfortante di Aversa e delle speculazioni sulle coste della Campania. Per non parlare poi del paesaggio devastato dalla speculazione edilizia della Palermo di Daniele Ciprì (n.1962) e di Franco Maresco (n. 1958), come in Totò che visse due volte (1998), apologo grottesco e mostruoso sullo stato di disperata corruzione e degrado di una fra le più belle e antiche città italiane. È fotografata dallo stesso Ciprì anche la Palermo di Angela (2002), film diretto da Roberta Torre (n. 1962), incentrato sulla vita difficile della giovane e bella moglie di un piccolo capomafia locale. E questo stile di fotografia, che realizza immagini fredde e granulose, ha influenzato anche Marco Onorato, direttore della fotografia del film Gomorra (2008) di Garrone in cui si mostra l’inferno delle cosiddette Vele, il mostruoso formicaio che si estende alla periferia di Napoli, pullulante di vita subumana che germina disperazione e corruzione.
Il cinema italiano degli ultimi anni, come dimostrano questi esempi, è tutto un emergere di città e paesaggi finora inediti. Una poetica commistione di antropologia e narrazione è l’opera di E. Winspeare che in Sangue vivo (2000), come già in Pizzicata (1996), riscopre il Salento e recupera i ritmi arcaici di origine greca dell’antica danza apotropaica della pizzica, grazie anche al suonatore Pino Zimba, fondatore del gruppo musicale Zoè, che interpreta sé stesso in alcune scatenate esecuzioni di tamburello. Anche nel film successivo, Il miracolo (2003), Winspeare racconta una storia semifantastica inserendola nella devastazione urbanistica della città di Taranto.
Ugualmente interessato all’ambiguità del paesaggio, sospeso fra bellezza naturale e speculazione industriale, è Gianni Amelio (n. 1945) che in Le chiavi di casa (2004) passa dalla Berlino rarefatta di gran parte del film alla Norvegia catartica del viaggio finale. In La stella che non c’è (2006), il regista riprende il tema a lui caro del viaggio simbolico, allargandolo con una ricognizione in luoghi lontani, nel cuore industriale di un Paese nuovo, la Cina moderna, che vive e cresce delle sue terribili contraddizioni. L’ingegnere Vincenzo Buonavolontà (nome forzatamente simbolico) è un uomo solo e senza amici, che parte per la Cina di sua iniziativa per riparare un macchinario difettoso venduto ai cinesi. Si ritrova in uno scenario quasi apocalittico, con la terribile visione di Wuhan (capitale industriale del Paese), imprigionata fra nuvole di polvere e di smog, che ricorda Il deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni (1912-2007). Macchine che non si fermano mai, bambini che vivono e mangiano fra gli altiforni, in una strana e paurosa mescolanza di passato miserabile e di futuro caotico non immemore anche di Blade runner (1982) di Ridley Scott (n. 1937). Guidato da una ragazza madre di nome Liu, l’italiano visita immensi casamenti-formicai che ospitano 4000 persone ciascuno e invadono con le loro sagome le colline del Fiume Giallo, creando un paesaggio grigio e uniforme, cui si contrappongono i vecchi villaggi di baracche distesi lungo i fiumi, nei quali la vita scorre misera ma lieve, completamente fuori dal tempo. Mentre i nuovi centri commerciali incombono con le loro sale da gioco e le piste di pattinaggio.
Silvio Soldini (n. 1958), che spesso aveva affrontato i difficili e attuali temi della vita nella metropoli contemporanea e della mescolanza di culture (L’aria serena dell’Ovest, 1990; Un’anima divisa in due, 1993), in Pane e tulipani (2000) racconta l’avventura di una casalinga abbandonata per ‘distrazione’ dal marito e dai figli, che decide di prendersi una vacanza. Attraverso il suo sguardo il regista scopre una Venezia completamente diversa da quella turistica e oleografica, con povera gente che lavora, fiorai e suonatori anziani ma giovani nell’animo che aiutano la donna a recuperare una dimensione vitale, completamente smarrita nel sacrificio richiestole dai familiari. La scoperta di questo nuovo mondo e di una nuova vita culmina in una scampagnata al Lido con pranzo sull’erba alla Renoir, in cui la protagonista scopre un diverso senso del tempo e dell’esistenza.
Un autore più giovane ma di fortissima personalità, Emanuele Crialese (n. 1965), mette invece in scena in Respiro (2002) una storia d’amore fra una madre borderline, ma viva, spontanea e sensuale (una magnifica Valeria Golino), e il figlio che la salva dalla clinica. Immerso nelle splendide acque di Lampedusa, questo film disegna magistralmente il contrasto fra una natura tutta sfolgorante di bellezza e una cultura mostruosamente repressiva e violenta, che schiaccia le donne e fa incrudelire i bambini, fino a trasformarli in adulti ottusi e violenti. Anche nel successivo Nuovomondo (2006), film quasi tutto girato in interni per mancanza di mezzi economici, che racconta la dura storia dell’emigrazione italiana in America all’inizio del Novecento, Crialese trova il modo di inserire un’affascinante sequenza iniziale in cui, negli scenari sassosi e deserti delle montagne siciliane, pervasi da superstizione e magia, una giovane donna viene guarita dall’isteria per opera di una maga, che le fa uscire dal ventre una vipera. L’animale appare davvero, ma soltanto per un istante, in modo tale da dare solo la sensazione di averlo visto, quasi a lasciare lo spettatore incerto fra un mondo magico e orribile e uno moderno, scientifico, che tuttavia poco dopo si rivelerà altrettanto impietoso e crudele.
Uno stile completamente differente caratterizza l’opera di uno dei maggiori, ma anche dei meno conosciuti, poeti del cinema contemporaneo, Franco Piavoli (n. 1933) che, dopo il magnifico Il pianeta azzurro (1982), all’inizio del 21° sec. ha realizzato un altro grande cinepoema, Al primo soffio di vento (2002). Mentre nel precedente film descriveva il grande respiro della terra nel ritmo delle stagioni, del lavoro e della vita umana, qui il regista ci consegna una delicatissima e profonda riflessione sulle paure dell’uomo occidentale nei confronti degli immigrati stranieri. Ambientato in una fattoria della Lombardia, il film ‘racconta’ una splendida e torrida giornata d’agosto che acquista un valore mitico, condensando tutto il lavoro e l’ozio dell’estate. Mentre gli operai stranieri, tutti giovani neri, lavorano nei campi, i padroni bianchi attendono alle loro occupazioni culturali. Antonio, il capofamiglia, è un entomologo: mentre studia osserva come insetti gli uomini lontani che lavorano nei campi, poi si addormenta nel caldo. La sequenza del sogno è fra le più belle del film: alcune caotiche, imprecise immagini mostrano che il pensiero onirico di Antonio si rivolge al declino della cultura occidentale, alla vita pulsante degli organismi monocellulari che ha studiato, a sconosciuti uomini neri che nel sogno vagano fra gli scaffali della sua libreria. Ma al risveglio l’incubo si dissolve come nebbia al sole, la vista dei poveri ragazzi africani che, dopo un’estenuante giornata di lavoro sotto il sole, ballano sul greto del torrente e cantano con nostalgia i loro ritmi lontani, allontana ogni paura dello straniero. Poema filosofico-visivo, degno dei grandi maestri russi a cui si ispira (soprattutto Aleksandr P. Dovženko), quello di Piavoli è un grande discorso di amore e comprensione rivolto all’uomo occidentale, affinché trovi nell’altro non un pauroso invasore, ma solo sé stesso.
Un altro regista italiano che fa del paesaggio quasi un protagonista è Ermanno Olmi (n. 1931), poeta dei luoghi e della natura fin dal suo primo film Il tempo si è fermato (1959). Il mestiere delle armi (2001), ambientato nel 16° sec., racconta la resistenza di Giovanni dalle Bande Nere contro l’esercito dei lanzichenecchi ma, oltre a reinventare la figura del celebre condottiero facendone un ragazzo solo e a tratti disperato, mostra, come raramente è stato fatto, la durezza della guerra, immergendola in uno scenario innevato, nella gelida indifferenza della natura e degli uomini, dei traditori, ma anche dei parenti e degli amici. Ancora più dura la requisitoria condotta dal vecchio poeta contro la cultura occidentale e in favore del ritorno a una vita dai ritmi naturali nel film Centochiodi (2007), in cui mostra un paesaggio (una località sulle sponde del Po) miserabile come i suoi abitanti, degradato dalla speculazione e dallo sviluppo industriale, fra le fabbriche all’orizzonte, le guardie che cacciano i poveri baraccati e le scavatrici che preparano il terreno su cui costruire nuovi orrori edilizi.
Ma la scoperta del paesaggio non caratterizza solo il cinema italiano o francese; ancora più sensibili a questo tema sono gli autori tedeschi, soprattutto Wim Wenders (n. 1945) che ha pronunciato nel 2007 un discorso al Parlamento europeo in difesa del paesaggio come fattore d’identità europea, e che con il film Land of plenty (2004; La terra dell’abbondanza) ci consegna uno degli sguardi meno pietosi e più disincantati sull’Occidente e sulla fine del sogno americano. Due generazioni seguono due percorsi diversi: una ragazza arriva a Los Angeles dopo un lungo soggiorno in Africa e in Israele, per lavorare in una missione. Un anziano combattente del Vietnam, congedato con la mente disturbata, gira su un furgoncino attrezzatissimo, pieno di materiale tecnologico e spionistico, alla ricerca di eventuali minacce per la sicurezza della popolazione americana. Sono zio e nipote, ma non si conoscono. Nella Los Angeles dei grattacieli, delle highways e delle bidonvilles, questi due personaggi rappresentano due sguardi diversi e opposti che scrutano il paesaggio urbano, uno alla ricerca dei terroristi dell’11 settembre, l’altra che vede solo persone abbandonate e bisognose di aiuto. La ragazza e lo zio s’incontrano sulla traccia di uno stesso evento, l’uccisione di un povero pakistano. Cercando lei di restituire la salma e lui di scoprire un covo di attentatori, raggiungono Trona, un’orrenda e desolata baraccopoli sperduta nel vuoto del deserto di Mojave, dove alloggiano persone derelitte e smarrite, bianche e nere, fra baracche deserte, magazzini abbandonati, scatoloni vuoti, case disabitate, carcasse d’auto, montagne di rifiuti e oggetti d’arredamento abbandonati sulla strada. Il percorso si chiude con un’apparente guarigione dello zio che rinuncia alle sue ‘indagini’ e accompagna la ragazza in un viaggio attraverso gli Stati Uniti, nei grandi luoghi del mito, la Monument Valley, Washington, New York, con una triste veduta di Ground Zero, lo spazio delle Twin Towers distrutte dall’incursione aerea dell’11 settembre 2001. Mentre nelle loro riflessioni i due protagonisti forse trovano un punto d’incontro nell’abbandono dei miti americani, diventati paranoie e ossessioni.
Ma il regista che rivolge da sempre la massima attenzione al paesaggio come specchio o componente di quella profonda e spesso terribile inquietudine che consuma l’animo umano è Werner Herzog (n. 1942), la cui cinepresa si spinge in giro per tutto il globo alla ricerca dei punti di confine fra conoscenza, scienza e follia. Herzog nel suo percorso di ricerca usa il cinema come strumento per scoprire quella che il regista e teorico degli anni Venti Jean Epstein aveva chiamato la «fotogenia dell’imponderabile», ossia la possibilità di fare apparire, in virtù dello sguardo disumano o extraumano dell’obiettivo fotografico, l’imprevedibile (‘imponderabile’, appunto), ciò che l’occhio umano, condizionato dai modelli culturali esistenti, non riesce e non riuscirebbe mai a vedere.
Questa ricerca della ‘natura’, ovvero del mondo senza l’uomo, o senza dio (tema classico fin dalla letteratura romantica), non è senza rischi e spesso comporta la distruzione del soggetto che si avventura su questo confine fra cultura e natura. In The wild blue yonder (2005; L’ignoto spazio profondo) il regista immagina che un alieno sopravvissuto racconti il tentativo fallito molti secoli or sono di stabilire una colonia sulla Terra, nel mondo subacqueo. Il film è costituito da una parte fantascientifica, ambientata in un’astronave della NASA, e da una seconda parte, girata sotto i ghiacci polari, che mostra il mistero del mondo subacqueo, ma con un occhio talmente estraneo da non permetterci di riconoscere né luoghi né oggetti né animali, e tale da farci credere di essere su un pianeta sconosciuto. In The white diamond (2004; Il diamante bianco), Herzog racconta la storia di uno scienziato, Graham Dorrington, che nel film interpreta sé stesso. Costruttore di una mongolfiera, si avventura lungo le cascate del Kaieteur nella Guiana per osservarle da un punto di vista vicinissimo all’acqua, che l’elicottero o altri mezzi non possono raggiungere. Il lungo lavoro di costruzione della mongolfiera e il volo sopra le cascate terminano con immagini di grande bellezza che mostrano il pallone bianco sospeso sopra la furia dell’acqua, ma anche la violenza sublime di un angolo di mondo che l’uomo può solo visitare a rischio della propria vita.
La riflessione sulla natura continua con Grizzly man (2005), un’altra storia vera, quella di un ecologo, Timothy Treadwell, ucciso e divorato dagli orsi del parco dell’Alaska presso cui era solito passare le estati, non solo studiandone il comportamento, ma cercando anche di entrare in comunicazione con loro. L’assurdità di questo progetto emerge dalle immagini stesse del film, che usa quasi tutti materiali girati dal protagonista durante le tredici estati passate nel parco naturale. Dal film montato emergono sostanzialmente la personalità fanatica e l’integralismo ecologico di Treadwell, deleterio quanto il disprezzo della natura stessa. Rari sono i commenti over di Herzog, ma sufficienti per indicarci che, mentre negli orsi il protagonista riconosce la bellezza, il regista vi vede solo una cieca e ottusa ricerca di cibo. Scegliendo quelle che probabilmente erano le più estreme fra le riprese disponibili, Herzog mette a nudo il carattere illusorio, mitico, della filosofia naturalista-ecologista e mostra invece la crudeltà primordiale della natura o, meglio, la sua totale indifferenza alle pretese di avvicinamento e di colloquio dell’utopista-sognatore. L’integralismo ecologico è forse l’ultimo dei miti elaborati dall’uomo, e il fanatismo mistico del protagonista, che si fa divorare dalle sue amate bestie, appare quasi una metafora della nostra incapacità di abbandonare le tenebre e l’integralismo per incamminarci verso una civiltà razionale e solare. L’incalzare dell’ignoto è comunque sempre presente nel cinema di Herzog, che nel suo film successivo, Encounters at the end of the world (2007), ci mostra le comunità di scienziati che vivono ai margini del mondo, in Antartide. Geologi, etologi, meteorologi hanno in comune non solo la fuga dalla cultura e dall’ipocrisia della società umana, ma anche il sogno delirante di un mondo senza l’uomo. E ancora una volta le immagini degli animali che si muovono con una misteriosa sapienza, che è però anche totale ignoranza, sono visioni di assoluta ambiguità e incertezza, come la marcia dei pinguini che si avventurano da soli nei deserti di ghiaccio, guidati da un cosiddetto intuito che spesso li porta spietatamente alla morte. Herzog realizza così il rovesciamento del film di finzione disneyano La marche de l’empereur (2005; La marcia dei pinguini) diretto dal francese Luc Jacquet (n. 1967), nel quale tutte le manovre di questi animali per la riproduzione e per il sostentamento appaiono invece guidate da un’oscura sapienza infallibile e frutto di un disegno soprannaturale.
Lo sguardo americano: perdersi o ritrovarsi?
Perdersi
Se la parte migliore del cinema europeo appare legata alle avanguardie e a una concezione del cinema che indaga sul mondo e sul suo mistero, il cinema americano questi misteri non rinuncia a spiegarli, come non rinuncia alla spettacolarità della narrazione forte, nell’ambito della quale anch’esso tuttavia scopre nel paesaggio (che in precedenza il cinema classico aveva trascurato, a beneficio di scenografie in interni, con la sola eccezione del western) un potente strumento scenografico, superiore a qualunque messa in scena, nonché uno strumento per riflettere e fare riflettere lo spettatore sui destini dell’uomo. Punto di partenza è sempre il grande mito della natura costruito dai trascendentalismi e dalla poesia romantica americana: Henry David Thoreau e Walt Whitman sono indiscutibili e indiscussi protagonisti della visione del mondo americana. Il mito della wilderness però viene apparentemente rimesso in discussione dal cinema statunitense contemporaneo, che imposta su di esso una partita complessa, nel corso della quale si alternano l’esaltazione della natura, come pura bellezza, e una lettura più problematica che, dietro questa stessa bellezza, vede un pericolo mortale in agguato.
Un esempio è il film di Sean Penn (n. 1960) Into the wild (2007; Into the wild – Nelle terre selvagge), che racconta una storia vera, quella di un ragazzo di buona famiglia che dopo la laurea abbandona un ‘promettente’ avvenire consumistico e parte alla ricerca di una vita più autentica, per poi morire. Il mito della wilderness è espressamente citato dalla presenza dei libri di Thoreau, soprattutto il Walden (1854), ma anche di Lev N. Tolstoj, e di molti altri scrittori postromantici. Il racconto inizia dalla fine, ambientata negli stupendi scenari dell’Alaska, e ricostruisce le tappe del lungo percorso di quasi tre anni che hanno portato il protagonista a conoscere vari ambienti: il mondo dei lavoratori agricoli, maschilisti, violenti e mitomani, una comunità di vecchi hippy e infine la casa tranquilla di un anziano ufficiale in pensione che ha perduto tutta la sua famiglia. Questo panorama sconsolato della provincia americana è alternato a splendide visioni di una natura selvaggia, ancora aperta a scoperte e sorprese, con le sue immense vallate e grandi montagne coperte di fiori o di neve. Ma la bellezza è anche traditrice, e Chris morirà per avere mangiato una pianta velenosa.
La fine è una grande soggettiva del ragazzo morente, una lunga panoramica circolare su uno splendido cielo leggermente sparso di nuvole, e la frase che pronuncia in punto di morte allude a una scoperta: «Chissà se i miei genitori, rivedendomi ora, vedrebbero quello che vedo io!». In questo finale che coniuga tragedia e catarsi, la morte di Chris appare sì come un tradimento da parte della natura matrigna, ma anche come una promessa mantenuta, poiché al morente si aprono finalmente gli occhi su quello che nessuno dei suoi compaesani ha mai visto pur avendolo sempre davanti: «la straziante, meravigliosa bellezza del creato», verrebbe da dire riprendendo le parole di Pier Paolo Pasolini. In questo modo il mito della wilderness viene distrutto, ma nello stesso tempo restituito sotto forma di epifania fotografica e cinematografica.
Se in Mystic river (2003) Clint Eastwood (n. 1930) ci presenta un quadro allucinante e decisamente spaventoso della provincia americana, luogo di pedofili, omofobi e sadomasochisti, altri maestri del cinema americano continuano a sognare cieli sereni e paesaggi meravigliosi. Lo stesso David Lynch (n. 1946), che nella serie televisiva Twin Peaks (1990-91) aveva fornito il quadro più oscuro e tenebroso di un paesino di montagna della provincia americana, con la svolta del 21° sec. inspiegabilmente sembra voler realizzare un film ‘buono’, almeno in apparenza: The straight story (1999; Una storia vera). La vicenda di Alvin Straight, che a 73 anni per andare a trovare il fratello percorre un buon tratto d’America con un vecchio tagliaerba a motore, è un pretesto per descrivere la provincia, ma senza gli eccessi perversi che avevano caratterizzato un film come Blue velvet (1986; Velluto blu). In quest’opera, infatti, i prati sono veramente prati, le case tranquille sono case tranquille, la gente comune è gente comune, e le campagne sono campagne, ma Lynch sfida continuamente lo spettatore, creando attese che poi non vengono soddisfatte: a ogni scena ci si aspetta qualche irruzione mostruosa, o qualche evento angosciante, senza che accada mai niente. E sono proprio questa pace e questa serenità a inquietare maggiormente lo spettatore, sintetizzando al meglio la poetica di Lynch, ossia l’orrore della normalità. The straight story quindi non è un film ‘buono’, com’è stato definito da molti, ma un film che ‘sembra’ buono. E questa passeggiata, che rimane una semplice passeggiata, aspetta ancora e aspetterà per sempre una spiegazione.
New York città simbolo. Ci si perde soprattutto nelle città, e le metropoli sembrano fatte apposta per mettere in scena questo smarrimento, come già aveva mostrato il cinema postmoderno da John Carpenter (n. 1948) a Martin Scorsese (n. 1942). Ma è forse Spike Lee (n. 1957) con 25th hour (2002; La 25a ora) che ci mostra la vera New York contemporanea, regno del caos e della perdizione, ma infinitamente amata, molto simile all’incubo di After hours (1985; Fuori orario) di Scorsese. Il giovane e affascinante Monty (dal nome dell’attore preferito della madre, Montgomery Clift) è diventato ricco facendo lo spacciatore di droga: incastrato da una soffiata, trascorre l’ultima giornata di libertà dando addio alla sua città, prima di consegnarsi al carcere dove dovrà scontare sette anni. Monty si congeda da New York e dai suoi due migliori amici, Frank, un broker di successo ossessionato dal lavoro in Borsa, e Jacob, un professore ebreo di famiglia ricca, che cerca invano di tenere a bada l’attrazione per una seduttiva studentessa minorenne; ma anche dalla bellissima fidanzata portoricana che forse l’ha tradito, e dal padre con il quale cerca un improbabile recupero del rapporto, tutti emblematici e angosciati rappresentanti delle classi e delle caste che popolano la metropoli. Mirabile la sequenza davanti allo specchio in cui, guardando sé stesso, Monty si scaglia in un’invettiva contro la variegata fauna umana newyorkese, quella stessa da cui nel finale malinconicamente si dovrà separare («È venuta tutta la città a salutarmi»): dagli ebrei ortodossi agli aspiranti terroristi pakistani, dagli italiani fanatici del baseball ai poliziotti corrotti e crudeli, dai miserabili portoricani che si stipano a decine dentro una macchina alle vecchie ricche in caccia di avventure, dai neri di Harlem agli integralisti islamici che hanno assassinato la città di cui sono figli. Mentre su tutto, in ogni momento del film, domina l’immagine di una città ferita, dall’inquadratura iniziale con i fasci di luce al posto delle Twin Towers all’inquadratura dalla finestra dell’appartamento di Frank che mostra Ground Zero e le ruspe che scavano tra le macerie. E Monty, all’alba, prima di entrare in prigione, si farà massacrare di pugni la faccia per prepararsi ad affrontare la violenza che dentro il carcere regna sovrana, sia tra i carcerati sia tra i poliziotti.
Ancora più radicale ed estrema è la New York descritta dagli stranieri. Come nel caso dell’iraniano Amir Naderi (n. 1946) che, dopo aver avuto problemi in patria per la sua opposizione al radicalismo islamico ed essersi trasferito negli anni Novanta negli Stati Uniti, ci propone una serie di metafore allucinanti con A, B, C... Manhattan (1997) e Marathon (2002; Marathon – Enigma a Manhattan). Nel primo, tre ragazze squinternate cercano di sbarcare la loro vita senza senso nella lower East Side. Ancora più angosciosa è la metafora di Marathon in cui una giovane sempre sola passa una giornata intera dentro la metropolitana di New York cercando di risolvere 77 cruciverba in 24 ore per battere un record. Somma di tutte le angosce cittadine e di tutte le sofferenze basate su motivi gratuiti, Marathon risulta anche un brillante recupero del genere delle sinfonie cittadine caro alle avanguardie degli anni Venti e magnificamente rappresentate da film come The crowd (1928; La folla) di King Vidor, Berlin. Die Sinfonie der Grossstadt (1927) di Walter Ruttmann, e Čelovek s kinoapparatom (1929; L’uomo con la macchina da presa) di Dziga Vertov, e sembra rievocare in particolare Manhatta, ritratto di New York girato nel 1921 dai fotografi Paul Strand e Charles Sheeler. Soltanto che in questo caso tutto quello che Strand e Sheeler avevano guardato con occhio ammirato e stupito diventa un vertiginoso incubo, un labirinto senza via di uscita di stazioni, binari, treni, sportelli, vagoni, corridoi senza fine, contornato da un frastuono indescrivibile, in cui la ‘sinfonia cittadina’ si esprime con incredibile violenza: uno spaventoso mostro metallico del quale però la ragazza, paradossalmente, non riesce a fare a meno.
La New York ritratta dall’italiano E. Crialese in Once we were strangers (1997) appare altrettanto vertiginosa, e si presenta come un vorticoso teatro in cui le vite umane sembrano gettate a caso nelle strade da un creatore impazzito, comprese quelle del siciliano Antonio e dell’indiano Apu. In particolare quest’ultimo, che adora la metropoli e il suo crogiuolo culturale, ma abita in uno dei tipici tuguri da immigrati e si arrangia tra mille lavori, si vede recapitata una moglie dall’India. Inizialmente tenterà di farla integrare, abituandola ai costumi e al comportamento occidentali, ma alla fine sarà lui a riscoprire la tradizione: abbandonerà infatti gli abiti occidentali per vestirsi all’indiana e cercare di trovare una identità. È questo il cuore del problema: la metropoli consente di vivere in completa libertà, ma da completi sconosciuti, e l’identità libertà-solitudine porta le singole culture a chiudersi sempre di più ciascuna in sé stessa, recuperando ed enfatizzando il passato, invece di aprirsi al nuovo che le respinge e le disprezza. Con leggerezza, garbo, ma anche profondità, Crialese nel suo primo film ci spiega le origini del neotradizionalismo contemporaneo, che nasce proprio nelle metropoli, in cui l’incontro di razze e culture risulta impossibile, cosicché ciascuna si rifugia nelle proprie tradizioni fino a considerare le altre come nemiche.
Ritrovarsi: il mito del mondo antico
In The new world (2005; The new world – Il nuovo mondo) Terrence Malick (n. 1943), poeta della cinepresa, ancora una volta, come negli altri suoi tre film realizzati nell’arco di venti anni, rende omaggio a R.W. Emerson e agli altri grandi poeti del Trascendentalismo americano, ma racconta anche la leggenda della mitica Pocahontas, la figlia del re indiano che visse fra i bianchi, quindi fra due culture, e il mito della natura perfetta, incontaminata, distrutta dall’irruzione violenta degli occidentali. Il cinepoema di Malick è uno sguardo sul mondo e nello stesso tempo un Bildungsroman, un universale-singolare. La cinepresa si muove continuamente su scenari incantati: l’acqua, le piante, il sole sono vere e proprie manifestazioni del soprannaturale nella natura. E anche la rivisitazione del mito romantico è densa di accenti moderni, con la voce fuori campo che s’interroga sulle origini del male e del dolore. Malick è certamente uno dei grandi autori del cinema moderno: il suo uso soggettivo della cinepresa la trasforma in un occhio che vaga quasi sperduto sugli scenari naturali, alla ricerca di qualcosa che non esiste, e incrocia come per caso i personaggi, anch’essi sperduti in un’incessante ricerca: spiegazioni, comprensioni, dimostrazioni sono lontanissime dal suo stile narrativo. La sua inquadratura pone interrogativi che non trovano risposta: il mistero del mondo, degli altri, dell’animo umano. Un cinema di poesia, come avrebbe detto Pasolini, in cui vengono raccontate storie, ma soltanto come pretesti per mostrare la bellezza e la vastità del mondo.
Il tema della natura incontaminata e violata dall’uomo è al centro anche di un altro film americano, che però ha una struttura commerciale e sensazionalista, carica di effetti e di violenza visiva, più che di profonde e dense riflessioni. Si tratta di Apocalypto (2006) di Mel Gibson (n. 1956), in cui si racconta la distruzione violenta della civiltà Maya, e la lotta fratricida fra le tribù, fino all’arrivo dei bianchi. Ma qui siamo all’opposto di Malick, e la foresta dello Yucatán (il film è parlato anche in yucateco, più o meno arcaico) funge da scenografia per mostrare spargimenti di sangue, efferatezze e sacrifici umani. Quello che interessa Gibson è soprattutto lo spettacolo della tortura e del massacro, più che la riflessione su di essi.
Ancora meno misteriose appaiono le montagne, i fiumi e le cascate nel film Brokeback Mountain (2005; I segreti di Brokeback Mountain), che il taiwanese Ang Lee (n. 1954) ha ricavato da un racconto americano, con perfetta mimesi dello stile e della cultura ospitante, come accade spesso agli orientali, ottenendo un Leone d’oro a Venezia forse più per il tema scabroso che per lo stile, piuttosto tradizionale. Due giovani uomini, inviati sulle montagne come guardiani di pecore stagionali, s’innamorano uno dell’altro, e passano insieme l’estate. Si ritroveranno dopo molto tempo, ritorneranno spesso sul luogo del loro amore, trascurando le mogli, ma soffrendo sempre di più a ogni separazione, e soltanto la morte di uno dei due porrà termine a questo doloroso legame. Il paesaggio con i suoi scenari, sia pure da cartolina (i prati, le vette innevate, i tuffi nelle cascate), conferisce alla storia una sua dolcezza struggente e malinconica. Omosessualità e fuga nella natura sono collegate, esplicitando un tema spesso implicito nel cinema e già presente nella letteratura romantica ottocentesca.
Lo sguardo dei Paesi orientali ed emergenti
Paesi arabi: solitudini collettive
In mezzo a questi due mondi, il ‘vecchio’ mondo europeo e quello (relativamente) ‘nuovo’ americano, che costituiscono due culture e due tipi di cinema, il nuovo cinema dei Paesi orientali, mediorientali e dei cosiddetti Paesi emergenti occupa un posto piuttosto singolare. Molto più giovane rispetto agli altri due, mostra un occhio in parte vergine, ma non completamente perché gran parte dei suoi esponenti ha studiato in Europa o negli Stati Uniti, e per questo offre una particolare contaminazione fra modelli tradizionali e modelli e forme di rappresentazione appartenenti ad altre e più antiche culture.
Lo sguardo cinematografico europeo infatti influisce sul cinema di stampo genericamente arabo (mi sia permessa questa ingiusta ma necessaria generalizzazione in queste poche pagine) propiziando la nascita di un nuovo tipo di sguardo sulla realtà e sugli uomini, impregnato sia dell’attenzione e della curiosità del cinema moderno, sia della saggezza e dell’antica sapienza mediorientale, compreso un certo afflato religioso (inteso in senso positivo), che individua nella conservazione dei valori fondamentali (non fondamentalisti), ovvero della vita intesa come rapporto uomo-mondo, una sua robusta bandiera e un monito al logocentrismo occidentale.
L’iraniano A. Naderi può essere considerato un buon esempio di questa contaminazione. Dopo aver narrato nel suo cortometraggio giovanile Āb, bād, khāk (1989, Acqua, vento, terra) la storia crudelmente metaforica del piccolo Amiru, in lotta con un paesaggio terribile e desolato, in cui le tempeste di sabbia cancellano ogni spazio, le dune mutano continuamente cancellando i punti di orientamento, le capanne sembrano fantasmi nella sabbia volante, più tardi a New York ha continuato a raccontare paesaggi disumani, popolati di individui abbandonati a sé stessi. Soprattutto negli ultimi film, come Marathon (del quale si è già detto nel paragrafo dedicato a New York città simbolo) e Sound barrier (2005), la città tecnologica, spettacolare e indifferente e la folla appaiono come una nuova natura in cui non c’è spazio per l’uomo.
L’altro grande maestro del cinema iraniano è Abbas Kiarostami (n. 1940), che mostra anche lui un’affascinante contaminazione fra la saggezza araba – con un’idea di mondo in cui c’è e ci deve essere posto per tutti: cose, montagne, fiumi, animali e uomini – e il mondo industriale, fonte di problemi e disagi, di conflitti fra gli uomini e crisi di identità, che sta vincendo e soffocando l’altro, ma non può cancellarlo. Bād mā rā khāhad bord (1999; Il vento ci porterà via) è un film interamente costruito sul contrasto fra un villaggio povero, ma immerso in un paesaggio semplice e sublime, e un uomo (che si scoprirà essere un documentarista) appartenente al mondo industriale, con il suo grosso fuoristrada, i cellulari, le macchine fotografiche, le cineprese, pronto a invadere con tutto il suo affanno e la sua angoscia un povero paese dimenticato. Le sue innumerevoli corse in auto sulla stessa strada, i suoi andirivieni senza fine, ci mostrano in maniera delicata e paziente, ma nello stesso tempo feroce o amara, tutto il tormento della modernità, il differente valore economico del tempo, sullo sfondo di una campagna lavorata dall’uomo come mille anni prima, indifferente alla vita o alla morte, al vecchio o al nuovo. Kiarostami ci svela gli stridenti contrasti tra mondo antico e mondo moderno; ma anche la grandezza del cinema e la sua natura di medium, la sua invadenza arrogante e profana nella vita degli uomini, eppure anche la sua utilità nel documentare e conservare il ricordo; ci illustra le corse affannose della modernità, in contrasto con l’infinita lentezza dei Paesi fuori dalla storia; ci mostra ancora che la salvezza della vita umana spesso viene solo dalle macchine, dalla tecnologia (l’auto del regista, il motorino del dottore, l’ossigeno dell’ospedale). Un contrasto in cui l’unica scelta giusta è quella finale: rispettare i limiti, anzi amarli.
La storia di cinque piccoli fratelli curdi, che hanno perso sia la madre, morta nell’ultimo parto, sia il padre, ucciso durante uno scontro, e la loro drammatica lotta per la sopravvivenza, costituisce lo sfondo su cui emergono con violenza la crudeltà di una natura selvaggia e desertica (montagne coperte di neve, alberi secchi e villaggi miserabili, invasi dal fango) e una povertà millenaria, endemica, infinita in un altro capolavoro quasi sconosciuto, Zamani barayé masti asbha (2000; Il tempo dei cavalli ubriachi), una coproduzione franco-iraniana diretta da Bahman Ghobadi (n. 1969). Quasi tutto girato in esterni in Irān dal vero, il film si propone come grande erede di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, poiché mostra un paesaggio desolante e doloroso, tuttavia mai pietistico e melodrammatico, accompagnando con la macchina a mano la straordinaria vitalità di questi ragazzini che corrono per tutta la vita in una natura indifferente a tutto, nella sua bellezza fredda e crudele.
Anche altrove si soffre. In Safar-e Qandehār (2001; Viaggio a Kandahar) diretto da Mohsen Makhmalbaf (n.1957), una giovane giornalista afgana che vive in Canada cerca di raggiungere la misteriosa città sacra situata nel cuore dell’Afghānistān, regno incontrastato dei Ṭālibān, dove la sorella minore, costretta a vivere segregata come tutte le altre donne del posto, minaccia di uccidersi. Anche in questo caso il viaggio è occasione per mostrare l’estrema povertà e il dolore in uno scenario arido quant’altri mai. Girato in Irān, a causa della impossibilità di entrare nel territorio afgano, il film mostra un terreno arso, villaggi di terra, strade che si perdono nelle dune, gente smarrita che viaggia in grandi gruppi per farsi coraggio, costantemente esposta alle rapine. Tutto concorre a costruire un paesaggio di rovine materiali e morali dove la sapienza araba si è del tutto perduta o, nel migliore dei casi, rappresenta soltanto un ricordo.
È invece il grande vecchio del cinema africano, il senegalese Ousmane Sembène (n. 1923), che mostra le più vive contraddizioni del mondo arabo, fra progresso e tradizione, in Moolaade (2004, Nascondersi), girato in Burkina Faso, nella provincia di Leraba. Lindo e ordinato, con gli uomini nei campi, lontani da casa, il villaggio è quasi una metafora del paradiso terrestre, con le donne fasciate nei loro splendidi vestiti dai colori sgargianti che macinano il grano, puliscono e guardano i bambini, fra le casette di terra e una moschea di fatto irriconoscibile, che potrebbe essere stata disegnata da Antoni Gaudí per le sue pareti contorte e disseminate di pietre colorate. Ma qui, come dovunque, si consuma una tragedia da epoca arcaica che ci fa comprendere l’orrenda ibridazione di moderno e di primitivo. Cinque bambine sono scappate da casa per sfuggire alla mutilazione della clitoride e, inseguite dalle sacerdotesse vestite con costumi rosso fuoco, si rifugiano in parte nei campi e in parte dentro una casa, dove Collé, una giovane sposa emancipata, ne accoglie tre e, per proteggerle dalla cattura da parte delle stesse madri, stende una corda simbolica sulla porta ed evoca un antico spirito, protettore dell’ospitalità, il Moolaade, che rende gli ospiti intoccabili. Sembène conosce le avanguardie europee, soprattutto il Surrealismo, e ha una delicatezza di sguardo e una semplicità di stile che evoca i grandi documentaristi Joris Ivens e Robert Flaherty. Nel suo film le donne sono portatrici di emancipazione sociale e culturale: hanno tutte la radio, e ascoltano, oltre alle canzoni, anche le notizie e le informazioni. Gli uomini, invece, vivono nella più profonda e buia ignoranza. La paura avvinghia il paese: il consiglio degli anziani riuniti sotto il grande albero si oppone violento e minaccioso alle novità, fino a bruciare tutte le radio delle donne, in un rogo dell’Occidente che ricorda quelli più remoti delle streghe. Anche Collé viene frustata in pubblico dal marito. Nel villaggio cade il silenzio: l’ostilità fra i sessi è letale, e la notizia che anche un’altra bambina è morta dopo avere subito il rito fa precipitare la situazione, cosicché le sacerdotesse depongono i coltelli ancora insanguinati. Collé dichiara di avere saputo dalla radio che l’escissione non fa parte dell’Islam, e il film si chiude con una sorridente utopia: sul tetto della moschea sventola un’antenna televisiva, la prima. Il grande vecchio Sembène, allievo di Léopold-Sédar Senghor e di André Breton, ci lascia un film di spirito e stile profondamente femminile, non solo per le bellissime figure di donne, ma anche per le inquadrature, lunghe e lente. Una lotta fra vecchi e giovani, fra donne e uomini, ma anche fra demoni, buoni e cattivi, devasta il grazioso villaggio, piccolo inferno travestito da paradiso.
L’incontro difficile fra Oriente e Occidente: Corea, Cina, Mongolia
Una vallata coperta da una vegetazione sfolgorante racchiude un lago dalle acque immobili, e sul lago, come sospesa nel vuoto, sta una capanna, dove un vecchio monaco buddista alleva e istruisce un ragazzino. La natura, con i suoi cambiamenti stagionali, uno più affascinante dell’altro, scandisce il percorso circolare della vita umana, in una singolare metaforica unità di microcosmo e macrocosmo. A lunghi intervalli e da una stagione all’altra il paesaggio diventa metafora delle stagioni della vita e degli stati del cosmo in Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom (2003; Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera) del coreano Kim Ki Duk (n. 1960).
Questo senso panico di unità fra l’uomo e il mondo, nella gioia come nel dolore, nell’ascesa come nella discesa, nella colpa come nel riscatto, manca quasi sempre nel cinema occidentale (europeo o americano) e appartiene invece ai film più felici della cultura orientale, di cui Kim Ki Duk è forse il regista attualmente più conosciuto e significativo. Il paesaggio-mondo è compagno delle vicende umane, e una natura non indifferente segue e scandisce con il suo calore le passioni e con il suo gelo la sofferenza del protagonista, di cui non sapremo mai il nome. Questo film si colloca nella grande tradizione del buddismo come visione del mondo, non come religione, cui allude anche Herzog, pur con occhio dolorosamente distante ma pieno di ammirazione, nel suo Wheel of time (2003; Kalachakra – La ruota del tempo) e in cui rientrano gli ormai lontani Biruma no tategoto (1956; L’arpa birmana) di Ichikawa Kon (1915-2008), o anche Narayama bushikō (1983; La ballata di Narayama) di Imamura Shōhei (1926-2006). Densamente impregnato della visione del mondo buddista era anche Rashōmon (Rashomon), il film di Kurosawa Akira (1910-1998) che sconvolse la cultura europea quando uscì nel 1950, come anche Ugetsu monogatari (1953; I racconti della luna pallida di agosto) di Mizoguchi Kenji (1898-1956) di cui Kim Ki Duk si propone come degno erede e continuatore.
Purtroppo spesso questa visione del mondo e la sua profonda saggezza vengono distorte e indirizzate a fini completamente differenti dal cinema commerciale, ben distinto dagli esempi appena citati. Così in Yingxiong (2002; Hero) di Zhang Yimou (n. 1950), regista che si presenta come rappresentante della cultura orientale (mentre non ne è che il venditore al maggiore offerente, ovvero al cinema hollywoodiano), l’unità di presente, passato e futuro, e quella dello spazio vicino e lontano, vengono utilizzate non a sostegno di una visione zen disincantata e superiore alle vicende umane, ma al contrario, per disegnare storie d’avventura completamente integrate dentro la dimensione consumistica ed eroica del cinema narrativo commerciale. Non è un caso che tra uno dei maggiori sfruttatori commerciali del cinema pseudointellettuale, Quentin Tarantino (n. 1963), e Zhang Yimou si sia instaurata una strana ma comprensibile affinità, dato che entrambi mirano agli incassi: in Kill Bill (Kill Bill: Vol. 1, 2003, Kill Bill: volume 1; Kill Bill: Vol. 2, 2004, Kill Bill: volume 2) del regista statunitense, il maestro-monaco zen che dovrebbe insegnare la superiorità e la distanza, diventa un allevatore di supereroi e supereroine, con la protagonista che esce dalla sua scuola pronta a compiere la vendetta, ossia quanto di più lontano dal sapere che dovrebbe avere imparato dal suo maestro. Gli scenari e i paesaggi digitali di entrambi i film non devono ingannare nessuno: per quanto sfolgoranti di bellezza sono solo versioni più sofisticate delle vecchie attrazioni cinematografiche e dei trucchi di cui il cinema come spettacolo ha sempre vissuto. Dietro di essi non si nasconde nessun sapere e nessun segreto.
In Cina, la combinazione tra un sapere orientale riflessivo e l’occidentalizzazione industriale e consumistica sempre più rapida del Paese produce ibridazioni interessanti. L’occhio eversivo del cinematografo, rimasto a lungo sopito sotto le pressioni dei vari regimi o dei doveri ideologici, comincia a destarsi e a mostrare quello che gli occhi umani non vedono. In Sanxia haoren (2006; Still life), opera di uno dei più giovani e coraggiosi registi e scrittori della nuova generazione, Jia Zhangke (n. 1970), vediamo il grande cambiamento del Paese nel passaggio dallo stato agricolo a quello spiccatamente industriale; ma vediamo anche la permanenza del vecchio dentro il nuovo, lo stridore di un mondo contro l’altro; uno dei paesaggi più famosi del mondo, quello delle Tre Gole del fiume Yang-tze, viene distrutto dal cemento armato dei palazzi e delle fabbriche che lo ricoprono lentamente ma inesorabilmente. Due personaggi (un uomo e una donna alla ricerca dei rispettivi coniugi perduti) si sfiorano senza mai incontrarsi nello scenario delle Tre Gole, devastato dalla costruzione della più grande diga del mondo, e dalla demolizione dei villaggi che vengono evacuati con la forza, fra le proteste della popolazione. Il risultato di questo incontro fra quello che era il più bel giardino del mondo e l’architettura moderna, fatta di palazzi, ciminiere e ponti, è un crudele scenario che intreccia passato e presente, un paesaggio di rovine su cui sta sorgendo un mondo sconosciuto. Le due storie scorrono parallele, collegate da una ricerca comune: comprendere che cosa è accaduto e che ne è del passato. Il trauma che ha spezzato i due matrimoni è lo stesso che ha spezzato la vita del Paese, l’industrializzazione, creando una profonda frattura fra una Cina nuova, immersa nei suoi sogni di ricchezza, e una Cina antica, povera, dura e lenta, legata ai sentimenti e alla tradizione. La grande diga fa anche da spartiacque fra passato e futuro, e Jia Zhangke, giovane pittore e scrittore oltre che regista, ci mostra tutto il dolore del cambiamento, la violenza che esso comporta, le terre abbandonate, le case distrutte e i killer incaricati di picchiare coloro che non accettano il trasferimento forzato. Il paesaggio è il veicolo di questo dolore, e si dispiega sotto i nostri occhi come gli antichi rotoli della tradizione cinese in lunghe e lente panoramiche a 180°, che percorrono con la stessa attenzione i cumuli di macerie dei palazzi in demolizione e le gole leggendarie del fiume, la cui grandezza è sommersa poco a poco dal cemento e dai ponti ad arcobaleno. Degli antichi, sublimi paesaggi non rimane ormai che un blando e stropicciato ricordo, stampato sopra le banconote da 10 yuan, che girano di mano in mano. Jia Zhangke ha girato anche un documentario sulla costruzione della grande diga, Dong (2006), storia di un pittore che lavora accanto a essa, ritraendo paesaggio e persone; nel film appaiono alcuni dei personaggi del precedente Sanxia haoren, compreso il protagonista. Non si tratta, tuttavia, di un banale gioco di intreccio tra finzione e realtà, bensì quasi della dimostrazione che documentario e finzione si sorreggono reciprocamente. La realtà infatti diventa racconto, e il racconto al contempo guida e rafforza lo sguardo sul mondo reale e aiuta a interpretarlo.
Lumière nel deserto di Gobi
La Mongolia, dopo quasi un secolo di oscurità, rivela oggi il suo patrimonio culturale e ambientale ancora intatto, grazie ad alcuni giovani registi che raccontano la dura vita dei pastori nomadi e la povera lotta per la sopravvivenza, non senza la scoperta dei primi benefici della società industriale, fortemente temperati dalla tradizione mongola, la quale, nei secoli di nomadismo e contatto con una natura fra le più aride e desolate, ha trasformato la povertà in sapienza. Povero è quindi anche stilisticamente questo cinema che descrive la realtà, sempre memore della grande lezione neorealista-antropologica europea.
Girato in piccola parte a Ulān Bātor, la capitale, e per lo più nelle steppe desolate, Tuya de hun shi (2006; Il matrimonio di Tuya) di Wang Quanan (n. 1956) racconta la vita nelle steppe della Mongolia di una giovane e bella allevatrice nomade di pecore che si trova coinvolta in una vicenda paradossale, ritrovandosi con due mariti. Il primo infatti è rimasto invalido scavando un pozzo davanti alla tenda e lei, che ha anche due figli, accetta di risposarsi solo se nella casa del nuovo marito potrà entrare anche quello precedente. Ma non è che l’inizio di una nuova sofferenza, perché i suoi bambini vengono subito derisi per il fatto di avere due padri. Il deserto di Gobi, circondato dalle montagne, il gregge che si perde continuamente nel vento e nella neve, la faticosa raccolta della paglia per l’inverno, la minacciosa e incombente espansione industriale cinese fanno da contrasto con il profondo conforto della tenda mongola, tanto che dopo ogni tempesta e incidente sembra di sentire fisicamente il calore della stufa posta al centro e quello delle grosse coperte colorate. Anche qui, documentario e finzione risultano intrecciati per una storia di tipo neorealista.
Un’altra giovane regista mongola, Byambasuren Davaa (n. 1971), dopo avere studiato presso la Hochschule für Fernsehen und Film di Monaco, scuola di grandi documentaristi, ha lavorato con un italiano, Luigi Falorni (n. 1971), per un film di successo di produzione tedesca, Die Geschichte vom weinenden Kamel (2003; La storia del cammello che piange). In questo film, però, i due registi forzano la componente melodrammatica, che prevale sulla sincerità e spontaneità dello sguardo. Nelle steppe della Mongolia battute dal vento, fra pastori nomadi poveri e lontani dai centri abitati, una cammella rifiuta il suo piccolo nato albino e lo accetta solo dopo una lunga consolazione musicale di tre giorni. Il tema sarebbe affascinante se i due registi non avessero voluto esagerare con una pesante invenzione melodrammatica e patetica ponendo una lacrima nell’occhio della cammella adulta che ascolta la musica, esclusivamente a uso delle masse di spettatori ingenui.
Più tardi, da sola, Byambasuren Davaa ha realizzato un altro film, questa volta molto più limpido e delicato, sulla vita quotidiana del suo Paese, Die Höhle des gelben Hundes (2005; Il cane giallo della Mongolia), in cui ha rinunciato completamente agli artifici melodrammatici e spettacolari. Una bambina, Nansal, figlia di nomadi, frequentata la scuola in città, ritorna alla tenda dei genitori per passarvi le vacanze estive. Questa volta il paesaggio è di un verde commovente, al contrario del deserto spietato del film precedente, e la bambina corre libera per i campi, le rocce e le colline, godendosi la libertà sognata a scuola. Ma i pericoli sono in agguato, i lupi minacciano sempre il gregge e le persone. Nansal raccoglie un cagnolino bianco, abbandonato, che il padre non vuole accanto alla tenda, perché è stato in compagnia dei lupi e potrebbe richiamarli. Un giorno, mentre cerca il cane, Nansal si perde, e trova rifugio dal temporale in casa di una vecchia, che le racconta la storia di un grande cane giallo, cattivo, che minacciava due innamorati e li teneva lontani uno dall’altro. Ma l’ombra della paura si discioglie all’arrivo dei genitori. Intanto la stagione finisce, l’ombra della leggenda si dissolve e la famiglia parte. Una magnifica sequenza documentaristica chiude il film, mostrando la straordinaria organizzazione della tenda nomade e la carovana che si allontana andando alla ricerca di nuovi pascoli.
Bibliografia
Les paysages du cinéma, éd. J. Mottet, Seyssel 1999.
S. Arecco, Il paesaggio del cinema. Dieci studi da Ford a Almodóvar, Recco 2002.
A. Costa, Il cinema e le arti visive, Torino 2002.
L’arbre dans le paysage, éd. J. Mottet, Seyssel 2002.
R. Bertazzoli, La natura nello sguardo. Miti, stagioni, paesaggi, Verona 2007.