Il Paese dei cento paesaggi
Ripercorrendo fino alla condizione attuale le vicende del paesaggio italiano a partire dal secondo dopoguerra – e più indietro: attraverso gran parte del secolo e mezzo trascorso dall’unificazione politica del Paese – è difficile resistere alla tentazione di concludere che si è svolto un gigantesco processo di semplificazione e banalizzazione delle caratteristiche peculiari del paesaggio italiano. O meglio, dei paesaggi italiani. Perché la principale tra quelle caratteristiche era esattamente la pluralità.
Il giardino d’Europa, il Paese delle cento città, la terra delle ville e dei giardini, lo ‘Stato-paesaggio’ (Mangani 2012) era, nell’immaginario italiano ed europeo, nelle rappresentazioni correnti, ma in definitiva proprio nella sua oggettiva geografia, segnato da una varietà (morfologica, climatica, storica, insediativa, economica ecc.) tale da dare luogo a una pluralità ricchissima di forme paesistiche, difficilmente riducibili a uno schema semplice.
Renato Biasutti, in quell’opera ancora fondamentale che è Il paesaggio terrestre (1947, 19622), proponeva una tipologia che si voleva planetaria; riteneva «necessario considerare soltanto le grandi forme del paesaggio terrestre» (p. 3) e perciò utilizzava criteri solo naturalistici, arrivando a definire sostanzialmente degli ecosistemi. Benché in questa forma, decisamente molto più restrittiva rispetto alla definizione che si dà correntemente di ‘paesaggio’, i paesaggi di una poco estesa regione come è quella italiana risultavano scanditi in ben quattro grandi tipi differenti, sui sedici complessivamente individuati per l’intera Terra: per confronto, alle isole britanniche veniva attribuito un unico tipo di paesaggio, alla Germania due, al Brasile tre. Con riferimento alla sola Italia, Aldo Sestini, che invece partiva dal presupposto che «i nostri paesaggi sono una creazione storica» (Il paesaggio, 1963, p. 11), ne enumerava addirittura poco meno di cento, pure escludendo esplicitamente le aree urbane. Gli stessi 95 sono del resto i paesaggi ancora considerati dal Touring club italiano, nella tavola Evoluzione del paesaggio (Atlante geografico. Italia, 2006), e distribuiti in una decina di grandi tipi.
Sia dal punto di vista strettamente fisico-naturalistico, sia dal punto di vista geoantropico, allo spazio italiano veniva insomma – e viene ancora oggi – attribuita una ricchezza paesistica molto marcata. Tanto Biasutti quanto Sestini avevano per di più l’accortezza di sottolineare che si trattava di generalizzazioni comunque molto spinte, e che nella realtà era inevitabile riconoscere una molteplicità di varianti e di declinazioni ulteriori, anche molto accentuate, nell’ambito di ciascun tipo.
A ben considerare, è possibile che quelle stesse condizioni, che nella regione italiana più che altrove hanno favorito la moltiplicazione di centri urbani e politici dalle vocazioni e dalle storie differenti, si manifestino sotto forma di sintesi paesistiche differenti; così come, all’inverso, non è certo privo di senso pensare che la pluralità degli assetti urbani e politici abbia a sua volta indotto la maturazione di paesaggi differenziati. Tanto che alla fine risulterebbe mutuamente comprensibile che alle ‘cento città’ facessero riscontro altrettanti paesaggi.
Ora, dopo un secolo e più di unificazione, cioè anche di omologazione, ma soprattutto da un cinquantennio in qua, la situazione può apparire sensibilmente differente. Le periferie di tutti i centri abitati, grandi e piccoli, si somigliano in tutta la penisola. Il lunghissimo litorale si presenta un po’ dovunque uguale a se stesso. Le pianure e le valli, che ospitavano assetti agrari giustamente celebri per la varietà e l’efficienza (non solo economica), sembrano essere quasi dappertutto sommerse dall’«alluvione» dello sprawl (Per una nuova urbanità, 2009). Perfino molte aree montane sono state investite in maniera massiccia da trasformazioni o piuttosto da stravolgimenti, probabilmente definitivi e sensibili specialmente nelle parti fino a qualche decennio fa quasi irraggiungibili, dove la percezione del recente cambiamento è senza dubbio più nitida.
In realtà, a ben vedere, non è esattamente così, e la varietà può essere ancora rintracciata, però a condizione di volerla cercare, giacché non risulta immediatamente evidente come poteva esserlo in passato. È chiaro, cioè, che i paesaggi per così dire tradizionali individuano oggi solo dei lembi residuali del territorio italiano. Non sono tutti spariti completamente (non ancora), ma i quasi cento paesaggi di Sestini sono ridotti senza dubbio allo stato di frammenti isolati, incoerenti fra loro e rispetto all’evoluzione della società, tanto che possono apparire in fondo obsoleti e perciò ancora più vulnerabili, esposti a qualsiasi retorica efficientista e a qualsiasi prassi ‘modernizzante’.
In queste condizioni, può anche venir fatto di pensare che sia tutta, o quasi, colpa dell’approccio protezionistico. A semplificare in maniera così brutale la varietà del paesaggio italiano, ad asfissiare irremissibilmente un gran numero dei cento paesaggi italiani, potrebbe aver contribuito la logica della tutela.
Il paesaggio è un costrutto sociale. Depurato degli eccessi estetizzanti (da depurare non tanto perché estetizzanti, quanto perché eccessi), il concetto di paesaggio rimanda a idee e atti del più vario genere, che si materializzano nello spazio. Idee e atti che nel tempo variano per intensità, senso, direzione, intenzione, efficacia: variano incessantemente, secondo i ritmi della società che li esprime, cioè secondo la sua storia e le sue esigenze, e incessantemente producono effetti, cioè paesaggio. Tutto il paesaggio – ogni paesaggio – deriva la sua sostanza dall’agire sociale. Anche i paesaggi cosiddetti naturali, che tali sono (quando ancora ne sussistono, e non è propriamente il caso italiano) in conseguenza del fatto che la società non ha ritenuto di avviarne una ricostruzione secondo le sue proprie esigenze; o, piuttosto, perché la società ha ritenuto che il non interferire con le dinamiche spontanee in un determinato spazio corrispondesse a una qualche sua esigenza, a un interesse, un’intenzione, un senso socialmente elaborati.
È comunque singolare (e forse non è male aprire qui una parentesi sia pure per ripetere cose dette, per quanto con scarso successo, già tante volte) che il cosiddetto sentire comune, la cultura corrente, i mezzi di comunicazione continuino imperterriti a far mostra di credere all’esistenza (anche in Italia) di paesaggi ‘naturali’, talvolta qualificati come ‘incontaminati’, ‘integri’ o perfino ‘intatti’. Eppure, da moltissimo tempo, fra chi esamina con criterio e nel suo insieme il paesaggio italiano, è maturata la convinzione di una sua pressoché integrale costruzione sociale. Per tacere di altri autori forse meno noti, ma ben precedenti, oltre mezzo secolo fa Emilio Sereni, introducendo la sua Storia del paesaggio agrario italiano (1961), proprio a questo proposito ricordava un passo di Giacomo Leopardi dalle Operette morali (Elogio degli uccelli, 1824), retrocedendo così a due secoli fa la piena consapevolezza del fatto che «una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città, e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura». Appunto: una costruzione sociale.
Tutelare, allora, e sperare con questo di avere risolto il problema, rischia di essere contraddittorio e inconcludente, sbagliato e insufficiente, per quanto paradossale possa sembrare. Contraddittorio, perché contraddice l’essenza per così dire vitale, che è cangiante, evolutiva, del paesaggio – e, se ne contraddice la vitalità, tende a sterilizzarlo. Inconcludente, perché se si protegge qualcosa, come il paesaggio, la cui dinamica dipende dalla dinamica sociale, nei fatti si pretende di difendere la società da se stessa, e ben difficilmente l’operazione può avere un esito concreto. Sbagliato, perché se si protegge un tratto di paesaggio, una parte di un tutto, da un lato si confessa che l’evoluzione di quel tutto non ci soddisfa (tant’è che vogliamo escludere una parte dall’evoluzione), ma dall’altra parte si ammette anche che quanto non è tutelato rimane, invece, nella libera disponibilità, se ne può continuare a fare (come se ne è fatto) quel che si vuole, accettando così un aumento indefinito dell’insoddisfazione. Insufficiente, perché nei fatti le parti che vengono salvaguardate sono parti residuali, che appaiono meno compromesse del resto solo perché fino a un dato momento sono state trascurate dall’evoluzione paesistica, e che non sono necessariamente quelle più significative: al contrario, se sono state trascurate, è probabilmente perché meno appetibili, perché meno di altre corrispondevano alle tendenze, fino a quel dato momento, della produzione di paesaggio. Così le parti tutelate sono chiamate a testimoniare, a fare da ‘musei del paesaggio’, anche se al limite non si tratta delle parti più rappresentative, in grado di trasmettere nel tempo una compiuta testimonianza; mentre le parti più significative potrebbero essere state irrimediabilmente modificate. Quasi mai la tutela interviene davvero a priori.
Rimanendo nell’ambito del paradosso, si potrebbe continuare. Se anche ne usciamo, è facile riconoscere che una lettura in questa chiave ha almeno il merito di mettere in evidenza la straordinaria complessità sia del paesaggio in quanto oggetto e soggetto, sia delle tante questioni legate alle dinamiche della sua produzione.
Il cuore della questione sembra essere nel fatto basilare che certi settori della società italiana, almeno nel corso del Novecento, hanno prodotto un’evoluzione del paesaggio che a certi altri settori della società italiana appare deprecabile. Al fondo c’è un contrasto sociale e culturale che è illusorio pensare di sanare intervenendo, in un modo o nell’altro, su uno degli esiti – in questo caso, sul paesaggio – anziché sui processi che l’hanno originato; contrasto che, al tempo stesso, non è nemmeno opportuno trascurare, perché continuerà a produrre effetti, più o meno deprecabili che siano. Se è plausibile che «i figli e i nipoti dei mezzadri marchigiani che tornano a vivere in campagna per effetto della rurbanizzazione credono di restaurare le case di un tempo trasformandole in realtà nei ranch texani che hanno visto al cinema», è probabilmente perché «hanno continuato a pensare al paesaggio locale come a un sistema simbolico dinamico, che, in quanto meccanismo funzionante “per tutti e per ciascuno”, muta continuamente i propri paradigmi» (Mangani 2012, p. 178). Salvo il fatto che questi paradigmi si sono frammentati, hanno cambiato scala (geografica e politica).
In un passato non così lontano erano gli orientamenti della classe dirigente, ristretta e culturalmente omogenea, a improntare di sé quasi programmaticamente (e a volte davvero in base a un piano esplicito: si pensi alla Toscana collinare, alla pianura del Veneto, alla Brianza, alle Marche) aree di una dimensione che oggi definiremmo regionale. È in quelle condizioni che prendono forma molti dei paesaggi tradizionali italiani, che si ordina lo spazio secondo logiche coerenti ed efficienti che, a distanza di secoli e grazie al radicamento di un gusto estetico che sempre dalle stesse classi dirigenti procede, oggi siamo disposti a considerare positive, perché produttive di senso e di bellezza. È cioè in quella lunga fase storica che si forma anche l’idea del «bel paesaggio», anche come (auto)rappresentazione di un preteso «buon governo» che, prevalentemente a partire proprio dalle cento città, si prendeva cura tanto degli spazi urbani quanto di quelli rurali. È sempre allora che il paesaggio diventa «elemento altamente simbolico dello Stato» (Settis 2009, p. 980; Walter 2004).
Nel nostro tempo ogni individuo ha formalmente un pari accesso al potere politico – come è in un sistema rappresentativo democratico – e quasi ogni individuo ha una qualche disponibilità di risorse economiche. Nulla impedisce e, anzi, tutto induce a che ciascun individuo o piccolo gruppo abbia accesso alla produzione di territorio/paesaggio; se poi il contesto politico e culturale non sa o non vuole più proporre il primato di un sistema ‘universale’ di valori (il che è piuttosto proprio della demagogia che della democrazia), ogni individuo o gruppo può sentirsi abilitato a produrre territorio/paesaggio in base alle sue proprie preferenze e suggestioni, e così a dare corso a ‘progetti’ ordinati a obiettivi strettamente individuali; progetti che inevitabilmente risulteranno incoerenti e disfunzionali nel passare dalla scala dell’individuo o del piccolo gruppo a scale via via più piccole e più propriamente collettive (Dumont, Cerreti 2009).
È un problema che attiene all’appropriazione e alla gestione delle risorse (qui si tratta della risorsa fondamentale, la risorsa-spazio, la cui elaborazione produce paesaggio). Siamo di fronte, come è del resto ovvio anche considerando la questione da altri punti di vista, a un problema eminentemente politico. Ed è probabilmente per le ragioni accennate che gli sforzi fatti in Italia (peraltro non molto numerosi e non molto incidenti) di governare la produzione di paesaggio mediante norme di vincolo o di destinazione d’uso e simili hanno avuto così scarso successo: perché una consistente parte della società civile e politica, che avrebbe dovuto accettare e applicare quelle norme, non ne ha riconosciuta la fondatezza, addirittura la legittimità (Dumont, Cerreti 2009; Mangani 2012, p. 6).
Le norme che pretendono di regolare il meccanismo di produzione del paesaggio intervengono, insomma, a valle del processo di valorizzazione sociale e soprattutto individuale della risorsa-spazio – processo che per alcuni ha avuto un senso e un esito, per altri un senso e un esito differenti: mancando il consenso sui presupposti valoriali, manca la condivisione di un progetto unitario e manca l’efficacia dell’applicazione delle norme. È certamente per queste stesse ragioni, che il governo della produzione di paesaggio è un problema del tutto politico, e poi anche, ma solo per quota parte, estetico, naturalistico, memoriale e via dicendo. È un problema che si intreccia con l’edificazione del consenso e, in definitiva, con la pratica democratica. A monte di tutto, il problema pare sorgere da un deficit di senso civico; e la soluzione sembra passare, non per la tutela in sé, che dovrebbe essere considerata una extrema ratio, ma per la (ri)costruzione di una cultura civica nuovamente e diversamente coerente, che riproponga «non solo e non tanto prescrizioni vincolistiche, ma ricerca e diffusione delle conoscenze, formazione delle coscienze, consapevolezza dei valori» (Settis 2009, p. 980).
Se l’obiettivo vuole essere la trasmissione nel tempo, non delle condizioni originarie dei paesaggi italiani (soluzione fissista e astorica, improponibile in teoria e nemmeno più perseguibile nella pratica), ma della loro efficienza, se cioè si ammette che il principio di base debba essere quello della sostenibilità, deve tornare in luce il valore fondativo del paesaggio nei riguardi della vita associata in quanto tale, così come è riconosciuto peraltro dalla Costituzione italiana (art. 9). Il paesaggio come bene comune. E la tutela, ideale e legale, che può essere approntata deve tornare a basarsi sul principio costituzionale (da restituire alla piena condivisione) che la libertà individuale non può spingersi fino al punto di mettersi «in contrasto con l’utilità sociale» (art. 41). Chiosa Settis, a questo riguardo, che «sarebbe il caso di ricordarsene, prima di difendere, se non addirittura legalizzare, speculazioni edilizie e cementificazioni del territorio» (Settis 2009, p. 981).
Il fatto è che in Italia, come del resto in varia misura anche negli Stati Uniti, in Spagna, in Grecia (e altrove), l’espansione edilizia e il raffittimento delle reti infrastrutturali sono stati considerati e utilizzati – in primo luogo dai poteri pubblici (Atlante del consumo di suolo, 2013) – non tanto come risposta a una domanda di utilità sociale, quanto come fattore di crescita economica (il ‘volano dell’economia’); mentre una legione di operatori economici vi individuava soprattutto un eccellente ambito di applicazione di capitali finanziari, più o meno volatili, in cerca di rendita a breve termine e a basso rischio.
L’eccesso di produzione immobiliare, oltre alle deleterie ricadute sul piano finanziario mondiale, ha prodotto di necessità un consumo esasperato di suolo e una trasformazione radicale del paesaggio nel suo insieme, in Italia come altrove; tanto più che l’ampliamento del parco immobiliare e del sistema infrastrutturale si è realizzato in buona misura in forme disperse e dispersive, addirittura avallato da una florida corrente di ‘pensiero esperto’ che magnificava i vantaggi del decongestionamento urbano (Paesaggio 150, 2012): moltiplicando così l’impatto della crescita edilizia proprio in termini paesaggistici.
Un’altra parte di responsabilità va assegnata, certamente, anche alle più recenti tendenze delle produzioni agricole, pure queste ormai fortemente finanziarizzate e orientate sempre più a corrispondere massicciamente alle tendenze del mercato internazionale (soprattutto tramite il coinvolgimento nel gioco dei futures). La necessità di programmare sia gli investimenti sia, per quanto possibile, anche la certezza delle rese produttive si è sovrapposta alla tendenza – spontanea e pluridecennale – alla scomparsa della piccola azienda contadina, convergendo sullo stesso esito: la concentrazione della superficie agraria in un numero minore di aziende più vaste. In parallelo, la sparizione delle piccole aziende porta con sé la riduzione degli assetti policolturali che caratterizzavano gran parte del Paese, e che concorrevano potentemente a modellare e variegare il paesaggio rurale italiano. Le piccole unità poderali sono via via rimpiazzate da aziende di medie o grandi dimensioni che decidono cosa coltivare in base alle richieste dei mercati internazionali, e a queste richieste si adeguano compatte, in massa e rapidamente; il risultato, poiché il mercato si concentra su pochissimi prodotti, è una sostanziale uniformità di ordinamenti colturali, di organizzazioni dello spazio e di paesaggi su estensioni molto più vaste che in passato (I nuovi spazi dell’agricoltura italiana, 2012). Si potrebbe commentare che non si tratta di una novità assoluta, se è vero che il latifondo ha conosciuto produzioni allo stesso modo monocolturali e ha dato come esito un’analoga uniformità paesaggistica; ma il fatto è che oggi l’uniformità colturale investe proprio aree e paesaggi che non avevano vissuto esperienze di tipo latifondistico e che quindi non avevano conosciuto né la monocoltura né l’uniformità del paesaggio.
In tutto questo, l’utilità sociale ricordata dalla Costituzione è rimasta molto sullo sfondo oppure è stata del tutto ignorata.
La preoccupazione dei poteri pubblici italiani per le componenti del paesaggio e per la relativa gestione è comunque molto più antica della Costituzione, come è stato tante volte messo in chiaro. Ed è certo da tenere presente che questa preoccupazione non è mai stata solo formale, ma al contrario è derivata dalla costante e chiara coscienza del nesso ineludibile tra gestione (e controllo) del territorio e gestione (e controllo) del potere.
Sono stati numerosi e spesso anche molto organici gli interventi normativi antichi, direttamente intesi a ordinare la ‘costruzione di paesaggi’: ve ne sono di ambito urbanistico (sull’altezza degli edifici, sull’allineamento dei prospetti e via dicendo) e di ambito rurale, dalle regole per il taglio dei boschi alla regimazione dei corsi d’acqua. Ma è il caso di ricordare, accanto a quella, anche la vasta produzione normativa che indirettamente, e però altrettanto consapevolmente, incideva pur sempre sulla preservazione dell’efficienza paesaggistica, specie in ambito rurale. Basteranno gli esempi della legislazione sulla gestione dei tratturi (con la repressione degli abusi e le numerose reintegre), che mirava alla perpetuazione della funzionalità produttiva e commerciale (e fiscale) di vastissime aree dell’Italia centromeridionale, disegnandone gli assetti territoriali e quindi i paesaggi; e quello dell’ancor più vasta normativa a protezione o a ripristino degli usi civici e dei possessi collettivi, indifferentemente e largamente presenti tanto nelle aree soggette a coltura quanto in quelle incolte, soprattutto montane.
Lo Stato unitario, anche prima della sanzione costituzionale del 1948, aveva preso in conto le forme paesaggistiche come ‘valore’. Si può discutere e si è discusso sulla parzialità delle visioni circolanti fra tardo Ottocento e primo Novecento, forse troppo tese alla conservazione del ‘bello’. Ma, da un lato, sta di fatto che la cultura politico-giuridica italiana unitaria, come quella preunitaria, ha prodotto una serie piuttosto rimarchevole di norme in materia, anche prima dell’avvento della Repubblica. E, dall’altro lato, non è difficile ammettere che il ‘bello’, in tema di paesaggio urbano e rurale, ha molto a che vedere con l’armonia, cioè con la coerenza, della costruzione territoriale, e che dunque vedere il bello significa anche, di fatto, apprezzare il buono che in un bel paesaggio è implicito: in termini di efficienza e di funzionalità. Va da sé, come si è peraltro già accennato, che la definizione di valori estetici o civici o funzionali ha molto a che vedere con il complessivo paniere culturale di cui è portatrice una società – o piuttosto di cui è portatrice, all’interno di una società, una classe dirigente – e che, pertanto, i valori fatti propri e promossi dalla classe dirigente possono non essere compresi e condivisi da altri settori della stessa società politica.
Malgrado le insistite osservazioni sul «ritardo» italiano anche in questo campo, in effetti le prime norme nazionali risalgono ai primissimi anni del Novecento (1902, 1905). Se si eccettua qualche sporadico esempio antecedente, è proprio quello il periodo in cui anche nel resto d’Europa la preoccupazione di salvaguardare paesaggi e ‘bellezze naturali’ fa ingresso nei codici.
Specifica della legislazione italiana fu la tendenza, almeno da allora, a considerare insieme il patrimonio paesistico e il patrimonio culturale: così, accanto alla legge Rosadi (l. 20 giugno 1909 nr. 364) che riguardava le forme di tutela da applicare al patrimonio culturale, nel 1912 un analogo regime di salvaguardia veniva esteso anche ad alcune componenti ‘eminenti’ del paesaggio (naturale). Non molto dopo (1922), la l. 778 promossa da Benedetto Croce sussumeva i due ambiti in una stessa prospettiva. Le due leggi Bottai (l. 1 giugno 1939 nr. 1089, l. 29 giugno 1939 nr. 1497), più organiche e dettagliate nei loro disposti, nuovamente separavano l’ambito culturale (l. 1089) e quello paesaggistico (l. 1497), ma di fatto li traguardavano nella stessa prospettiva. La Costituzione (art. 9), dal canto suo, riprende l’impostazione unitaria e promuove insieme l’impegno a tutelare «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» – così come un’analoga concezione informa la legislazione successiva, compreso il Codice dei Beni culturali e del paesaggio (l. 6 luglio 2002 nr. 137, nota come Codice Urbani) fino alle sue più recenti modifiche (2008).
Nel frattempo, la Convenzione europea del paesaggio, promossa dal Consiglio d’Europa, definita a Firenze il 20 ottobre 2000, e ratificata da quasi tutti i Paesi europei (l’Italia ha provveduto nel 2006), fa pure riferimento congiunto al «comune patrimonio culturale e naturale» implicito nel concetto di paesaggio, e lo considera a «fondamento» delle identità delle popolazioni.
La Convenzione è stata, di per sé, un atto politico non vincolante giuridicamente, un documento d’indirizzo: si trattava di una iniziativa non dell’Unione Europea, che avrebbe potuto essere sovraordinata alle normative nazionali, ma del Consiglio d’Europa, che è un’assise senza dubbio autorevole, tuttavia priva di potestà. Il Parlamento italiano, però, a differenza di quanto accaduto in altri Paesi (tra i quali Austria, Germania e Russia), ha ratificato la Convenzione e l’ha così incorporata nel sistema legislativo italiano. Per altro verso, l’attenzione con cui è stata accolta tra specialisti e non, e l’enfasi che da molti è stata posta sulla stesura e l’applicazione della Convenzione, ne fanno un punto di riferimento che non può essere ignorato. La Convenzione ha di molto ampliato la concezione giuridica corrente relativa al paesaggio. Di fatto, ha accolto una definizione che può essere sottoscritta da chi ha fatto del paesaggio, come i geografi, un oggetto e uno strumento praticamente connaturati alla propria attività di analisi e interpretazione. All’art. 1 la Convenzione definisce infatti il paesaggio (landscape) come «parte di terrritorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Vale a dire che nessuna delle qualità intrinseche o estrinseche (bellezza, naturalità, riferimenti storici ecc.) dello spazio geografico riveste una particolare rilevanza, perché tutto lo spazio è paesaggio, in quanto e come è percepito dagli esseri umani – in primo luogo, ma non necessariamente solo dagli abitanti di quel tratto di spazio.
La definizione, su cui si basa poi il resto del dettato della Convenzione, viene ulteriormente esplicitata, chiarendo che il riferimento è a «spazi naturali, rurali, urbani e periurbani [...] sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati» (art. 2). La definizione porta quindi a far coincidere lo spazio geografico per come risulta dall’interazione di fattori umani e non umani (ciò che i geografi definirebbero più propriamente come ‘territorio’) e il paesaggio, che generalmente viene inteso piuttosto come l’insieme degli elementi percepibili di un dato tratto di spazio geografico. Ma queste distinzioni, tra spazio e territorio da un lato, e tra territorio e paesaggio dall’altro, sono a ben vedere davvero sottili e nei fatti difficilmente utilizzabili, quanto meno in regioni di umanizzazione antica e diffusa come l’Europa. Si può tranquillamente sostenere e provare che in Europa tutto lo spazio è stato territorializzato, il che priva di efficacia la prima delle due distinzioni.
Quanto alla distinzione tra il territorio (per così dire, la materialità dello spazio con il suo corredo immateriale di senso e di valori) e ciò che di quel territorio può essere colto e rappresentato, vale a dire l’insieme dei caratteri ‘sensibili’ o percepibili, questa sembra più che altro rimandare, non a due entità differenti, ma a due differenti punti di vista da cui si considera il medesimo tratto di spazio geografico. Il territorio è l’esito del processo di interazione, di territorializzazione; il paesaggio è il «character» – dice la Convenzione – è ciò che si offre alla lettura, alla percezione/interpretazione, applicata a quel territorio.
La stessa sostanziale identità tra spazio territorializzato e paesaggio è stata poi criticata da altri, perché, se tutto è paesaggio, risulta di fatto impossibile una sensata ed effettiva azione di salvaguardia. Ma il fatto è, al contrario, che esattamente tutto lo spazio territorializzato ha senso, proprio in quanto vissuto e percepito dalla popolazione, e perciò stesso richiederebbe cura – che potrà essere graduata e differenziata, ma mai assente, per nessuna sua parte – nell’interesse della popolazione stessa, esprimendo così una opportuna attenzione a quella «utilità sociale» il cui primato è rivendicato dalla Costituzione italiana.
Da più punti di vista, si può quindi davvero ammettere che la Convenzione abbia rappresentato una presa di coscienza sensibilmente avanzata, nel riconoscere il paesaggio nella sua totalità come «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità». Da questa più compiuta consapevolezza occorrerebbe ripartire nel determinare le scelte politiche e i sistemi di norme.
Come è stato sottolineato da più parti, la coincidenza di paesaggio e territorio (e anche di ‘ambiente’ e ‘beni ambientali’, concetti entrati nella legislazione italiana negli anni Settanta del Novecento), una volta trasposta sul piano della concezione giuridica, nel caso italiano implica una contraddizione fra competenze locali e centrali. Il paesaggio, secondo la Costituzione e una lunga serie di pronunciamenti giurisprudenziali, è competenza dello Stato. Il territorio, con gli atti che alla gestione del territorio si riferiscono, è invece di competenza delle amministrazioni regionali e locali. La contraddizione è palese e richiede di essere sanata.
Una contraddizione analoga, peraltro, esiste da molto più tempo e non è stata mai davvero risolta. Fin dall’emanazione della legge urbanistica statale del 1942 (l. 17 ag. 1942 nr. 1150), dunque successivamente alle due leggi del 1939, si verificò che le competenze sulla pianificazione territoriale venissero di fatto ripartite, senza coordinamento, fra enti locali e Stato – e per di più fra due organi diversi dell’amministrazione centrale. La l. 29 giugno 1939 nr. 1497, all’art. 5, 1° co., disponeva che «il Ministro per l’educazione nazionale ha facoltà di disporre un piano territoriale paesistico», cui i comuni avrebbero dovuto uniformarsi; inoltre (art. 12), anche «l’approvazione dei piani regolatori o d’ampliamento dell’abitato» andava soggetta al consenso dello stesso Ministero. La l. 1150 del 1942 statuiva a sua volta la formazione di «piani territoriali di coordinamento» e di «piani regolatori comunali»; i primi sarebbero stati emanati dal Ministero dei Lavori pubblici, eventualmente d’intesa con altri ministeri interessati (per quanto riguardava le comunicazioni o le attività produttive), ma senza considerare il Ministero dell’Educazione nazionale, cui era già stata demandata la definizione dei piani territoriali paesistici. Quanto ai piani regolatori comunali, pure soggetti all’approvazione del solo Ministero dei Lavori pubblici, le disposizioni finali prevedevano tuttavia che rimanessero in vigore le eventuali norme che avessero attribuito competenze specifiche ad altri organi dello Stato. Ma nulla del genere si diceva a proposito dei piani territoriali.
Questa contraddizione normativa ha certamente inciso gravemente sull’efficacia della legislazione e sulla stessa sua applicabilità. Da una parte, come è stato notato, così procedendo il concetto giuridico di paesaggio ha finito per escludere le città, e quello di urbanistica per escludere le aree circostanti le città (Settis 2009). E si è trattato di una soluzione certamente improvvida, anche e proprio in considerazione della lunghissima storia di costruzione territoriale che, in Italia, era andata avanti per secoli sotto la guida e il controllo dei centri abitati, irradiandosi dalle città sui rispettivi spazi rurali, e che aveva nel tempo prodotto tra città e campagne spazi di transizione complessi e armonici. Dall’altra parte, mentre una sostanziale differenza tra ‘piano territoriale paesistico’ e ‘piano territoriale di coordinamento’, l’uno e l’altro cogenti, non risulta dai testi di legge, l’attribuzione delle relative competenze a organi distinti ha favorito il contrasto o la reciproca elisione nell’azione degli organi centrali.
Il progressivo passaggio delle competenze in materia dallo Stato alle regioni, in seguito, non sembra aver sanato la contraddizione né davvero risolto il problema di un approccio equilibrato ed efficace. In particolare, se un insieme di norme ha via via, all’apparenza, semplificato il quadro, per es. tendendo ad ampliare l’ambito delle norme urbanistiche anche al paesaggio extraurbano, e dunque a ricondurre (sia pure surrettiziamente) a unità le funzioni di elaborazione e attuazione della normativa in materia di paesaggio, le reiterate previsioni di legge per la formazione di piani territoriali o paesistici sono rimaste di fatto disattese anche quando sono state demandate alle regioni (con la legge Galasso, l. 8 ag. 1985 nr. 431) o, in concorrenza, alle regioni e allo Stato (con il Testo Unico dei Beni culturali e ambientali, d. legisl. 29 ott. 1999 nr. 490). Pochissime regioni hanno adottato piani paesaggistici, poche altre hanno optato per soluzioni di massima, scaricando sui livelli amministrativi di base (comuni) l’onere della vera e propria pianificazione, ma nella pratica rinunciando a verificarne l’attuazione. Quelle regioni (come Emilia-Romagna, Umbria e Marche) che hanno applicato la legge Galasso, l’hanno anche tradotta in piani prescrittivi ai quali però sono state apportate continue modifiche che ne hanno svuotata la portata e annullata l’efficacia («Italia Nostra», 2010, 455, nr. monografico: Le coste “sensibili”).
Una situazione non dissimile può essere evidenziata per le attività di monitoraggio che dovrebbero essere collegate stabilmente alla pianificazione, per verificarne l’attuazione, per raccogliere il punto di vista delle popolazioni, per segnalare eventuali opportunità di intervento e così via. Il Codice Urbani prevedeva la costituzione di osservatori del paesaggio, a livello centrale e a livello regionale, come ne esistono in altri Paesi (particolarmente noto e molto efficiente, per es., quello della Catalogna): «il Ministero e le Regioni definiscono le politiche di tutela e valorizzazione del paesaggio tenendo conto anche degli studi, delle analisi e delle proposte formulati dall’Osservatorio nazionale per la qualità del paesaggio, istituito con decreto del Ministro, nonché dagli Osservatori istituiti in ogni regione con le medesime finalità» (art. 132, 4° co.). Ma non ne è seguito un indirizzo preciso e determinato che portasse all’effettiva operatività: nel 2010 sono stati individuati e nominati i membri dell’Osservatorio nazionale per la qualità del paesaggio, che però non ha iniziato una vera attività. Osservatori sono poi sorti anche in quasi tutte le regioni (e anche a scala infraregionale), ma salvo pochissimi casi non hanno finora mostrato effettive capacità di azione né tanto meno sembrano in grado di avere un qualche impatto sulle dinamiche di produzione del paesaggio.
Il cittadino, tanto quanto lo studioso, difficilmente sfugge alla sensazione che, in fondo, quello che è mancato, e manca, sia la volontà di incidere in maniera efficace e coerente sulla gestione del paesaggio, e che piuttosto tendano a prevalere, a livello centrale come a livello locale, le spinte molto concrete degli interessi particolari di individui, gruppi, categorie, cui è stato concesso di prevalere sull’utilità sociale.
Davanti a questo stato di cose, l’iniziativa civica sembra aver ripreso qualche vigore. D’altro canto, anche data la parcellizzazione dei processi decisionali come della pianificazione di fatto – e, insomma, delle spinte alla costruzione di paesaggio – la scala locale sembra presentarsi come quella forse meglio in grado di ottenere risultati e di incidere nella prassi paesistica. La fioritura di comitati spontanei, un po’ ovunque in Italia, esplicitamente orientati al controllo e alla valutazione (nonché alla proposta) nell’ambito della gestione del territorio, sembra dimostrare non solo l’attenzione della popolazione, ma anche l’insoddisfazione per le condizioni attuali e l’intenzione di premere sui livelli politici per ottenere che quelle condizioni siano modificate. Parallelamente, come per es. è accaduto in Piemonte, si sono create le condizioni per cui la costituzione di strutture di monitoraggio (osservatori pubblici o comitati spontanei) possa portare alla nascita di microsistemi operativi disponibili a un coordinamento di scala regionale. In questa prospettiva, il processo di verifica si attuerebbe dal basso verso l’alto piuttosto che al contrario come previsto dalla normativa nazionale, ma comunque non in contrasto con la normativa stessa. Se una vera rete di ‘osservatori’ o altre forme di aggregazione dal basso si venisse formando con un’ampiezza apprezzabile, si creerebbero forse le migliori condizioni per un compiuto riconoscimento dei valori territoriali e paesaggistici così come sono percepiti dalla popolazione, esattamente in sintonia con quanto propugnato dalla Convenzione europea sul paesaggio (STCE nr. 176) nel 2004.
Come si è già ricordato, l’esigenza fondamentale è in effetti la diffusione di una diversa consapevolezza proprio tra la cittadinanza, che si orienti più estesamente – come peraltro sembra stia avvenendo – a forme di confronto e di partecipazione, e che si metta in condizione di agire sui livelli decisionali per ottenere una ben maggiore attenzione ai dati paesaggistici. Il tentativo di interrompere la deriva dei paesaggi italiani probabilmente richiede una intensificazione delle azioni di informazione e di educazione, mirate a restituire alla collettività la cognizione del paesaggio come bene comune; e, anche a questo stesso scopo, richiede inoltre lo sviluppo di iniziative conoscitive, documentarie, come per es. la realizzazione del Catalogo nazionale dei paesaggi rurali di interesse storico-culturale, promosso dal Ministero delle Politiche agricole e forestali.
Sulla base di una partecipazione reale e consapevole, l’intera questione della gestione del territorio potrebbe tornare a svolgersi su un piano non più demagogico, ma propriamente democratico.
Si accennava ai percorsi – differenziati, non coordinati, spesso incompiuti o appena abbozzati – che nelle varie parti d’Italia prefigurano la ricerca di modalità innovative, ma soprattutto efficaci, di gestione del paesaggio. Non è possibile, naturalmente, e sarebbe anche talvolta impietoso, riportare nel dettaglio lo stato della questione regione per regione. Ci si accontenterà di qualche esempio che pare, per un verso o per l’altro, significativo di una qualche modalità specifica; introducendo questi esempi con qualche considerazione d’insieme che valga a motivare le differenze di fondo tra i vari percorsi.
Si può cominciare con il prendere in esame i promotori, i veri e propri attori delle iniziative di attuazione di un consapevole governo del territorio/paesaggio: secondo i casi, questi coincidono con rappresentanti politici (non necessariamente appartenenti alle formazioni localmente al governo), con gruppi di professionisti, con comitati di cittadini, con docenti e studenti universitari, in una varietà di assortimenti che è difficile anche solo tipizzare. Allo stesso modo, quanto agli aspetti esecutivi, ci troviamo davanti a una panoplia di strumenti, predisposti dalle regioni o spontaneamente generati, che operano insieme, uno accanto all’altro, più o meno sinergicamente, all’attuazione delle direttive politiche (piani regionali) o alla promozione delle aspettative della cittadinanza. Non si riscontra un contrasto sistematico fra i due ambiti, per quanto possa essere complessa la convivenza: nel caso pugliese, per es., il Piano paesaggistico territoriale regionale approvato nel 2007 prevede la nascita di un osservatorio e la partecipazione della cittadinanza. La spinta al coinvolgimento dei cittadini è venuta quindi dall’alto.
Nel caso piemontese, il processo è sostanziato da un consistente coinvolgimento dal basso, attraverso una serie di iniziative, non tutte pianificate, che hanno teso a fare sistema e a convergere verso obiettivi comuni; la loro distribuzione nel territorio regionale è molto difforme, i promotori appartengono a diverse categorie senza escludere gli enti locali, l’attenzione è soprattutto rivolta a misure di salvaguardia, gli scopi dichiarati attengono principalmente all’aumento di conoscenze disponibili così da corrispondere a esigenze crescenti di qualità ambientale. In altri casi, per es. in Veneto, le iniziative di monitoraggio e di proposta coinvolgono la regione, alcuni enti locali (comuni, comunità montane), le università.
In tutti i casi, e anche al di là della procedura (dall’alto o dal basso), è chiaro che la frammentazione delle iniziative a livello di scala locale, se garantisce una più stretta rispondenza sia alle necessità conoscitive di base sia alla domanda della popolazione, e quindi anche una possibile maggiore efficacia, tuttavia comporta anche una limitatezza implicita nel raggio d’azione e quindi nell’impatto operativo, non escluso il limite – potenzialmente gravissimo – insito nella perimetrazione dell’area, del tratto di paesaggio di cui ci si occupa: là dove, chiaramente, il paesaggio è un continuum in cui la transizione da una situazione a una diversa è spesso quasi impercettibile. Ciò richiede una visione il più possibile ampia, estesa, onnicomprensiva – l’esatto contrario, dunque, della parcellizzazione delle letture e degli interventi.
Altri elementi che concorrono a distinguere i casi regionali (e subregionali) individuabili in Italia sono i metodi seguiti nella elaborazione degli elementi progettuali come nella raccolta dei dati conoscitivi e nel coinvolgimento degli abitanti; diversità che rinviano chiaramente alle differenze negli obiettivi specifici, soprattutto nel senso della priorità che viene assegnata ai singoli obiettivi, giacché nel loro insieme gli scopi sono sostanzialmente coincidenti. Ancora, i percorsi differiscono sensibilmente anche nel proporre mezzi e strumenti ritenuti in grado di approssimare le soluzioni perseguite. Si può osservare che tutto l’insieme dà luogo a un fermento sperimentale che, da un lato, è confortante e promettente, segnalando un’attenzione forte e in crescita, una considerevole capacità progettuale, fantasia e determinazione; come è ovvio, dall’altro lato, si può dire che la fase sperimentale avrebbe potuto essere più rapida, più organica, meglio governata. Infine, ma non in quanto elemento meno rilevante, sembra impossibile sciogliere una questione che pure è fondamentale: se anche si riesce a coinvolgere la cittadinanza o se la cittadinanza da sé fa emergere una domanda di coinvolgimento nella gestione del paesaggio, rimane da chiarire quale sia la misura della effettiva penetrazione del processo nella popolazione. In altri termini, questo insieme di iniziative lascia teoricamente spazio a tutte le istanze e a tutti i singoli cittadini, ma viene nella pratica «abitato» da una parte esigua, nettamente minoritaria, dei molteplici portatori di interessi, aprendo la strada alla formazione di piccole e meno piccole lobby che possono mirare a difendere interessi estremamente circoscritti, anche al prezzo di scaricare altrove le diseconomie e le disfunzionalità – è il caso ben noto della localizzazione degli impianti di smaltimento di rifiuti, ma ormai anche dei campi di pale eoliche, degli impianti fotovoltaici e così via. Anche da questo punto di vista, che non è certo di poco conto, si sconta l’assenza della mediazione che dovrebbe essere garantita da una istanza propriamente politica, a livello regionale per alcuni problemi e a livello statale per altri.
Se si sceglie di prendere in considerazione gli obiettivi e gli strumenti, appare chiaro che in alcuni casi si punta decisamente al coinvolgimento diretto della cittadinanza. Nella sua articolazione, la soluzione proposta dalla Regione Puglia appare piuttosto significativa. La regione ha previsto entro l’ambito del piano paesaggistico l’istituzione di un Osservatorio del paesaggio, così sottolineando che considera decisiva la posizione degli abitanti sulla valutazione e sulla gestione del paesaggio. Di qui la creazione di un sistema che dà luogo a un Atlante delle segnalazioni (www.paesaggio.regione.puglia.it/osservatorio, 16 apr. 2014), aperto alla collaborazione dei cittadini, che è parte integrante a tutti gli effetti del piano e che mira a interpretare l’apertura della Convenzione europea del paesaggio verso la percezione degli abitanti. L’istituzione di questo atlante ha lo scopo di raccogliere informazioni tramite le cognizioni dirette della popolazione. È stato osservato che lo strumento si presta nel concreto a una visione per così dire manichea: i cittadini trovano necessario segnalare il degrado di certi ambiti territoriali, oppure segnalare l’eccellenza di altri – in definitiva riproponendo proprio l’impostazione che la Convenzione europea vorrebbe superare, tra paesaggi eccellenti da tutelare e promuovere, e paesaggi depauperati da risanare o in cui effettuare interventi di repressione degli abusi; mancano invece le segnalazioni di paesaggi ordinari, semplicemente da ben gestire e mantenere in efficienza. La circostanza segnala, una volta di più, la necessità stringente della migliore diffusione di una consapevolezza paesaggistica. Accanto a questa osservazione, bisogna tuttavia ammettere che la possibilità di disporre di una serie di informazioni e di suggerimenti, in tendenza diffusi su tutto il territorio, e certamente utili nel rendere operative le prescrizioni di piano, è una possibilità preziosa e dotata di un pieno senso democratico.
Nel caso della rete piemontese, posto l’obiettivo primario di diffondere una più corretta e completa idea di paesaggio, grande peso è dato alla divulgazione e soprattutto alla partecipazione, tramite iniziative di varia natura destinate a enfatizzare qualità, identità, efficienza del paesaggio. È rilevante il fatto che in Piemonte la prima iniziativa (1994), autopromossa, di coinvolgimento attivo della cittadinanza risalga a prima della firma della Convenzione europea; in circa dieci anni il processo ha investito varie parti della regione, finché nel 2006 le iniziative in essere hanno dato vita a un coordinamento regionale. Tra le azioni messe in atto, l’elaborazione di atlanti del paesaggio, e la collaborazione alla predisposizione della candidatura a sito UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) di Langhe, Roero e Monferrato in quanto paesaggi vitivinicoli di eccellenza.
Anche in Veneto si registra un approccio simile a quello piemontese, qualificato da una struttura territoriale diffusa e da strumenti (come questionari distribuiti a tappeto, proposte didattiche nelle scuole, discussioni pubbliche) mirati a un più esteso coinvolgimento degli abitanti. Nel 2010 le iniziative spontanee sono state affiancate dalla decisione della regione di istituire un Osservatorio regionale per il paesaggio, effettivamente costituito nel 2012 con la collaborazione di istituzioni universitarie. In parallelo, è stato previsto l’avvio di cinque osservatori locali a carattere sperimentale, peraltro riprendendo iniziative in parte già attivate, sorte al di fuori della normativa regionale e anch’esse a carattere di prototipo (Osservatorio del Delta del Po, 2008-2011). Tra i cinque osservatori locali sperimentali, quello del paesaggio del Canale di Brenta, istituito nel 2010, è uscito dalla fase sperimentale ed è stato riconosciuto dalla regione, dati i positivi risultati e l’organizzazione ampiamente partecipata delle attività. Allo stesso modo, è stato riconosciuto anche l’Osservatorio per il paesaggio delle colline dell’Alta Marca, nel Trevigiano, avviato nel 2011. Entrambe le iniziative vedono la partecipazione organica di enti locali, regione e università e sono aperte sistematicamente al dialogo con la cittadinanza.
È facile notare, già da questi pochi esempi, come la scelta di intraprendere percorsi di partecipazione e condivisione sia del tutto recente. Dappertutto, in Italia, e salvo qualche eccezione, l’avvio di questo processo data da pochissimi anni, ben dopo la ratifica della Convenzione europea nonché – difficile stabilire quanto sia solo un caso – dopo l’esplosione della bolla immobiliare e la perdita di fiducia nell’edilizia come settore di investimento.
Anche nelle altre regioni italiane, più o meno avanzate che siano riguardo all’attuazione dello spirito della Convenzione europea, la diluizione nel tempo degli interventi normativi è analoga, se non più accentuata. Ancora una volta, si procederà per esempi.
Qui un Piano territoriale paesistico regionale, avviato nel 1989, è stato approvato nel 1993 e dopo dieci anni se ne è iniziato un continuo aggiornamento. Nel 2010 è stato poi incorporato in un più esteso Piano territoriale regionale, del quale costituisce una sezione tematica e di riferimento per quanto riguarda regole e obiettivi per la conservazione dei paesaggi regionali. Il Piano paesistico prevede la suddivisione del territorio in 23 «unità di paesaggio», definite secondo svariati elementi (geologici, geomorfologici, altimetrici, climatici, vegetazionali, antropici); l’applicazione delle prescrizioni del Piano è demandata a province e comuni, che peraltro possono richiedere modifiche al Piano: in particolare, i piani territoriali di coordinamento provinciale hanno finito per sostituire interamente, nell’attuazione, il piano regionale. È prevista la partecipazione della cittadinanza attraverso consultazioni pubbliche e procedure di valutazione della sostenibilità degli interventi.
Un primo gruppo di 27 piani territoriali paesistici è stato adottato nel 1998, altri due se ne sono aggiunti nel 2000. Nello stesso anno, è stato approvato il Piano territoriale regionale generale, che non ha ancora avuto applicazione, benché le sue prescrizioni siano sovraordinate a quelle dei piani di settore (come il piano relativo al paesaggio) e ai piani di livello comunale. Un trentesimo Piano territoriale paesistico risale al 2010 ed è il solo basato sul Codice Urbani. L’approvazione dei piani di più vecchia data ha richiesto anni e si è conclusa nel 2006. Inoltre, nel 2007 è stato approvato il Piano territoriale paesistico regionale, sulla base delle prescrizioni del Codice Urbani, concepito come strumento di pianificazione settoriale, nonché di integrazione e di anticipazione del Piano territoriale regionale generale non attuato; anch’esso è tuttora in fase di precisazione. Nell’insieme, il territorio regionale è stato suddiviso in sette sistemi strutturali (su base morfologica), ulteriormente suddivisi in 19 «unità geografiche» (su base naturalistica e storica), per le quali sono previsti 30 piani locali. Non sono previste forme di partecipazione diretta della cittadinanza, ma solo degli enti locali subordinati.
La regione non ha un piano paesistico d’insieme, ma sei piani paesistici (emanati tra 1990 e 1992) relativi ad altrettante aree ritenute di particolare pregio paesaggistico; a questi piani locali si è finora adeguato solo circa un decimo dei comuni interessati. Dal 2000 la Provincia di Potenza sta elaborando un piano provinciale delle valenze paesaggistiche, destinato a ricomprendere alcuni dei piani paesistici degli anni Novanta. Dal 2008 la regione ha avviato la redazione di un Piano paesistico regionale. Le sole forme di concertazione previste sono quelle con i comuni.
Anche come esempio di situazione nelle regioni a statuto speciale, valga infine il caso della Sardegna. La regione ha approvato nel 2006 il Piano paesaggistico regionale, poi aggiornato, che ha sostituito 14 piani territoriali paesaggistici in vigore dal 1993, e che si applica, per ora, ai soli territori dei comuni che ricadono nei 27 ‘ambiti di paesaggio costieri’. Le sue prescrizioni sono tuttavia riferimento per i piani urbanistici provinciali e comunali; la regione ha quindi avviato un’opera di aggiornamento degli strumenti di piano di livello comunale, improntata alle linee del Piano paesaggistico regionale, anche attraverso numerose ‘conferenze di co-pianificazione’ rivolte alle amministrazioni dei comuni e aperte alla cittadinanza.
Da questa rapida e molto parziale panoramica emergono, con sufficiente chiarezza, almeno alcuni dei problemi che toccano la gestione, anche a livello regionale, del paesaggio italiano. Problemi che in parte ricordano quelli, già accennati, che affliggono la politica del paesaggio a livello statale: contraddizioni nella produzione delle regole, sovrapposizione di competenze, tendenza a non svolgere la mediazione tra interessi diversi, superproduzione di istituti e strumenti, lentezza nella definizione delle proposte normative e soprattutto nell’esecuzione degli atti amministrativi, sostanziale scollamento dalle istanze della popolazione. Sull’altro versante, quello appunto della popolazione che vive il territorio/paesaggio e sconta quei problemi, ovunque viene segnalata e sembra quindi difficile negare una scarsa comprensione delle questioni generali, quindi la parcellizzazione della lettura dei fenomeni, quindi la prevalenza degli interessi particolari, e in generale una troppo modesta consapevolezza delle implicazioni di una corretta concezione del paesaggio e di una sua adeguata gestione.
Non è un quadro rassicurante, senza dubbio. Non mancano tuttavia i segnali di un principio di inversione di tendenza, se sono evidenti l’aumento e la circolazione di buone informazioni, se alcune amministrazioni, centrali e periferiche, hanno intrapreso percorsi promettenti, se si sta diffondendo l’idea che la formazione degli operatori come della popolazione è la strada maestra da seguire, se la concezione del paesaggio come bene comune, depositario di una straordinaria utilità sociale, si va finalmente facendo largo in tutti i settori della società italiana.
Aldo Sestini, nel delimitare e denominare i suoi 95 paesaggi italiani, aveva fatto riferimento – nel suo testo già citato – quasi esclusivamente a elementi morfologici e geologici o, se vogliamo semplificare, geografico-fisici: le montagne e le pianure, soprattutto, nelle loro varie forme e costituzioni. Ma aveva considerato – come si è già detto – con attenzione anche le vicende d’insieme del popolamento, attraverso l’evoluzione geostorica (le pianure tirreniche bonificate), in qualche caso la specializzazione economica (il paesaggio delle risaie, le colture intensive campane), e in un caso anche l’impronta urbana, già allora ineludibile (il paesaggio urbanizzato del Milanese).
Il presupposto su cui si basa una tipologia di questo genere è (e potrebbe essere ovviamente accolto ancora, sia pure con qualche cautela) che ogni diverso ‘supporto’ fisico può sostenere certe specifiche evoluzioni paesaggistiche, ma non tutte le evoluzioni teoricamente possibili: un conto è il paesaggio (antropizzato) che si può formare in pianura, un altro conto quello che può realizzarsi sui rilievi, e intensità e modi della presenza umana non possono applicarsi indifferentemente a condizioni ambientali diverse. All’interno di ciascun tipo e sottotipo elencato, lo stesso Sestini non poteva certo fare a meno di individuare una pluralità di realtà ‘affini’, ma non identiche; né poteva fare a meno di sottolineare che la varietà di morfologia, clima, vegetazione non corrispondeva alla varietà delle forme assunte dall’antropizzazione e viceversa. Del resto, tenere conto di tutti questi caratteri, variabili anche a breve distanza, e delle innumerevoli e difformi loro combinazioni non sarebbe stato (e non è) possibile. Tanto più in una regione come quella italiana che, si è già ricordato, si presenta come un caleidoscopio paesaggistico già solo considerando le forme della geografia fisica – e tanto più lo sarebbe se si prendesse a considerare anche le forme della territorializzazione prodotta dagli umani – al punto di costituire forse un unicum (Sestini ne era convinto, e non solo lui) a livello planetario.
Si tratta, dunque, di un’impostazione molto sensata ed equilibrata, che aveva il vantaggio di sforzarsi di oggettivare quanto possibile la tipologia messa a punto, allontanandola da interpretazioni e sottolineature inevitabilmente relative e individuali; al tempo stesso, e sia pure al prezzo di moltiplicare i tipi di paesaggio, aveva anche il vantaggio di arrivare a coprire l’intero territorio nazionale in maniera metodologicamente coerente, derogando dal principio di base solo in pochissimi casi effettivamente eccezionali.
Questo sforzo è già stato compiuto con pieno successo e rimane come riferimento prezioso e utilissimo; ma non è il caso di tentare di ripeterlo o di aggiornarlo. Sembra più utile, anche in questo caso, limitarsi a fare qualche considerazione, proporre qualche esempio tra quelli che possono mostrare i rischi e le potenzialità del mutamento in atto: facendo riferimento soltanto a pochissimi aspetti basilari, quelli che più estesamente caratterizzano il paesaggio italiano, considerandoli piuttosto secondo i modi della territorializzazione che secondo le forme del supporto fisico; e prendendo in considerazione piuttosto l’evoluzione recente che la stratificazione di lungo periodo degli assetti. Senza nessuna pretesa di completezza, come sarà chiaro.
Si è già anticipato che nel caso dell’Italia risulta difficile, se non proprio impossibile, individuare aree che rappresentino paesaggi effettivamente naturali. L’umanizzazione dello spazio geografico, il processo di territorializzazione ha riguardato in buona sostanza, in una fase storica o in un’altra, praticamente tutta la regione italiana. Un discorso analogo può ovviamente essere fatto anche a proposito del resto dell’Europa occidentale e meridionale.
Vero è che nella percezione comune, molto spesso, aree coperte da boschi o da praterie montane vengono immediatamente associate al concetto, appunto, di naturalità (Riflessi italiani, 2004). Non indebitamente, da un certo punto di vista, se si fa conto della prevalenza quasi totale delle dinamiche biologiche spontanee che regolano, per gran parte, queste aree. Ma quasi sempre si tratta di spazi artificializzati: è il caso delle aree rimboschite, dei pascoli d’altura, di buona parte delle conche intermontane, di un notevole numero di bacini lacustri e via dicendo.
I boschi rivestono oltre un terzo del territorio italiano e risultano in costante aumento. Per la quasi totalità (95%) sono distribuiti in aree altocollinari e montane. Per oltre la metà si tratta di boschi cedui e in grandissima parte derivano da azioni di riforestazione.
I rimboschimenti, che almeno dal Medioevo in avanti in Italia non sono mancati, hanno conosciuto una sistematica intensificazione tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, principalmente a scopo di consolidamento dei versanti, per ridurre il rischio di frane e smottamenti e per meglio regolare il deflusso dell’acqua, ma anche per restituire produttività (sotto forma di legname da opera o da ardere) ad aree che si erano eccessivamente depauperate. Si è così dato luogo a formazioni boschive anche molto estese, destinate a rivestire le aree denudate in precedenza. Quasi sempre, però, e sempre nei rimboschimenti più datati, le essenze arboree impiegate erano differenti da quelle presenti in precedenza: il problema che si poneva era ottenere al più presto il risultato perseguito e la soluzione passava per l’adozione di piante ad accrescimento rapido, come le conifere e il castagno o, specie nelle aree di bonifica idraulica, l’eucaliptus (così in Sardegna e in Calabria).
Abbiamo illustri esempi di queste formazioni da riforestazione, più o meno incluse fra le aree a tutela naturalistica (parchi, riserve): sono di origine antropica le pinete litoranee in più parti d’Italia (Jesolo, Ravenna, San Rossore, Castiglione della Pescaia, Roma, Cilento, Metapontino, Gallipoli, Is Arenas e molte altre); una sezione consistente del Parco nazionale d’Abruzzo è ricoperta da conifere non autoctone, che si sono ottimamente adattate, ma che hanno sostituito le faggete e i boschi misti più antichi; una gran parte dei castagneti delle aree collinari e di bassa montagna dell’Appennino centrale e dei rilievi antiappenninici del versante tirrenico (compresi i vulcani laziali) hanno un’origine anche relativamente recente e sono spesso tuttora soggetti al taglio periodico, essendo stati piantati e coltivati esattamente a questo scopo. Una parte degli interventi di riforestazione, infatti, ha come origine un’intenzione produttiva (silvicoltura), che rimane difficile considerare ‘naturale’. Che oggi queste superfici siano state più o meno abbandonate dal punto di vista produttivo, che ricadano molto spesso in aree di salvaguardia, e che si comportino ormai secondo dinamiche proprie e spontanee, è certamente in gran parte vero – e se si considera la questione da questo punto di vista si potrà parlare di paesaggi naturali. Ma non si può sottacere la circostanza che tanto le pinete litoranee quanto i castagneti cedui, per rimanere a questi esempi, proprio per la loro origine antropica richiedono una cura specifica (diradamento, pulizia e altro) che una formazione naturale a rigore non richiederebbe.
Analogo ragionamento può essere fatto per le praterie e le brughiere montane, come per la garriga in Sardegna o per le non vaste aree a macchia degradata lungo i litorali centromeridionali, che risultano quasi sempre da un duplice intervento umano: diboscamento prima e gestione a fini pascolivi. L’assenza di boschi nelle aree sommitali di buona parte dell’Appennino e anche su molti dei versanti dei rilievi alpini e prealpini pare sia infatti da ricondurre quasi sempre a interventi umani, intenzionalmente mirati non tanto a ricavare legname, quanto a liberare terreni da adibire a pascolo. Le aree diboscate venivano poi attentamente curate dai pastori, per evitare la diffusione di piante infestanti, per es., o nocive per il bestiame, fino a ottenere delle associazioni equilibrate e produttive. L’abbandono di gran parte dei pascoli in quota ha portato, nel corso della seconda metà del secolo scorso, a forme di ricolonizzazione spontanea, a opera proprio di specie erbacee e arbustive infestanti, oppure alla ripresa del bosco, in formazioni secondarie e degradate rispetto alle associazioni autoctone originarie.
Insomma, senza bisogno di aggiungere esempi agli esempi, sarà chiaro che i paesaggi naturali italiani sono in effetti solo seminaturali, dato che considerazioni analoghe possono essere fatte per molte altre situazioni: aree montane bonificate, corsi d’acqua regimentati in antico, bacini lacustri artificiali o artificializzati (che spesso ormai hanno assunto un aspetto quasi naturale: per es. il lago di Campotosto, i laghi silani, il lago Omodeo) e così via. Possono fare parziale eccezione le parti più elevate delle Alpi, quando non siano state raggiunte da insediamenti o infrastrutture di fruizione turistica, e pochi lembi relitti sparsi un po’ lungo tutta la penisola, testimonianza di assetti per il resto trasformati integralmente. Nella maggior parte dei casi, questi lembi relitti oggi sono tutelati in una qualche forma. Poco meno del 20% del territorio italiano è incluso in parchi o riserve di vario genere: una quantità che può giustamente essere considerata molto notevole. Ma se si considera che la metà di questa superficie è distribuita in un pulviscolo di aree di tutela di estensione inferiore ai 250 ettari, si avrà una misura più realistica dell’effettivo peso territoriale dei paesaggi ‘naturali’ italiani.
Molto più estesa della superficie coperta da formazioni ‘naturali’ è quella destinata a usi agricoli: poco meno della metà del totale del territorio italiano. Bisogna dire che le valutazioni in materia sono piuttosto complesse e discutibili, perché buona parte della superficie destinata o destinabile a usi agricoli non viene più di fatto coltivata, così come buona parte della superficie appartenente ad aziende agricole tuttora attive – motivo principale della difformità di valutazioni. È però chiaro che, proprio dal punto di vista paesaggistico, la presenza di un’estensione così vasta di terre coltivate o coltivabili marca in maniera sostanziale la percezione di chi considera il paesaggio. Tanto più che una serie di fattori recenti ha certamente ristretto progressivamente l’importanza economica e sociale dell’agricoltura in quanto attività economica, riducendo il numero di aziende e di addetti, mentre la riduzione di superficie, per quanto grave sia (il cosiddetto consumo di suolo si svolge essenzialmente ai danni dei terreni agricoli) ha nell’insieme un impatto relativamente circoscritto. È però a tutti evidente che l’espansione continua dei centri urbani e quei processi che potrebbero essere definiti di urbanizzazione delle campagne; il prolungato drenaggio di popolazione dalle aree montane a quelle di pianura, con il conseguente abbandono dei fondi rustici; l’enfasi che le politiche economiche da decenni concedono all’industria e al terziario a scapito dell’agricoltura; lo sviluppo dei sistemi infrastrutturali soprattutto a spese dei terreni agricoli di pianura: sono tutti fenomeni che hanno contribuito anche alla contrazione dello spazio agricolo propriamente detto. Fenomeni, oltre tutto, sviluppatisi specialmente a partire dalla seconda metà del Novecento, in controtendenza rispetto all’andamento del secolo immediatamente precedente, che era stato caratterizzato, al contrario, da un continuo ampliamento dei coltivi, a spese delle fasce montane meno elevate e, soprattutto, delle aree umide costiere e interne sottoposte sistematicamente a bonifica (Paesaggi agrari, 2011).
Sarebbe comunque forse più opportuno, almeno in alcuni casi, parlare di paesaggi rurali piuttosto che agricoli o agrari, proprio per accogliere nell’espressione anche quegli spazi abbandonati, ma non ancora ‘rinaturalizzati’ (per es. per estensione dei boschi), che insieme con i terreni ancora attivi dal punto di vista produttivo segnano il paesaggio delle campagne italiane.
La più recente evoluzione, a ogni modo, ha portato a modificare profondamente i paesaggi agrari italiani (come in tutto il mondo accade) ed è molto difficile rintracciare esempi consistenti di tutte quelle forme di paesaggio che Emilio Sereni, ancora nei primi anni Sessanta del Novecento, poteva studiare e documentare. Si è già fatto cenno al fatto che anche l’agricoltura ha subito gli effetti della finanziarizzazione dell’economia, e più in generale dei processi di modernizzazione dei mercati, della distribuzione, nonché delle stesse tecniche colturali.
Certi tipi di paesaggi agrari classici sono ormai praticamente scomparsi. Alcuni non trovano nemmeno più posto nelle statistiche specializzate, altri hanno sostanzialmente modificato il loro valore economico (e il loro impatto paesaggistico). Il seminativo arborato, per es., che un tempo era caratteristico di certe aree – nella piana padana (la celebre ‘piantata emiliana’), sulle colline e nelle valli toscane e umbre, nella pianura campana – segnalando l’intensità dello sfruttamento agricolo, e che era quindi anche chiaro indice di ‘ricchezza’ produttiva, oggi è ridotto in piccole aziende a conduzione tradizionale, di modestissimo peso economico, salvo che in alcune aree meridionali (entroterra napoletano, Terra di Bari). Il seminativo nudo, che al contrario indicava l’impossibilità di intensificare lo sfruttamento agricolo – per povertà dei suoli, per carenza di acqua – e quindi era di per sé sintomo di povertà e arretratezza, oggi è dominante su vastissime superfici rese assai più produttive: nella lavorazione del suolo, nell’irrigazione, nell’impiego della chimica (fertilizzanti, fitosanitari) sono stati trovati i modi per intensificare la produzione anche su terreni relativamente poveri; mentre la meccanizzazione ha imposto la costituzione di aziende di estensione maggiore e regolare, a scapito delle aziende contadine, poco estese e spesso frammentate. Al patchwork dei piccoli appezzamenti condotti secondo una logica che molto guardava all’autoconsumo (e che quindi moltiplicava i prodotti coltivati), si è sostituita una sequela di ben più grandi appezzamenti specializzati, non solamente nelle colture erbacee (dai cereali alla soia), ma anche in quelle legnose – si pensi ai pometi del Trentino, ai noccioleti delle Langhe e del Viterbese, ai vigneti di tante parti d’Italia: dal Veronese all’Orvietano, al Trapanese.
La cerealicoltura estensiva permane, a caratterizzare aree piuttosto estese nel Senese, nel Foggiano, nell’Agrigentino interno e altrove, ma viene sempre più ampiamente intaccata dalla diffusione di colture orticole che sono ormai impiantate in pieno campo, e quindi trattate come seminativi a tutti gli effetti (carciofo, lattuga, aglio) oppure difese con protezioni di nuova concezione (pomodoro, peperone, melanzana eccetera) (Atlante tematico dell’agricoltura italiana, 2000).
Dal punto di vista paesaggistico, la diffusione dei ‘tunnel’ in materiale plastico riflettente utilizzati per proteggere ortaggi, e l’impiego delle reti antigrandine o a funzione ombreggiante, spesso nere, utilizzate per le colture legnose, hanno un impatto non minore delle centrali fotovoltaiche o delle pale eoliche che spuntano fra i campi coltivati, specie nelle regioni meridionali, insieme con il vasto ricorso a serre e grandi tunnel in film plastico o agli impianti di irrigazione a goccia. Peraltro, la diffusione di quegli accorgimenti indica anche una disponibilità all’investimento che non è certo nelle capacità del piccolo agricoltore: si tratta, insomma, sempre più di aziende di tipo capitalistico o di cooperative.
Nell’insieme, tuttavia, per quanto modificati, ridotti in estensione e impoveriti in varietà, i paesaggi rurali italiani continuano a caratterizzare profondamente il Paese. Per una popolazione che per due terzi vive in aree urbane (e per metà in aree metropolitane), la confidenza con i paesaggi rurali è probabilmente scarsa e la possibilità di contatto limitata. Occorre ormai allontanarsi alquanto dai centri abitati di taglia urbana, per immergersi in paesaggi propriamente e tipicamente rurali. Ma il patrimonio paesistico sorretto dall’agricoltura è ancora tutt’altro che trascurabile.
Anche solo limitandoci ai paesaggi più tipici e più estesi, un possibile catalogo sintetico contempla forme colturali e sistemi di conduzione ben differenti.
Si va dalle aree risicole del Vercellese, del Novarese, del Rovigotto, a quelle frutticole del Trentino, del Vicentino, della Bassa modenese, della Romagna, del Molise, della Puglia, della piana bonificata di Metaponto, dei litorali calabri, della Sicilia. La viticoltura segna il paesaggio di gran parte d’Italia e certo non è sufficiente citare le colline viticole delle Langhe e del Roero, del Veneto, del Friuli orientale, del Modenese, del Chianti, dell’Anconetano, i vigneti di fondovalle del Trentino, i vigneti specializzati delle colline vulcaniche laziali, ma oggi anche delle pianure bonificate tirreniche, dei colli sublitoranei in Abruzzo, del Vulture, dei tavolati pugliesi, della valle del Belice, della Sardegna nordoccidentale, i vigneti terrazzati della Valle d’Aosta o delle Cinque Terre. Trasformate in sistemi sempre più intensivi e moderni, sono le colture di fiori e di piante ornamentali in Liguria (Piana di Albenga, Riviera di ponente, Valle del Magra), nel Pistoiese, nelle piane litoranee laziali bonificate, nel Napoletano. Propensione al mercato mostra anche l’orticoltura delle doline del Carso friulano, della pianura romagnola, della Maremma grossetana, dell’agro di Fondi e Terracina, del Fucino e delle basse valli abruzzesi, della Puglia, del Metapontino, accanto alla persistenza di nicchie di produzione destinata al consumo locale. La cerealicoltura specializzata si sviluppa lungo il corso del Po, dal Piemonte alla Bassa lombarda e a quella piacentina in associazione con l’allevamento bovino, alla media e bassa pianura veneta, ma anche (in forme più tradizionali) in Molise e Capitanata, nella Basilicata e nella Sicilia interne. Le colture industriali, più rapidamente sostituite di ciclo in ciclo, segnano la pianura emiliana, la bassa valle dell’Arno e la Maremma toscana, la Pianura Pontina, il Fucino, la Campania, le piane pugliesi. Una vera policoltura, sia pure rinnovata, si riscontra nelle Prealpi lombarde e nell’alta pianura lombarda a monte delle risorgive, nella collina marchigiana, nella Ciociaria, nella Campania interna, nelle piane litoranee calabre, nel Catanese. I paesaggi dell’olivo hanno una diffusione massiccia nella Riviera di Ponente, nella Toscana collinare, nella valle umbra, nel Viterbese, nella Sabina, nel Teramano e nel Chietino, nell’intera Puglia, nella Sicilia collinare. Le attività non propriamente agricole hanno un impatto paesaggistico forse meno evidente, ma non irrilevante: è marcata l’impronta dell’allevamento bovino semiestensivo dei masi dell’Alto Adige, cui fanno riscontro i segni dell’allevamento suino intensivo del Modenese e del Reggiano, di quello avicolo di Romagna, di quello ovicaprino in Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Sardegna; l’importanza dell’allevamento, sia bovino sia ovino, è sottolineata dalla presenza di vasti pascoli montani in Piemonte, nella Carnia, in Abruzzo, in Molise, e di quelli collinari nelle Murge e in Sicilia. Infine, ricordando quanto si diceva a proposito della ‘naturalità’ dei boschi cedui, non si può trascurare di citare i vasti patrimoni silvicoli del Bellunese, del Tarvisiano, della Val Canale, della Sila, della Gallura.
Come si può facilmente intendere, in questo elenco le lacune sono più numerose delle presenze; ma lo scopo che si voleva raggiungere era solo risvegliare suggestioni e concatenazioni di ricordi a proposito delle molte possibili associazioni tra economia rurale e paesaggio.
Una lacuna certo rilevante sotto il profilo concettuale, ma cui finora non può corrispondere nessuna ben individuabile forma di paesaggio, è la penetrazione di ulteriori modelli di produzione e di uso dello spazio rurale. Per es., la progressiva diffusione delle colture cosiddette biologiche (che continuano e probabilmente continueranno a occupare spazi molto ristretti e marginali, malgrado una incidenza crescente), le cui forme di esercizio assomigliano molto più alle tecniche colturali e ai tipi di conduzione tradizionali che a quelli moderni – per cui è dato immaginare, a lungo termine, una ripresa o almeno una tenuta dei paesaggi agrari tradizionali (Atlante tematico dell’agricoltura italiana, 2000). E la diffusione, molto ampia in certe regioni italiane, dell’ospitalità rurale (agriturismo e altre attività simili) che ha come effetto, non solo una crescente frequentazione di ambiti rurali da parte di outsiders veri e propri (spesso provenienti da Paesi esteri), ma anche il recupero di edifici rurali: un recupero che spesso dà luogo a trasformazioni piuttosto che a ripristini filologicamente esatti, e che dunque tradisce in vario modo la permanenza dei modelli edilizi tipici dei vari paesaggi rurali, ma che, in compenso, è servito ad arrestare in molte parti d’Italia il degrado che pareva irreversibile del patrimonio edilizio rurale, quasi mai tutelato appropriatamente. Alcune regioni, in particolare alcune dell’arco alpino e alcune dell’Italia centrale, hanno conosciuto una diffusione notevole di questo fenomeno e hanno provveduto a normare i nuovi insediamenti e le azioni di recupero.
Accanto alla produzione e al lavoro, comunque, non si può trascurare il fatto che la campagna ospita quelle forme di insediamento, accentrato e sparso, che a loro volta sono elementi essenziali nel caratterizzare un paesaggio, nel fornire informazioni sulla storia di una regione, nel documentare le modalità più antiche e tradizionali dell’abitare – quelle che, se pure sono mai state attestate anche in ambito urbano, ne sono state il più delle volte del tutto rimosse, sostituite via via secondo il succedersi degli stili e l’evolvere delle esigenze abitative della popolazione.
Vale, per il patrimonio immobiliare rurale, almeno parte di quanto si è accennato a proposito delle cause della progressiva riduzione delle forme di paesaggio e delle colture tipiche: la modernizzazione, lo spopolamento delle campagne, l’accresciuta mobilità individuale hanno spesso privato di senso e di utilità le residenze rurali, con il risultato di un abbandono quasi generalizzato e molto concentrato nel tempo dell’edilizia cosiddetta minore, cioè quella più rappresentata in ambito rurale.
I centri abitati prossimi ad aree economicamente dinamiche hanno cambiato aspetto e funzioni, praticamente trasformandosi in sobborghi o comunque diluendo molto le differenze soprattutto sociali un tempo così evidenti tra città e campagna; i centri più marginali hanno perso abitanti. Cionondimeno, tanto i centri quanto gli edifici sparsi continuano a svolgere un loro ruolo paesaggistico: un ruolo molto variabile da caso a caso, perché la loro evoluzione è stata spontanea, adattando le soluzioni edilizie o urbanistiche a una serie a sua volta molto variabile di circostanze.
È ben nota la differenza fondamentale tra aree rurali in cui per tempo si è diffusa la conduzione diretta (piccola proprietà, mezzadria, enfiteusi ecc.), che hanno conosciuto una considerevole presenza di case rurali sparse, edificate sui terreni di pertinenza, e centri di servizio – borghi, piccole città – relativamente fitti e poco popolosi; e le aree in cui è prevalso il latifondo, e quindi il bracciantato, dove quasi sono assenti gli edifici rurali isolati (o si tratta delle fattorie padronali), mentre i centri di residenza sono distanti gli uni dagli altri e piuttosto popolosi pur non presentando caratteri propriamente urbani. In linea generalissima, il primo assetto prevale al Centro-Nord, dove però sono diffuse anche cascine e case a corte, capaci di ospitare parecchie famiglie insieme; il secondo modello è largamente rappresentato al Sud e in Sicilia, dove però in casi come l’area vesuviana o quella etnea, la fertilità dei suoli consentiva un’agricoltura intensiva e quindi un maggiore addensamento di popolazione in una serie ravvicinata di centri e di case sparse. L’edilizia tipica è straordinariamente differenziata, per forme, materiali, tipi di copertura, quantità di aperture, organizzazione interna degli spazi, orientamento e via dicendo. Tentare una vera tipizzazione onnicomprensiva, e collegata con i tipi di paesaggio in cui le varie forme di casa rurale si sono evolute, è stata un’impresa che ha impegnato alcune generazioni di studiosi senza poter arrivare a una conclusione certa e definitiva: in realtà, qui come in tutte le manifestazioni territoriali – in cui dunque entra la capacità di scelta degli individui e delle società – mirare a interpretazioni più o meno deterministiche si rivela sostanzialmente vano.
Anche per gli insediamenti accentrati, che offrono anch’essi una variabilità molto degna di nota e – considerandoli sotto il profilo paesaggistico – una evidenza ben maggiore degli edifici isolati, le interpretazioni e le classificazioni si inseguono senza che sembri possibile pervenire a una connessione univoca tra forme dei paesaggi e forme e strutture degli abitati. È del tutto evidente che, per gran parte dell’Italia (certo tutta l’area peninsulare e insulare, ma anche parte delle regioni settentrionali), l’età dell’insediamento ha avuto un ruolo maggiore del tipo di posizione geografica o di paesaggio. Molto banalmente, gli abitati risalenti all’età romana furono per lo più fondati in pianura o in valle – poi vennero quasi sempre abbandonati e solo a distanza di secoli ripopolati. Gli abitati di origine medievale al contrario hanno selezionato siti d’altura, però secondo modalità molto diversificate. In età moderna e soprattutto contemporanea, dalle alture gli insediamenti hanno teso a scendere a valle, mediante gemmazioni o vere e proprie traslazioni, e spesso lasciando sulle alture paesi semiabbandonati. Le nuove fondazioni dal Settecento in avanti sono tutte in siti facilmente accessibili e prossimi alle aree coltivabili e alle vie di comunicazione o vicini al mare. Difficile e poco utile spingersi oltre. Ma, anche sulla base di uno schema così rozzo e semplificato, la posizione e le forme degli insediamenti accentrati possono dirci molto sulle caratteristiche di un’area e segnano in maniera nitida i rapporti tra gruppi umani e l’accesso alle risorse, ai collegamenti, alle relazioni politiche.
Questa varietà di situazioni e di soluzioni insediative – splendido oggetto di analisi, confronto e riflessione – è distribuita in maniera così radicata e così estesa sull’insieme della regione italiana, da potersi quasi considerare al riparo da rischi di totale scomparsa. Ma sopravvivere non è abbastanza. E poi, proprio data la singolarità di ciascuna soluzione, e la difficoltà di organizzare una tipologia completa e soddisfacente, la perdita di anche uno di questi testimoni è una perdita per definizione irrimediabile.
Quello che sta accadendo troppo spesso, invece, è che molti degli edifici rurali meno pregiati e più isolati scompaiono, perché abbandonati o perché fagocitati in costruzioni nuove o perché sfigurati definitivamente da interventi irriguardosi e improvvidi. Mentre i centri più consistenti, se sopravvivono, rimangono ostaggio di cinture periferiche mal concepite e soffocanti e dell’ansia modernizzante – che pure ha le sue buone ragioni, dal punto di vista degli abitanti, ma che andrebbe governata e meglio diretta. Così può accadere che un notevole borgo d’altura, dalla storia importante, a dominio di una vasta area rurale, possa essere di colpo sfregiato dalla costruzione, nel punto più alto, di un vistoso ospedale di sei piani mai entrato in funzione (Bucchianico, provincia di Chieti); o che un centro fortificato di montagna, in gran parte racchiuso entro la cerchia di una rocca ben restaurata, proponga alle finestre infissi in alluminio anodizzato (Vastogirardi, Isernia). Viene da pensare che sorte migliore, in fondo – almeno dal punto di vista della coerenza paesaggistica – sia toccata ai tanti piccoli centri spopolati, come la famosa Civita di Bagnoregio (Viterbo) o la quasi altrettanto nota Craco (Matera), perché forse potranno conoscere la sorte che è toccata ad altri centri abbandonati e poi recuperati più o meno appropriatamente: come è stato il caso di Casertavecchia (Caserta), di Monteriggioni (Siena), di Santo Stefano di Sessanio (L’Aquila) e di molti altri piccoli centri tradizionali.
Dalle Alpi alla Sicilia, il catalogo degli sprechi e degli scempi perpetrati ai danni degli insediamenti tradizionali è lungo e sconfortante. Solo da pochissimi anni, per es., si sta cominciando a riflettere sull’utilità (economica, paesaggistica, sociale) di recuperare in maniera opportuna l’esistente, invece di ignorare la questione realizzando nuove costruzioni e abbandonando le vecchie al loro destino. Là dove le condizioni lo hanno consentito (per es. in quasi tutta l’Umbria, perfino dopo gli eventi sismici), i risultati di questa prassi appaiono quasi sempre incoraggianti.
D’altro canto, ancora una volta, si tratta di un processo dialettico, in cui entrano in contrasto interessi e tendenze che non si arriva ad armonizzare: da un lato, non c’è solo l’abbandono a mettere a rischio gli insediamenti tradizionali, vale a dire la componente storica più evidente nel sistema paesaggistico; dall’altro lato, altri processi spontanei potrebbero invece garantirne impieghi per così dire sostenibili.
Quella specie di riflusso che dalle città ha riportato verso le campagne una parte della popolazione italiana, per es., sta contrastando l’abbandono dell’edilizia rurale. Si tratta di un flusso numericamente non irrilevante, che per origini e attività è caratterizzato in maniera del tutto differente rispetto alla popolazione che qualche decennio fa aveva invece abbandonato le campagne per le città: non si tratta certo di contadini, quanto piuttosto di appartenenti alla classe media, con livelli di istruzione elevati, e quasi sempre con attività economiche legate all’ambiente urbano. Si è insomma verificata, in molte parti d’Italia, una sorta di gentrification delle campagne – anche questa sostenuta da quote importanti di stranieri agiati. Accanto al recupero di immobili per fini di ospitalità, si è così innescato un altro e più consistente processo di recupero-trasformazione, a fini propriamente abitativi. Benché non si tratti di contadini, inoltre, i nuovi abitanti non di rado avviano anche attività agricole, magari part-time, per semplice diletto, contribuendo comunque se non altro alla manutenzione dei paesaggi rurali.
Accanto a questi fenomeni, a incidere sull’evoluzione recente dei paesaggi rurali è intervenuta la massiccia dispersione insediativa cui si è già fatto cenno, promossa da trasferimenti di residenza dalla città alla campagna e dalla diffusione di seconde case. Se chi proviene dalla città, per le più varie ragioni, non si reinsedia in un edificio rurale preesistente, alimenta la domanda di nuove residenze in area rurale: è una componente dello sprawl, che ormai non contrassegna più solo le vicinanze dei centri urbani grandi e piccoli, come già avveniva, in qualche misura, dalla metà del Novecento. La dispersione insediativa ha allargato il suo raggio e ha raggiunto aree che con la città non avrebbero quasi rapporto: aree che è difficile, cioè, considerare suburbane. Ampie porzioni del Veneto interno (Vallerani 2013), le valli appenniniche dell’intera Italia centromeridionale, a cominciare dalle medie valli marchigiane e abruzzesi, molte delle valli alpine, ma anche aree di pianura, anche aree non particolarmente allettanti sotto il profilo insediativo, per tacere infine dei litorali, mostrano una presenza diffusa e nell’insieme imponente di edifici residenziali; una presenza che non sembra dipendere dalla prossimità di qualche centro urbano – anche scontato il fatto che i mezzi di trasporto a disposizione dei singoli consentono di coprire utilmente distanze un tempo proibitive, molto spesso i nuovi abitanti insediati non sono propriamente pendolari, possono cioè fare a meno di recarsi in città quotidianamente.
Il fenomeno, a questa scala, non presenta più caratteri suburbani in senso tipico; è semmai una forma di urbanizzazione della campagna, dove per ‘urbanizzazione’ si deve intendere qualcosa che ha senso sotto il profilo sociale ed economico, ma non funzionale: perché, finora, lo sprawl di ambito rurale non sta dando luogo alla formazione di attività di servizio, di luoghi di incontro e di scambio. Mentre è urbana per formazione, provenienza, esigenze, riferimenti, la popolazione di nuovo insediamento. Quando si parla di consumo di suolo, si fa riferimento anche a questo fenomeno (per quanto esso sia meno dissipativo della realizzazione di infrastrutture di trasporto, per es., o di aree di magazzinaggio), poco o per nulla contrastato dalla normativa e al contrario incoraggiato da molte amministrazioni comunali che individuano, nell’arrivo di nuova popolazione economicamente ben provveduta, un’insperata fonte di entrate fiscali. Dal canto loro, i nuovi abitanti della ‘campagna’ trovano un vantaggio evidente nei bassi prezzi dei terreni agricoli da edificare e nell’assenza di prescrizioni urbanistiche troppo stringenti, cui si aggiunge il vantaggio di un quadro di vita da molti apprezzato più di quello urbano.
Va da sé che, come accade nelle aree turistiche mature, il progressivo affollamento di residenze finisce per modificare il quadro di vita ‘rurale’ in un senso sempre meno apprezzabile, ritorcendosi contro gli attori stessi del processo.
L’insediamento, la componente più palesemente antropica e artificiale dei paesaggi rurali si rivela, insomma, non meno vulnerabile della struttura agraria. Non ha senso pretendere che il processo si arresti – il regresso dell’agricoltura tradizionale, l’abbandono delle sedi tradizionali – e negare, di punto in bianco, al paesaggio la sua evoluzione. Sembra avere senso, invece, operare perché l’evoluzione si dimostri in grado di produrre esiti più coerenti e meno dissipativi, senza confondere di necessità modernizzazione e artificializzazione.
Se metà della popolazione italiana vive in aree metropolitane, e due terzi in centri definiti comunque urbani, non può stupire che la superficie resa in qualche maniera artificiale sia poco meno del 10% della superficie totale della Repubblica. È doveroso aggiungere subito che il dato, come altri, è discusso e discutibile; ma questo è l’ordine di grandezza.
Occorre aggiungere, anche, che l’artificializzazione dei suoli (in sostanza, la copertura permanente con manufatti di varia natura) non è provocata solo dagli edifici in cui vivono quei due terzi di cittadini italiani; una estensione straordinariamente grande hanno le superfici coperte dalle vie di comunicazione e altre infrastrutture, dagli impianti industriali con i relativi annessi, dalle strutture commerciali con i loro magazzini, parcheggi e aree di servizio, e così via. Queste strutture integralmente artificiali producono paesaggio (urbano, industriale, turistico) tanto quanto i boschi e i vigneti e, per qualcuno, la percezione di questi paesaggi non è negativa – al contrario.
D’altro canto, lo si è detto dal principio, il territorio è un prodotto sociale e il paesaggio è sempre, in qualche misura, artificiale. Né si può calibrare l’opportunità di un intervento che si riflette nel paesaggio sulla sola gradevolezza estetica – e anche di questo si è detto.
Il problema sostanziale sembra essere quello dell’efficienza. Una costruzione territoriale è efficiente quando non costringe a spendere, per viverla e gestirla, più di quanto se ne ricava. Tra le spese vanno considerati i rilevantissimi costi che derivano dalle molte forme di dissesto del territorio, dalle vite e dai beni perduti in conseguenza, dalla necessità di interventi sempre tesi al restauro del paesaggio (dopo un’alluvione, una frana, un incendio) anziché alla manutenzione ordinaria, dall’inquinamento, dalla dissipazione energetica e così via, lungo una lista che sembra non avere fine e che non contempla solo aspetti materiali e computabili, ma anche implicazioni psicologiche, sociali e culturali, per le quali non esiste una contabilità. Così, in definitiva, sembra impossibile calcolare l’ammontare delle spese di una cattiva costruzione e di una cattiva gestione del paesaggio, che si può solo immaginare sia elevatissimo. È facile invece constatare che i costi sono sopportati dalla collettività, mentre i ricavi sono individuali.
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