Il papato nell'eta ferrea
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La dissoluzione dell’Impero carolingio implica la polverizzazione dei poteri e la proliferazione incontrollata dei centri da cui essi promanano. Signori laici ed ecclesiastici usurpano insensibilmente funzioni pubbliche e creano clientele armate. Il papato va incontro a una decadenza inesorabile nell’Italia del X secolo. Le aristocrazie monopolizzano l’elezione del papa fino all’avvento degli Ottoni.
La crisi istituzionale nella quale precipita l’Italia del secolo X è legata alla proliferazione dei centri di potere signorile autonomi, laici ed ecclesiastici. Già subito dopo la morte di Carlo Magno, con Ludovico il Pio, si verificano fenomeni involutivi; il livello culturale del clero si abbassa e viene progressivamente meno la consapevolezza dell’esistenza di una compagine statale unitaria, tanto è vero che i vassalli sottraggono terre ed energie al patrimonio del fisco imperiale, trasmettendo feudo e poteri giurisdizionali ai discendenti, senza tuttavia riuscire a controllare le contee minori loro affidate, che si distaccano e si rendono autonome oppure soggiacciono alle prevaricazioni di signorie contermini, che esercitano poteri di natura pubblica pur non essendo autorizzate a farlo, specie se si tratta di signorie ecclesiastiche, monastiche o abbaziali, che beneficiano dell’immunità da qualsivoglia intervento militare pubblico (districtio). I sovrani carolingi, insomma, innescano essi stessi, per necessità difensive e amministrative, quei fenomeni di dissoluzione del territorio imperiale che avevano tentato di arginare. È vero che i vescovi vengono scelti tra i nobili più fidati o sono cappellani di corte, ma è anche vero che le proprietà della Chiesa sono inalienabili in perpetuo e sarebbe sacrilego rivendicarle con la violenza.
Si usa l’espressione “signoria bannale” per indicare la polverizzazione del potere centrale e l’esercizio, spesso arbitrario e sempre legato alla formazione di clientele armate, di funzioni pubbliche da parte di soggetti di svariata estrazione, non necessariamente vassalli. La parcellizzazione del potere, corrispondente a quella del territorio, confligge con le paradossali rivendicazioni ecumeniche e universalistiche di quegli stessi potentati che la promuovono, la Chiesa, cioè, e l’impero.
L’Italia meridionale appare particolarmente interessata dalla frantumazione istituzionale: essa è per la maggior parte controllata da un Impero bizantino che si sta riprendendo da una grigia stagione ed è in piena espansione, ma ospita anche ducati longobardi come quello di Benevento. I Saraceni inoltre conquistano postazioni strategiche, mentre Amalfi, Gaeta e Napoli sembrano godere di un’autonomia amministrativa più estorta che concessa o dovuta. In questo quadro si collocano anche gli Arabi – che nel 902 completeranno la conquista della Sicilia – i quali compiono incursioni frequenti in tutta l’Italia meridionale.
Il papato, in questo contesto, esercita la sua giurisdizione su Lazio, Umbria e Marche, ma ambiguamente proclama anche la propria universalità e avoca il diritto di intervenire, secondo la tradizione instaurata da Pipino il Breve, nelle vicende successorie dell’impero. Papa Formoso, per esempio, difeso da Arnolfo di Carinzia, invocato come protettore dei territori pontifici contro le pressioni del re d’Italia (Italia settentrionale esclusa la bizantina Venezia) Lamberto, lo incorona imperatore, creando un precedente per rivendicazioni successive dei re di Germania sul regno d’Italia.
Alla morte dei due contendenti, avvenuta nell’898, Berengario, marchese del Friuli, eletto re d’Italia da un’assemblea di nobili dopo la deposizione di Carlo il Grosso, ingaggia una dura lotta sia contro gli invasori ungari, sia contro rivali di pari dignità, quali Ludovico di Provenza, anch’egli incoronato imperatore.
Questo è il periodo detto, appunto, dell’anarchia feudale. Ben sintetizza la crisi dell’epoca un motto del vescovo Liutprando di Cremona, il quale scrive che la nobiltà italiana preferisce avere due re, in modo da non obbedire a nessuno dei due. Berengario piega Ludovico nel 905 e si fa incoronare imperatore dal papa Giovanni X, seguíto da Ugo di Provenza, che tiene il regno fino al 946, poco prima della discesa in Italia di Ottone I di Sassonia, che cingerà la Corona nel 961.
La crisi dell’impero mette in ginocchio il papato, che, privo di tale sostegno, non trova più le risorse economiche e morali per esercitare il suo magistero e la districtio disciplinare su vescovi e clero. Inoltre, si sono quasi del tutto esaurite le campagne missionarie che hanno fatto seguito sistematicamente alle conquiste dei Carolingi e che sono destinate alla conversione di popoli ancora pagani dell’Europa nordorientale.
Per quanto riguarda la politica interna, il papato, nel X secolo, resta in balia delle forze centrifughe e aristocratiche. Vengono usurpati territori ecclesiastici e vengono sottratte al papa numerose prerogative. Tra l’887 e il 962 si susseguono sul soglio pontificio ben ventuno papi, nessuno dei quali, evidentemente, tanto autorevole da lasciare memoria del proprio operato.
Inquietante ed emblematico, per ricostruire l’atmosfera cupa e drammatica di questo secolo, è l’episodio che vede protagonista il già citato papa Formoso, condannato post mortem da un sinodo, riesumato e gettato nel Tevere vestito dei panni pontificali. Le famiglie nobiliari, che pilotano l’elezione dei papi a seconda dell’interesse del momento e degli equilibri diplomatici di volta in volta vigenti, sono agguerrite e spregiudicate. Tra tutte spicca quella dei conti di Tuscolo, una cui esponente, Marozia, figlia del senatore Teofilatto e sposa, in terze nozze, di Ugo di Provenza, è madre del papa Giovanni XI, dal quale Ugo crede di poter ottenere la Corona imperiale. Il fratello del papa, però, Alberico, organizza una rivolta popolare e il sovrano è costretto a lasciare la città.
Da allora e fino alla morte, avvenuta nel 954, lo stesso Alberico, con il roboante titolo di “principe e senatore dei Romani”, avrebbe governato Roma e controllato il papato, senza tuttavia conculcare i diritti delle parti in causa.
Egli comprende che l’incoronazione da parte del papa, fonte “autoritativa” della gestione del potere assai svalutata dal numero di personalità incolori che l’avevano ottenuta, è fonte di attriti e causa di torbidi, per cui vieta ai sovrani di richiedere e di cingere a Roma la Corona. L’impero, infatti, rimane vacante dalla morte di Berengario (924) fino alla scomparsa di Alberico. Neppure Ottone di Germania, quando, nel 951, scende per la prima volta in Italia, riesce a cingere la Corona. Ad Alberico succede il figlio Ottaviano, che nel 955, sedicenne, ascende al soglio pontificio col nome di Giovanni XII. Nel febbraio del 962 il papa accetta di incoronare Ottone, il quale però lo fa deporre l’anno dopo, dopo averlo dichiarato decaduto con procedura straordinaria e l’avallo di un concilio.
I contemporanei considerano Ottone come il Carlo Magno redivivo, il restauratore dell’Impero e, infatti, di renovatio imperii parlano le fonti coeve. Come Carlo, Ottone postula un’interdipendenza di potere ecclesiastico-religioso e potere civile; come Carlo, Ottone comprende l’importanza della cultura nella preparazione dei quadri dirigenti e del clero; infine, come Carlo, Ottone ha velleità universalistiche e “romane”, ma anche la ferma volontà di ripristinare il prestigio del papato, onde potersi atteggiare a difensore della Chiesa.
Per questo motivo e con tali intendimenti fa deporre il giovanissimo Giovanni XII e si autoattribuisce il controllo dell’elezione papale, emettendo un documento, il Privilegium Othonis (962) che prevede la possibilità che l’imperatore valuti ed approvi il candidato al seggio pontificio prima della consacrazione del medesimo.
Una nuova pagina di storia si apre, lasciando intravedere cenni di ripresa del potere ecclesiastico, più di quello pubblico dotato delle risorse spirituali e materiali necessarie a risollevarsi dall’anomia e dalla prostrazione.