Il paradigma dell'intangible cultural heritage
In Italia, il paesaggio dei beni culturali è stato a lungo dominato dall’archeologia, dalla storia dell’arte e dall’architettura, ai cui specialisti è attribuito il compito di proteggere e tutelare il patrimonio della nazione, costituito in larga misura da antichità e belle arti, cui più recentemente si è aggiunta la dimensione contestuale del paesaggio e del patrimonio demoetnoantropologico. Tenere vivi e presenti nel paesaggio dei contemporanei le tracce di passati designati come patrimonio culturale è diventato uno dei doveri istituzionali delle comunità nazionali. Con il progredire dei processi d’industrializzazione, si è venuta organizzando e strutturando quella che possiamo definire una memoria nazionale articolata intorno a beni culturali che producono una comune visione, un’estetica, un immaginario e un linguaggio condiviso intorno a processi di egemonia che disegnano il perimetro di un «discorso patrimoniale autorizzato» (Smith 2006). Mentre il ‘discorso autorizzato’ dispiegava la sua opera di documentazione e tutela del patrimonio culturale nazionale considerato nell’accezione italiana di beni culturali, si veniva delineando uno specifico settore disciplinare, quello dei beni demoetnoantropologici (beni DEA), per impulso di demoetnoantropologi impegnati a seguire la proposta di metodologie specifiche di trattamento di «beni volatili» (Cirese 1977).
Dobbiamo segnalare che nel clima del dopoguerra, come in altri Paesi europei, anche in Italia si producono fratture tra studi di etnologia e studio delle tradizioni popolari, distanze tra mondo dei musei e mondo della ricerca universitaria, tema vasto e complesso che, pur non potendo approfondire, conviene almeno evocare. Il peso dei nazionalismi, le tragedie dei contesti di guerra, nella specifica declinazione di guerre delle identità (nazionali, regionali, locali) e delle razze, la consapevolezza dei rischi d’investimento sulle tradizioni popolari come luoghi di possibile fissazione identitaria e deriva patriottica, portano a una disaffezione degli antropologi nei confronti di quell’ambito che si definisce come folclore o storia delle tradizioni popolari, e che troverà invece in altri contesti culturali, l’antropologia americana e i cultural studies, un ambiente più propizio per saldare progetto conoscitivo antropologico, studi di folclore, nuove museologie, nella progressiva consapevolezza del valore della rappresentazione etnografica e del museo come ‘zona di contatto’ e negoziazione di linguaggi, contrattazioni politiche e rivendicazioni di diritti (Clifford 1997).
In Italia, la storia delle tradizioni popolari, la demologia, le pratiche di terreno degli antropologi hanno contribuito ad alimentare un processo di attenzione, sensibilizzazione e conoscenza di quello che oggi le Convenzioni UNESCO definiscono attraverso i paradigmi della diversità culturale e del patrimonio culturale immateriale. Parlando di storie e mondi locali, di tradizioni vecchie e nuove, di patrimoni orali, gli antropologi sono stati in prima linea nel liberare l’immaginazione patrimoniale attraverso quella etnografica, connettendo fenomeni e fatti culturali ai loro contesti sociali, alle comunità di appartenenza, con attenzione alle poetiche della memoria, alle storie e alle estetiche locali.
A livello globale, l’«effervescenza patrimoniale» sembra essere uno dei tratti distintivi dei tempi moderni (Skounti 2011), corrispondente sia al generale movimento di costruzione delle identità nazionali, impegnate a ricercare e selezionare nelle eredità del passato i tratti distintivi di un’appartenenza collettiva, sia a un desiderio di segno diverso, non investito in maniera esplicita dalle istituzioni (talvolta in conflitto con i progetti che queste veicolano), di memoria, di storia locale e di identità culturale che si intreccia a vari interessi, in un complesso scenario di valorizzazione connesso a logiche turistiche e al mercato dei beni culturali.
Questo movimento sembra portare in sé spinte apparentemente contraddittorie, tra intimità e visibilità, bisogno di radici e apertura al dialogo, segretezza locale e spettacolarizzazione globale. Un movimento che sta raggiungendo ogni piccolo angolo del mondo globale, investito da flussi migratori e diverse forme di mobilità individuale e collettiva, oggi alla ricerca della propria «intimità culturale» (Herzfeld 1997; trad. it. 2001), spesso vissuta come alternativa ai modelli imposti dai poteri dominanti e rivendicata come un diritto all’«esistenza culturale», possibile strumento di sviluppo economico sostenibile o merce da esibire in un mercato globale, a rischio di banalizzazione e mercificazione. Nello sforzo di individuare un settore d’intervento pubblico nel quale esercitare la propria azione conoscitiva, gli antropologi italiani si sono impegnati sia nel processo di definizione degli oggetti degni di patrimonializzazione, rivendicando un diritto all’expertise scientifica relativa a uno specifico settore del sistema dei beni culturali, sia in un lavoro di analisi critica di questi stessi processi, come oggetto di studio nella prospettiva dell’antropologia politica (Palumbo 2006). Ma è nell’ambito dell’antropologia collaborativa, in particolare quella di matrice statunitense e nel contesto delle nuove museologie che si approfondisce una vocazione al riconoscimento della soggettività e al protagonismo delle comunità culturali, mentre il ‘paradigma dialogico’ e la negoziazione dei linguaggi sperimentata nell’incontro etnografico contribuiscono a mettere in crisi, dall’interno della scienza antropologica, il potere e l’autorità dello studioso che non si trova di fronte a oggetti da interpretare e presentare a un pubblico, ma di fronte a soggetti, portatori di diritti e coinvolti in relazioni di potere, la cui presenza diventa sempre più forte nei testi prodotti dagli antropologi come nei musei etnografici, ecomusei e «musei di società» (Marcus 1997).
Negli ultimi decenni, mentre alcuni antropologi studiavano la sensazione di apertura dei confini e la perdita dei riferimenti culturali dei nuovi spazi della «surmodernité», definiti non luoghi (M. Augé, Non lieux. Introduction à une anthropologie de la sur-modernité, 1992, trad. it. 1993), o di passati già lontani, ricercati come remote «terre straniere» (Lowenthal 1985), le tradizioni sono uscite dai libri e dai musei in cui sembravano confinate dalla marcia inarrestabile dei processi di modernizzazione, nella forma di memorie orali, oggetti folclorici, o tracce vive di storie subalterne e marginalizzate, in lotta per una egemonia e un riconoscimento che solo lo studio e l’impegno degli intellettuali sembravano poter offrire.
In uno scritto del 1989 sull’Italia e le sue regioni, Pietro Clemente riflette sui processi di emergenza della diversità culturale in termini di «ritorno», dopo la grande frattura della modernità. Citando Luciano Gallino, scrive:
I processi di differenziazione fanno parte di quelli di trasformazione e modernizzazione; e la nozione di tradizione torna a giocare in essi un ruolo attivo, non di limite negativo dello sviluppo ma di agente capace di direzionare i cambiamenti:
«La storia, il passato, e in specie quel suo portato materiale e immateriale che si chiama tradizione, possiedono come non mai una fervida, incombente esistenza nel presente, intrecciati ad esso come un filo che attraversa al tempo stesso, in mille modi, l’ordito e la trama dell’organizzazione sociale. Può anzi dirsi, per certi aspetti, che il prorompente ritorno delle tradizioni sia, in bene e in male, la principale caratteristica di questo periodo di acceleratissima modernizzazione del mondo. La risposta che meglio spiega la sopravvivenza delle tradizioni è forse che esse tornano utili al presente, contribuiscono in modo potente al suo stesso sviluppo e radicamento nell’insieme dell’organizzazione sociale, se non forse alla sua stessa sopravvivenza» (Clemente 1988, p. 74).
Ma quali i luoghi di emersione, i canali e le modalità di espressione di questi ‘mondi tradizionali’, culture popolari e complessi conoscitivi locali? Per tentare di analizzare quello che avviene a livello delle regioni e dei territori italiani negli anni della ratifica della Convenzione UNESCO del 2003, conviene introdurre una distinzione tra il mondo degli studi, presente in opere di documentazione delle culture popolari a livello delle istituzioni nazionali e regionali, le iniziative della società civile, delle collettività locali, delle «comunità di eredità», per utilizzare il termine introdotto dalla versione italiana della Convenzione di Faro (Convenzione del Consiglio dell’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, 2005) e l’opera degli intellettuali militanti, in particolare antropologi e storici orali.
I processi di studio, catalogazione e documentazione, così come alcune esperienze di museografia etnografica e valorizzazione delle culture popolari ‘subalterne’ hanno connesso la produzione patrimoniale, le iniziative della società civile, l’expertise scientifica. Oggettivare, fissare in schede di catalogo i documenti, descrivere tracce di fenomeni e fatti culturali, produrre metadati, conservare ed esporre oggetti, progettare musei e ricerche territoriali è diventato compito dei professionisti della cultura, impegnati nei settori dei beni culturali di loro competenza ma anche in diverse, diffuse realtà territoriali e locali.
In alcune regioni come la Lombardia, a partire dagli anni Settanta, un importante movimento di studiosi di tradizioni popolari, storici e demologi dà vita a istituzioni specifiche, che si collegano a leggi regionali e operano nella convergenza di ragioni e logiche politiche, sociali e scientifiche. Nel caso della Regione Lombardia, il riferimento al settore di studi etnografici è diretto e fondante.
L’Archivio di etnografia e storia sociale, fondato nel 1972 come Ufficio della cultura del mondo popolare, e solo negli anni Novanta trasformato in archivio, nasce come struttura interna all’assessorato della cultura per iniziativa dell’etnomusicologo Roberto Leydi (1928-2003), impegnato, direttamente o in collaborazione con decine di giovani, nella ricerca sul campo di repertori musicali in via d’estinzione e nella organizzazione di una intensa attività di riproposta, soprattutto musicale, nel più ampio settore dello spettacolo e della pubblicazione discografica (Meazza 2011). L’Archivio di etnografia e storia sociale (AESS) è un’istituzione pubblica che si occupa del patrimonio di cultura tradizionale delle comunità lombarde, della cultura delle differenze, del patrimonio immateriale nelle sue varie componenti; svolge attività di conservazione, digitalizzazione e catalogazione di documenti d’interesse etnoantropologico; promuove ricerche etnografiche sul campo; acquisisce fondi documentari sonori, fotografici e videocinematografici provenienti da collezioni private, da enti e associazioni; sostiene e coordina progetti per la conoscenza delle culture e delle tradizioni locali (http://www.aess.regione.lombardia.it/joomla15/).
Le pratiche che l’Archivio documenta, nel contesto del folk revival e degli studi di cultura popolare, si trovano investite dalle politiche culturali e patrimoniali di una regione che favorisce l’emergere di processi di riconoscimento delle sue espressioni comunitarie, trovandosi progressivamente al centro della nuova prospettiva di patrimonializzazione dell’immateriale. Dopo la ratifica della Convenzione UNESCO da parte dell’Italia nel 2007, viene progettata una specifica legge regionale, espressione dell’assessorato alle Culture, identità e autonomie della regione. Ecco come ne scrive Renata Meazza:
l’attività quarantennale che questo istituto culturale pubblico ha svolto e continua a svolgere, testimoniano l’insistente attenzione nei confronti di quelle attività creative poste continuamente in essere dalle comunità locali, nell’ambito delle pratiche tradizionali, che hanno trovato oggi legale riconoscimento come ‘beni immateriali’ da parte dell’Unesco e successivamente della nostra legislazione nazionale e locale (2011, p. 46).
Le attività dell’archivio, come illustra il sito, sono direttamente collegate sia all’ambito della documentazione etnoantropologica che alla «cultura delle differenze» e al «patrimonio culturale immateriale» (p. 46).
Nel rapporto con la società civile, i professionisti del settore antropologico hanno agito in diverse molteplici forme e articolazioni, favorendo processi di memoria, valorizzazione, consapevolezza. In uno scritto del 1993, La ricerca nella prospettiva dei ‘patrimoni culturali’ demoetnoantropologici, Clemente riflette sulla pluralità della ricerca invitando i ricercatori a una disponibilità autoriflessiva. Identificando una fertile alleanza tra mondo degli studi e società civile, in assenza di scelte politiche nazionali relative al patrimonio etnologico da collegare a una debole identità nazionale (cui si contrappongono forti identità locali), proponendo considerazioni su un punto di debolezza che costituisce anche un punto di forza, scriveva:
questa debolezza del potere ufficiale, debolezza di apparato di studi, questa ricchezza di società civile e di istituzioni nate in essa grazie alla libera impresa culturale di gente comune, caratterizzano il ‘patrimonio etnologico’ come un campo di negoziazioni aperte, dove gli studi e la società civile si trovano affiancati verso tutte le forme di potere pubblico ed anche di rappresentanza politica (Clemente 1996, p. 243).
Queste frasi ci portano dentro uno scenario di negoziazioni e mediazioni molto vicino a quello che analizzeremo parlando della Convenzione UNESCO del 2003, la quale, come vedremo, introduce una realtà normativa e giuridica che legittima la centralità dei soggetti e riconosce la necessità degli studi, modificando però la prospettiva dell’opera di documentazione e studio, subordinandola all’obiettivo di salvaguardia della vitalità e della diversità culturale.
Se la Convenzione UNESCO 2003 ha provocato quel «disagio patrimoniale» (Le patrimoine culturel immatériel, 2011) analizzato dagli antropologi dei processi di patrimonializzazione, alcuni recenti scritti, mentre testimoniano i fermenti all’opera nella definizione di questo disagio, mettono a fuoco una molteplicità di regimi patrimoniali difficili da governare: una realtà che ripropone alla comunità scientifica e accademica quelle stesse questioni di metodo e pluralità di ricerca che Clemente evocava negli anni Novanta.
La difficile opera delle istituzioni della cultura di fronte a scenari molteplici e sempre più complessi, particolarmente evidente nella progettazione e gestione degli inventari del patrimonio culturale immateriale di molti Paesi, tra cui l’Italia, sembra minacciare con la ‘dispersione dell’autorità’ l’expertise scientifica, in nome del diritto delle popolazioni a disporre del proprio patrimonio culturale e dell’opera delle Convenzioni internazionali per ‘forzare’ gli Stati e le comunità scientifiche a riconoscere questo diritto. D’altra parte, il subentrare dell’istituzione attraverso la norma internazionale nei contesti locali, con la penetrazione dei processi di inventariazione legati alle candidature UNESCO, può provocare nuove forme di conflitto e di alienazione.
Come dialogano, i paesaggi patrimoniali nazionali e regionali italiani, con i grandi scenari delle politiche internazionali? Le due guerre mondiali e l’istituzione delle Nazioni Unite hanno un ruolo fondamentale e un impatto forte sulle scelte delle politiche nazionali e sulla sensibilità dei cittadini. Come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo ha contribuito a costruire un comune frame di valori nell’ambito dei diritti, così la Convenzione del patrimonio mondiale del 1972 va collocata nel contesto delle grandi distruzioni delle guerre mondiali e nella volontà di ricostruzione materiale e morale del dopoguerra. In questo clima va situata l’azione di protezione e conservazione dei complessi monumentali e dei siti d’interesse culturale e naturale, considerati non più solo come proprietà di Stato, ma come patrimonio dell’umanità. L’opera di designazione di siti e d’istituzione di liste ha provocato una nuova mobilitazione degli Stati-nazione, e nuove pressioni per l’egemonia delle élites sui patrimoni istituiti.
Strumento di politiche, espressione di accordi internazionali sui diritti, le Convenzioni stanno modificando anche modi e luoghi dell’azione scientifica e del pensiero patrimoniale (Bortolotto 2013). Tentiamo di soffermarci sui fondamentali aspetti di novità che la Convenzione ha fatto entrare nel diritto internazionale e in quello nazionale per gli Stati che la ratificano, su alcune criticità che emergono nel processo della sua applicazione a livello internazionale e nazionale, per arrivare fino al livello locale, quello in cui si giocano i processi di incontro e di scontro tra interessi e visioni dei diversi attori coinvolti.
Se mettiamo a confronto la definizione del patrimonio culturale immateriale proposta dalla Convenzione UNESCO (2003) con quella di ‘comunità di eredità’ o ‘comunità patrimoniale’ proposta dalla Convenzione di Faro (2005) sul «valore del patrimonio culturale per la società», ci rendiamo conto di come si siano allora create le condizioni perché quella che potremmo definire l’eredità del pensiero antropologico si trasformasse in strumento giuridico, nell’ambito dell’azione pubblica:
per patrimonio culturale immateriale si intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale (Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, 2003, art. 2).
Le Convenzioni degli anni Duemila postulano un nesso fondamentale tra i tratti culturali (gli elementi, beni immateriali) e il contesto sociale di appartenenza, all’interno dei più generali processi di riconoscimento della diversità culturale come valore condiviso su scala planetaria.
Il rovesciamento del processo di attribuzione di valore fa delle Convenzioni internazionali ratificate dagli Stati all’interno dei sistemi Nazioni Unite e Unione Europea potenti strumenti di rivendicazione di un ‘diritto al riconoscimento’, in uno scenario in cui i gruppi sociali negoziano con i loro governi il diritto a rappresentare e trasmettere le loro tradizioni, conoscenze, esperienze storiche. Confermando la centralità delle pratiche conoscitive prodotte dall’antropologia e dalle scienze sociali, il lavoro d’interpretazione di tratti culturali connessi con contesti sociali, la necessità di opere di traduzione, mediazione e dialogo tra contesti, il processo di attribuzione di valore da parte delle comunità e le metodologie d’identificazione dei tratti culturali oggetto della salvaguardia affrancano l’ambito del patrimonio culturale immateriale dalla corrispondenza con un unico settore disciplinare e da quella, spesso data per scontata, con il patrimonio etnografico.
Come sottolinea l’antropologo Antonio Arantes presentando nel 2013 la situazione brasiliana, la Convenzione del 2003 ha accompagnato e provocato in Brasile un importante movimento di riflessione, tra istituzioni, società civile e mondo della ricerca (Arantes 2013). Da notare che, nella trasformazione di paradigmi che accompagna l’evoluzione delle Convenzioni, viene a cadere il quadro concettuale sul quale si basava il principio dell’eccezionalità, del capolavoro, così come quello dell’autenticità (Dichiarazione di Yamato, 2004). Seguendo la definizione di patrimonio culturale proposta da Clifford – «un patrimonio è una tradizione cosciente di sé stessa» (1997, p. 94) – e considerando che un patrimonio è costruzione sociale e processo in costante divenire (Heritage regimes and the States, 2012), dobbiamo interrogarci sugli effetti delle Convenzioni e dell’immaginario patrimoniale che esse veicolano sia a livello sociale e cognitivo, sia a livello politico e giuridico, per arrivare infine al livello delle rappresentazioni nel mondo globale. Processi disordinati e molteplici segnalano una progressiva e pervasiva crescita di ‘coscienza patrimoniale’ e un insieme diversificato ed eterogeneo di usi del patrimonio culturale, che non manca di disorientare il mondo degli studi e che si ripercuote nelle scelte di politica culturale, a tutti i livelli.
Quello che modifica le prospettive aperte dalla Convenzione del 2003, e segnala una trasformazione delle politiche culturali che s’ispirano a questo modello, sta nell’obiettivo della salvaguardia, concetto complesso che si collega – pur differenziandosene – ai concetti di tutela, conservazione e valorizzazione che dominano la tradizione italiana delle politiche culturali sintetizzata nel nostro Codice dei beni culturali e del paesaggio, su cui torneremo, sottolineando il carattere vivo, dinamico, contestuale e trasformativo dei processi culturali e patrimoniali. Salvaguardare non significa conservare, né tutelare patrimoni monumentali, paesaggistici o culturali per sottrarli alla trasformazione proteggendone caratteri originali o autentici, ma contribuire alla costruzione di contesti favorevoli alla trasmissione e alla vitalità di patrimoni in continuo movimento, riconosciuti come tali dagli stessi attori sociali che ne sono responsabili.
Per ‘salvaguardia’ si intendono le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento di vari aspetti di tale patrimonio culturale (Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, art. 2.3).
Il concetto di salvaguardia va posto in continuità con le riflessioni che fin dagli anni Novanta, con la Convenzione internazionale sulla diversità biologica (1992), hanno mosso gli esperti ambientali e gli economisti a porre al centro delle politiche le preoccupazioni di sostenibilità ambientale, denunciando le minacce che lo sviluppo industriale e i processi di conquista economica facevano pesare sul futuro delle popolazioni del pianeta e sulle risorse naturali. Il concetto di ‘patrimonio vivente’ nasce in questo contesto, dalla coscienza che la distruzione degli ecosistemi porta con sé la perdita del capitale naturale e umano, compromettendo il futuro delle generazioni. Il paradigma della salvaguardia contribuisce ad aprire una serie di frontiere a livello sia disciplinare sia delle politiche culturali, facendo emergere i nessi tra i diversi beni culturali e le connessioni tra le discipline, orientando verso una visione integrata del patrimonio culturale. Se il fulcro dell’azione di salvaguardia sono le comunità depositarie del patrimonio, se il dialogo deve organizzarsi e fondarsi sui valori di appartenenza e di trasmissione, gli studiosi sono chiamati a esercitare il loro sapere in funzione di obiettivi condivisi, intorno a progetti che coniughino l’interesse conoscitivo con le funzioni sociali, economiche e culturali dell’‘elemento’ nel suo contesto. Un piano di salvaguardia è un progetto di studio, gestione, valorizzazione in funzione della trasmissione e della vitalità delle pratiche culturali. D’altra parte, il riconoscimento di tratti culturali comuni a più contesti e l’apertura alla dimensione transfrontaliera vengono favoriti dal contesto internazionale e dalla presenza degli studiosi, aprendo le prospettive della salvaguardia al dialogo interculturale e al riconoscimento del patrimonio culturale come bene comune. In questo senso, salvaguardia, governance e sostenibilità entrano come termini diversi di una stessa galassia concettuale e operativa.
Istituire inventari, ai fini dell’identificazione degli elementi e dei contesti di espressione culturale, è uno degli obblighi cui gli Stati si impegnano con la ratifica della Convenzione. Il luogo più significativo per pensare le evoluzioni in corso, nell’ambito delle politiche culturali nazionali, sono le scelte relative all’istituzione degli inventari del patrimonio culturale immateriale e alla partecipazione delle comunità culturali.
Gli inventari che i diversi Paesi hanno costituito in seguito alla ratifica della Convenzione dovrebbero rappresentare, secondo lo spirito della Convenzione, i primi strumenti di salvaguardia. Identificare e riconoscere, prendendo coscienza del valore, è già impegnarsi in processi di salvaguardia. D’altra parte, il carattere processuale delle espressioni culturali (gli elementi), vive nei loro contesti, costringe a ripensare l’inventario, strumento concepito per oggetti e beni materiali statici, nell’ottica del monitoraggio. La Convenzione postula un coinvolgimento delle «comunità, gruppi ed individui» eredi e protagonisti della trasmissione culturale fin dal processo di identificazione del patrimonio culturale immateriale. Questo processo comporta un diritto al protagonismo delle comunità che scardina l’univocità del processo d’inventariazione legittimato dallo studioso accreditato dall’Istituzione della cultura.
Alcuni studiosi, tra cui Jean-Louis Tornatore in Francia, mettono in luce il paradosso dell’inventario nazionale come luogo di «rimozione del riconoscimento». Nello scritto L’inventaire comme deni de la reconnaissance (Tornatore 2011), preconizzando il passaggio dall’expertise documentaire all’expertise participative, lo studioso riflette su scelte ispirate a una «lettura politica della Convenzione», che coniughi i due aspetti del riconoscimento e dello spazio pubblico, con una risposta forte alle rivendicazioni non solo di riconoscimento di produzioni patrimoniali lontane dagli spazi consacrati delle «grandi centrali» dello Stato, ma anche a quelle associate alla «visibilità», al libero arbitrio e all’autonomia delle comunità.
Analizzando comparativamente diversi inventari nazionali, alcuni studiosi propongono una lettura delle scelte di inventariazione del patrimonio culturale immateriale in termini di «resistenza nazionale al modello globalizzante imposto dal paradigma e dagli standard della Convenzione» (Bortolotto, in Heritage regimes and the States, 2012, p. 270). Calcati sui modelli dominanti delle politiche culturali nazionali, questi sarebbero il riflesso delle scelte degli Stati-parte, relativamente autonome nell’interpretazione dello strumento internazionale.
Se gli attori centrali della salvaguardia sono le «comunità, gruppi ed individui» i cui contesti sociali, economici e culturali vanno riconosciuti come degni di attenzione ai fini della trasmissione di pratiche, cosa ci dicono il testo della Convenzione, e le Direttive operative che lo accompagnano, dei diversi attori coinvolti nel lavoro di riconoscimento e salvaguardia dei patrimoni culturali?
Capitolo III. Partecipazione all’attuazione della Convenzione
III.1 Partecipazione di comunità, gruppi ed eventualmente singoli individui, nonché di esperti, centri di competenza e istituti di ricerca. [...] 79. Ricordando l’articolo 11 della Convenzione e nello spirito dell’Articolo 15 della Convenzione stessa, il Comitato invita gli Stati Parte a istituire forme funzionali e complementari di cooperazione fra comunità, gruppi ed eventualmente singoli individui che creino, preservino e trasmettano patrimonio culturale immateriale, nonché fra esperti, centri di competenza ed istituti di ricerca. [...]
III.2.1 Partecipazione di organizzazioni non governative a livello nazionale
[...]
90. Conformemente all’Articolo 11 (b) della Convenzione, gli Stati Parte coinvolgono le pertinenti organizzazioni non governative nell’attuazione della Convenzione, fra l’altro allo scopo di individuare e definire elementi del patrimonio culturale immateriale e con riguardo ad ogni altra idonea misura di salvaguardia, collaborando e coordinandosi con altri soggetti partecipanti all’attuazione della Convenzione.
Rispetto alla precedente Dichiarazione per la salvaguardia della cultura tradizionale e del folclore del 1989, che si rivolgeva fondamentalmente ai governi e agli studiosi, la Convenzione del 2003 pone al cuore dei processi di salvaguardia la partecipazione delle «comunità, gruppi ed individui» protagonisti della trasmissione culturale e il loro senso di appartenenza, riconoscendo però la complessità di un percorso nel quale entrano molti altri attori, e di cui le istituzioni sono responsabili.
Operando uno spostamento dall’oggetto al soggetto, dagli oggetti alle pratiche e alle persone, questa trasforma anche radicalmente i dispositivi delle politiche patrimoniali, rovesciandone il senso, moltiplicando le fonti dell’autorità, riconoscendo una fondamentale legittimità all’espressione di forme culturali complesse, in costante movimento e negoziazione. Il riconoscimento del protagonismo degli attori sociali implica una riflessione sul ruolo dello studioso e dell’intellettuale in relazione al dialogo con le «comunità, gruppi ed individui». Soffermarsi sugli organi della Convenzione, gli strumenti e gli attori coinvolti nel grande cantiere internazionale permetterà di interrogare alcune tendenze delle politiche culturali a livello nazionale e regionale.
I due organi della Convenzione sono l’Assemblea generale degli Stati parte e il Comitato intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, composto da 24 Stati eletti per un periodo di quattro anni. Mentre l’Assemblea si riunisce ogni due anni a Parigi per definire gli orientamenti strategici, proporre modifiche alle Direttive operative, votare i membri del Comitato, il Comitato si riunisce ogni anno, e ha la responsabilità di valutare le domande d’iscrizione alle liste istituite dalla Convenzione e altre questioni, secondo ordini del giorno e di priorità definiti dal segretariato. La Convenzione si è dotata di tre strumenti e di un fondo per l’assistenza internazionale: la Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale (LR); la Lista per la salvaguardia urgente (LU); il Registro delle migliori pratiche di salvaguardia; il Fondo per l’assistenza internazionale. Il Comitato, nei dibattiti che accompagnano le valutazioni dei dossier di candidatura, può affrontare specifici temi di riflessione legati ai processi di applicazione della Convenzione. Il Comitato si appoggia a sua volta a organi di valutazione (fino al 2013 l’Organo sussidiario incaricato di valutare le domande di iscrizione alla sola Lista rappresentativa, e l’Organo consultivo, incaricato di esaminare le altre domande, dal 2014 riuniti in un unico Organo di valutazione), formati da esperti designati dagli Stati parte, da esperti indipendenti e da Organizzazioni non governative (ONG) accreditate presso il segretariato della Convenzione per svolgere funzioni consultive. Le ONG hanno un ruolo determinante nel portare i punti di vista delle comunità culturali, affluendo numerose, tramite un sistema di accreditamento relativamente semplice, verso il segretariato UNESCO senza passare dal filtro degli Stati. Queste costituiscono dunque un anello di congiunzione, elemento che lega direttamente l’organismo sovranazionale e le organizzazioni della società civile.
Questa presenza delle ONG nel sistema ‘patrimonio culturale immateriale’ sia a livello internazionale, come parte degli organi di valutazione delle candidature (a partire dal 2015 un unico organo valutatore sarà formato da sei ONG accreditate e sei esperti designati dagli Stati parte) sia a livello nazionale, sta producendo trasformazioni importanti nelle politiche culturali. Dotate di un riconoscimento di ruolo nelle politiche della salvaguardia, ruolo legato all’accreditamento ottenuto direttamente dall’organismo sovranazionale, le ONG costituiscono di fatto interlocutori non più eludibili per i governi nazionali e le istituzioni della cultura.
Se tutti e tre gli strumenti della Convenzione (le due Liste e il Registro) sono stati pensati in funzione della salvaguardia, solo la Lista rappresentativa, quella che risponde in particolare ai criteri del riconoscimento e della visibilità, è stata pienamente utilizzata dagli Stati e dalle comunità, scatenando una corsa al riconoscimento e alle candidature che, mentre porta alla ribalta il successo del concetto di patrimonio culturale immateriale, sembra riproporre il sistema dell’eccellenza e del prestigio di patrimoni in concorrenza per il ‘bollino UNESCO’.
Nel 2009, al quarto Comitato intergovernativo, il segretariato UNESCO ha iniziato una battaglia contro una ‘cattiva interpretazione’ della Convenzione. Le liste riproporrebbero le stesse derive di quelle del patrimonio mondiale, sostituendo il criterio di eccellenza con quello di rappresentatività (V. Hafstein, Célébrer les différences, renforcer la conformité, in Le patrimoine culturel immatériel, 2011, pp. 75-93).
Mentre nel 2010 il Comitato di Bali prese atto di un uso eccessivo, politico e talvolta improprio della Lista rappresentativa da parte degli Stati, a scapito degli altri strumenti, il Comitato del 2013, a Baku, ha portato attenzione al concetto di «migliori pratiche di salvaguardia» e ad alcuni aspetti critici che spiegherebbero le difficoltà incontrate nella sua comprensione, e la rarità delle iscrizioni.
D’altra parte, le rare iscrizioni alla Lista di salvaguardia urgente (nessuna, in data 2014 in Italia), segnalando quello che viene spesso interpretato come un generale disimpegno degli Stati, rivelano anche una debolezza della cultura della salvaguardia a livello dei territori e delle comunità. Partecipando ai lavori della Convenzione, la crisi degli strumenti-liste appare come tratto costante dei dibattiti, rivelando una contraddizione tra lo spirito della Convenzione, fondato sulla cultura della partecipazione, del contesto, del dialogo interculturale e della salvaguardia delle diversità, e la costante tendenza delle comunità e degli Stati a far prevalere, nella corsa al riconoscimento, le ragioni della specificità, dell’eccellenza, dell’autenticità e dell’unicità di tratti culturali. Costantemente richiamato il rischio della spettacolarizzazione e della mercificazione del patrimonio culturale, che può essere prodotto o aggravato dal riconoscimento UNESCO.
Le prime candidature italiane sono, in questo senso, significative della continuità di un modello che tende a riprodurre, nell’ambito dell’immateriale, le logiche della Convenzione UNESCO del patrimonio mondiale (1972), fondate sull’unicità del bene culturale, sul riconoscimento di capolavori e sulla visibilità.
Se i conflitti che si manifestano nell’ambito dell’UNESCO, particolarmente evidenti alle riunioni dei Comitati intergovernativi, sembrano materializzare i confini tra una norma internazionale, le politiche nazionali, le esigenze della società civile, il potere delle élites e dei gruppi d’interesse economico, altre dimensioni disegnano l’emergere di nuove geografie politico-culturali, mettendo in rete comunità locali situate in diversi contesti regionali e internazionali e contribuendo a una generale crescita di consapevolezza del valore del patrimonio culturale, come fondamento di processi di sviluppo sostenibile.
Durante i lavori del Comitato, i concetti della Convenzione vengono usati nel variare dei contesti di discussione come strumenti per sensibilizzare gli Stati alla cultura della partecipazione (da parte del segretariato, degli esperti chiamati alla valutazione dei dossier e delle ONG), strumenti di concertazione di politiche della sostenibilità e della governance, di rivendicazioni identitarie, luogo di possibili compromessi tra le esigenze delle diverse comunità, compresa quella scientifica. Il rischio di opposizioni irriducibili tra i diversi giochi di linguaggio e d’interessi in campo, trasformano talvolta le discussioni in campi di battaglia. Il patrimonio culturale rivela allora la sua centralità politica e simbolica, al cuore d’interessi che toccano una molteplicità di attori e di poteri.
D’altra parte, interessante è anche studiare i molteplici usi, diffusi e non legati a processi di candidatura, del concetto di patrimonio culturale immateriale. In Francia, negli anni della ratifica (2006-2007), si è potuto assistere a usi politici della Convenzione UNESCO, come strumento per far valere un diritto al proprio patrimonio culturale da parte delle comunità locali, confrontate ai progetti delle istituzioni della cultura relativi al loro territorio (Lapiccirella Zingari 2011a).
In Italia la Regione Lombardia ha inaugurato un vero cantiere di studio e riflessione sulla partecipazione nella salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, con forti aperture internazionali, portando un interessante contributo alla conoscenza di questo paradigma. Il lavoro di progettazione di una specifica legge regionale e l’istituzione di un Registro delle eredità intangibili (REIL) si è realizzato nell’ambito di un progetto di cooperazione transfrontaliera dell’Unione europea, che ha riunito in una comunità di lavoro un’istituzione storica regionale, l’AESS con la provincia autonoma di Bolzano, la Valle d’Aosta, il Piemonte, e i tre cantoni svizzeri Ticino, Vallese, Grigioni. I contesti dei progetti europei transfrontalieri, portando a confrontarsi politiche locali, regionali e nazionali, sono luoghi strategici per interrogare le evoluzioni contemporanee delle politiche culturali (Lapiccirella Zingari 2011c). Il caso della Lombardia è particolarmente interessante come caso regionale italiano di trasformazione delle politiche culturali nel confronto attivo con i concetti e i metodi proposti dalle Convenzioni internazionali.
In introduzione a un interessante lavoro di comparazione internazionale e riflessione interdisciplinare promosso dalla Regione Lombardia come strumento di progettazione di inventari partecipativi, Chiara Bortolotto scrive:
Partecipazione è una parola chiave della governance globale. Le organizzazioni internazionali invitano i cittadini a partecipare come ‘esperti responsabili’ alla definizione di progetti in una grande varietà di ambiti (ambientale, medico, economico o agricolo, ecc.) e a condividere la responsabilità delle loro scelte; i popoli indigeni fanno sentire la loro voce alle Nazioni Unite tramite i loro rappresentanti ed il loro consenso libero ed informato è necessario per ogni progetto che riguardi i loro territori; la recente Conferenza delle Nazioni Unite Rio+20 (2012) ha sottolineato che la partecipazione ampia e attiva di tutti i settori della società, incluse le comunità locali, è essenziale per lo sviluppo sostenibile ed ha incoraggiato la loro partecipazione nella presa delle decisioni, progettazione applicazione delle politiche (2013, p. 2).
Le parole chiave e i parametri che la Convenzione ha introdotto nell’ambito delle politiche culturali provengono dai diversi ambiti di azione degli organismi internazionali, in particolare dalla cooperazione allo sviluppo e dalla gestione delle risorse ambientali, e sono: governance, sostenibilità, partecipazione. Le potenzialità offerte dalla cultura della partecipazione, introducendo nuove modalità di deliberazione fondate sull’‘expertise del cittadino’ implicano una rottura del rapporto gerarchico di autorità tra chi fa ricerca e chi è oggetto di ricerca. Ma cosa significa, che effetti produce questa domanda di partecipazione e come si declina nel concreto delle situazioni? Postulando un ‘paradigma collaborativo’, emerge la natura di compromesso che sta al cuore dei processi di patrimonializzazione e che evidenzia il carattere politico, sociale e contestuale di tutte le attività legate alla costruzione del patrimonio culturale.
Il registro REIL della Regione Lombardia, che approfondiremo in relazione alla legge regionale con la quale è stato istituito, è un esempio interessante di catalogo web, concepito come un atlante finalizzato a costruire un contesto regionale di riconoscimento e valorizzazione dei più diversi attori e forme di espressione culturale. In alcuni casi, gli attori sociali sono direttamente responsabili della descrizione dell’ ‘elemento’ identificato come patrimonio, senza una mediazione diretta dell’istituzione e del mondo degli studi, ma in rete con questi.
Il caso del movimento delle Pro loco, in Italia, è significativo delle trasformazioni in corso. Questo movimento della società civile basato su associazioni di volontariato organizzate in rete nazionale per la promozione dello sviluppo locale, grazie alla sua diffusione capillare sul territorio nazionale, ad alcune iniziative di valorizzazione della memoria locale, alla creazione di un archivio web che diffonde testimonianze raccolte tramite campagne di documentazione promosse dai suoi membri a livello locale, ha ottenuto l’accreditamento UNESCO nel 2012. L’UNPLI (Unione delle Pro Loco Italiane) si muove attualmente per la salvaguardia dei patrimoni intangibili in dialogo con altre ONG accreditate, con il mondo degli studi, con le istituzioni della cultura, promuovendo convegni, iniziative in favore del dialetto e delle lingue locali (2013-14), dei borghi a rischio spopolamento, delle comunità immigrate. Il riconoscimento UNESCO ha notevolmente accresciuto le possibilità di dialogo e contrattazione di questa rete nazionale. In alcuni contesti regionali, come il Piemonte e l’Abruzzo, i comitati regionali dell’UNPLI stanno favorendo processi di formazione, che collegano singole Pro loco con musei e archivi del territorio, associazioni di studiosi e università. In altri contesti, come la Toscana, le Pro loco collaborano sia a iniziative di censimento del patrimonio culturale immateriale promosse dal mondo degli studi, sia a processi di formazione alle tradizioni e ai mestieri di tradizione. Il caso della Pro loco di Scarperia, in provincia di Firenze, vede quest’ultima impegnata in un partenariato con il Museo dei ferri taglienti, per azioni di formazione che hanno permesso la trasmissione del mestiere ai giovani coltellinai, agendo in tal modo nel senso della salvaguardia di un importante complesso di competenze artigiane, attive nei processi di rivitalizzazione dell’economia e della cultura locale. Sempre in provincia di Firenze, la Pro loco di Signa opera come luogo di coordinamento di un importante tessuto associativo locale, che comprende anche realtà museali, archivi e biblioteche, in forte connessione con il comune. Questi nuovi attori della società civile agiscono in nome di un riconoscimento internazionale che li legittima agli occhi delle loro istituzioni nazionali, e possono rivendicare un diritto al riconoscimento della loro azione di salvaguardia del patrimonio culturale.
Altre tendenze segnalano percorsi di diverso tipo in atto. Un’attenzione particolare meritano le candidature multinazionali e le candidature in rete. Di fronte all’eccesso di domande di candidatura da parte degli Stati e alla competizione scatenata tra comunità in lista di attesa per candidare elementi condivisi (per es. una festa con caratteristiche simili, un insieme di competenze artigianali, una stessa tradizione che unisce più comunità), su domanda del Giappone fu istituito, nel 2012, un gruppo di riflessione internazionale, incaricato di analizzare la possibilità di candidature allargate, o in rete, anche all’interno di uno stesso territorio nazionale. Al Comitato di Baku, nel 2013, la candidatura italiana della Rete delle grandi macchine a spalla che ha riunito quattro diverse comunità locali (Palmi, Viterbo, Nola, Sassari) situate in contesti regionali diversi, si è imposta all’attenzione internazionale come primo concreto caso di candidatura in rete a livello nazionale.
Questo esempio italiano è interessante come caso di studio delle diverse modalità di interpretazione e uso della Convenzione e del paradigma di patrimonio culturale immateriale. Significativa pare la tendenza a costituire, attraverso le candidature in rete (multinazionali o nazionali), scambi e riconoscimenti di tratti culturali condivisi da comunità culturali situate in contesti geopolitici diversi: assume rilievo dunque il potenziale del patrimonio culturale come strumento di dialogo interculturale, di politiche di riconoscimento della diversità ma anche di tratti culturali comuni, possibili vettori di solidarietà planetarie.
Se il riconoscimento di tratti culturali comuni, pur nella diversità dei contesti espressivi, sembra delineare una possibile gestione non campanilistica, aperta, comparativa e dialogica dei patrimoni culturali, la logica che soggiace a questo tipo di processi può entrare in conflitto con le esigenze di riconoscimento di specificità che emerge dai contesti locali. Le candidature in rete segnalano la natura complessa della gestione delle risorse culturali nei contesti globali, in cui si incontrano, convergono e si scontrano norme e logiche internazionali, nazionali, locali con la definizione di sentimenti di appartenenza di comunità i cui confini sono continuamente negoziati e soggetti a forze e interessi di mercato, che spesso sfuggono alle possibilità di controllo degli attori sociali.
Altri casi di candidature italiane in corso, come quella promossa dalla rete Città del tartufo, riunendo realtà locali che vanno dall’Umbria al Piemonte intorno alla valorizzazione e promozione di una risorsa alimentare frutto di una complessa interazione con l’ambiente, costituiscono una interessante controtendenza all’uso campanilistico e localistico della Convenzione, puntando su tratti culturali condivisi e su una visione di gestione delle risorse in chiave di sviluppo economico territoriale. Favorendo dinamiche di marketing territoriale radicato in pratiche locali, questi processi di candidatura corrono il rischio di produrre una frattura tra la gestione delle risorse culturali in chiave di sviluppo economico e i processi di studio e di documentazione scientifica.
Nel 2008, in occasione della ratifica della Convenzione, in preparazione di un evento – L’Italia delle tradizioni, che vide affluire a Roma, al Vittoriano, un grande numero di associazioni culturali, musei, attori sociali – affidato all’associazione italiana SIMBDEA, ONG accreditata presso l’UNESCO, il suo presidente Pietro Clemente, ponendo in luce la necessità di un più forte investimento e di maggiore attenzione dei poteri pubblici verso tutte le varie, disperse, non riconosciute forme espressive della diversità culturale italiana, segnalava la mancata menzione del patrimonio culturale immateriale nel Codice dei beni culturali e del paesaggio. Pochi anni dopo, possiamo dire che la situazione di ‘vuoto legislativo’ segnalata in quello scritto non è mutata, mentre il panorama successivo alla ratifica della Convenzione si è notevolmente arricchito di iniziative che vengono non solo dalla società civile, ma anche dalle collettività territoriali, dal settore privato e, sul piano legislativo, in particolare dalle regioni. Analizzando la «lacuna del Codice dei beni culturali e del paesaggio», parlando di «erosione della ‘concezione cosificata di bene culturale’» che ritroviamo nell’articolo 2 del Codice, che lega strettamente i beni e le ‘cose’ di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico, bibliografico, il giurista Antonio Tarasco definisce la chiusura della nozione proposta dal Codice in questi termini:
Al fondo della concezione c’è sempre una cosa oggetto di un diritto patrimoniale. Di tal guisa, anche la nuova concezione di ‘patrimonio culturale’, la cui ampiezza semantica pur si presterebbe a ricomprendere in sé ogni espressione della dimensione culturale, non riesce ad esplodere le sue potenzialità (Tarasco 2011, p. 55).
L’articolo 7bis, tentativo di adeguamento del nostro Codice alla normativa internazionale del 2008, finisce infatti per riconfermare l’impianto concettuale e giuridico del Codice, prevedendo che
le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalla Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente il 3 novembre 2003 e il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente Codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti per l’applicabilità dell’art. 10 (p. 56).
Insistendo sull’unità «ontologica e perciò giuridica del concetto di patrimonio culturale», richiamando i passaggi, a livello dell’ordinamento interno italiano, da ‘cosa d’interesse storico-artistico’ a ‘bene culturale’ (Tarasco 2011) per giungere all’introduzione della nozione di patrimonio culturale e all’ampliamento delle competenze ministeriali non solo ai beni ma anche alle «attività» culturali (ex d. legisl. 20 ott. 1998 nr. 368), la riflessione del giurista verte sulla resistenza del sistema al cambiamento. Come si può salvaguardare l’effetto di un processo culturale, senza tener conto di quest’ultimo? E come tutelare il patrimonio culturale frammentandolo nei suoi infiniti prodotti/oggetti/tracce?
Alla luce di queste considerazioni, emerge una catena che lega e collega la diversità biologica (Convenzione sulla biodiversità del 1992), la diversità culturale (che comprende le conoscenze tradizionali), la creatività. Sono i valori che la Commissione Europea ha messo in evidenza nella sua Comunicazione del 2003 (Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, Verso uno strumento internazionale sulla diversità culturale, 27 agosto 2003, COM (2003) 520 definitivo). In preparazione della ratifica della Convenzione UNESCO, parlando di «rafforzamento dei diversi momenti che plasmano la catena creativa e culturale, cioè la creazione stessa. […] Le dimensioni dell’eredità culturale e della creatività si trovano connesse». Se il giurista scrive: «In tal modo, tenendo vive le espressioni culturali, s’intende impedire che esse restino confinate nei musei o ristrette in schemi folkloristici», la Comunicazione conclude:
L’obbiettivo è di integrare in queste due dimensioni, tramite la diversità culturale, strategie globali di sviluppo sostenibile. Le autorità pubbliche sono vieppiù ricettive all’esigenza di coltivare il dialogo interculturale, affinchè ne escano rafforzate la pace, la sicurezza e la stabilità sulla scena mondiale (Tarasco 2011, p. 60).
La lenta e difficile trasformazione dell’ordinamento giuridico e istituzionale italiano, che come abbiamo visto emerge da un’analisi dell’evoluzione delle pratiche istituzionali nel loro insieme, corrisponde anche a un incerto, mancato riconoscimento del profilo delle discipline antropologiche negli organi ministeriali.
Con l’istituzione delle regioni, nel 1975, all’opera di tutela dello Stato si affianca quella, varia e articolata, di valorizzazione, compito dei nuovi governi regionali. Tenendo conto degli elementi emersi dall’analisi del Codice, non meraviglia che i poteri regionali abbiamo cercato di colmare le lacune dell’ordinamento nazionale, istituendo leggi specifiche, dotandosi di progetti autonomi di inventariazione dell’immateriale, in maniera talvolta collegata con i criteri del sistema di catalogazione scientifica centrale, come nel caso della Lombardia e della Sicilia. Questa modalità di elaborazione della Convenzione, sembra rispondere in maniera adeguata alla grande diversità delle culture regionali, e all’evoluzione storica che caratterizza le ricadute dell’imposizione di regioni amministrative su precedenti configurazioni territoriali e sulle aree culturali. Nel caso dell’arco alpino, per es., i confini nazionali e regionali non arrivano a scardinare più profonde continuità culturali e territoriali, riproposte nelle geografie legate ai progetti europei INTERREG, tra i quali particolarmente interessanti per le tematiche di frontiera, confine e circolazione dei patrimoni culturali immateriali i tre progetti europei Sentinelle delle Alpi (http://www. grande-traversee-alpes.com/fr/sentinelles-des-alpes), Memoria delle Alpi (http://www.memoriadellealpi.net), ECHI.Etnografie italo-svizzere per la valorizzazione del patrimonio immateriale (http://www.echi-interreg. eu/pages/il-progetto-e.ch.i).
Il caso della Lombardia già evocato è di particolare interesse per analizzare le tendenze che caratterizzano l’Italia del Nord, in particolare Piemonte e Lombardia e le regioni dell’arco alpino (Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige). Il riconoscimento anche normativo (l. reg. 23 ott. 2008 nr. 27) di svariate manifestazioni in Lombardia evidenzia l’attenzione al patrimonio culturale tradizionale delle diverse comunità, al mondo popolare, alle minoranze, alla cultura rituale e del lavoro, alla musica e al teatro popolare. Come scrive Renata Meazza ripercorrendo le vicende dell’Archivio di etnografia e di storia sociale e delle intense campagne di documentazione che caratterizzano le sue attività in un contesto di forte modernizzazione e generale disattenzione verso le culture popolari, quello che caratterizza questo contesto regionale è una lettura del patrimonio culturale ‘di tradizione’ come risorsa. Una prospettiva che avvicina un contesto regionale molto portato verso la produzione e lo sviluppo economico, al concetto di salvaguardia di tratti culturali vivi, per un futuro economicamente vitale e sostenibile:
Il patrimonio culturale di tradizione è letto come risorsa, cioè come potenziale fattore di sviluppo per i contesti territoriali e i loro abitanti: prima di tutto in termini di salvaguardia […] poi sotto l’aspetto attrattivo, grazie alla capacità di attrarre investimenti predisponendo idonei programmi che nei diversi ambiti locali tengano conto delle specifiche risorse endogene e delle loro potenzialità (Meazza 2011, p. 48).
La ratifica della Convenzione UNESCO viene a consolidare ulteriormente le tendenze già in atto con programmi specifici di ricerca e valorizzazione, come il programma dedicato ai «luoghi della tradizione e del lavoro», in cui la ricerca etnografica sul campo viene intesa come ricerca-azione, direttamente collegata a programmi di sviluppo locale. Alcune aree, caratterizzate dalla persistenza di attività produttive tradizionali, come la produzione di fisarmoniche dell’Oltrepò pavese, la pesca, la cantieristica navale a Monte Isola, il bacino minerario dell’alta valle Seriana ecc., sono state oggetto non solo di ricerca, ma di specifici progetti di uso dei materiali della ricerca ai fini dello sviluppo economico locale. Con la citata legge 27 del 2008 sulla valorizzazione del patrimonio culturale immateriale, si introduce nella legislazione regionale un nuovo e coerente ambito di intervento, fino a quel momento confuso (come nel caso di molte altre regioni italiane) nei vari ambiti dello spettacolo, dei musei, della catalogazione dei beni culturali. Ma la legge riconosce anche, con lo ‘spirito della Convenzione’, due fattori che determinano una nuova gestione dei beni culturali: la definizione di bene, che insiste sulla dimensione evolutiva e processuale, una risorsa collettiva aperta, e l’«inclusione di una nuova tipologia di attori».
L’inclusione di una nuova tipologia di attori nel riconoscimento del valore patrimoniale di una pratica o di una testimonianza orale è talmente sostenuta nello spirito della Convenzione da proporre che la stessa identificazione del patrimonio venga condiviso con la società civile o con le stesse ‘comunità di pratica’ (Meazza 2011, p. 48).
Istituendo diversi Registri tematici che riprendono le categorie proposte dalla Convenzione (Registro dell’oralità, delle arti e dello spettacolo, della ritualità, dei saperi naturalistici, dei saperi tecnici), l’azione di coordinamento dell’AESS ha costituito, tramite una piattaforma web, una ‘comunità REIL’, pensata come un catalogo web di progetti che prevede la partecipazione diretta degli attori sociali, talvolta responsabili anche della redazione del testo di presentazione dell’elemento identificato. Nel Registro, viene sottolineato il valore della ricerca etnografica condotta negli anni, come fattore di continuità e di consapevolezza:
la ricerca svolta e pubblicata nel corso degli ultimi trent’anni ha di fatto creato le condizioni per il mantenimento da parte delle comunità di una sorta di consapevolezza dei loro patrimoni (p. 51).
Nel contesto del progetto europeo, laboratorio internazionale di scambio di esperienze, è stato svolto uno studio comparativo che mette a confronto le scelte di metodo di dieci inventari del patrimonio culturale immateriale attraverso il mondo. Su questa base è stata elaborata una scheda di catalogazione definita come compromesso tra la scheda ministeriale BDI (Beni Demoetnoantropologici Immateriali) e i criteri derivati dal confronto internazionale, che favoriscono la semplicità di redazione, la compilazione da parte di tutti gli attori che lo richiedano direttamente on line, il collegamento con i social network. Il catalogo è aperto a tutto il territorio del progetto finanziato dall’Unione Europea, costituendo in tal modo un cantiere di condivisione transfrontaliera di processi e progetti relativi ai patrimoni culturali.
Questo contesto regionale dinamico ha accolto, a Milano nel 2013, il seminario internazionale Il patrimonio culturale immateriale tra società civile, ricerca e istituzioni, un momento di formazione internazionale e di confronto sulla possibilità di creazione di una rete nazionale che ha riunito gran parte delle ONG italiane accreditate presso l’UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, costituendo un primo momento di bilancio dello stato dell’arte delle progettualità a esso relative in Italia. A questo incontro hanno partecipato significative presenze, in particolare alcune reti come la rete degli ecomusei del Piemonte, la rete dei musei etnografici lombardi, l’Unione nazionale delle proloco, un importante gruppo di associazioni veneziane. La partecipazione della rete ecomusei del Piemonte va interpretata come segno della forte vitalità di politiche del patrimonio culturale ancorate ai territori, e come in Lombardia, la tendenza a vedere un nesso forte tra queste esperienze e le politiche del patrimonio culturale immateriale.
La Regione Piemonte ha sviluppato politiche di riconoscimento delle minoranze linguistiche e culturali – legate alle valli di montagna, alle tradizioni transfrontaliere – di valorizzazione dei patrimoni culturali locali tramite il sistema di musei ed ecomusei che la avvicinano alle esperienze francesi, lavorando anche sul riconoscimento di espressioni specifiche, come le musiche popolari e gli «esercizi commerciali aperti al pubblico che hanno valore storico, artistico, ambientale o che costituiscono testimonianza storico culturale tradizionale e ne promuove la salvaguardia e la valorizzazione» (Memoria e cultura del territorio e del patrimonio linguistico ed Ecomusei, http://www.regione. piemonte.it/cultura/cms/memoria-e-cultura-del-territorio-e-patrimonio-linguistico.html).
Sin dalla sua istituzione la Regione Piemonte è stata particolarmente attenta alla tutela del suo patrimonio storico-linguistico. Infatti lo statuto – approvato con l. 22 maggio 1971 nr. 338 –, integrato e modificato dalla l. reg. statutaria 4 marzo 2005 nr. 1, recita: «La Regione tutela e promuove l’originale patrimonio linguistico della comunità piemontese, nonché quello delle minoranze occitana, franco-provenzale e walser» (art. 7, 4° co.). Successivamente, dalla fine degli anni Settanta, la materia è stata normata con altri specifici provvedimenti via via integrati e modificati, tra cui la l. reg. 10 apr. 1990 nr. 26, prima integrata e modificata dalla l. reg. 17 giugno 1997 nr. 37 e poi abrogata dalla l. reg. 7 apr. 2009 nr. 11. Pur in assenza di leggi nazionali di riferimento, quest’attenta normativa regionale ha dunque consentito al Piemonte di sviluppare e favorire numerose iniziative finalizzate appunto alla tutela e valorizzazione del suo complesso patrimonio culturale e linguistico e di quello delle minoranze occitana, franco-provenzale e walser. Questa prospettiva va considerata nel quadro complessivo di politiche regionali sensibili allo sviluppo del territorio, che ne sottolineano il carattere dinamico, appoggiandosi al lavoro di Hugues de Varine su ecomusei e musei di società (2002), ma anche a una tradizione piemontese di impegno degli intellettuali nei campi della memoria e della storia orale, della biografia e autobiografia, dell’espressione di soggettività e creatività, che vede figure di spicco in studiosi come Luisa Passerini, Daniele Jalla, Saverio Tutino, e si affida anche a gruppi di lavoro come quello dell’Istituto storico della Resistenza e del mondo contemporaneo di Torino. La presentazione della l. reg. 17 ag. 1998 nr. 23 (Modifiche alla l. reg. 14 marzo 1995 nr. 31), consultabile sul sito della regione, collega territorio, sviluppo sostenibile, espressioni culturali, patrimonio materiale e immateriale.
Negli ultimi anni la necessità di unire la qualità di un territorio con il miglioramento delle sue condizioni ambientali e la realizzazione di obiettivi sociali quali l’inclusione e la diffusione del benessere, ha visto nascere un nuovo concetto di sviluppo e valorizzazione del territorio. Espressione di tali obiettivi è proprio la politica degli ecomusei che, grazie alla legge che la Regione Piemonte ha emanato nel 1995 (l. reg. nr. 31), ha visto il primo esempio, a livello nazionale, di una normativa in materia. Essa dispone l’istituzione di ecomusei sul proprio territorio per ricostruire, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, la cultura materiale e le relazioni fra ambiente naturale e ambiente antropizzato. L’ecomuseo è visto come espressione della cultura di un territorio considerato nella sua globalità, strumento per il suo recupero, rilancio e potenziamento. Una sorta di laboratorio dove, con la partecipazione attiva e il coinvolgimento della comunità, salvaguardare il passato ma soprattutto progettare un futuro. All’interno della progettualità ecomuseale, il territorio emerge nelle sue componenti come un sistema di valori e di relazioni, come il prodotto di una specifica e irriproducibile storia. Le realtà locali divengono interpreti insostituibili per affrontare in modo efficace, risolutivo ed equo i grandi e i piccoli problemi connessi con la conservazione di un patrimonio materiale e immateriale e per definire processi di sviluppo fondati su criteri di sostenibilità (http://www.regione.piemonte.it/cultura/cms/memoria-e-cultura-del-territorio-e-patrimonio-linguistico/ ecomusei.html).
Partecipando all’incontro di Milano del 2013, la rete degli ecomusei del Piemonte ha redatto un testo di intenzioni che ci permette di situare il valore di questa esperienza nel grande cantiere del patrimonio culturale immateriale. Il testo insiste sulla nuova categoria di patrimonio immateriale come strumento di riconoscimento delle tradizioni, delle identità locali e dei contesti sociali, di un loro valore patrimoniale pari a quello del patrimonio monumentale riconosciuto, nella prospettiva dello sviluppo economico locale. Per gli ecomusei è centrale il ruolo svolto dalla popolazione locale: il patrimonio di cui si occupano è infatti quello riconosciuto dalla sua comunità, che ne è detentrice e responsabile.
In quest’ottica, la creazione di un ecomuseo altro non è se non l’espressione di un progetto locale, finalizzato alla salvaguardia dell’identità storica e culturale di un luogo e alla promozione di processi sostenibili di trasformazione e sviluppo. (C. Cancellotti, L’écomusée n’est pas musée. Gli ecomusei come laboratori produttori di cultura, territorio e relazione, «Altre modernità», 2011, 5).
Facendo riferimento alle tre Convenzioni internazionali, le due Convenzioni del Consiglio dell’Europa, la Convenzione europea del paesaggio (2000), la Convenzione di Faro (2005) e la Convenzione 2003 dell’UNESCO, gli ecomusei del Piemonte indicano, come contributo al processo di rete italiana, alcune linee di azione orientate a favorire progetti comuni, momenti di formazione, identificazione di buone pratiche di salvaguardia, istituzione di un collegamento permanente basato sul web.
Nel contesto del citato seminario di Milano, la forte presenza di associazioni e studiosi veneziani e veneti va collegata con la vitalità che caratterizza la regione Veneto in materia di riconoscimento del valore del patrimonio culturale come strumento di diritto e di sviluppo, e che si esprime a vari livelli, tra i quali l’elaborazione di un progetto di legge regionale come esempio di scambio e dialogo tra il mondo associativo, i giuristi del patrimonio culturale e gli antropologi. Utilizzando un linguaggio ispirato alle terminologie delle Convenzioni, la proposta di legge preconizza «la creazione e lo sviluppo d’inventari del patrimonio culturale immateriale della regione, con la partecipazione e la collaborazione attiva delle relative comunità di eredità». Le tendenze osservabili durante incontri e seminari internazionali e nazionali, organizzati a Venezia tra il 2010 e il 2014 sul tema del patrimonio culturale immateriale, testimoniano di una notevole mobilitazione sia della società civile e delle associazioni veneziane sia del mondo accademico e della ricerca. Un fermento di iniziative testimoniato dall’importante partecipazione al seminario internazionale di Milano sia di associazioni storiche come le ‘Scuole grandi’ sia di associazioni create più recentemente, per proposte sperimentali di turismo alternativo (come le ‘passeggiate patrimoniali’) nate in dialogo con altre città europee, nell’intento di aprire questo ambito a forme di partecipazione che sperimentino nuovi incontri tra patrimonio culturale e creatività artistica. Venezia, sede italiana del Consiglio dell’Europa, è fortemente impegnata nel processo italiano di ratifica della Convenzione di Faro, nella riflessione sul concetto di ‘comunità di eredità’, tra diritti culturali, conflitti identitari, sviluppo turistico, salvaguardia delle tradizioni locali e nuove sfide delle democrazie.
In conclusione, possiamo constatare il grande impatto che le nuove politiche del patrimonio culturale immateriale stanno producendo nella società italiana a tutti i livelli, compreso quello dei governi regionali. Legittimando processi in corso, provocando nuove configurazioni e sistemi di rete, portando il patrimonio culturale a incontrarsi con le esigenze e le aspirazioni di un vasto e articolato insieme di attori, tra Stato, regioni, società civile e mondi locali, il paradigma del patrimonio culturale immateriale sta producendo cambiamenti rilevanti, portando in luce la grande vitalità delle tradizioni culturali nel mondo contemporaneo, il loro essere un patrimonio processuale e trasformativo che è ormai diventato oggetto di interessi economici, politici e sociali in uno scenario globale interconnesso, conflittuale e infinitamente diversificato.
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