Il parlamento dal modello inglese alla realtà odierna
Solo richiamandosi alla storia del Parlamento inglese è possibile cogliere i tratti dei moderni parlamenti. Mentre in altri Paesi – principati germanici, Fiandre, Sicilia, Svezia, Francia – le assemblee parlamentari, variamente denominate, saranno formate da appartenenti a ordini o ceti posti a difesa dei loro privilegi, in Inghilterra, più decisamente che altrove, tenderà progressivamente ad affermarsi il concetto di «rappresentanza politica». Nei Paesi del continente europeo sarà invece la Rivoluzione francese, qualche secolo dopo, a modellare nuove istituzioni parlamentari, pur sempre riallacciandosi alla esperienza inglese, ma costruendo le stesse quali istituzioni deputate a esprimere i caratteri «assoluti» della sovranità popolare.
Già nel 1565 Thomas Smith avrebbe potuto affermare che «il parlamento rappresenta e detiene il potere dell’intero reame […] giacché si reputa che ogni inglese sia in esso presente, sia di persona sia per procura e mandato» (De Republica Anglorum, 1583, II, p. 78). Qualche anno prima, nel 1523,Tommaso Moro aveva proclamato con forza la libertà di parola dei membri del Parlamento, che sarebbe stata preziosa nella battaglia contro l’assolutismo regio, prima contro i Tudor poi contro gli Stuart. Nel 1649 un Parlamento decimato, ma indomito, condanna alla pena capitale Carlo I Stuart che lo aveva sfidato tentando di trarre in arresto numerosi membri della Camera dei comuni. Con la decapitazione, avvenuta a Whitehall davanti a una grande folla, la supremazia del Parlamento sarebbe rimasta impressa nella storia inglese, anche dopo la parentesi repubblicana e la restaurazione monarchica. Nel 1689 con il Bill of rights, dopo la fuga di Giacomo II, il potere del Parlamento viene riconosciuto da Guglielmo III d’Orange non più solo come «privilegio» dei corpi parlamentari ma come «diritto» dei cittadini: il re assume l’impegno di non levare truppe e di non adottare provvedimenti finanziari senza il consenso delle camere, di non operare ingerenza alcuna nelle elezioni. Ma soprattutto Guglielmo assume l’impegno a non esercitare lo ius dispensandi, a non esonerare chicchessia dall’osservanza delle deliberazioni del Parlamento, aprendo così la strada a una significativa affermazione del principio di legalità. Nel 1701 l’Act of settlement non solo stabilirà che la successione regale spetta ai discendenti di casa Hannover – facendo così emergere una funzione costituente del Parlamento stesso – ma prevederà altresì la incompatibilità fra l’ufficio di deputato e la condizione di stipendiato dal re delineando con più nitidezza l’autonomia del Parlamento.
Negli anni fra il 1721 e il 1742 con l’emergere del ruolo di primo ministro di sir Robert Walpole comincia a delinearsi la figura del premier. Con essa si rafforza l’influenza del Parlamento sulla stessa composizione del governo del re e si incominciano a definire quei tratti che saranno propri della forma di governo parlamentare. Se nei secoli precedenti era stato vieppiù difficile per il re governare contro il consenso del Parlamento, dal sec. 18° in poi sarebbe stato consentito governare solo a un gabinetto in grado di godere la fiducia del Parlamento.
Anche l’assetto bicamerale di tanta parte dei parlamenti occidentali trae le sue origini nella storia inglese. La divisione delle due camere sarà necessaria per riflettere i diversi equilibri fra le classi rappresentate, l’aristocrazia nella Camera dei lord, la nascente borghesia cittadina nella Camera dei comuni. Non è agevole individuare la data della separazione definitiva in due camere, ma è possibile collocare attorno al 1377, sotto Riccardo II, la divisione fra camera alta e camera bassa: da una parte i conti, i vescovi, i titolari di antiche baronie, dall’altra i rappresentanti delle città. Poco a poco prende consistenza l’idea che «solo i comuni rappresentano la nazione mentre i pari non rappresentano che diritti personali» (E. Fischel, Die Verfassung Englands, 1862, trad. it. 1866). Con l’ulteriore rafforzamento della borghesia produttiva e il conseguente ampliamento della base democratica della Camera dei comuni, realizzatasi con la riforma elettorale del 1832, si divaricheranno ulteriormente i poteri della stessa rispetto a quelli della Camera dei lord. Tale processo, iniziatosi allorché si era cominciata a delineare la competenza prevalente dei «comuni» in materia finanziaria, si concluderà con il Parliament act del 1911 che riconoscerà alla Camera dei lord solo un «veto sospensivo» sull’approvazione delle leggi (e sarà ulteriormente rifinito nel 1999 con le riforme promosse dal governo Blair che ridimensionerà la presenza dei pari ereditari).
Quanti in Europa continentale, nel corso dell’Ottocento, vorranno superare le esperienze rivoluzionarie, basate sulla dittatura delle assemblee monocamerali, e non vorranno restaurare l’assolutismo monarchico, potranno richiamarsi alla esperienza britannica, pervenendo a un sistema di relazioni fra le due camere che, pur mantenendo il potere di freno e moderazione di una camera non elettiva (la camera alta), valorizzerà la camera di diretta derivazione popolare (la camera bassa), le cui decisioni saranno prevalenti sia per l’attività legislativa sia per l’indirizzo politico. In tal direzione anche lo Statuto albertino che articolerà, fino alle soglie della Costituzione repubblicana, il Parlamento in due camere, la Camera dei deputati di diretta elezione popolare, e il Senato regio formato da membri ereditari e da notabili – per lo più tratti dalle alte burocrazie o dalle professioni – nominati dal re su richiesta del governo in carica.
Anche nel corso del Novecento, se si fa eccezione per taluni Paesi dell’Europa scandinava o per gli Stati di nuova indipendenza, decisamente orientati verso sistemi monocamerali, si manterrà in molti Paesi il modello bicamerale, ma l’attitudine a temperare da parte delle camere alte non deriverà più dai titoli ereditari (o solo da essi) ma dai titoli più vari. In alcuni casi deriverà dai titoli professionali, in particolare l’appartenenza all’alta burocrazia o alle università (così il Senato irlandese). In altri casi deriverà dall’elezione indiretta per opera di appositi collegi elettorali (così il Senato francese eletto dai consiglieri delle comunità locali, in prevalenza espressione della Francia più conservatrice). Si avranno anche camere alte espresse mediante cooptazione da parte della stessa camera bassa (un sesto della seconda camera nella Costituzione francese del 1946) o dalla nomina o designazione da parte dello stesso governo (così il Senato del Canada e di altri Paesi del Commonwealth). In qualche caso si agirà sullo stesso elettorato attivo componendo le seconde camere mediante il voto riconosciuto a categorie differenziate di cittadini, per esempio partendo – è il caso del Senato repubblicano italiano – dal requisito dell’età più matura nell’elettorato attivo e passivo.
Sono peraltro regrediti i tentativi di ancorare le seconde camere alla rappresentanza delle categorie economiche. Solo in qualche Paese la camera alta deriva ancora (almeno per una parte) dall’appartenenza a categorie economiche. Erano già falliti, del resto, i tentativi più radicali di superare del tutto la rappresentanza «politica» per affermare forme di rappresentanza «corporativa» di lavoratori e produttori nei regimi fascisti (per esempio l’italiana Camera dei fasci e delle corporazioni). Né sorte migliore hanno avuto le camere economiche sperimentate nelle democrazie popolari.
In epoca contemporanea il sistema bicamerale appare (in qualche modo) funzionante solo negli Stati federali, o in quelli a forte decentramento regionale ove, mediante la seconda camera, viene assicurata la rappresentanza degli Stati o delle comunità locali, secondo un modello sperimentato per primi dai costituenti americani e seguito, subito dopo, dalla Confederazione elvetica. Rispetto ai Paesi a sistema parlamentare rappresenta un’isolata eccezione l’Italia repubblicana, dotata di un modello di bicameralismo «perfetto», imperniato su due camere che svolgono le medesime funzioni legislative e di indirizzo politico. È una pagina lasciata aperta dal costituente che non fu in grado di scegliere fra la soluzione monocamerale perseguita dalle sinistre e quella a bicameralismo ineguale perseguita dalla Democrazia cristiana, che puntava su un Senato rappresentativo delle articolazioni economiche e professionali delle comunità regionali.
La rappresentanza politica assicurata dai parlamenti assolve oggi tre funzioni, quella rappresentativa, quella legislativa, quella di legittimazione dei governi. Secondo le concezioni anglosassoni la funzione legislativa è svolta da rappresentanti che formano «un corpo scelto di cittadini la cui saggezza può meglio intravedere l’interesse reale del paese» (J. Madison, The Federalist n. 10, 1787, ma così anche Montesquieu, De l’esprit des lois, 1748, XI, 6) che non sono però portatori di verità predeterminate. Secondo le concezioni rivoluzionarie francesi (ispirate a J.-J. Rousseau nel Contrat social, 1762, II, 1) detta funzione deve essere svolta in modo tale da fare emergere la volonté générale («La legge è espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere di persona, o mediante loro rappresentanti, alla sua formazione», Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, art. 6, 1789). Da qui la tendenza dei parlamenti continentali a farsi soprattutto interpreti di tale suprema volontà e a trascurare il confronto trasparente con gruppi portatori di interessi settoriali, perseguito invece nel Congresso americano.
La funzione di legittimazione delle istituzioni di governo, e la conseguente funzione di controllo sulle stesse, è intervenuta, come si è visto, in una fase successiva. Agli esordi del costituzionalismo le assemblee di rappresentanti o hanno condiviso tale funzione con la monarchia (in Inghilterra o nelle altre monarchie dualiste) o hanno preteso di svolgere direttamente funzioni di governo (nella fase giacobina della rivoluzione). Solo il costituzionalismo americano ha riconosciuto tale funzione direttamente in capo agli elettori, cui (per il tramite di 538 grandi elettori) è demandata l’elezione del presidente. Detta funzione, svolta attraverso il rapporto fiduciario instaurato dalle assemblee con il governo, è essenziale nelle forme di governo parlamentari. È svolta in modo esclusivo nei regimi a tendenza assembleare; in modo più limitato in quelli a tendenza primo-ministeriale in cui, di fatto, pesano anche gli orientamenti non médiatisés degli elettori. In ogni caso tale funzione parlamentare tende ad assumere caratteri (prevalentemente) formali, essendosi spostata (il diffondersi delle crisi extraparlamentari ne è un sintomo) o sui partiti, nelle democrazie cosiddette «consociative», o direttamente sul corpo elettorale, nelle democrazie denominate «competitive».
Nel corso del Novecento, infatti, il sistema dei partiti, la natura degli stessi (a «disciplina coesa», come in Gran Bretagna, o a «vincolo debole», come negli Stati Uniti) e le loro relazioni reciproche hanno sempre più modellato la struttura della rappresentanza parlamentare e i compiti del parlamento. A sua volta il tipo di sistema elettorale adottato per l’elezione del parlamento influenza i lineamenti di fondo del sistema dei partiti. Del resto, sotto un profilo storico, gli stessi partiti tendono a distinguersi a seconda che trovino alimento nelle lotte e nelle divisioni in parlamento (prevalentemente i partiti di opinione) ovvero nelle lotte sociali (i partiti di massa). I partiti di quest’ultimo tipo, a loro volta, si caratterizzano come partiti parlamentari o come movimenti extraparlamentari, in relazione alla loro maggiore o minore capacità di integrazione nella democrazia rappresentativa.
Nel secondo dopoguerra le istituzioni parlamentari hanno dovuto affrontare non pochi problemi. La mitizzata «centralità del parlamento» è sempre più (fin dagli anni Trenta) messa in discussione dalla concentrazione di poteri in capo agli esecutivi, resa necessaria dal crescente intervento statale nell’economia, tanto da fare definire i governi come «comitati direttivi delle maggioranze parlamentari». La stessa funzione di rappresentanza non è più da tempo monopolio dei partiti in parlamento ed è svolta, spesso con maggiore incisività, da organizzazioni sindacali od organizzazioni di interessi favorendo così pratiche neocorporative, in grado di incidere sui caratteri stessi della rappresentanza politica.
Pur rimanendo il parlamento la sede privilegiata per le decisioni riguardanti microinteressi, assumono un crescente rilievo altre sedi decisionali relative ai «macrointeressi»: autorithies, banche centrali e, soprattutto nei Paesi dell’Unione Europea, organizzazioni sovranazionali, cui si vanno aggiungendo gli accresciuti poteri di istituzioni proprie dell’economia globalizzata. Fino a che punto la conseguente caduta della «responsabilità governativa» che ne consegue sia compatibile con i principi propri di un sistema parlamentare è problema tuttora aperto.
La necessità di adottare decisioni su beni cosiddetti irreversibili (in materia internazionale, in ordine ai temi della bioetica o delle scelte ambientali) ravviva, inoltre, il tentativo di contrapporre alla «sovranità parlamentare» forme dirette di espressione della «sovranità popolare», contestando la legittimazione del parlamento ad assumere decisioni in assenza di specifici mandati popolari o di una previa consultazione referendaria.
Peraltro, per effetto del sempre più spiccato attivismo di tribunali costituzionali, la legge, massima espressione dei parlamenti, non solo è sottoposta ai limiti sanciti dalle norme costituzionali, ma tende a essere valutata anche sotto il profilo della sua «ragionevolezza» e dell’uso corretto del potere legislativo. Da massima espressione della sovranità parlamentare la legge tende così a trasformarsi in un atto di discrezionalità. Di conseguenza gli strumenti per la tutela dei diritti e il conseguente necessario bilanciamento fra gli stessi vengono assunti sempre più dal raccordo fra i giudici comuni e i tribunali costituzionali (nazionali, europei, internazionali) e sempre meno dai legislatori, così offuscando la «soggettività politica» delle istituzioni parlamentari.
Nonostante i segni di crisi, ulteriormente alimentati da forme ricorrenti di antipolitica, le istituzioni parlamentari rimangono tuttora lo strumento principale a sostegno dei regimi liberaldemocratici. Rimane determinante, tra l’altro, la funzione di integrazione democratica da esse ripetutamente svolta: come nei secoli scorsi le istituzioni parlamentari avevano consentito il compromesso fra aristocrazia e borghesia, così nel corso del Novecento, dopo l’estensione del suffragio universale, hanno reso più agevole il «compromesso socialdemocratico» fra ceti borghesi e classi lavoratrici. Non si è realizzato, in breve, né il proposito di cancellare dalla storia le istituzioni parlamentari né quello di limitarsi a utilizzare le stesse come tribuna autorevole nella attesa di una società libera da ogni forma di rappresentanza politica.
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