Il parricidio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lo strapotere di cui gode il paterfamilias, non regolamentabile, diviene tentazione criminale per i sottoposti privi di una qualunque autonomia, innanzitutto i figli. La gravità del reato, in qualche modo proporzionale ma di segno opposto al potere patriarcale, è considerata mostruosa e alla stregua di una forma di contagio, contro il quale vengono applicati riti finalizzati all’espulsione del colpevole dal consesso sociale. La pena del sacco comminata al parricida è stata ed è oggetto di dibattito fra gli specialisti per la sua curiosa composizione, anche se tutti concordano nell’interpretarne il nucleo come una procedura atta ad evitare la contaminazione della comunità.
Il parricidio, a Roma, non è un crimine come gli altri: uccidere il padre è un atto di tale inaudita gravità da indurre a considerare il parricida un vero e proprio monstrum, vale a dire un essere mostruoso e maledetto, mandato dagli dèi a segnalate la loro ira, e quindi pericolosissimo, in quanto capace di contaminare tutto ciò con cui viene in contatto. Di qui la necessità di condannarlo a una pena che è al tempo stesso un atto di purificazione, la cui crudeltà è tale da suscitare sorpresa e orrore anche all’interno del panorama crudelissimo dei supplizi capitali romani.
L’applicazione di questa pena, detta "pena del sacco" (poena cullei) non si esaurisce in un solo momento, ma richiede una serie di riti che mettono in scena una sorta di rappresentazione, il cui primo atto consiste nel far calzare al condannato degli zoccoli di legno, coprirgli il capo con una pelle di lupo e condurlo nelle carceri, in attesa che venga preparato il sacco di cuoio o di tela ricoperta di pece, nel quale deve essere rinchiuso. Il secondo atto consiste nel mettere il condannato nel sacco insieme a un cane, un gallo, una vipera e una scimmia (animale allora presente nel Mediterraneo: il nome greco dell’isola di Ischia, Pitecusa, significa appunto isola delle scimmie). Il terzo atto consiste nell’issare il sacco su un carro trainato da un bue nero e portarlo sulle rive del Tevere (del mare o del più vicino corso d’acqua in epoca più avanzata). E qui – quarto atto – il reo, sempre chiuso nel sacco, vivo o cadavere che ormai sia, viene gettato nelle acque. I tentativi di spiegare la ragione e il significato dei diversi aspetti e momenti della cerimonia è stato ed è oggetto di molte discussioni. La scelta degli animali, ad esempio, è stata spiegata in modo diverso: secondo alcuni, ciascun animale avrebbe un valore simbolico (anche se, ad esempio, nessuno è riuscito a trovare un convincente riferimento al gallo). Secondo altri, gli animali sarebbero un segnale: se, un giorno, qualcuno ritrovasse il sacco, portato a terra dalla corrente, di fronte al singolare miscuglio di ossa che vi sono contenute verrebbe a sapere che alcune di esse sono quelle di un parricida.
Qualcosa di simile al fiore o al limone in bocca nelle esecuzioni mafiose. Di altri gesti, invece, il significato è più chiaro: il materiale impermeabile di cui è fatto il sacco serve a impedire al condannato di contaminare l’acqua e la luce con il suo sguardo impuro; gli zoccoli di legno, isolandolo, gli impediscono di contaminare il suolo; la pelle di lupo (residuo di un antico rito iniziatico) sta a significare la morte simbolica del condannato, ancor prima che lo colga quella fisica. Ma al di là di tutto questo, quel che la pena del sacco certamente rivela, nella sua diversità e specialità, è l’orrore e il terrore suscitato dal crimine che esso è destinato a punire. I rapporti tra padri e figli, a Roma, erano molto complessi e tutt’altro che semplici. L’ampiezza e la durata dei poteri di un capofamiglia è tale da gravare in modo molto pesante su figli e discendenti, sottoposti alla sua patria potestà non solo fino al raggiungimento della maggiore età, come oggi, ma fino a che il padre (o nonno, o ascendente ulteriore) è ancora in vita. Alla morte di un capofamiglia, inoltre, solo i figli di questo vengono liberati; tutti gli altri (nipoti e pronipoti in linea maschile) cadono sotto la potestà dei nuovi capifamiglia, vale a dire i figli del defunto (che alla sua morte sono diventati tali); questo fa sì che spesso un cinquantenne o, nel caso di un paterfamilias particolarmente longevo, persino un sessantenne sia ancora sottoposto a patria potestà, con la conseguenza di dipendere ancora dal padre non solo nelle scelte personali di vita – ad esempio la scelta del coniuge – ma anche economicamente.
A Roma infatti il solo titolare del patrimonio familiare è il padre, che si limita a dare ai figli una quantità di beni e danaro, detta peculio (peculium), che ritiene sufficiente alle loro necessità, ma che continua a essere di sua proprietà. Se a questo si aggiunge che al compimento della maggiore età i figli acquistano la capacità di diritto pubblico e quindi non solo votano, ma possono essere eletti magistrati, ben si comprende perché i rapporti tra generazioni sono complicati e perché i parricidi sono molto frequenti. A dare un’idea di come sia seria la situazione, basterà ricordare che attorno al 55 a.C. una legge stabilisce che venga punito come parricida il figlio che ha comprato del veleno allo scopo di uccidere suo padre, anche se poi non glielo ha somministrato. Leggiamo inoltre in Tacito che l’imperatore Claudio ha comminato molte volte la pena del sacco, e a dare un’idea della frequenza con cui lo ha fatto interviene Seneca, che specifica che egli ha chiuso nel sacco tanti parricidi che questa pena è diventata più frequente della crocifissione. Infine in un passo del giurista Ulpiano leggiamo che va punito come parricida anche colui che dà del danaro in prestito a un figlio, sapendo che questi intende usare il denaro per acquistare veleno o per assoldare un sicario al fine di uccidere il padre. Il parricidio, insomma, è un crimine che accompagna come un incubo la vita dei romani, attraverso tutti i lunghi secoli della loro storia.