Il particolarismo postcarolingio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La costruzione imperiale di Carlo Magno non modifica la tradizionale concezione patrimoniale del regno franco, che – riproposta anche dai successori – origina spartizioni ripetute e profondi contrasti interni, aprendo una lunga stagione di disordini. Durante questa fase, continua però il rafforzamento di poteri locali determinanti nella storia dell’impero, i quali, se da un lato possono essere visti come fattori della sua disgregazione, dall’altro si rendono protagonisti di processi di lungo periodo, che contribuiscono a definire il profilo dell’Europa latino-germanica in modo duraturo ed incisivo.Disegni di unità e istanze della tradizione: da Ludovico il Pio a Verdun
Malgrado la Divisio regnorum dell’806, la morte dei fratelli consegna a Ludovico il Pio l’intero complesso imperiale. Il sovrano punta a salvaguardarne l’unità, vista come condizione imprescindibile per ottemperare al dovere di protettore della cristianità che l’ideologia imperiale gli attribuisce. Perciò, se con l’Ordinatio imperii dell’817 si muove apparentemente nel solco della tradizione, in realtà proclama l’indivisibilità dell’impero e ne destina la titolarità al primogenito Lotario, mentre riserva i territori periferici agli altri due figli, Pipino e Ludovico il Germanico.
Proprio le sue scelte, però, determinano il fallimento del progetto unitario. Dapprima si ribella – vanamente – il nipote Bernardo, privato dei propri diritti; ma quando, nell’829, Ludovico inserisce nella successione anche il figlio nato dalla seconda moglie, il futuro Carlo il Calvo, si apre una stagione di conflittualità intensa, in cui i figli combattono contro il padre e fra loro, in vari schieramenti.
Dopo la morte di Ludovico il Pio e di Pipino, il trattato di Verdun (843) definisce la situazione: a Carlo vanno i territori occidentali, a Ludovico il Germanico quelli orientali; Lotario conserva il titolo di imperatore e i territori d’Italia e della Lotaringia.
Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico governano a lungo, conferendo una certa omogeneità ai loro territori; Lotario I è invece in una posizione più debole, malgrado il titolo imperiale: non ha influenza sui regni dei fratelli, i suoi domini sono fortemente eterogenei e, infine, la consuetudine lo induce a un’ulteriore spartizione, che assegna l’impero al primogenito Ludovico II.
Alla morte di questi, che non ha eredi maschi, la Corona passa a Carlo il Calvo e, due anni dopo, a Carlo il Grosso, figlio di Ludovico il Germanico. Per via dei legami dinastici e del gioco delle successioni, Carlo il Grosso assume anche il titolo di re d’Italia dall’880, di Germania dall’882, di Francia dall’884. Egli, tuttavia, non riesce a incarnare un ruolo di potere effettivo: a seguito di gravi sconfitte subite dai Normanni e di un progetto di successione inviso ai grandi del regno di Germania, è costretto all’abdicazione alla fine dell’887, e muore pochi mesi dopo.
Nei decenni successivi, sul trono di Germania si alternano le principali famiglie aristocratiche. Una di esse, quella dei Sassoni, più di 70 anni dopo, ridarà vigore al titolo imperiale, su un’area ormai definitivamente ristretta al complesso territoriale formato dalla Germania e dall’Italia.
Una delle chiavi dell’affermazione di Carlo Magno – e, ancor prima, dell’ascesa dei Pipinidi – era stata l’intensa opera di valorizzazione delle clientele vassallatiche.
La creazione di legami personali, la sapiente integrazione di quelli già operanti sul territorio, le relazioni con le istituzioni religiose avevano costituito strumenti di governo di grande efficacia ed elasticità, capaci di dare corpo all’idea di un ordinamento pubblico, e al contempo di offrire all’aristocrazia, nello slancio espansivo della monarchia franca, occasioni di arricchimento e di incremento di potere.
Quando, però, i Carolingi cominciano a combattersi fra loro, la rete dei poteri particolari si infittisce, accentua il proprio radicamento locale e diventa un elemento di disgregazione potente.
Sono gli stessi sovrani a innescare il processo: cercando alleati, ampliano la schiera dei vassalli e intensificano la concessione dei benefici, producendo un impoverimento del patrimonio pubblico a vantaggio proprio di quell’aristocrazia che poi, schierandosi con l’uno o con l’altro dei contendenti alla successione, contribuisce attivamente all’instabilità dell’impero.
Le vicende dell’interpretazione del capitolare di Quierzy, emanato da Carlo il Calvo nell’877, costituiscono un elemento e una riprova di questo processo: alla vigilia di una spedizione contro i Saraceni, Carlo prevede un’amministrazione provvisoria per i grandi benefici eventualmente rimasti privi di titolare, per rassicurare i nobili del suo seguito che non sarebbero stati danneggiati dalla partecipazione all’impresa. Ma l’aspettativa della trasmissione ereditaria è già elevata, e il capitolare viene interpretato come ratifica dell’ereditarietà dei feudi maggiori: è quindi evidente che, prima ancora che si sia verificata la definitiva disgregazione dell’impero, si è già determinata la patrimonializzazione dei benefici maggiori.
Il particolarismo si manifesta con vigore non solo nello smembramento del corpus imperiale, ma anche all’interno dei regni, a tutti i livelli di articolazione delle circoscrizioni pubbliche.
Esso, infatti, non può essere letto solo come conseguenza della trasmissione ereditaria dei benefici e degli uffici maggiori. È necessario tener conto anche di quanto avviene all’interno delle distrettuazioni maggiori, che i grandi vassalli non sempre riescono a tenere efficacemente sotto controllo, finendo per abbandonare le aree periferiche: in questo modo, all’interno delle circoscrizioni pubbliche originarie, si delineano centri di potere minori, nei quali il dominio effettivo si configura anche come usurpazione di poteri che i funzionari rinunciano a esercitare.
Il processo è intensificato e complicato dall’azione uguale e contraria che gli stessi grandi vassalli esercitano sui territori più vicini ai propri domini diretti: anche se tali territori non rientrano nella loro giurisdizione, essi tendono a crearvi legami personali e a esercitarvi compiti di governo, scompaginando la distrettuazione originaria.
In modo non dissimile si comportano coloro che, sprovvisti di qualunque titolo ufficiale, dispongono però di vasti possessi fondiari – che è relativamente facile ampliare nella disordinata stagione postcarolingia – al cui interno prendono a esercitare funzioni militari e giudiziarie, riuscendo in seguito a ottenere una qualche forma di legittimazione pubblica, per esempio entrando nelle clientele della maggiore aristocrazia.
La storiografia contemporanea ha indicato queste realtà politico-territoriali con la denominazione “signoria di banno”, mettendone in evidenza i legami con processi di ricomposizione territoriale e con modifiche importanti degli assetti insediativi (incastellamento) e ha individuato un elemento decisivo per comprendere la rapidità della loro enucleazione: l’impiego della terra come forma di remunerazione privilegiata dei servigi che i sovrani ottengono dai loro fedeli e questi dai propri sottoposti, un impiego reso necessario dall’assetto generale dell’economia (che impedisce la creazione di un corpo di funzionari stipendiati), ma che favorisce la tendenza alla patrimonializzazione dei benefici e alla dinastizzazione delle cariche.
Guardare al complesso dei processi sopra delineati a partire dall’idea di una crisi imperiale consente di cogliere come sia definitivamente cessata l’unificazione politica dell’Europa latino-germanica, apparentemente compiuta durante il regno di Carlo Magno. Ma quell’unificazione può essere vista solo come l’aspetto momentaneo di un processo di più lungo periodo, che invece non viene affatto interrotto dall’epoca del particolarismo.
Si tratta del processo mediante il quale già prima di Carlo Magno, e molto dopo di lui, l’Europa latino-germanica si dota di ordinamenti di governo relativamente uniformi, articolati su complessi territoriali che lentamente assumono una coesione ben più forte di quella dell’impero carolingio: l’età del particolarismo, da questa prospettiva, non appare più solo come la fase di disgregazione di un impero che in realtà non aveva mai avuto il profilo di uno stato unitario; essa si configura piuttosto come la risposta di una società dura e violenta ai problemi della costruzione di una rete efficace di inquadramento del territorio; ci appare come l’humus vitale in cui si individuano almeno due aree (Germania e Francia) destinate ad assumere coerenza geografica e culturale di lunga durata, ed è infine ben lontana dal provocare la fine dell’aspirazione ideale a una forma di unità simbolica e religiosa, che sarà ritrovata e riproposta con maggior vigore nei secoli successivi.