Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per “petrarchismo” si intende quella espressione letteraria che si propone di rielaborare temi, immagini e figure stilistiche della lirica di Francesco Petrarca. Al nobile idealismo, alla religiosità tormentata del grande trecentista, i poeti cinquecenteschi associano il potente messaggio spirituale dell’eros proprio del neoplatonismo rinascimentale, i cui esponenti più significativi sono Ficino (il suo Commento al Convivio platonico diviene un paradigma), Giovanni Pico della Mirandola e Leone Ebreo.
Premessa
La tradizione che prende a modello gli stilemi ideati da Francesco Petrarca arriva ai poeti cinquecenteschi attraverso i poeti cortigiani del secolo precedente, cui aggiungono note e temi totalmente innovativi.
Fra i petrarchisti quattrocenteschi, parecchi (Panfilo Sasso, Antonio Tebaldi, Serafino Aquilano ecc.) finiscono sovente con il ridurre la ricchezza contenutistica e formale della poesia petrarchesca a un gioco intellettuale, quasi di una ingegnosità barocca. Altri, con una più forte e originale personalità, reinventano la lezione petrarchesca con esiti più vivi (si pensi soprattutto a un Cariteo, a un Sannazaro o a un Boiardo).
È specialmente presso le corti e le accademie dell’Europa centro-meridionale che il petrarchismo diviene a poco a poco una forma espressiva dominante. Così a partire dalla seconda metà del Quattrocento, fioriscono i canzonieri in cui i petrarchisti, fedeli anche in questo al maestro, raccolgono le loro poesie come storie di anime innamorate. Al nobile idealismo, alla religiosità tormentata del grande trecentista, i poeti cinquecenteschi associano il potente messaggio spirituale dell’eros proprio del neoplatonismo rinascimentale, i cui esponenti più significativi sono Marsilio Ficino (il suo Commento al Convivio platonico diviene un paradigma), Pico della Mirandola e Leone Ebreo. In maniera più o meno sentita, i petrarchisti europei affermano che l’amore per la donna costituisce una via per elevarsi moralmente e spiritualmente, sino a raggiungere la divinità. E va sottolineato che diversi fra questi poeti sono assai impegnati sul fronte religioso: mentre alcuni non si discostano dall’ortodossia cattolica, altri scelgono di abbracciare una delle riforme (si può dunque parlare di petrarchismo fabrista, valdesiano, calvinista, ecc.) che tendevano tutte a riscoprire e rivivere il cristianesimo delle origini.
Italia
Alte aspirazioni etico-spirituali e un limpido desiderio di regole e forme si riscontrano negli Asolani del giovane Pietro Bembo (1470-1547), che diviene infatti il vero teorico del petrarchismo per il quale l’uomo cinquecentesco, di fronte a una temporalità incerta e confusa, deve attingere la norma di un modello fuori del tempo. Opera della maturità, le Prose della volgar lingua non solo offrono la grammatica e la stilistica di una lingua letteraria, ma propongono Petrarca come paradigma di ogni confessione e meditazione poetica: nel Canzoniere petrarchesco, Bembo ritrova la misura di uno stile naturale, composto, elegante, limpido e armonioso che corrisponde al suo ideale moderno di classicità.
E le sue Rime, dove rifioriscono puntualmente temi, immagini, stilemi petrarcheschi, saranno a loro volta imitate, nel corso del secolo, da scrittori di tutta Europa. Ma la più stretta osservanza del magistero bembiano si riscontra in area veneta. Il nobiluomo veneziano Bernardo Cappello ripete senza accenti personali, nella sua raccolta di Rime, la scrittura codificata dal maestro. Di contro, dopo aver accolto il magistero bembiano, il letterato Antonio Brocardo (m. 1531) vi si ribella a favore di una poesia facile e melodica.
Ma vi sono anche i poeti religiosi che si avvalgono del linguaggio petrarchista per fini edificanti, come il frate minore Gerolamo Malipiero, il quale riduce in veste spirituale le rime petrarchesche (Il Petrarca spirituale), e il predicatore Gabriel Fiamma, autore a sua volta di Rime spirituali che, raffigurando l’itinerario dell’anima dall’abisso del peccato alla luce del ritorno al volere divino, ben testimoniano lo spirito della Controriforma.
Fondatore dell’importante Accademia veneziana, dove si riuniscono molti petrarchisti per discutere questioni letterarie, Domenico Veniero ha rapporti di amicizia con numerosi scrittori veneti; e le sue poesie, raccolte postume soltanto nel 1751, rivelano gusto sicuro, notevole impegno etico e una non comune perizia tecnica.
Per quanto occupato da un’intensa attività diplomatica, Celio Magno partecipa a diverse accademie e coltiva appassionatamente la poesia. Nelle sue Rime, segnate da una severa eleganza, egli canta le gioie dell’amicizia, le bellezze dell’universo, la paura della morte e anche la dignità della storia.
Se le rime di Giulio Camillo Delminio, il prestigioso e acclamato esperto di retorica e mnemotecnica, risultano decorose ma di scuola, quelle di Girolamo Muzio appaiono fresche, lievi e di una tenera sensualità.
Monotono e macchinoso è invece l’intellettualismo compiaciuto di molte poesie di Luigi Groto, noto soprattutto per i suoi drammi.
Il piccolo canzoniere (77 componimenti) di Gian Giorgio Trissino raccoglie soprattutto versi giovanili e, benché sia opera minore, conferma una sensibilità per così dire sperimentale, aperta agli stilnovisti e a Boiardo.
Noto soprattutto per le fortunate Novelle, il piemontese Matteo Bandello, più che seguire i precetti bembiani, si confronta liberamente con Petrarca e la tradizione del petrarchismo cortigiano del Quattrocento e nel suo nutrito canzoniere, dal titolo Alcuni fragmenti de le Rime, introduce non pochi riferimenti alla realtà contemporanea e alle proprie esperienze biografiche.
Matteo Bandello
Questo colombo e me di par ardore
Alcuni fragmenti de le rime
Questo colombo e me di par ardore
arde fervente Amor in crudo fuoco:
egli sen va cercando in ogni loco
la sua colomba, e di desir sen more,
ed io la notte e ’l dì, da tutte l’ore
cerco la donna mia, e sì m’infuoco
non la trovando, e di chiamarla roco
vengo, che quasi mi si svelle il core.
Ei se l’amata sua ritrova, tanti
baci soavi dàlle, e sì s’avviva,
che poi va gonfio di soverchia gioia.
Ma s’io mi trovo alla mia donna avanti,
tremando e ardendo stommi, ed ella schiva
si volge altrove, e vuol alfin che muoia.
in Lirici del Cinquecento, a cura di D. Ponchiroli, Torino, UTET, 1968
Bernardo Tasso, il padre del grande Torquato, è un poeta laborioso, immerso nella faticosa vita di corte, che tenta alcuni interessanti esperimenti metrici e introduce nella poesia italiana l’ode, derivata dai Carmina del poeta latino Orazio.
Allo stesso modo Jacopo Marmitta si segnala per le delicate Rime, in cui fonde le eleganze classicheggianti del petrarchismo ortodosso con l’equilibrio e la sapienza psicologica della lirica di Orazio.
La Ninfa tiberina di Francesco Maria Molza è un vivace poemetto in ottave, composto probabilmente per celebrare le bellezze della gentildonna romana Faustina Mancini Attavanti: in questi versi ricchi di richiami mitologici si avverte, oltre a un’assimilazione personale della lectio del Bembo, una perfetta conoscenza della poesia latina (è anche valido poeta neolatino) e delle Stanze di Poliziano.
Né si potrà poi dimenticare Claudio Tolomei, una figura notevole per le accese polemiche ortografiche e linguistiche e per il tentativo di introdurre una metrica fondata, alla maniera dei greci e dei latini, sul principio quantitativo, con l’idea suggestiva di una “poesia barbara” e con un petrarchismo ricondotto al senso solenne di una dotta classicità.
Il lucchese Giovanni Guidiccioni, che a diciotto anni decide di vestire l’abito ecclesiastico e ricopre poi importanti incarichi diplomatici, eccelle nel genere civile, nel morale e nel religioso, maestro di stile e di vita morale.
Di minore interesse, ma tutt’altro che trascurabile è la poesia di Francesco Beccuti detto il Coppetta, che nella maturità approda a un classicismo morbido, disposto all’idillio.
Se poi si lascia da parte la pregnante, singolare ricchezza delle Rime tassiane, le voci più alte del petrarchismo italiano paiono Giovanbattista Strozzi, Giovanni Della Casa e Michelangelo, i quali, per indagare le loro profonde, laceranti inquietudini, spingono la gravità bembiana a un nuovo pathos espressivo. Il primo è certamente il più dotato fra i madrigalisti prima del Tasso, dando voce nelle sue composizioni musicalmente brevi alle ansie e ai travagli della sua perplessa interiorità.
Il Della Casa, autore del celebratissimo Galateo, è stato definito a ragione “il maggior poeta italiano fra Ariosto e Tasso”.
Se le lettere dopo la morte di Paolo III, che lo ha protetto, mostrano un uomo insoddisfatto della sua carriera pubblica, pessimista e disingannato, la vicenda esistenziale di Giovanni Della Casa si proietta, sublimata, anche nelle Rime, in cui è evidente il passaggio dalla gravitas della poetica bembiana a un recitativo di inquietante originalità, contraddistinto, fra l’altro, dall’uso insistito dell’enjambement (detto allora “spezzatura” o “inarcatura”), quasi con lo scatto di una dominata ossessione. Ciò che viene alla luce è un universo emozionale turbato, nello stesso universo del dramma interiore che vivono le coscienze più lucide e attente dell’età della Controriforma.
Giovanni Della Casa
Affliger chi per voi la vita piagne
Rime
Affliger chi per voi la vita piagne
che vien mancando e ’l fine ha da vicino,
è natural fierezza, o mio destino,
che sì da voi pietà parta e scompagne?
Certo, perch’io mi strugga e di duol bagne
gli occhi dogliosi e ’l viso tristo e chino,
e quasi infermo e stanco peregrino
manchi per dura via d’aspre montagne;
nulla da voi fin qui mi vene aita;
né pur per entro il vostro acerbo orgoglio
men faticoso calle ha ’l penser mio.
Aspro costume in bella donna e rio
di sdegno armarsi, e romper l’altrui vita
a mezzo il corso, come duro scoglio.
in Lirici del Cinquecento, a cura di D. Ponchiroli, Torino, UTET, 1968
Perciò la lirica introspettiva di questo “travagliato stilista” (come lo ha definito Croce) costituisce una delle prove più alte di un manierismo metafisicamente commosso.
Di contro Michelangelo appare invece dolorosamente diviso fra le brame di una carne impetuosa e i nobili desideri di un fervido spirito nutrito di evangelismo e neoplatonismo ficiniano, con una “terribilità” che dall’universo delle forme figurative e plastiche si trasferisce anche nella scrittura, dove egli illustra e medita gli splendori della natura e dell’arte, confessa angosciato i propri peccati, fissa immagini realistiche delle miserie umane e si confronta di scorcio con la realtà contemporanea. Il suo stile, in cui l’influsso di Dante è forte quanto quello petrarchesco, sa essere ora gagliardo e popolaresco, ora alto e misurato, senza mai rinunciare a una virile energia.
Michelangelo Buonarroti
Perché l’età ne ’nvola
Rime
Perché l’età ne ’nvola
il desir cieco e sordo,
con la morte m’accordo,
stanco e vicino all’ultima parola.
L’alma che teme e cola
quel che l’occhio non vede,
come da cosa perigliosa e vaga,
dal tuo bel volto, donna, m’allontana.
Amor, c’al ver non cede,
di nuovo il cor m’appaga
di foco e speme; e non già cosa umana
mi par, mi dice, amar...
in Lirici del Cinquecento, a cura di L. Baldacci, Milano, Longanesi, 1975
Diverso è il paesaggio letterario a sud di Roma: caratteristiche comuni ai petrarchisti meridionali sono il gusto per i concetti difficili, peregrini o paradossali, l’attenzione per gli elementi della natura e una risentita e franca sensualità. Cavaliere di alto e solitario sentire, Galeazzo di Tarsia ci lascia un magro canzoniere (appena una cinquantina di poesie) di tagliente forza espressiva: con immagini incisive e tormentati paesaggi investiti dalla sua intensa emozione. E tuttavia, anche in questa tensione, non scompare l’impronta del petrarchismo alto di Bembo.
Non solo petrarchista colto, ma anche autore di un’importante Historia del Regno di Napoli, Angelo di Costanzo integra, per così dire, l’esempio bembiano con una calcolata sottigliezza retorica, che può già sembrare un preannuncio della cultura e dell’ingegnosità barocca, anche nel suo taglio epigrammatico.
Anche il suo amico Bernardino Rota stende, in onore dell’amatissima consorte perduta, un piccolo canzoniere, il quale, oltre che da un affettuoso trasporto e da una costante finezza psicologica, è caratterizzato da procedimenti stilistici tipici del manierismo.
Altra individualità di spicco nell’ambiente napoletano è Luigi Tansillo, autore di poemetti su vari argomenti e di un poema sacro poi rielaborato anche da François de Malherbe, oltre che di un notevole canzoniere, dove dipinge con tratti incisivi paesaggi turbati e sinistri. Le sue poesie amorose, consacrate a un amore intenso e deluso, manifestano alle volte una sensualità potente e aperta.
Poeta di minore respiro, il capuano Benedetto Dell’Uva compone austere ma fluide rime spirituali, di un sentimento religioso tutt’altro che convenzionale.
Nel nome del Petrarca c’è anche una poesia femminile. Le poetesse petrarchiste sono soprattutto aristocratiche di ordinata cultura e “cortigiane oneste” non meno colte: le une come le altre manifestano sovente una vivezza di ispirazione e una passionalità irrequieta che trascendono le stesse formule del petrarchismo canonico. Venuto meno lo sposo, Gilberto X, signore di Correggio, Veronica Gambara amministra con oculata saggezza il piccolo Stato padano e, pur aderendo alla lezione del Bembo (il quale, d’altra parte, apprezza le sue Rime), attinge una sua singolarità stilistica.
Così dopo la morte del marito Ferrante Francesco d’Avalos, Vittoria Colonna approfondisce la sua ricerca intellettuale (è nota la sua relazione spirituale con Michelangelo) e soprattutto religiosa (assai vicina com’è all’evangelismo di Juan de Valdés): la sua integra tensione etico-spirituale, che insieme alla memoria del coniuge domina nelle Rime, si cala in uno le di intensa e austera essenzialità.
Vittoria Colonna
Dal soverchio desio nasce la tema
Madrigali
Dal soverchio desio nasce la tema
e fa che l’alma in un gioisca e gema;
sente l’ardor che ’l miser core offende,
quando dal suo imperfetto
il sublime valor non si comprende.
Ma poi che ’l lume irradia l’intelletto,
il mal fugge e la noia,
e sol m’apporta gioia,
e fa l’altezza del mio bel pensiero
il falso falso, e ’l ver più che mai vero.
in Lirici del Cinquecento, a cura di D. Ponchiroli, Torino, UTET, 1968
Non è provato che la nobile Gaspara Stampa di Padova faccia parte della folta schiera di cortigiane che intrattengono piacevolmente i gentiluomini rinascimentali. A ogni modo, sottratto al canone stabilito dal Bembo, il suo vivace canzoniere si segnala per una immediatezza d’eloquio che colpisce e convince.
Tullia d’Aragona, nata a Roma da famiglia napoletana, figura anch’essa tra le “cortigiane oneste” del tempo, con Rime, che non mancano di perizia espressiva. Cortigiana è pure la veneziana Veronica Franco, cui va riconosciuto un realismo schietto, talora sorprendente.
Sposa dello scultore e architetto fiorentino Bartolomeo Ammannati, la dotta poetessa Laura Battiferri dà il meglio di sé nella poesia religiosa, con una spiritualità serena e affabile, sia pure meno tormentata di quella di Vittoria Colonna.
Le rime della nobile lucana Isabella di Morra, uccisa a soli 26 anni dai fratelli, per la sua relazione con un aristocratico spagnolo, propongono una riflessione accorata sul vivere, in uno stile alto, a modo suo acerbo e quasi schivo.
Tristezza e fervore etico-civile animano anche le poesie migliori della napoletana Laura Terracina, nel quadro di un’intensa vita letteraria. A sua volta, in un raccoglimento che la mette anche in ombra, la lirica di Chiara Matraini da Lucca sa modularsi in forme personali e discrete sul registro di un nobile Cinquecento. Su tutt’altra via, l’attrice padovana di lungo successo Isabella Andreini infrange gli schemi della cultura petrarchesca ufficiale con una teatralità fatta anche di stravaganza. Ma qui va anche detto che alla poetica petrarchista si oppongono poi, in nome di un realismo che è a sua volta una convenzione letteraria, scrittori di luoghi diversi come Berni, Firenzuola, Du Bellay e altri. Francesco Berni (1497-1535), quasi un caposcuola, traduce in caricatura, in registro comico, la maniera petrarchesca, sostituendo alla bellezza una sorta di grottesco quotidiano, tra sordido e compiaciuto. Così il petrarchismo genera anche il proprio contrario, nella sfera di un pittoresco naturalmente antiplatonico e anticlassico.
Nel Cinquecento italiano, dunque, molti di coloro che hanno una certa familiarità con lo scrivere si sforzano di imitare il Petrarca: mentre alcuni si attengono scrupolosamente alla rigida codificazione del Bembo, altri - non di rado dotati di più forte personalità – adattano i temi e le formule della koiné petrarchista alle loro più profonde esigenze interiori. In quest’ultima schiera si ravvisano certamente gli scrittori più rilevanti e “universali” del movimento.
Francia
Geniale discepolo dei retori, Clément Marot, pur non avendone la cultura, possiede lo spirito dell’umanista. Evangelista del milieu di Margherita di Navarra che subisce parecchie persecuzioni, è poeta fra i più originali e simpatici del secolo, e ha il merito di introdurre in Francia il sonetto e lo strambotto. Contro il luogo comune di un Marot poeta lieve e frivolo, gli studiosi hanno di recente sottolineato l’importanza, nella sua varia e ampia produzione, dell’elemento religioso. E oltre a 50 Salmi, Virgilio, Ovidio, Erasmo e altri autori, Marot traduce anche Petrarca. Ma nei suoi versi sempre mossi egli sa cantare tanto l’aristocrazia quanto la gente comune, tra gioie e dolori, splendori e miserie, ideali e derisioni, fascino della vita e nostalgia di una morte che conduce alla libertà dai travagli di un’esistenza sempre imperfetta.
Clément Marot
Su che tipo di amante bisogna cercare
L’amante
Se proprio vuoi farti un’amante,
scovar te la devi grandetta,
d’ingegno evoluto e galante
e, quanto più sai, rotondetta.
Furbetti
gli occhietti;
di saggio
linguaggio,
che danzi, che canti d’amore,
regina di corpo e di cuore.
Non sia (tolga il ciel!) troppo acerba.
Ne avresti l’ardor d’un momento.
Dà il pomo, a una bruna superba:
bei fianchi e gentil portamento.
Ben tale
pur vale
che caccia
si faccia;
prendiamola a vol la pernice.
Chi afferra tal preda è felice.
in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze, Sansoni, 1974
Nel 1533, il poeta lionese Maurice Scève, mentre studia ad Avignone, crede di scoprire il sepolcro della Laura del Petrarca, e anche questo fa parte del culto petrarchesco. In realtà, la sua opera di maggior impegno, un canzoniere intitolato Délie, sceglie la strada di uno stile complesso e oscuro: in dizains (componimenti di dieci decasillabi), Scève narra neoplatonicamente la storia della sua anima, dall’amore per una donna bellissima al raggiungimento delle supreme virtù. E mentre nella Saulsaye contrappone gli affanni mondani alla felicità del solitario, nel Microcosme - un poema didascalico in tre libri - ripercorre i progressi che l’umanità ha compiuto, dopo la caduta di Adamo, per signoreggiare la natura. Fra i suoi discepoli va soprattutto ricordata Pernette du Guillet, sentimentalmente legata allo Scève e autrice di dense poesie neoplatoniche, nonché Louise Labé, le cui liriche (una in italiano) danno espressione a una schietta, gagliarda sensualità.
Intanto i giovani poeti della Pléiade, dopo aver studiato con appassionata acutezza le opere dei classici greci e latini, del Petrarca e dei petrarchisti d’Italia, rielaborano con forte originalità questa esperienza formale. Pontus de Tyard, che passa dal milieu lionese (è intimo amico dello Scève) a quello della Pléiade, è autore di versi petrachisti intrecciati di elementi neoplatonici, che si riflettono anche nei suoi Discours philosophiques, dove si affrontano con dottrina alcune delle questioni allora più dibattute quali il furor poetico, la curiositas, l’astrologia. Ma è Joachim Du Bellay a stendere il fervido manifesto della Pléiade, sulla necessità di poetare nella propria lingua, seguendo le orme dei classici e del Petrarca. E tuttavia Du Bellay affermerà anche di volersi affrancare dalle consuetudini cristallizzate del petrarchismo per interpretare più liberamente la vita dei sentimenti. Dopo l’Olive, una raccolta di sonetti petrarchisti, eccolo allora scrivere altri libri di liriche i cui temi principali sono la comparazione fra la grandezza della Roma imperiale e le miserie di quella cinquecentesca, la satira di un mondo immorale, l’amore per la vita semplice dei campi, l’aspirazione a un cristianesimo che, in conformità con le tradizioni gallicane, sia alieno tanto dalla corruzione ecclesiastica quanto dagli ipocriti rigori dei calvinisti. Le effusioni liriche talora venate di malinconia si alternano o si fondono con impietose sferzate ironiche.
Ma certo la figura di maggiore altezza della Pléiade è Pierre de Ronsard, che eccelle in quasi tutti i generi poetici. Dopo anni di studio sotto l’abile guida dell’umanista Jean Dorat (maestro anche del Du Bellay e del Baïf), il poeta compone odi a imitazione di Pindaro e di Orazio che, pur nel tratto geniale, conservano la fatica di un pathos dotto e travagliato. Nella sua lunga carriera di poeta cortigiano, oltre a Hymnes filosofici e morali, intensi Discours, elegie, e a un tentativo epico fallito, Ronsard compone diverse raccolte di sonetti intitolate Amours, in cui dipinge e loda l’aspetto e le virtù delle donne amate, ricreando in maniera via via più personale il linguaggio della tradizione petrarchista.
Pierre de Ronsard
Per la morte di Marie Dupin
Le second livre des amour
Come quando di maggio sopra il ramo la rosa
nella sua bella età, nel suo primo splendore
ingelosisce i cieli del suo vivo colore
se l’alba nei suoi pianti con l’oriente la sposa,
nei suoi petali grazia ed Amor si riposa
cospargendo i giardini e gli alberi d’odore:
ma affranta dalla pioggia o da eccessivo ardore,
languendo si ripiega, foglia a foglia corrosa:
così nella tua prima giovanile freschezza,
terra e cielo esultando di quella tua bellezza,
la Parca ti recise, cenere ti depose.
Fa’ che queste mie lacrime, questo pianto ti onori,
questo vaso di latte, questa cesta di fiori;
e il tuo corpo non sia, vivo e morto, che rose.
in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze, Sansoni, 1974
Anch’essi forti di una solida cultura classica, Rémy Belleau e Antoine de Baïf illustrano il programma della Pléiade: il primo dedica i suoi versi più vivi alla descrizione di quadri naturalistici, mentre il secondo petrarcheggia con tenera eleganza, intavola riflessioni morali di un’intima e antica saggezza, con un interesse specialissimo ai rapporti fra poesia e musica.
Autore della prima tragedia classica francese (Cléopâtre captive), Etienne Jodelle sa essere un lirico di accento personale e commosso, con un ardimento che sembra sfidare la tradizione di cui si nutre. Ma non meno interessante, nella generazione successiva, è Philippe Desportes la cui forma limpida e deliziosa, che qualche storico chiama oggi manieristica, diviene anche uno stile di corte, mentre egli, oltre a comporre poesie che si rifanno anche alla maniera brillante dei petrarchisti dell’Italia meridionale, traduce elegantemente i Salmi.
Jean Bertaud, anch’egli raffinato ed eloquente poeta di corte, nelle sue liriche d’amore segue da vicino le esperienze letterarie di Ronsard e di Desportes. E continuando, tra i poeti ugonotti che accolgono le istanze del petrarchismo, troviamo Agrippa d’Aubigné e Guillaume de Salluste Du Bartas, entrambi ormai prossimi alla temperie del barocco. Nelle sue monumentali Sepmaines, Du Bartas, alla ricerca di un tono nobile e maestoso, di risonanza insieme profonda, si ispira più ai Trionfi che non al Canzoniere.
Agrippa d’Aubigné, che ha conosciuto ancor fanciullo gli orrori e le miserie delle guerre di religione, mostra fin dal giovanile Printemps - che è una raccolta di sonetti, stanze e odi di argomento prevalentemente amoroso - di possedere quella sensibilità esasperata, melanconica e talora violenta, che poi esprimerà pienamente nei Tragiques, la sua drammatica epopea protestante. Nelle poesie erotiche è comunque assai forte anche l’elemento letterario: oltre che dal cantore di Laura e dai suoi emuli italiani e francesi più ortodossi, l’ugonotto trae ispirazione dalle Desperades di François d’Amboise, lo scrittore che introduce dall’Italia il genere della “disperata”, dove l’innamorato non corrisposto o tradito dichiara concitatamente la propria delusione e le proprie angosce. Ma va infine detto che, una generazione dopo, la riforma della poesia francese attuata da François de Malherbe, fautore della semplicità, della chiarezza, del rigore metrico e di un lessico puro e appropriato, nonché severo maestro del classicismo secentesco, si oppone radicalmente alla libertà immaginativa e lessicale dei suoi predecessori rinascimentali.
Spagna
Il primo a sperimentare e diffondere il sonetto e altre forme poetiche italiane in terra spagnola è Juan Boscán Almogáver, poeta non eccelso, che tuttavia diffonde i più alti valori del Rinascimento anche attraverso una mirabile versione castigliana del Cortegiano di Baldassare Castiglione. Dietro consiglio del dotto ambasciatore veneto Andrea Navagero, Boscán si cimenta poi infatti nell’imitazione non passiva dei più illustri poeti italiani.
Il più dotato fra i petrarchisti spagnoli è Garcilaso de la Vega, che incarna anche in maniera piena l’ideale del perfetto cortigiano. Amico di Boscán (le sue poesie sono stampate postume assieme a quelle di quest’ultimo) e in contatto con Bembo, Tansillo e altri intellettuali italiani, egli armonizza con sagace e brillante equilibrio i modelli classici, spagnoli e italiani, con un amore intenso per la natura e l’esistere.
Garcilaso de la Vega
Canzone alla donna crudele
Las obras de Boscán y algunas de Garcilaso de la Vega repartidas en quatro libros
Alla mia sorte in preda,
verso plaghe deserte,
vado seguendo ogni dischiusa via,
ed i lamenti spargo
ad uno ad uno al vento,
che li rapisce seco verso il nulla;
e poiché sono degni,
per loro dolce grazia,
d’una vostra accoglienza,
mi dolgo nel vederli inascoltati,
come se fosser d’ogni pregio privi.
A me debbon tornare
per aver sempre meco lor dimora.
Ma che farò, signora,
in sì grande sventura?
Dove andrò, se con essa a voi non giungo?
Di chi potrò servirmi
in questa mia tristezza,
se in voi non trova asilo il mio lamento?
Voi sola siete quella,
con cui mia volontà
riceve un tale inganno,
che vedendovi lieta a danno mio,
mi lamento con voi, quasi davvero
la vostra dura tempra
a cuor potesse avere la mia morte.
Gli alberi stessi chiamo
fra queste dure rocce,
a confermare quanto vi nascosi;
su ciò che ad essi narro
testimoniar potranno,
se prova si può dar del turbamento.
Ma chi l’ordine serba
nel narrare il dolore,
dell’ordine nemico?
Pena non abbia dunque ciò che dico:
il timore neppur mi frenerò.
Chi potria mai saziarsi
sol di lamenti, senza alcuna speme?
Ma questo m’è vietato
con certi fatti tali,
da cui pure nessuno fu impedito:
e quanti hanno voluto
cantar le loro pene,
piangendo il triste stato a cui son giunti,
han trovato, signora,
dolce conforto e tregua
al tormentoso amore;
ma v’è nel cuore mio tanta passione
che sfugge al volo della fantasia:
e resta in me il dolore
per quanto non m’è dato di narrare.
Se per caso talvolta
volgo lo sguardo mio
per il lungo cammino dei miei mali,
per trovare conforto
a così gran disprezzo,
solo rimango con gli inganni miei;
ma la freddezza vostra
vince la mia follia
e mie difese ammorza.
Ed essendo più vostro ormai che mio,
per darvi almeno questa ricompensa,
così perder mi volli,
per trar di voi vendetta su me stesso.
Canzone, dissi più del mio dovere,
meno del mio pensiero;
s’altro domanderanno lo dirò.
in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze, Sansoni, 1974
Abile nella veste di poeta come in quella di critico, Fernando de Herrera compone un canzoniere i cui temi fondamentali sono l’amore, la patria e la religione.
Se nelle poesie sacre non emerge una vera profondità, in quelle erotiche si avverte la voce di un talento lirico geniale, di un idealismo neoplatonico sincero (ispirato alla trattatistica italiana sull’amore) pervaso di accenti di serena sensualità. Le sue inquietudini creative si possono certo ricondurre alle istanze del manierismo, radicalizzando la lezione di Boscán e di Garcilaso.
Tutt’altro il caso di Luís de León, che nelle sue poesie (pubblicate postume da Quevedo) concilia lo spirito umanistico (traducendo anche Pindaro, Orazio, Virgilio, il Petrarca, il Bembo) con una religiosità appassionata, tesa a una tranquillità interiore lontana dal flusso rovinoso dell’esistenza. Ma per aver tradotto in castigliano il Cantico dei cantici, con esiti di alto splendore, discutendo anche il testo della Vulgata, Luís de León incorre alla fine nei rigori dell’Inquisizione, conclusi con cinque anni di carcere duro.
Tra gli epigoni di Garcilaso, che costituiscono davvero una schiera, l’opera poetica del sivigliano Gutierre de Cetina, che interrompe la carriera di poeta a soli venticinque anni e salpa per il Messico, possiede la bellezza fredda e contenuta dei cammei (così appaiono i suoi madrigali), mentre quella del coltissimo Diego Hurtado de Mendoza, un diplomatico in rapporto diretto con la cultura italiana, racchiude tanto deliziosi quadretti mitologici quanto sguardi sdegnati e amari sulle cose del mondo.
Portogallo
Di ritorno da un lungo soggiorno in Italia, durante il quale ha potuto confrontarsi direttamente con molteplici esperienze poetiche, Francisco Sá de Miranda introduce nel paese lusitano, ancora legato a tradizioni medievali, forme e temi del Rinascimento, con un’autentica rivoluzione culturale. E parte delle sue dotte poesie, prossime ai più illustri patterns italiani, è addirittura composta in castigliano. Notizie non affidabili fanno poi apparire Bernardin Ribeiro una sorta di poeta maledetto ante litteram; e certo le sue Eclogas danno prova di una suprema maestria e di un’eleganza raffinatissima.
Luís Vaz de Camões, autore del grande poema epico Os Lusíadas, ha al suo attivo anche pregevoli Rimas, ove rivive l’universo petrarchesco: fresche e vivide, tra gli elaborati virtuosismi dello stile, esse rappresentano una delle espressioni liriche più mature e convincenti non solo nel paesaggio letterario lusitano.
Luis Vaz de Camões
Sonetto amoroso
Sonetos de Luís Vaz de Camões
Se volgi, a caso, gli occhi tuoi soavi
a guardarmi, talora, in quel momento
io provo entro di me tale contento
che più non temo danno che m’aggravi.
Ma quando o schivi o disdegnosi o gravi
li scorgo, e vedo il tuo viso scontento,
tanta pena mi dài, tale un tormento,
che del vivere quasi mi disgravi.
Così per me tu reggi e vita e morte,
chiuse in un giro dei begli occhi, e sai
darmi coi soli sguardi e morte e vita:
ed io son lieto se pur vuol mia sorte
ch’io da te prenda vita, e se mi dài
morte, per me sarà morte gradita.
in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze, Sansoni, 1974
Gran Bretagna
Spetta a Thomas Wyatt il merito di avere introdotto in Inghilterra la forma metrica del sonetto. Recatosi in Italia per missioni diplomatiche, egli ne ritorna con il proposito di rinnovare la poesia inglese, con l’innesto di temi e forme propri del rinascimento italiano; e suoi modelli sono i testi del Petrarca e di alcuni petrarchisti, da Serafino Aquilano a Luigi Alamanni. Se tali esperimenti appaiono, a dire il vero, incerti e discordi, in alcune delle sue poesie si coglie invece una profonda consapevolezza della miseria della condizione umana.
Amico e discepolo di Wyatt, anche Henry Howard, conte di Surrey, traduce Petrarca, ma ne rielabora in maniera assai più sciolta e metricamente scaltrita la lezione formale. Ed è a Howard che si deve l’avere usato per primo - nella versione di due libri dell’Eneide - quel blank verse (un verso analogo all’endecasillabo sciolto italiano) che diverrà il più illustre fra i metri inglesi: da Shakespeare a Milton, da Byron a Shelley.
Ma qui Astrophel and Stella di Philip Sidney s’impone come uno dei più intensi e acuti canzonieri del secolo. Cortigiano colto ed elegante, intellettuale calvinista permeato di neoplatonismo fiorentino, Sidney vi canta l’ardente passione per Penelope Devereux, costretta a sposare un uomo che non ama; i sonetti della raccolta brillano per la finezza dell’analisi interiore, per la forza degli slanci lirici e per una sensualità assai vicina a quella di certa poesia ronsardiana. Non per nulla la vita di questo gentleman di straordinario carisma sarà vividamente narrata da Fulke Greville in una biografia che escirà postuma solo nel 1652. Diplomatico, drammaturgo e poeta, a Greville si deve una silloge di sonetti (Caelica) in cui, oltre all’influsso petrarchesco, spicca un’adesione convinta alle dottrine neoplatoniche. Allo stesso modo l’alta lezione etica ed estetica di Ficino è presente nei versi di Edmund Spenser, sincero amico del Sidney e membro del suo circolo letterario. In una delle opere minori, la collana di sonetti intitolata Amoretti, prende voce il suo intenso sentimento per Elisabeth Boyle, sposata in seconde nozze nel 1594.
Olanda
Soltanto fra il Cinque e il Seicento si compongono in Olanda testi poetici ispirati a Petrarca e ai petrarchisti. Le edizioni di autori greci e latini curate da Daniel Heinsius attestano una cultura classica profonda, mentre le sue poesie, fra le prime in neerlandese, annunciano la conoscenza delle esperienze poetiche italiane. Quasi suo coetaneo, Pieter Corneliszoon Hooft ha modo di confrontarsi direttamente con le civiltà letterarie d’Italia e di Francia e la sua pagina ne è la conferma puntuale e animata.