di Sissi Bellomo
È la più grande riserva di petrolio al mondo ed è tuttora sfruttata solo in minima parte: la fascia dell’Orinoco, un’area di 54mila chilometri quadrati lungo il corso del fiume omonimo in Venezuela, potrebbe contenerne fino a 1300 miliardi di barili secondo le stime più ottimiste, una quantità quasi pari a quella di tutte le risorse di petrolio convenzionale del globo. Già, perché quello dell’Orinoco convenzionale non è, ma rientra nella categoria – più difficile e costosa da estrarre – dei greggi non convenzionali. Stessa categoria dello shale oil statunitense, dunque. Ma il petroleo extra pesado venezuelano non gli assomiglia affatto, mentre ha molto in comune con le sabbie bituminose del Canada: come le oil sands, il greggio dell’Orinoco è molto pesante, con una densità che lo colloca tra 4 e 16 gradi nella scala Api, dunque all’estremo opposto rispetto ai greggi leggeri o leggerissimi estratti dalle shale rocks negli Usa.
L’extra pesado venezuelano si trova a profondità tra 150 e 1400 metri, spesso mescolato a formazioni sabbiose. Ha l’aspetto e la consistenza della melassa, con una viscosità fino a 10.000 centipoises: in parole povere, scorre a un ritmo 10.000 volte inferiore a quello dell’acqua. Tutte caratteristiche che lo rendono difficile da estrarre e – una volta estratto – impossibile da trasportare attraverso un oleodotto. Per agevolarne la commercializzazione bisogna diluirlo con greggi più leggeri o prodotti raffinati (di solito nafta) o comunque sottoporlo a lavorazioni in impianti di trattamento che lo trasformino in syncrude, petrolio sintetico: processi che aggiungono ulteriori costi a quelli legati all’estrazione, che pure è meno complicata di quella delle oil sands canadesi, ancora più dense, tanto da poter essere tecnicamente classificate in alcuni casi come bitume.
Il progresso delle tecniche estrattive ha fatto passi da gigante negli ultimi anni e in teoria – utilizzando sofisticati sistemi di riscaldamento del terreno e trivellazione orizzontale – il Venezuela potrebbe recuperare fino al 70% del petrolio dell’Orinoco. Le sue riserve petrolifere ufficiali – aggiornate nel 2010 – sono già salite a 298,3 miliardi di barili, collocando Caracas al primo posto nella classifica mondiale secondo l’annuario Bp, una delle fonti statistiche più accreditate nel settore: un upgrading che le ha consentito di superare l’Arabia Saudita, che ha 265,9 miliardi di barili di riserve, e il Canada, che grazie alle sabbie bituminose ne ha 174,3 miliardi. Gli Stati Uniti, nonostante tutto il clamore sullo shale oil, sono solo decimi in classifica, con 44,2 miliardi di barili, superati anche da Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Russia e Libia.
Il problema è che il Venezuela, almeno fino a oggi, non è in grado di sfruttare se non in minima parte le enormi ricchezze che racchiude nel sottosuolo. Il paese è sull’orlo del collasso economico, in gran parte proprio a causa della gestione disastrosa delle sue risorse petrolifere, da cui deriva il 97% delle entrate statali, e la sua produzione petrolifera – che nel 2005 aveva raggiunto un picco di 3,6 milioni di barili al giorno – invece di aumentare diminuisce: oggi arriva a malapena a 2,3 milioni di barili al giorno (anche se Caracas sostiene di estrarre intorno a 3 milioni di barili al giorno).
La compagnia petrolifera di Stato, Petroleos de Venezuela (Pdvsa), dalla fine degli anni Novanta è stata usata come strumento per finanziare le politiche populiste del regime di Hugo Chavez prima e del suo successore Nicolas Maduro poi, senza alcun riguardo per i più banali criteri di redditività ed efficienza gestionale. Basti pensare che il Venezuela, costretto a importare benzina – e recentemente persino petrolio, per diluire il greggio extra pesado – praticamente regala il pieno di carburante ai suoi cittadini e attraverso l’alleanza Petrocaribe invia greggio a prezzi stracciati a Cuba e ad altri 16 paesi dell’area.
Ad aggravare la situazione per Pdvsa c’è l’enorme perdita di know-how subita dal 2003, anno in cui oltre 18.000 dipendenti della società, in gran parte dirigenti e tecnici specializzati, furono licenziati perché ‘colpevoli’ di aver partecipato a uno sciopero: dalla fuga di cervelli che ne seguì Pdvsa non si è mai più ripresa. Anche gli investimenti sono stati trascurati e il poco che è stato fatto ha comportato l’accumulo di enormi debiti, che ultimamente sono diventati ancora più difficili da sostenere: in parte proprio per finanziare lo sviluppo dell’Orinoco, Caracas ha ipotecato la produzione futura, ottenendo dalla Cina prestiti per circa 40 miliardi di dollari, che adesso sta ripagando in natura, con l’invio di quantità crescenti di petrolio a prezzi bloccati e facendosi carico dei costi di trasporto. Nonostante la distanza, le importazioni cinesi di greggio dal Venezuela sono decuplicate dal 2008 a oggi, superando i 600.000 barili al giorno. Quelle degli Stati Uniti sono invece crollate sotto gli 800.000 barili al giorno, ai minimi da quasi trent’anni.