Il piano INA-Casa: 1949-1963
Con la l. 28 febbraio 1949 nr. 43 il Parlamento italiano approvò il progetto di legge Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori, con il quale si sarebbe dato avvio a un piano per la realizzazione di alloggi economici, noto come piano INA-Casa.
I quattordici anni di attività del piano rappresentano una fase significativa della politica economica del dopoguerra, ma certamente anche una delle più importanti, consistenti e diffuse esperienze di realizzazione nel campo dell’edilizia sociale nel nostro Paese. Le sue realizzazioni, alloggi sani e moderni posti entro nuovi nuclei urbani o quartieri, hanno offerto la possibilità a migliaia di famiglie di migliorare le proprie condizioni abitative. Per urbanisti e architetti italiani i nuovi insediamenti sembrano una prima vera opportunità per dare forma alla rapida e frammentaria espansione che le città italiane stavano già subendo.
I quartieri costruiti allora rappresentano oggi non soltanto una significativa testimonianza del Novecento italiano, ma costituiscono parti rilevanti delle nostre città, dove mantengono ancora una loro precisa identità.
Il piano: finalità, funzionamento, esiti
L’iter parlamentare del progetto di legge prese avvio nel luglio 1948, presentato al Consiglio dei ministri da Amintore Fanfani (1908-1999), all’epoca ministro del Lavoro e della Previdenza sociale. A pochi anni dalla conclusione della Seconda guerra mondiale e a poco più di un mese dall’insediamento del V governo De Gasperi, con questa iniziativa il ministro intese in primo luogo affrontare il problema della disoccupazione, attraverso lo sviluppo del settore edilizio, ritenuto ambito capace di promuovere la rinascita economica dell’Italia del dopoguerra.
Fin dal 1942 Fanfani era stato attento alla questione abitativa; nel suo testo Colloqui sui poveri, edito in quell’anno, affronta il problema della povertà nei suoi diversi aspetti sociali, sottolineando la centralità del degrado delle condizioni abitative nel determinare condizioni di miseria. In questo volumetto il giovane professore di economia affronta anche il tema della carità quale componente essenziale dell’essere cristiani. In questo ‘lungo dopoguerra’, il ministro proponeva un progetto – che non era l’unico predisposto in quegli anni con simili obiettivi – basato su teorie keynesiane mediate da una componente di solidarismo cristiano.
Il piano venne finanziato attraverso un sistema misto che vide la partecipazione dello Stato, dei datori di lavoro e dei lavoratori dipendenti. Questi ultimi, attraverso una trattenuta sul salario mensile – l’equivalente di una sigaretta al giorno, come recitava la propaganda dell’epoca –, furono così in grado di aiutare i compagni più bisognosi. Per l’ingegnere Filiberto Guala (1907-2000), uno dei suoi protagonisti, il piano faceva
appello alla solidarietà di tutti i lavoratori perché l’operaio che lavora e guadagna la sua giornata dia la possibilità, mediante un suo contributo, ad altri che non lavorano di ritornare nel consorzio civile a produrre e a guadagnare (Impostazione e caratteristiche funzionali del piano Fanfani, «Civitas», 1951, 9, p. 30).
Il piano, dunque, fu interpretato e proposto in una duplice chiave: come una manovra orientata a rilanciare l’economia e l’occupazione, costruendo case economiche, ma anche come un dispositivo di ‘carità istituzionalizzata’ su scala nazionale, di partecipazione solidaristica di tutte le componenti sociali verso i bisogni dei più poveri.
I timori che si stesse mettendo in piedi un lento, pesante e dispendioso apparato furono presto smentiti dalla costituzione di un ente centralizzato e snello, che si strutturò su una fondamentale diarchia. Innanzitutto il Comitato di attuazione del piano, un organo che svolgeva vigilanza generale, emanava norme, distribuiva fondi e incarichi, diretto da Guala. Questi era un ex partigiano, un manager pubblico, legato a quella sinistra cattolica che vedeva tra le sue figure di spicco uomini come Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e Fanfani stesso. Dal 1954, per un paio d’anni, fu anche direttore generale della RAI (Radiotelevisione Italiana); nel 1960 lasciò la vita pubblica per farsi frate trappista.
Nei suoi aspetti architettonici e urbanistici il piano era coordinato dalla Gestione INA-Casa, diretta dall’architetto Arnaldo Foschini (1884-1968). Questi era un esponente di rilievo della ‘scuola romana’, preside della facoltà di Architettura della capitale, dirigente di associazioni degli architetti, ben conosciuto negli ambienti dell’INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni), il quale avrebbe avuto un ruolo importante nella gestione economica del piano.
Il 1° aprile 1949 era pronta a partire quella che l’architetto e urbanista Giuseppe Samonà (1898-1983) definì allora una «grandiosa macchina per l’abitazione» (Il piano Fanfani in rapporto all’attività edilizia dei liberi professionisti, «Metron», 1949, 33-34, p. 14). Già il 7 luglio, a Colleferro, nei pressi di Roma, si inaugurò il primo cantiere; il 31 ottobre ne erano in funzione in diverse località del Paese oltre 650. A pieno ritmo, questa «grandiosa macchina» produceva settimanalmente 2800 vani, riuscendo a dare una casa a circa 560 famiglie a settimana. Fino al 1962, i 20.000 cantieri diffusi in tutta Italia, nelle grandi città come nei piccoli centri, offriranno un posto di lavoro ogni anno a 40.000 lavoratori edili.
I cinegiornali dell’epoca mostrano, sullo sfondo di un desolato scenario di distruzioni e miseria, i nuovi cantieri che lavorano alacremente, per «ricostruire le case ma anche gli uomini», con «la buona volontà di tutti per allargare l’orizzonte del lavoro», come enfaticamente recita la voce fuori campo che accompagna le immagini del ministro Fanfani, mentre inaugura un quartiere in Puglia.
Grazie ai circa due milioni di vani realizzati nei quattordici anni di attività, con questo piano oltre 350.000 famiglie italiane migliorarono le proprie condizioni abitative. Secondo un’indagine promossa dall’ente tra gli assegnatari, il 40% dei nuclei familiari, prima di trasferirsi nei nuovi alloggi, abitava in cantine, grotte, baracche, sottoscala e il 17% in coabitazione con altre famiglie. Moltissimi erano gli immigrati dalle campagne, dal Sud, e molti i profughi dall’Istria e dalla Dalmazia.
Le realizzazioni: «non case ma città»
All’avvio del piano, gli urbanisti italiani non mancarono però di esprimere i loro dubbi in merito a questo programma, ancora delusi dalla piega presa dalla ricostruzione postbellica, «un susseguirsi di occasioni perdute», come la definirà Giovanni Astengo (1915-1990) in Nuovi quartieri in Italia («Urbanistica», 1951, 7, p. 9). Fin dall’immediato dopoguerra, gli urbanisti stavano chiedendo con forza un piano nazionale e un organo centrale in grado di coordinare la ricostruzione; le loro speranze in un’ampia politica di pianificazione del Paese e in un’organica espansione delle città italiane erano ormai andate deluse.
Ma, nel giro di pochi mesi, per voce del loro più prestigioso rappresentante, il presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica, l’industriale di Ivrea Adriano Olivetti (1901-1960), gli urbanisti cominciarono a esprimere il loro apprezzamento per i primi risultati del piano Fanfani. Scriverà Olivetti:
Quartieri organici autosufficienti si sono iniziati in questi ultimi mesi a Torino, Milano, Roma per merito del piano incremento occupazione operaia. Si tratta di esperienze iniziali di grande interesse. E gli urbanisti italiani non possono non dichiarare il loro compiacimento per la prima attuazione dei loro programmi (Discorso del presidente all’apertura del Convegno, Atti del III Convegno dell’Istituto nazionale di urbanistica ‘L’urbanistica e l’industria’, Milano 1951, «Urbanistica», 1951, 8, p. 8).
Superate le iniziali perplessità, il piano cominciò dunque ad apparire ai tecnici un’opportunità per riscattare la «banale ricostruzione» realizzata fin lì. In questo vasto programma di nuovi quartieri promossi dallo Stato, essi vedevano ora la possibilità di incidere sullo sviluppo urbano e sulla forma fisica e sociale delle città. Quella dell’INA-Casa sembrava essere la prima vera occasione per realizzare una «grande ricostruzione», e l’unità quartiere si rivelava un materiale utile a modellare l’informe e diffusa crescita urbana che già stava allargando le città italiane, disperdendole su ampi territori.
Nonostante le difficoltà e il tempo necessario perché i quartieri riuscissero a divenire veramente tali, perché le attrezzature fossero realizzate, perché gli abitanti iniziassero a sentirsi parte integrante di una comunità, finalmente anche sul suolo del nostro Paese si cercò di tradurre le già realizzate – e da tempo – esperienze europee delle città-giardino e dei quartieri autosufficienti.
Edifici, spazi comuni, giardini, asili, scuole, chiese, unità di vicinato andarono a comporre nuove parti urbane; «non case ma città», come affermò il sindaco La Pira (1904-1977) inaugurando il quartiere dell’Isolotto a Firenze. Parti di città autosufficienti e ‘compiute’, o che si tentava di rendere tali, dal punto di vista morfologico, funzionale e anche sociale. Il quartiere, con le sue case, attrezzature collettive, spazi aperti non veniva proposto come semplice addizione fisica alla città esistente. Dai quartieri ci si aspettava anche la formazione di comunità di cittadini; non solo il miglioramento della qualità della vita individuale e del nucleo familiare negli ambiti domestici, ma anche della vita in comune negli spazi esterni e nelle attrezzature collettive. Proprio gli spazi comuni intendevano facilitare i rapporti tra i nuovi abitanti e favorire la crescita di comunità. Il quartiere sembrava voler assumere il ruolo di dispositivo per una ricostruzione anche sociale e morale dell’Italia del dopoguerra.
L’istituzione nel 1954 dell’Ente gestione servizio sociale case per lavoratori – che programmerà nei quartieri più grandi la realizzazione di centri sociali e vi porterà le prime assistenti sociali – evidenziò però le difficoltà che questi obiettivi incontravano a tradursi nelle diverse realtà e dimostrò la necessità di «aiutare una collettività a trasformarsi progressivamente in comunità» (Catelani, Trevisan 1961, p. 51), favorendo tra i nuovi abitanti la «formazione di vincoli di comunanza e di solidarietà» (I 14 anni del Piano INA-Casa, 1963, p. 169).
Un laboratorio di progettazione, tra tradizione e innovazione
Alcuni dei quartieri realizzati con il piano compongono oggi le pagine delle storie dell’architettura e dell’urbanistica del Novecento italiano e si articolano tra diverse idee di città, di spazio, di comunità. Ma a essere degni di attenzione non sono soltanto gli interventi più conosciuti, quelli progettati dagli architetti di fama. Chiunque visiti oggi le realizzazioni di allora può notare lo sforzo compiuto per elevare e diffondere la qualità della progettazione in questi luoghi dell’abitare quotidiano.
Un risultato raggiunto grazie a una serie di scelte compiute dall’INA-Casa e orientate a controllare e coordinare la progettazione degli interventi. Inizialmente, svolsero un ruolo determinante i concorsi per la selezione dei progettisti, concorsi mirati alla formazione di un albo speciale di ‘progettisti INA-Casa’. Coerentemente con l’impostazione ‘antindustriale’ e l’esclusione del ricorso alla prefabbricazione, la via scelta per la progettazione dei quartieri aveva escluso la redazione centralizzata di progetti-tipo, prevedendo piuttosto l’ampio coinvolgimento dei progettisti italiani e favorendo in questo modo anche il rilancio delle libere professioni nel settore edilizio.
Il piano produsse un generale rilancio delle professioni legate all’edilizia. Su un totale di 17.000 architetti e ingegneri italiani attivi in quegli anni, circa un terzo fu coinvolto in questa esperienza. Gli incarichi che venivano dall’ente rappresentarono nel dopoguerra un’importante occasione per i professionisti già attivi prima del conflitto di riprendere il lavoro e per i più giovani di avviare la propria attività professionale. Si potrebbe affermare che il piano abbia rappresentato uno strumento per allargare, non solo l’occupazione operaia – come era suo dichiarato obiettivo –, ma anche quella dei progettisti italiani.
Il quartiere, la casa economica, la casa per il popolo si sono proposti a questi progettisti come temi, non solo di natura tecnica, ma anche morale. Lavorando per il miglioramento dello spazio abitabile di una committenza per certi versi ‘invisibile’, composta dalle migliaia di famiglie bisognose di un alloggio sano e dignitoso, ad architetti, ingegneri, urbanisti si è presentata l’occasione per misurarsi con le responsabilità sociali cui la professione li chiamava. Il tema di ‘una casa per tutti’ ha contribuito a caratterizzare il loro come un ‘ruolo pubblico’.
Una funzione importante nel diffondere qualità tra gli interventi che si andavano realizzando in tutto il Paese venne svolta dall’Ufficio architettura, il cui compito era quello di verificare la bontà dei progetti elaborati localmente, secondo procedure assai rapide. Molti architetti ricorderanno in seguito come fosse loro capitato di arrivare al mattino con i disegni all’ultimo piano del palazzo dell’INA in via Bissolati a Roma, dove si trovavano le poche stanze dell’INA-Casa, e di ripartire già nel pomeriggio con il progetto corretto e approvato.
Una guida e un coordinamento della progettazione avveniva anche attraverso i piccoli ‘manuali’ pubblicati dall’INA-Casa, due nel primo settennio e due nel secondo; fascicoli che raccoglievano suggerimenti, raccomandazioni, orientamenti, schemi, esempi, per ‘guidare’ piuttosto che per codificare la progettazione di alloggi, edifici, nuclei e quartieri, nel tentativo di attribuire a tutti gli interventi una certa qualità tecnologica, architettonica e urbana, evitando, al tempo stesso, un’eccessiva omologazione delle realizzazioni del piano. Gli esempi forniti, infatti, venivano proposti non come norma da applicare, ma come modelli da interpretare e rielaborare, seguendo le esigenze e le condizioni dei diversi contesti locali.
Le raccomandazioni fornite dai fascicoli ai progettisti a proposito della necessità di porre attenzione ai caratteri del paesaggio e dei centri storici preesistenti, alle abitudini di vita degli abitanti, al clima, ai materiali da costruzione, ai prodotti dell’artigianato locale, ai sistemi costruttivi del posto ecc., rivelano la volontà – più evidente con il primo settennio di attuazione del piano – di radicare i nuovi interventi nei luoghi e di attribuire loro una precisa identità locale e contestuale. Anche la decisione di scartare i metodi della prefabbricazione trova giustificazione nell’obiettivo di rispettare le diverse tradizioni costruttive locali e i caratteri dell’ambiente costruito, oltre che in quello prioritario di allargare l’occupazione operaia. La scelta della bassa meccanizzazione e dell’alto impiego di mano d’opera ebbe l’effetto di conservare il cantiere ‘artigianale’ e la costruzione ‘tradizionale’; una scelta che secondo alcuni critici contribuì a mantenere un carattere arretrato del settore edilizio italiano.
Dopo due settenni di attività, con l’approvazione della l. 14 febbraio 1963 nr. 60, Liquidazione del patrimonio edilizio della Gestione INA-Casa e istituzione di un programma decennale di costruzione di alloggi per lavoratori, l’esperienza dell’INA-Casa, tra luci e ombre, si chiuse definitivamente. Altri enti (la Gescal – Gestione Case per i Lavoratori –, i comuni), altre norme e altri strumenti (per es., la legge nr. 167 del 18 aprile 1962, che promosse piani comunali per l’edilizia economica e popolare) prenderanno il suo posto nella programmazione, nel finanziamento e nella costruzione di edilizia sociale.
Il valore di quell’esperienza è ancora oggi documentato dai suoi esiti materiali, i quartieri realizzati tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, quartieri che, nonostante siano stati raggiunti, accerchiati e oltrepassati da molta confusa crescita urbana del secondo Novecento, continuano a emergere negli spazi delle città italiane con un loro volto ben riconoscibile. Un consistente patrimonio moderno che chiede interventi di valorizzazione capaci di coniugare tutela e riqualificazione.
Bibliografia
Piano incremento occupazione operaia. Case per lavoratori, 1, Suggerimenti, norme e schemi per la elaborazione e presentazione dei progetti, Roma 1949; 2, Suggerimenti, esempi e norme per la progettazione urbanistica. Progetti tipo, Roma 1950; 3, Guida per l’esame dei progetti delle costruzioni INA-Casa da realizzare nel secondo settennio, Roma 1956; 4, Norme per le costruzioni del secondo settennio estratte da delibere del Comitato di attuazione del Piano e del Consiglio direttivo della gestione Ina-Casa, Roma 1956.
Il centro sociale nel complesso INA-Casa, a cura dell’Ente gestione servizio sociale case per i lavoratori, Roma 1958.
L. Benevolo, L’architettura dell’Ina-Casa, «Centro sociale», 1960, 30-31, pp. 59-67.
R. Catelani, C. Trevisan, Città in trasformazione e servizio sociale, Roma 1961.
I 14 anni del Piano INA-Casa, a cura di L. Beretta Anguissola, Roma 1963.
S. Pace, Una solidarietà agevolata: il piano Ina-Casa, 1948-1949, «Rassegna», 1993, 54, 2, pp. 20-27.
La grande ricostruzione. Il piano INA-Casa e l’Italia degli anni Cinquanta, a cura di P. Di Biagi, Roma 2001.
Il piano Fanfani in Friuli. Storia e architettura dell’INA-Casa, a cura di F. Luppi, P. Nicoloso, catalogo della mostra, Udine 2001, Pasian di Prato 2001.
Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta e il modello italiano di welfare state. Il piano Ina-Casa, Soveria Mannelli 2002.
L’architettura INA-Casa (1949-1963). Aspetti e problemi di conservazione e recupero, a cura di R. Capomolla, R. Vittorini, Roma 2003.
Città, architettura, edilizia pubblica. Napoli e il Piano INA-Casa, a cura di U. Carughi, Napoli 2006.