Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il pianoforte subisce, nel corso dell’Ottocento, importanti innovazioni tecniche, legate all’evoluzione del linguaggio musicale e ai cambiamenti del gusto, che ne fanno lo strumento della grande epopea romantica.
Meccanica e innovazioni tecniche
Il pianoforte è uno strumento che si può fregiare di una paternità certa: Bartolomeo Cristofori, cembalaro padovano al servizio di Ferdinando de’ Medici granduca di Toscana, lo inventa applicando una meccanica di tipo percussivo al clavicembalo e Scipione Maffei ne pubblica una descrizione corredata di schema della meccanica nel 1711 sul “Giornale dei letterati d’Italia”. Il nuovo strumento, chiamato da Maffei “gravecembalo col piano e forte”, assume poi il nome di pianoforte o fortepiano: i due termini convivono e vengono usati indifferentemente, mentre oggi “fortepiano” si usa per designare gli strumenti più antichi.
Il pianoforte, sin dalla sua nascita, è soggetto a esperimenti e innovazioni tecniche, che continuano ancora oggi, anche se l’attuale standardizzazione ci indurrebbe a supporre il contrario. Nella prima metà dell’Ottocento le meccaniche prevalenti sono l’inglese e la viennese, quest’ultima adottata anche dai costruttori tedeschi. In quella inglese il martelletto è posto a una certa distanza sopra il tasto e viene azionato per mezzo di una bacchetta di legno che gli imprime una forte accelerazione, producendo una sonorità particolarmente brillante: i tasti di questi strumenti sono normalmente appesantiti da piombi. La meccanica viennese ha invece il martelletto imperniato direttamente sul tasto tramite una forcella, che inizialmente è in legno ma poi sarà sempre di ottone. I tasti sono leggeri, normalmente senza piombi e anzi, ancora negli anni Venti, vengono spesso scavati di sotto come avveniva per i cembali, allo scopo di permettere il loro ritorno in posizione di riposo senza aggiungere peso. Il suono di questi pianoforti è più dolce, più espressivo e più sensibile alle sfumature, tanto che Beethoven preferisce i piani viennesi, nonostante gli vengano regalati sia un pianoforte della ditta francese Erard e sia uno dell’inglese Broadwood.
Le innovazioni tecniche apportate ai pianoforti sono numerosissime: alcune sono determinanti per lo sviluppo successivo, altre hanno importanza per un periodo limitato di tempo, altre ancora rimangono semplici esperimenti senza seguito. L’estensione della tastiera, dalle cinque ottave classiche dei grandi cembali e dei pianoforti fino al 1790 circa (l’ambito usato da Mozart) subisce rapide trasformazioni nel giro di pochi anni: prima si estende negli acuti fino al Fa, poi nei gravi fino al Do, poi ancora negli acuti fino al La, infine nei gravi fino al La.
Troviamo anche un’estensione di sei ottave da Do a Do, che viene utilizzata dai primi del secolo per più di 20 anni. John Broadwood arriva a cinque ottave e mezzo già negli ultimi anni del Settecento, come anche alcuni costruttori viennesi tra i quali Anton Walter. Streicher costruisce piani di sei ottave già nel 1803 e di sei e mezzo nel 1808. Non si definiscono però formati standard: infatti nel primo decennio del XIX secolo, quando già si usano sei ottave e mezzo, vengono ancora costruiti strumenti di sole cinque ottave. Non solo, ma queste difformità si trovano anche nella produzione dello stesso costruttore: Streicher, ad esempio, ancora nel 1826, costruisce piani di sole sei ottave.
È possibile però definire a grandi linee l’evoluzione della tastiera: attorno al 1825 è normale l’estensione di sei ottave e mezzo, che alcuni continueranno a usare fin quasi il 1840, quando altri arriveranno quasi alle sette ottave, l’estensione massima raggiunta nell’Ottocento, adottata universalmente solo nella seconda metà del secolo.
I progressi tecnici del pianoforte sono strettamente legati all’evoluzione del linguaggio musicale e ai cambiamenti del gusto, come testimonia l’interessamento di Beethoven, che richiede espressamente ad alcuni tra i più rinomati costruttori attivi a Vienna, come Andreas Stein e Johann Andreas Streicher, tastiere più estese e una maggiore potenza sonora. Riguardo a quest’ultima caratteristica, una delle innovazioni tecniche più importanti è quella di apporre rinforzi alla struttura dello strumento, inizialmente consistenti in una sola barra metallica dalla parte degli acuti. Questa innovazione ha degli antecedenti nell’applicazione di rinforzi di metallo sul cembalo a opera di Joseph Smith, e sul piano verticale da parte di John Isaac Hawkins.
Broadwood li sperimenta prima del 1808 nei grandi piani a coda, dove, dal 1821, ne monta da tre a cinque. Erard ne fa un uso generale sui suoi strumenti dal 1824 e Broadwood dal 1827.
Ma, nonostante vengano già usate dai primi del secolo, il susseguirsi di brevetti per quasi 20 anni (Erard in Francia nel 1822, Matthias Müller in Austria nel 1829, Jakob Becker per i piani rettangolari nel 1839, John Morgan e Thomas e Alexander Smith in Canada nel 1840) ne dimostra la lenta adozione da parte dei costruttori: di fatto il loro uso diventa generale solo verso la metà del secolo.
Questa innovazione ha grandi conseguenze sul futuro sviluppo dei pianoforti; questi rinforzi metallici sopportano infatti una maggiore trazione rispetto alla sola struttura di legno dello strumento, permettendo di aumentare la tensione delle corde, che diventano via via sempre più spesse in funzione di una maggiore potenza di suono.
L’accresciuto calibro delle corde porta al conseguente ispessimento della tavola armonica e, soprattutto, alla necessità di una meccanica più pesante per corde che devono ora essere sollecitate in maniera più energica. Ma la maggiore trazione induce a sua volta un aumento dei rinforzi di metallo: è una rincorsa della quale non si intravede ancora oggi la fine e che fa un salto di qualità con il brevetto del 1855, a opera della ditta Steinway & Sons di New York, del telaio fuso in un blocco unico e delle corde incrociate tuttora in uso.
L’uso dei rinforzi di metallo può essere considerato il vero spartiacque tra il vecchio e il nuovo pianoforte: gli strumenti aumentano sempre più di peso, cambia la sonorità, che diviene via via più potente e più cupa, e cambia la tecnica di chi suona, che deve impiegare nell’esecuzione un peso sempre maggiore per lanciare martelletti sempre più pesanti a sollecitare corde sempre più spesse e tese. Il processo continua ancora oggi, come si può facilmente osservare paragonando la sonorità di uno strumento costruito prima della seconda guerra mondiale con quella di uno prodotto negli ultimi anni. Per questi motivi alcuni accordi nel registro grave o certi pedali prescritti da Beethoven nelle sue sonate non sortiscono un buon effetto sui pianoforti moderni, i cui suoni cupi producono una confusione ben diversa dalle sonorità chiare e aperte degli strumenti dell’epoca.
Un’altra innovazione determinante sullo sviluppo futuro del pianoforte, che ne modifica decisamente il timbro, è quella di ricoprire la parte lignea dei martelletti con uno spesso strato di feltro, come si usa ancora oggi. I primi esperimenti sull’utilizzo dei feltri risalgano agli anni Venti, a cura di Henri Pape, ma anche questa invenzione prende piede solo nella seconda metà del secolo, perché fino a questo momento si continua a utilizzare martelletti ricoperti di pelle.
Tra le innovazioni che hanno una certa influenza ma soltanto per un periodo limitato sono da annoverare vari effetti, tra cui le cosiddette “turcherie”, che consistono in meccanismi azionati dai pedali, che nei primi due decenni del secolo raggiungono spesso il ragguardevole numero di cinque, sei, sette. Gli “effetti speciali” sono svariati: si va dalla grancassa, ottenuta con un batacchio che dall’interno della cassa batte direttamente contro la tavola armonica, al fagotto, un cilindro di pergamena che sfiora le corde basse e produce una vibrazione che rievoca il timbro dello strumento ad ancia doppia. I campanelli sono dei veri e propri campanelli di metallo percossi da altrettanti piccoli martelletti metallici, mentre il pedale del piano, che frappone una stoffa sottile tra i martelletti e le corde, produce un suono che non è solo più debole, ma cambia notevolmente di timbro. Questi e altri effetti non hanno lasciato traccia, rimanendo legati alla moda del periodo. Gli unici due meccanismi sopravvissuti fino a oggi sono il pedale di risonanza che, alzando gli smorzatori, prolunga il suono delle corde percosse e permette alle altre di entrare in vibrazione per simpatia, e il pedale che, spostando lateralmente la tastiera, permette di percuotere una sola corda, producendo suoni più flebili ma senza il cambiamento di timbro provocato dal pedale del piano.
I diversi tipi di pianoforte
Nei primi decenni dell’Ottocento vengono costruiti pianoforti di diverse fogge, dei quali gli unici che sopravvivono sono quello verticale e quello a coda, mentre gli altri hanno fortuna solo per un certo numero di anni.
Il piano-giraffa, che nasce all’incirca nel 1789, ha la forma del claviciterio, ma è molto più ornato da colonne, grossi intagli, dorature; quello a piramide, che prosegue una tradizione iniziata con i cembali, viene costruito già nel 1745 da Christian Ernst Friederici, ma diventa di moda solo negli anni Venti sotto forma di piano-lira, inventato probabilmente a Berlino nel 1824.
I piani rettangolari, inizialmente simili a tavolini con una piccola tavola armonica sulla destra, nell’Ottocento sono provvisti di tavola armonica lungo l’intero perimetro, diventando strumenti ingombranti e pesanti ma dotati di una sonorità piena e pastosa.
Ne vengono costruiti in grandi quantità fino alle soglie del Novecento.
Il primo piano verticale è quello costruito nel 1739 da Domenico Del Mela di Gagliano del Mugello presso Firenze, che continua l’antica tradizione dei claviciteri, come pure quello fabbricato a Londra nel 1795 da William Stodart, che non è propriamente uno strumento da studio, come sono i piani verticali moderni, quanto piuttosto un grande piano a coda che, grazie alla posizione verticale di quest’ultima, è più facilmente trasportabile. Il primo pianoforte verticale con caratteristiche paragonabili a quelle moderne può essere considerato lo strumento costruito da Robert Wornum nel 1811, cui seguono altri modelli, tra cui di particolare interesse sono quelli di Muzio Clementi, Henri Pape e Ignace-Joseph Pleyel, ma è solo dalla seconda metà del secolo che questo tipo di pianoforte ha una diffusione paragonabile a quella odierna.
L’alto livello tecnologico necessario per produrre meccaniche efficienti premia la serializzazione del lavoro, che prende piede molto presto in Inghilterra, dove già ai primi dell’Ottocento le ditte producono pianoforti in quantità ineguagliate dagli altri Paesi europei (John Broadwood tra il 1800 e il 1810 produce 9 mila piani rettangolari e 3 mila a coda). Per avere un ordine di grandezza è utile il paragone del numero di pianoforti usciti dalle ditte che hanno la maggiore produzione nelle rispettive aree geografiche tra il 1820 e il 1830: l’inglese Broadwood più di 18 mila, la francese Erard 3.800, la tedesca Breitkopf 500, l’austriaca Streicher circa 260.
Diverse ditte francesi raggiungono produzioni notevoli a metà del secolo, cosa che accade anche negli Stati Uniti, mentre l’industrializzazione nei Paesi germanici si afferma solo nella seconda metà del secolo: tra il 1850 e il 1860 l’austriaca Bösendorfer produce 2 mila pezzi, la francese Pleyel 15 mila, l’inglese Collard 16 mila (ma tra il 1840 e il 1850 ne fabbrica ben 25 mila), l’americana Chickering 12 mila.
La produzione industriale è sostenuta da una notevole richiesta, alimentata non solo dai rampolli dell’alta e della piccola borghesia, ma anche dalla moda di arredare i salotti con il pianoforte, che diventa uno status symbol, sinonimo al tempo stesso di ricchezza e di raffinatezza.
In Italia, dove manca la capacità di costruire pianoforti su scala industriale, molti costruttori non firmano neppure i loro strumenti, altri ancora, per vendere meglio in un periodo in cui il mercato è invaso da quelli importati d’oltralpe, soprattutto viennesi, li firmano con nomi germanici, a volte apponendo addirittura l’indicazione di Vienna come sede della loro fantomatica ditta.
Il repertorio
La diffusione a livello continentale di un circuito che si alimenta di concerti pubblici eseguiti da solisti che girano l’Europa in lungo e in largo e la fissazione del repertorio comprendente musiche del passato dal quale attingere per alimentare questa attività sono le grandi novità di questo secolo, anche se hanno i loro prodromi già alla fine del secolo precedente. È anche a causa di questo fenomeno che sono stati rigorosamente selezionati autori e generi da tramandare, cosicché la visione che noi abbiamo dell’Ottocento è mediata da questa selezione, anche se di ciò che di meglio è stato prodotto.
Infatti l’Ottocento è anche il secolo delle opere didattiche e da salotto, che formano un enorme repertorio di consumo: trascrizioni, variazioni e parafrasi su arie d’opera e su sinfonie celebri, sonatine, pots-pourris, marce, danze, descrizioni di battaglie e di episodi vari, come il divertentissimo, ironico Piccolo treno di piacere di Rossini. Tra questo repertorio e la produzione di alto livello si colloca l’attività del grande musicista che lo nobilita e trasfigura a livello artistico, come fa Chopin con valzer, polacche e mazurche e Schumann con i suoi “pezzi caratteristici”. Spesso, attingendo da questo stesso repertorio, vengono scritti brani tecnicamente difficili, che i grandi virtuosi come Liszt portano nelle sale da concerto di tutto il mondo.
In Europa – soprattutto nelle grandi capitali come Vienna, Parigi e Londra – si forma una moltitudine di studenti di pianoforte: si calcola che nella sola Vienna, già alla fine del Settecento, vi siano circa 6 mila allievi e 300 insegnanti. La grande richiesta di musiche per pianoforte conseguente a questo dilettantismo diffuso, unita ai progressi tecnologici nella stampa musicale, induce alla trasformazione industriale dell’editoria musicale.
L’Ottocento è anche il secolo d’oro della trattatistica: dai primi due trattati espressamente dedicati al pianoforte, pubblicati entrambi nel 1797 rispettivamente da Peter Molchmeyer e da Ignace-Joseph Pleyel e Jan Ladislaw Dussek, è tutto un susseguirsi di trattati, metodi, studi progressivi, tuttora utilizzati dagli studenti di pianoforte, come gli studi di Muzio Clementi, Carl Czerny, Hans Guido Bülow e Chopin.
Già nei primi anni del secolo si afferma la tendenza ad adottare un solo trattato per l’intero conservatorio: nel 1803 a Parigi viene formata una commissione per redigere quello a uso delle classi di pianoforte, e della stesura viene incaricato Louis Adam. Il trattato, stampato l’anno dopo, vede molte ristampe e traduzioni durante gli anni successivi. Nella Milano napoleonica succede qualcosa di analogo, allorché l’assemblea degli insegnanti, riunita il 16 novembre 1811, elegge a trattato ufficiale del conservatorio, cui tutti gli insegnanti di pianoforte si devono uniformare, quello del concertista Francesco Pollini.
Il romanticismo segna la crisi delle grandi forme come la sonata, che, tramandata dal periodo classico, subisce modificazioni al suo interno, diventando spesso un conglomerato di forme brevi. Sono proprio queste ultime che si addicono meglio all’esigenza romantica di esprimere il singolo sentimento, lo stato d’animo momentaneo: si tratta di pezzi caratteristici, di volta in volta chiamati improvviso, romanza, capriccio, ballata, preludio, notturno, bagatella, oppure contrassegnati solo da un titolo, spesso costituiti da una struttura ABA.
Il pianoforte è lo strumento di accompagnamento per eccellenza: nel Lied il pianoforte dialoga con la voce ed esprime gli aspetti più reconditi dei sentimenti e delle immagini, quelli che la parte vocale, vincolata alla limitatezza della parola, non riuscirebbe a descrivere. Così nei Lieder di Schubert e di Schumann il canto racconta, mentre il pianoforte sottolinea gli stati d’animo in tutta la loro profondità e complessità. Si tratta di un completo ribaltamento rispetto alla poetica precedente, secondo la quale l’espressione dei sentimenti ha il suo strumento più fedele nella voce, alla cui espressività devono tendere tutti gli strumenti musicali.
Nell’Ottocento il pianoforte è anche un importantissimo mezzo di diffusione della cultura musicale perché, attraverso le trascrizioni e gli arrangiamenti, permette la conoscenza di brani vocali o sinfonici con i quali molte persone difficilmente verrebbero a contatto: pensiamo alle fantasie su arie operistiche italiane, alle trascrizioni di Lieder di Schubert e di sinfonie di Beethoven e Berlioz, di fughe per organo di Bach, di brani tratti dalle opere di Wagner realizzati da Franz Liszt.
I compositori
Nell’Ottocento nascono i récitals, sull’onda del virtuosismo solistico che ha in Paganini il suo capostipite. In realtà Paganini prosegue una tradizione tutta italiana di virtuosi di violino, ma, a differenza di quanto avveniva prima, egli gira in lungo e in largo l’Europa tenendo récitals in sale pubbliche da concerto. Col suo violino Paganini dà un innegabile impulso a questa nuova tendenza, che porta molti interpreti anche di pianoforte a imitarlo. Emblematica è la vicenda di Franz Liszt, che decide di intraprendere la strada del virtuosismo tecnico e dei concerti solistici per emulazione del grande violinista. Nell’Ottocento nasce anche la figura del solista interprete, che esegue musica altrui e che non compone, mentre prima, normalmente, il solista suonava soprattutto musiche sue, spesso improvvisandole.
Muzio Clementi è universalmente considerato il padre del pianoforte, soprattutto per l’elaborazione di una tecnica particolarmente evoluta per i suoi tempi e di un linguaggio che, sfruttando le possibilità dinamiche dello strumento, si caratterizza per i forti contrasti. L’attività di Clementi spazia in vari campi: come esecutore solca le platee di tutta Europa, sia come virtuoso di pianoforte, sia come direttore d’orchestra, che dirige suonando il pianoforte. Egli ha il merito di trarre dall’oblio musiche cembalistiche di grandi autori del passato, Bach e, soprattutto, Scarlatti, che esegue nei suoi concerti e pubblica in prima edizione moderna. In questa attività Clementi è un precursore del nuovo gusto per la musica del passato, ma non per questo è meno attento alla musica contemporanea; non gli sfugge infatti l’importanza di un autore come Beethoven e del quale pubblica, a costo di difficili trattative, varie composizioni.
All’attività di editore Clementi affianca anche quella di costruttore di pianoforti, per i quali studia personalmente le innovazioni tecniche da apportare.
Ludwig van Beethoven subisce l’influenza di Clementi e da lui riprende la pienezza sonora, l’ampia gamma dinamica, gli effetti orchestrali e la tecnica virtuosistica, creando un linguaggio potentemente drammatico. Si può rintracciare un filone che da Clementi, attraverso Beethoven e, tramite il suo allievo Carl Czerny, arriva fino a Liszt, allievo a sua volta di Czerny e punto d’arrivo del virtuosismo pianistico ottocentesco. A questo filone si possono ascrivere i grandi esecutori che nell’Ottocento hanno strabiliato le platee dell’Europa intera, lasciandoci preziosi studi tecnici anche se non sempre musiche di grande livello artistico: John Field, Ignaz Moscheles, Friedrich Kalkbrenner, Sigismund Thalberg, Anton Rubinstein, Hans von Bülow, Karl Tausig e, in Italia, Polibio e Adolfo Fumagalli e Francesco Pollini. Comune denominatore delle loro composizioni sono le notevoli difficoltà tecniche, i forti contrasti drammatici e l’uso del pianoforte come strumento corposo, quasi sinfonico, da sala da concerto appunto.
Accanto a questi musicisti operano altri compositori che hanno una diversa ascendenza storica, rifacendosi in modo più o meno diretto alla lezione di Mozart, tramandata anche grazie al suo allievo Johann Nepomuk Hummel, autore di un importante trattato e affermato compositore. A questo filone, basato su una tecnica fluida, capace di mettere in rilievo la chiarezza della tessitura, l’eleganza e l’espressione dei sentimenti, si ricollegano in varia misura alcuni tra i maggiori compositori dell’Ottocento, come Franz Schubert, Fryderyk Chopin, Robert Schumann, Felix Mendelssohn-Bartholdy, Johannes Brahms.
Fryderyk Chopin ha scritto quasi esclusivamente per pianoforte, strumento che egli stesso suonava e per il quale ha sviluppato un linguaggio originale, caratterizzato da un’armonia ricca di ornamentazioni, dissonanze e appoggiature. Sarebbe forse interessante una sua rilettura tenendo conto della grande tradizione cembalistica francese, cui queste caratteristiche sembrano essere debitrici.
L’influenza di Chopin è vasta e duratura: non sembra azzardato l’accostamento al mondo musicale tutto particolare del francese Claude Debussy, non a caso un altro autore che, come Chopin, ha scritto quasi esclusivamente per pianoforte. È inoltre difficile pensare a certe fioriture e dissonanze tipiche dell’improvvisazione da pianobar senza la lezione di Chopin.
I salotti svolgono un’attività di grande importanza, raccogliendo attorno alle esecuzioni ristrette cerchie di appassionati. È ai salotti di Parigi che Chopin, dopo un primo periodo da virtuoso itinerante, si dedica quasi esclusivamente, mentre Schubert, che non è mai stato un virtuoso della tastiera, svolge buona parte della sua attività nei salotti di Vienna.
Se si confrontano le date di morte dei grandi compositori che hanno scritto per pianoforte ci si accorge che la maggior parte di essi muore nella prima metà del secolo: Ludwig van Beethoven nel 1827, Franz Schubert nel 1828, Muzio Clementi nel 1832, Felix Mendelssohn-Bartholdy nel 1847, Fryderyk Chopin nel 1849. Robert Schumann muore nel 1856, l’anno dopo il brevetto di Steinway, e solo il longevo Franz Liszt e Johannes Brahms muoiono nel tardo Ottocento, rispettivamente nel 1886 e nel 1897. La grande musica romantica è quindi scritta per strumenti assai diversi da quelli in uso oggi: telaio in legno, martelletti ricoperti di pelle, meccanica leggera e, cosa più importante, tecnica e prassi esecutiva assai lontane dall’uso moderno. È questo lo strumento della grande epopea romantica, alla quale il pianoforte, più di ogni altro strumento, ha legato la propria esistenza e la propria ragion d’essere e di cui si può dire che sia stato il principe degli strumenti.