Il pluralismo giuridico
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dai monarchi dei regni romano-barbarici agli eredi degli imperatori carolingi, i detentori del potere, nell’Europa medievale, non perseguono lo scopo di fissare entro il territorio su cui dominano un unico complesso di regole generali disciplinanti la vita sociale dei loro sudditi. La pluralità degli ordinamenti è il carattere tipico dell’esperienza giuridica medievale. Leggi di stirpe, consuetudini locali, diritti e obblighi feudali, canoni ecclesiastici, capitolari imperiali convivono in un “multiverso” giuridico privo di un sistema di fonti unitario e gerarchizzato.
Per comprendere i caratteri dell’esperienza giuridica dell’Europa medievale è necessario dissociare concetti, quali “diritto”, “legge”, “Stato”, la cui stretta congiunzione (talora spinta fino all’identificazione) è il portato culturale e politico precipuo della modernità. Essa deriva infatti dalla monopolizzazione statale della produzione giuridica in forma di legislazione, prima teorizzata dai filosofi della politica (da Hobbes a Rousseau) e più tardi concretamente realizzata con l’abbattimento dell’ordine istituzionale dell’Antico Regime e la rifondazione codicistica della normazione giuridica (XVIII-XIX secc.). La tendenziale coincidenza del diritto con le leggi emanate dal potere pubblico è quindi un fenomeno storicamente determinato, che si manifesta soltanto con la compiuta affermazione dello Stato moderno. Per tutto il Medioevo (e ben oltre) l’autorità politica non è l’esclusiva artefice dell’ordinamento giuridico e non è la legge la fonte prevalente del diritto.
Dai monarchi dei regni romano-barbarici agli eredi degli imperatori carolingi, i detentori del potere durante quest’epoca non perseguono lo scopo (né hanno la forza) di fissare entro il territorio su cui dominano un unico complesso di regole generali disciplinanti la vita sociale dei loro sudditi. Neppure Carlo Magno, sovrano potente e attivissimo legislatore, ambirà a porre in essere, con l’unità del comando politico, l’unità dell’ordinamento giuridico. I numerosi atti normativi da lui promulgati (i cosiddetti capitolari, concernenti soprattutto materie penali, processuali, amministrative ed ecclesiastiche) non sostituiscono le leggi nazionali dei popoli soggetti al dominio imperiale, che restano in vigore con le parziali deroghe introdotte dalla nuova legislazione. Anche all’acme della sua compattezza politica, il Sacro Romano Impero è caratterizzato (in radicale alterità rispetto al paradigma statuale moderno) da una pluralità di ordinamenti giuridici, le cui regole (e la cui legittimazione) scaturiscono da fonti diverse dalla volontà del potere pubblico incarnata nell’imperatore. Leggi di stirpe, consuetudini locali, diritti e obblighi feudali, canoni ecclesiastici, capitolari imperiali convivono in un “multiverso” giuridico privo di un sistema di fonti unitario e gerarchizzato.
Il pluralismo giuridico contraddistingue l’organizzazione socio-politica dell’Europa medievale fin dalla formazione dei regni romano-barbarici. I popoli germanici, che tra il V e il VI secolo affermano il proprio dominio sui territori dell’Impero romano d’Occidente, creando nuove entità politiche autonome e indipendenti, non impongono le proprie regole in ogni ambito della vita sociale: si limitano a disciplinare i settori nevralgici del diritto pubblico in funzione della propria supremazia e dell’efficacia del controllo territoriale. Nella sfera dei rapporti privati, invece, i sudditi romani e i conquistatori barbari continuano a osservare le rispettive tradizioni normative, secondo il principio della personalità del diritto, che connota tipicamente l’esperienza giuridica medievale, distinguendola (anche sotto questo profilo) da quella moderna, in cui si stabilisce l’opposto principio della territorialità del diritto.
In base a quest’ultimo, all’interno di ciascun territorio insiste un determinato ordinamento giuridico, le cui disposizioni valgono per tutti coloro che vi risiedono. In base al primo, diversamente, la disciplina giuridica delle relazioni intersubiettive dipende dalla nazionalità dei soggetti, cosicché nell’ambito di un territorio abitato da diversi gruppi etnici coesistono diversi ordinamenti giuridici. Storicamente il principio della personalità del diritto, che tende a preservare l’identità giuridica di una comunità nazionale, prevale là dove, in un medesimo spazio politico-territoriale, si trovano a convivere popoli appartenenti a civiltà distinte, scarsamente integrati tra loro e disinteressati a uniformare gli altrui costumi sociali ai propri modelli culturali. Una siffatta situazione si realizza appunto, inizialmente, nei regni romani-barbarici: il diritto tradizionale germanico, con le varianti specifiche di ciascuna stirpe, segue i Franchi, i Goti, i Burgundi ecc. nelle rispettive sedi di stanziamento, senza acquisire vigore nei confronti dei popoli soggetti alla loro conquista, tra i quali si conserva l’ordinamento privatistico di origine romana.
L’organizzazione giuridica della vita sociale nei singoli regni altomedievali non è però riducibile a un unico schema, né è rappresentabile staticamente. Le formule sperimentate mutano nello spazio e nel tempo, in ragione degli atteggiamenti delle autorità politiche e del grado di commistione tra le componenti etniche. Tali dinamiche storiche si riflettono nell’opera legislativa dei sovrani germanici, che, già di per sé, è il sintomo della forza d’attrazione esercitata dalla civiltà dei popoli vinti sui vincitori, i quali, nel confronto con la cultura giuridica romana, avvertono l’esigenza di stabilire in forma scritta, ricorrendo alla lingua latina, il diritto della propria stirpe, consistente, fino ad allora, in un complesso di regole consuetudinarie tramandate oralmente.
Così, tra la fine del V e l’inizio del VI secolo, avviene la promulgazione della LexVisigothorum, della Lex Burgundiorum e del Pactus legis Salicae voluto dal re Clodoveo per i suoi Franchi; più tardi, nel 643, il re Rotari consolida legislativamente in un Edictum le tradizioni giuridiche dei Longobardi. Nella stessa direzione, a partire dal VII secolo, operano i sovrani anglosassoni, distinguendo la propria produzione normativa da quella continentale per l’impiego della lingua volgare. Nei regni visigoti e burgundi l’impresa legislativa coinvolge anche il diritto dei Romani, mettendo capo, nel secondo, a una Lex Romana Burgundiorum, composta di 180 capitoli, tratti dai Codici Teodosiano, Ermogeniano e Gregoriano, dalle Sententiae di Paolo e dal Liber Gai; nel primo, a una Lex Romana Visigothorum, emanata da Alarico II nel 507, che troverà applicazione anche nella Gallia franca e nell’Italia longobarda e sarà per secoli una delle principali fonti di conoscenza del diritto romano in Occidente.
A fronte di questa fortuna duratura e transnazionale, si deve registrare la sua abolizione, a metà 600, proprio nel regno visigoto, ad opera del re Chindasvindo, artefice del superamento del dualismo giuridico suggellato dai suoi predecessori e della transizione dalla personalità alla territorialità del diritto, a testimonianza dell’integrazione socio-culturale raggiunta tra Romani e Germani. Altrove, per contro, l’identità giuridica dei diversi popoli perdura nel tempo, nonostante l’infittirsi delle relazioni interetniche, poiché il nesso organico tra la comunità di stirpe e il patrimonio giuridico è uno schema culturale fortemente radicato nei quadri mentali collettivi. Nel regno dei Franchi, in particolare, l’osservanza del principio della personalità del diritto, collegata all’eterogeneità delle popolazioni sottomesse (Romani e Germani di diverso ceppo), conduce a un pluralismo giuridico particolarmente accentuato, che la successiva espansione imperiale incrementerà ulteriormente, com’è attestato, tra l’altro, dalla diffusione della prassi giudiziaria e notarile delle professiones iuris, nelle quali i dichiaranti (attori, convenuti o contraenti) affermano la propria appartenenza a un costume giuridico in ragione della propria natio.
Il rilievo della consuetudine e il diritto feudale
Il carattere spiccatamente pluralistico dell’ordine giuridico medievale non deriva soltanto dalla pluralità delle leggi nazionali: tra le fonti di produzione del diritto acquisisce un rilievo centrale la consuetudine, il cui sviluppo intrinsecamente localistico, spingendo verso la territorializzazione del diritto in ambiti spaziali circoscritti, accresce la varietà e la multiformità del paesaggio giuridico europeo. In ciò si rivelano, di riflesso, i limiti materiali delle pretese potestative dell’autorità politica, che è vissuta e percepita nella coscienza sociale come garante, attraverso la iuris-dictio, di un ordine di giustizia ontologicamente fondato e non come creatrice di un sistema normativo prodotto artificialmente per mezzo della legis-latio.
Più che dall’autorità politica il diritto medievale è generato immediatamente dalla società, dalle sue forze e dai suoi assetti, di cui ricalca i particolarismi; più che nelle leggi trova quindi espressione nelle consuetudini, cioè in quegli usi e comportamenti ripetuti nel tempo all’interno di una comunità, che, in virtù della loro costanza e diffusione, acquisiscono agli occhi dei suoi membri un valore vincolante: regolarità sociali ritenute valide come regole giuridiche.
Partecipando di una mentalità incline a riconoscere carattere normativo ai fatti che appaiono radicati nella natura delle cose, gli operatori giuridici medievali si attengono alle consuetudini: i notai le certificano, i giudici le fanno osservare, i legislatori le rispettano, esercitando le proprie funzioni autoritative entro campi ristretti, prevalentemente attinenti alle strutture dell’ordine pubblico e al rafforzamento del comando politico; al di sotto della cui tensione unitaria, l’ordine giuridico evolve seguendo le molteplici configurazioni della società e parcellizzandosi in un mosaico di regole consuetudinarie, diverse da regione a regione, da territorio a territorio e, finanche, da azienda ad azienda.
La manifestazione più cospicua ed eclatante della centralità della consuetudine tra le fonti del diritto, tuttavia, non può dirsi connotata da una dimensione localistica (sebbene assuma forme peculiari nelle diverse realtà regionali) né considerarsi marginale rispetto al dominio pubblicistico. Si allude all’ordinamento feudale, che, germinato nel regno dei Franchi in età merovingia e sviluppatosi sotto i Carolingi, avvolge, a partire dal IX secolo, gran parte dell’Europa occidentale in una fitta trama di rapporti giuridici pattuiti tra uomini liberi di diversa posizione sociale, con effetti obbligatori, personali e patrimoniali consistenti nel dovere dell’inferiore (vassus) di assistere fedelmente il superiore (senior) in guerra e negli uffici giurisdizionali (auxilium et consilium), e nel dovere del signore di proteggere il vassallo e assicurargli una stabile fonte di sostentamento, attraverso la concessione di una terra o di un altro cespite finanziario (beneficium).
Originale dispositivo di relazioni gerarchiche, coesivo di uomini e cose, il rapporto feudale prende forma dalla coagulazione di istituti giuridici di ascendenza germanica e romana nel crogiolo culturale della società medievale, tendendo, in virtù della sua forza espansiva e del suo sviluppo reticolare, a pervaderne le strutture organizzative e a modellarne le articolazioni del potere intorno al vincolo della subordinazione personale, col suo corredo di benefici fondiari, carichi di pertinenze giurisdizionali. Nonostante tale rilievo crescente, il diritto feudale evolve nei secoli spontaneamente, per via consuetudinaria. Gli interventi legislativi in materia sono rari ed episodici. Quelli più significativi, come l’editto di Milano del 1037, con cui Corrado II il Salico garantisce l’ereditarietà dei feudi ai valvassori (i vassalli dei vassalli), appaiono indirizzati a sancire regole già invalse nella prassi. Soltanto nel XII secolo vede la luce, in Lombardia, una prima compilazione (privata) delle consuetudini feudali (Libri Feudorum).
Alla costruzione del complesso e pluralistico ordine giuridico medievale fornisce un contributo importante la Chiesa, che, per quanto stretta tra le mire di ingerenza delle autorità laiche, inviluppata con le sue terre e i suoi uomini nel sistema feudale, curvata nella sua fisionomia gerarchica a interessi temporali, rappresenta un attivissimo agente di disciplinamento sociale, che orienta con la sua precettistica le modalità della convivenza, sforzandosi di condizionarne le espressioni giuridiche. La sua presenza nel mondo del diritto non si limita però a un influsso morale o a un’egemonia culturale. Essa stessa, infatti, costituisce un ordinamento giuridico, originario e autonomo, le cui norme travalicano tanto la sfera organizzativa delle istituzioni clericali quanto l’ambito strettamente confessionale, protendendosi a disciplinare la comunità dei fedeli nelle condotte ritenute più rilevanti sotto il profilo etico-religioso.
Il diritto della Chiesa, denominato “canonico” (dal greco kanon che significa “regola”), comincia a formarsi agli albori dell’era cristiana e si sviluppa cumulativamente con particolare intensità nei secoli IV e V, sotto l’impulso dei grandi concili ecumenici e dei molteplici sinodi locali, che riuniscono i più alti dignitari della cristianità al fine di regolare la vita della società ecclesiale nelle sue molteplici dimensioni, a livello universale o regionale. Insieme alle deliberazioni che scaturiscono da tali istanze assembleari, la principale fonte del diritto canonico è rappresentata dalle decisioni dei pontefici, che si esprimono prevalentemente nelle epistolae decretales, la cui produzione assume consistenza quantitativa a partire dalla seconda metà del V secolo.
Nell’alto Medioevo circolano in Europa diverse raccolte di canoni conciliari e decretali pontificie. Hanno grande diffusione, in particolare, la collezione detta Hispana, approntata nel VII secolo nel regno visigoto, e la Collectio Dionisyana, che, redatta a Roma tra V e VI secolo dal monaco sciita Dionigi, viene inviata, nel 774 (in una versione ampliata rispetto all’originale), da papa Adriano I a Carlo Magno, e diventa, con la dieta di Aquisgrana dell’802, la raccolta ufficiale del diritto della Chiesa franca. Nei decenni seguenti, proprio nel seno di quest’ultima prendono corpo raccolte artefatte con l’aggiunta di interpolazioni testuali e documenti falsi, tra le quali hanno maggiore fortuna i Capitolari di Benedetto Levita e le Decretali Pseudo-Isidoriane, i cui contenuti, manipolati, sono recepiti in compilazioni successive, come la Collectio canonum Anselmo dedicta, redatta (probabilmente in Italia) tra la fine del IX e la prima metà del X secolo.
Il fenomeno delle falsificazioni è interpretabile, alla luce dei loro contenuti, come il tentativo di reagire alla pressione delle potestà secolari sui beni, sugli uomini e sulla organizzazione della Chiesa. Di fronte a prassi dettate da rapporti di forza che pongono i signori laici nella condizione d’intromettersi nella gestione dei benefici ecclesiastici e nella scelta dei titolari delle cariche religiose, i chierici falsari mirano a rafforzare i pilastri giuridici dell’autonomia della Chiesa e a contrapporre, con le loro raccolte, le disposizioni del diritto canonico agli usi consuetudinari e alle regole antinomiche degli ordinamenti concorrenti.