Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Mentre il poema cavalleresco di tradizione ariostesca continua a riscuotere un largo successo presso il pubblico di corte, si fa strada in modi diversi – dal Trissino a Bernardo Tasso –l’esigenza di regolamentare le istanze romanzesche di varietà e meraviglia sulla base dei canoni classicistici di unità e verosimiglianza, definendo i caratteri del poema eroico che viene infine teorizzato da Tasso.
Il poema cavalleresco
La tradizione della narrativa cavalleresca, che Boiardo e Ariosto trasformano in un autonomo genere letterario, trova nel corso del Cinquecento numerosi epigoni: mentre il Berni rielabora in una più accessibile veste linguistica toscana l’Orlando innamorato – assicurando così la fortuna del poema boiardesco nei secoli a venire –, altri letterati si dedicano a continuare le avventure degli eroi dell’Orlando furioso. Accanto ai molti cantori di Astolfo innamorato o di Rinaldo furioso, vanno ricordati Ludovico Dolce che nelle Prime imprese del conte Orlando, pubblicato postumo nel 1572, narra gli antefatti del poema di Ariosto e Vincenzo Brusantini che nell’Angelica innamorata (1550) completa il racconto, giungendo sino alla morte di Ruggiero. Anche Pietro Aretino, poligrafo avventuroso e infaticabile, si unisce alla schiera dei continuatori dell’Orlando furioso con una serie di esperimenti in chiave parodica e caricaturale, dalla Marfisa alle Lagrime d’Angelica e l’Orlandino, destinati però a restare incompiuti.
Alla sterminata produzione di poemi cavallereschi che risponde alle richieste di diletto e divertimento espresse dal pubblico variegato della raffinata corte estense, si affianca un’attenta riflessione teorica volta a legittimare e codificare il nuovo genere del romanzo inventato da Ariosto. Tanto Giraldi Cinzio quanto il suo allievo e poi rivale Pigna, rispettivamente nel Discorso intorno al comporre dei romanzi e nel trattato I romanzi (ambedue pubblicati nel 1554) difendono la letteratura cavalleresca dagli attacchi dei classicisti: Giraldi in particolare sottolinea che non si possono applicare i precetti aristotelici o oraziani a una maniera di comporre che si sviluppa entro il codice espressivo della lingua volgare e che quindi necessita di proprie regole retoriche. Tuttavia il rispetto per la tradizione classica si fa sentire in Giraldi stesso allorché questi, per il suo Ercole (1557), si rivolge a un soggetto mitologico tentando di contemperare unità e varietà in un poema che narri più azioni di un solo eroe.
Il modello classicistico
La proposta teorica più radicale nel corso del dibattito tra i sostenitori delle regole classicistiche e i fautori della varietà romanzesca è quella elaborata da Gian Giorgio Trissino, autore di un poema epico – L’Italia liberata dai goti – composto a partire dal 1527, ma pubblicato solo tra il 1547 e il 1548. Già nella dedica a Carlo V premessa al poema, Trissino chiarisce i presupposti fondamentali che ispirano la sua opera: la fedeltà assoluta ai precetti aristotelici e al modello omerico, e di conseguenza la rigorosa applicazione dei criteri dell’unità e della verosimiglianza dell’azione storica, la guerra di Giustiniano contro i Goti che occupavano l’Italia, scelta come oggetto della narrazione.
Gian Giorgio Trissino
Pilade
L’Italia liberata dai Goti
Levossi il cameriero, e tolse prima
la camicia di lin sottile e bianca,
e la vestì su l’onorate membra;
poi, sopra quella, ancor vestì il giuppone,
ch’era di drappo d’oro; indi calzogli
le calze di rosato e poi le scarpe
di velluto rosin gli cinse a i piedi.
E fatto ch’ebbe questo, appresentogli
l’acqua a le man con un mirabil vaso
di bel cristallo; e sotto a quel tenea
un vaso largo di finissim’oro;
ond’ei se ne lavò le mani e ’l volto,
ed asciugolle ad un bel drappo bianco,
di ricamo gentil fregiato intorno,
che Filocardio suo scudier gli porse.
D’inde gli pettinò la bionda chioma,
ondosa e vaga, et adattò sovr’essa
l’imperial beretta e la corona,
di ricche gemme variata e d’oro.
Da poi sopa il giuppon messe una vesta
di raso cremesin, che intorno al collo
e intorno al lembo avea ricami eletti,
e quella cinse d’onorevol cinta.
Al fin vestigli il sontuoso manto
di drappo d’oro, altissimo e superbo,
di cui tre palmi si traea per terra;
questo affibbiò sopra la destra spalla
con una perla sua rotonda e grossa
più ch’una grossa noce e tanto vaga
e di sì bianco e splendido colore,
ch’una provincia non potria pagarla,
perch’era unico fior de la natura.
G.G. Trissino, L’Italia liberata dai Goti, Roma, Dorici, 1547
Secondo Trissino la solennità e la dignità della poesia epica devono essere conseguite attraverso l’energia, l’evidenza efficace della rappresentazione, esemplificata nell’austera e maestosa semplicità del modello omerico: da questo punto di vista il verso italiano più adeguato a riprodurre il ritmo narrativo dell’esametro greco si rivela essere l’endecasillabo sciolto. Nella versione trissiniana le cadenze grandiose e scandite dello stile omerico tendono però a trasformarsi il più delle volte in indugio prosaico, lenta e minuziosa enumerazione descrittiva, mentre il mondo eroico e aristocratico dell’epos risulta involontariamente abbassato a una misura di realismo borghese quasi ariostesca nel tono, se non negli intenti e negli esiti, come osserva subito Giraldi Cinzio.
Ma l’esperimento essenzialmente erudito di Trissino contiene in sé anche indubbi elementi di novità, soprattutto nel proposito di regolamentare sulla base dei canoni della razionalità aristotelica il genere moderno del poema eroico-cavalleresco in volgare (mentre per esempio Girolamo Vida nella Christias propone un’epica cristianizzata in latino). Per di più Trissino non è sempre del tutto ligio alle proprie prescrizioni teoriche, tanto è vero che non trascura di inserire nel poema intermezzi amorosi, incantesimi, “azioni formidabili e misericordiose”: proprio il tentativo di creare un meraviglioso cristiano, che possa sostituire la vecchia mitologia pagana, viene affrontato e risolto da Tasso con ben altri risultati sul piano artistico.
Tra epos e romanzo
Nel corso del secolo in tutti gli scrittori che si dedicano al poema eroico appare evidente l’esigenza di articolare entro una struttura epica unitaria la multiforme materia romanzesca, conciliando natura e ragione, storia e invenzione, utilità e diletto. Ad esempio, nel Girone il cortese (1548), Luigi Alamanni – scegliendo come modello un romanzo francese in prosa, con l’intento di elevare la vicenda a una superiore dignità letteraria – adotta la formula dell’eroe come unico protagonista di molte azioni. Ma non manca poi di contravvenire alle regole dell’unità narrativa inserendo episodi secondari, avventure, magie e amori: tutti gli ingredienti tradizionali del genere cavalleresco diretti a soddisfare i gusti del pubblico. Nella successiva Avarchide – pubblicata postuma nel 1570 – Alamanni intende invece seguire più da vicino il paradigma classico: l’opera, che narra l’assedio di re Artù a Bourges (Avaricum), non è che un travestimento moderno dell’Iliade omerica, imitata con fedeltà scrupolosa negli stessi anni in cui Annibale Caro attende a una vera e propria traduzione in endecasillabi sciolti dell’Eneide virgiliana.
Luigi Alamanni
L’assedio di Burges
Avarchide
Canta, o Musa, lo sdegno e l’ira ardente
di Lancillotto, del re Ban figliuolo,
contra ’l re Arturo, onde sì amaramente
il britannico pianse, e ’l franco stuolo
e tante anime chiare afflitte e spente
lasciar le membra in sanguinoso duolo,
d’empi uccelli e di can rapina indegna,
come piacque a colui, che muove e regna.
Ora chi fu la cagion di tanta lite?
Gaven, che dell’Orcania era signore;
che portò invidia alle virtù gradite
di Lancillotto, e gli pungeva il core,
che per opra di lui fosser fallite
le nozze, ch’ei bramò con troppo ardore
di Claudiana di Clodasso figlia,
che fu bella e leggiadra a meraviglia.
Parnaso italiano, a cura di F. Zanotto, Venezia, G. Antonelli, 1841
Anche Bernardo Tasso – come egli stesso dichiara – con il suo Amadigi (pubblicato in 100 canti nel 1560, dopo un quindicennio di lavorazione) vorrebbe conformarsi agli ideali classicistici, ma è costretto a rinunciare all’unità di azione e all’uso dell’endecasillabo sciolto per adeguarsi al “gusto del presente secolo”. Il figlio Torquato racconta che alla recitazione del poema del padre nella sua forma originaria, rigorosamente classicistica, gli ascoltatori finiscono per allontanarsi annoiati e infastiditi. In realtà il dibattito intorno alla poesia epica è ancora aperto e molteplici sono le soluzioni proposte. Inoltre, al di là dei convenzionali propositi didascalici e moralistici, il gusto di Bernardo Tasso pare naturalmente incline sia alla tematica avventurosa –con la ripresa di motivi derivati da Boiardo, dall’ammiratissimo Ariosto e addirittura dal romanzo ellenistico – sia a quella amorosa, dando prova di una sensibilità morbida, e di una vena idillica e sentimentale che alcuni critici hanno definito presecentista. L’esperienza di Bernardo Tasso, poi proseguita nell’incompiuto Floridante (1587), ha influenza sul figlio Torquato, devoto custode della memoria paterna, nel momento in cui si accinge a superare i moduli narrativi del vecchio romanzo, drammatizzandoli nel racconto interiorizzato delle emozioni.
Torquato Tasso e la poetica del poema eroico
La riflessione poetica di Torquato Tasso, affidata nella versione definitiva ai Discorsi del poema eroico, si muove tra il polo classicistico della verosimiglianza e dell’unità della favola, e quello romanzesco del meraviglioso e della varietà, nel difficile tentativo di mediare da un lato l’autorità di Aristotele e la ragione, e dall’altro il “consenso universale delle donne e cavalieri e delle corti” e il gusto “isvogliato” dell’epoca moderna.
Torquato Tasso
Poema eroico e poema cavalleresco
Discorsi del poema eroico, Libro III
Non era per aventura così necessaria questa varietà a’ tempi di Virgilio e d’Omero, essendo gli uomini di quel secolo di gusto non così isvogliato; però non tanto v’attesero; maggiore nondimeno in Virgilio che in Omero si ritrova. Gratissima era a’ nostri tempi, e perciò devevano i nostri poeti co’ sapori di questa varietà condire i loro poemi, volendo che da questi gusti sì delicati non fossero schivati; e s’alcuni non tentaro d’introdurlavi, o non conobbero il bisogno, o il disperaro come impossibile. Io e soavissima nel poema eroico la stimo, e possibile a conseguire; peroché, sì come in questo mirabile magisterio di Dio, che mondo si chiama, e ’l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle, e, discendendo poi giù di regione in regione, l’aria e ’l mare pieni di ucelli e di pesci, e la terra albergatrice di tanti animali così feroci come mansueti, nella quale e ruscelli e fonti e laghi e prati e campagne e selve e monti sogliamo rimirare, e qui frutti e fiori, là ghiacci e nevi, qui abitazioni e culture, là solitudine e orrori; con tutto ciò uno è il mondo che tante e sì diverse cose nel suo grembo rinchiude, una la forma e l’essenza sua, uno il nodo dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate; e non mancando nulla in lui, nulla però vi è che non serva alla necessità o all’ornamento; così parimente giudico che da eccellente poeta (il quale non per altro è detto divino se non perché, al supremo Artefice nelle sue operazioni assomigliandosi, della sua divinità viene a partecipare) un poema formar si possa nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze di esserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendii, qui prodigii; là si trovino concilii celesti e infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d’amore or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna, una la forma e l’anima sua, e che tutte queste cose sieno di maniera composte che l’una l’altra riguardi, l’una all’altra corrisponda, l’una dall’altra o necessariamente o verisimilmente dependa, sì che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto si distrugga. E se ciò fosse vero, l’arte del comporre il poema sarebbe simile alla ragion dell’universo, la qual è composta de’ contrarii, come la ragion musica; perché s’ella non fosse moltiplice, non sarebbe tutta, né sarebbe ragione, come dice Plotino.
T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di L. Poma, Roma-Bari, Laterza, 1964
Interprete acutissimo di un quarantennio di accese discussioni critiche e testimone diretto accanto al padre Bernardo delle sperimentazioni coeve, il Tasso teorico individua nel principio dell’unità della favola il canone inderogabile della composizione del poema eroico, in opposizione alla molteplicità di azioni separate caratteristica del romanzo cavalleresco. Tuttavia l’unità che egli prescrive non è una regola estrinseca e astratta, quanto piuttosto un principio interno che riguarda la struttura complessiva dell’opera, il reciproco e armonico corrispondersi delle sue parti, varie ma sempre tra loro collegate. L’unità formale del poema, senza negare la varietà di materie, dipende esclusivamente dall’“artificio del poeta”, prova del suo ingegno e allo stesso tempo garanzia dell’intelligibilità e della novità della sua creazione.
Allo stesso modo il criterio della storicità dell’azione narrata, che assicura la verosimiglianza, non elimina per il poeta la possibilità di fare ricorso al meraviglioso, che anzi è indispensabile alla poesia: per Tasso, deve trattarsi del meraviglioso cristiano rappresentato dagli angeli, dai demoni e dai loro ministri, “i santi, i magi e le fate”, le cui operazioni risultano “verisimili” se si considera la potenza di chi le ha ispirate, ossia Dio o Satana.
Ugualmente insoddisfatto dell’edonismo ingenuo dei romanzi di tipo ariostesco come dell’oltranza classicistica dell’epica trissiniana, Tasso tenta di contemperare le opposte esigenze attraverso l’articolata elaborazione teorica di un’arte eletta e aristocratica, in grado di soddisfare la sua lucida e puntigliosa intelligenza critica e insieme le richieste di una civiltà matura e ormai prossima al tramonto.