Il portiere di notte
(Italia 1974, colore, 115m); regia: Liliana Cavani; produzione: Robert Gordon Edwards per Lotar; soggetto: Barbara Alberti, Amedeo Pagani, Liliana Cavani; sceneggiatura: Liliana Cavani, Italo Moscati; fotografia: Alfio Contini; montaggio: Franco Arcalli; scenografia: Nedo Azzini, Jean-Marie Simon; costumi: Piero Tosi; musica: Danièle Paris.
Vienna, 1957. Dietro il bancone dell'Hotel der Oper c'è il portiere Max: silenzioso, elegante, servile come il ruolo richiede e pronto anche a soddisfare le esigenze più insolite degli ospiti. Mentre un gruppo di clienti affolla la hall dell'albergo, il suo sguardo incrocia quello di un'affascinante signora. I due si riconoscono, e un primo flashback ci tuffa nel passato di un lager dove Max l'aguzzino sceglie Lucia, ebrea all'epoca poco più che bambina, come vittima di un gioco erotico al massacro. Poco alla volta si intuisce che l'attuale lavoro è stato procurato a Max da un'associazione di ex nazisti che si occupa di 'ripulire' l'identità dei carnefici di un tempo per ridare loro una patente di rispettabilità sociale. In questo momento è Max a doversi sottoporre al rituale degli ex camerati, che si ritrovano proprio in una sala dell'hotel per effettuare una sorta di processo psicoanalitico. Max è turbato dal ritorno di quel fantasma del suo passato, così come Lucia è spaventata ma al tempo stesso nuovamente attratta verso l'uomo che l'aveva assoggettata sessualmente ed emotivamente. Il marito di Lucia, direttore d'orchestra, lascia Vienna; lei, con una scusa, sceglie di rimanere. La storia tra Lucia e Max rinasce violentemente, sotto gli occhi sempre più preoccupati degli ex nazisti che vedono nella donna un testimone oculare pericoloso e ne esigono l'eliminazione. Max, per proteggerla, lascia l'albergo e si chiude con lei nel proprio appartamento, dove di nuovo prende forma l'antico rapporto vittima-carnefice. L'appartamento diventa una trappola quando i membri dell'associazione li individuano e li isolano. Ormai stremati e affamati, in una livida alba, Max e Lucia indossano nuovamente i panni di un tempo e si incamminano nella città, dove, al ponte sul Danubio, li attende l'inevitabile 'plotone d'esecuzione'.
Siamo in un limbo 'targato' 1957, che in qualche modo risente ancora dei dolori e degli odori della guerra e che pure da quell'epoca storica è già lontano. Quella messa in scena del Portiere di notte è una terra di nessuno (anche se tutto accade a Vienna e la scritta in sovrimpressione ce lo comunica con certezza), una sorta di purgatorio dove si muovono fantasmi evocati dal buio degli anni del nazismo. Anime in pena, siano esse 'buone' o 'cattive', in cerca di redenzione o di fuga verso un forse impossibile altrove. Il più grande successo commerciale e mediatico di Liliana Cavani, il film che più di ogni altro influirà sulla carriera della regista emiliana, e in qualche modo sembrerà condizionarla negli anni a venire e nelle opere successive, è questo: un'analisi più interiore che esteriore, non tanto del fenomeno storico che è stato il nazismo quanto del 'nazista che è in noi', dove il termine nazismo si dilata fino a coincidere con un allargato concetto di male.
Accompagnato dall'odore di zolfo d'un annunciatissimo scandalo d'epoca, Il portiere di notte compie un lungo viaggio dentro la notte della psiche umana, dove i concetti definitivi che piacciono ai manichei vengono infranti con violenza, dove le linee di confine si confondono e le catalogazioni risultano impossibili. L'ex nazista Max, ora portiere di notte in un decadente albergo (riconoscibile, già nell'atmosfera e nel décor, la traccia viscontiana), e Lucia, sofisticata moglie di un direttore d'orchestra ma un tempo vittima bambina di Max in un campo di concentramento, sono destinati (dalla Storia e da questa storia) a incontrarsi ancora. Lui, in divisa con la croce uncinata, l'aveva filmata e studiata, poi violentata. Lei aveva subito come un agnello sacrificale. Ma la spirale vittima-carnefice era stata sconvolta e interrotta da un evento imprevisto e imprevedibile come l'amore. Poi le macerie della caduta del Reich, la caotica rinascita, fino al nuovo incontro nei nuovi ruoli d'una normalità (e d'una diversa gerarchia) borghese. In anni successivi gli psicologi avrebbero definito 'sindrome di Stoccolma' (da un caso di cronaca nera accaduto proprio nella capitale svedese) il rapporto morboso che può venirsi a creare fra i sequestrati e i loro sequestratori, rapporto non basato sull'odio e sul senso di ribellione, ma su una totale e quasi morbosa sudditanza delle vittime. La 'sindrome di Vienna' descritta da Liliana Cavani è tuttavia differente, attinge a sfere più profonde della psiche per confondere ogni ruolo e spiegare come dentro ognuno di noi ci sia una parte di vittima e una di carnefice, una tensione sadica e una tensione masochista che rispondono a uno stesso cuore e a uno stesso cervello, come gemelli siamesi che un semplice bisturi non può separare. Si può anche tentare l'operazione, ma è più facile che alla fine entrambi soccombano. Come accade fatalmente nel finale, livido, sul ponte.
Il film è calato in un'atmosfera irrealistica, in una città che ha i colori dell'aldilà, rarefatta, immersa in una zona franca spazio-temporale. Il cammino di Max e Lucia ha una sola via d'uscita e tutta la costruzione drammaturgica del film è tesa verso questa inevitabile 'soluzione finale', tra l'esplicito teatro psicoanalitico (le sedute effettuate dal 'tribunale' degli ex nazisti) e le esplosioni di erotismo autodistruttivo (in particolare nei flashback, tagliente arma narrativa che riporta lo spettatore agli eventi accaduti nel lager), in sequenze che sconvolsero e solleticarono il pubblico e seppero imporsi nell'iconografia dell'epoca: basti pensare all'immagine di Charlotte Rampling con il cappello della divisa nazista, il torso nudo e le bretelle a coprire-scoprire il seno, mentre canta per gli aguzzini.
Se la fonte d'ispirazione più diretta per il film resta probabilmente La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti, Il portiere di notte ha involontariamente generato una nidiata malefica di pellicole che, senza nulla trattenere della profondità e ambiguità dell'originale, si sono limitate a replicare maldestramente gli aspetti più compiaciuti del famigerato binomio sesso e svastica: a partire dal Salon Kitty di Tinto Brass (1975) giù giù lungo tutta una estenuante serie di titoli trash.
Interpreti e personaggi: Dirk Bogarde (Max), Charlotte Rampling (Lucia), Philippe Leroy (Klaus), Gabriele Ferzetti (Hans), Nora Ricci (frau Holler), Isa Miranda (contessa Erika Stein), Giuseppe Addobbati (Stumm), Amedeo Amodio (Bert), Marino Masé (Atherton, marito di Lucia), Ugo Cardea (Mario), Nino Bignamini (Adolph), Piero Mazzinghi (portiere di giorno), Geoffrey Copleston (Kurt), Manfred Freyberger (Dobson).
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