Il potere delle donne nell'Alto Medioevo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nonostante l’uguaglianza di tutti i credenti affermata dal cristianesimo, gli autori tardoantichi sono concordi nel considerare la donna subalterna all’uomo e inadeguata a svolgere ruoli di potere. Nelle famiglie aristocratiche e nelle case regnanti, tuttavia, le donne (mogli e madri) esercitano poteri reali nelle vesti di vicarie e di tutrici, impegnate in fondamentali ruoli di salvaguardia degli interessi economici, sociali e politici delle famiglie e delle dinastie.
Le complesse vicende che accompagnano l’affermarsi della religione cristiana riguardano da vicino anche il delinearsi dei ruoli maschili e femminili sia all’interno delle comunità ecclesiali, sia nelle società in continua trasformazione. La posizione della donna subisce non pochi cambiamenti, soffrendo e beneficiando allo stesso tempo di contraddizioni di non facile soluzione. L’affermazione dell’uguaglianza in Cristo di tutti i credenti (Gal. 3,28), confermata dal ruolo svolto dalle donne nella diffusione della Buona Novella nelle primitive comunità, viene ridimensionata dall’acquisizione da parte delle Chiese cristiane di sistemi familiari e sociali dei popoli evangelizzati, fortemente segnati dai rapporti gerarchici e patriarcali. Nella nascente religione, che conosce nel IV secolo con Costantino la sua consacrazione politica divenendo religione dell’impero, confluiscono la cultura ebraica, la filosofia greca, la giurisdizione romana, ciascuna contribuendo, a suo modo, alla costruzione di una antropologia che delinea un’immagine del maschile e del femminile destinata a rimanere normativa nei secoli.
Nonostante la proclamata uguaglianza, gli autori medioevali sono sostanzialmente concordi nel ribadire l’imperfezione e l’insufficienza della natura della donna, nata per essere subordinata all’uomo. Essi attingono alla filosofia greca e alla Sacra Scrittura attraverso il prisma dell’interpretazione patristica che, pur con le dovute differenziazioni, è unanime nel consegnare una tradizione nella quale l’infirmitas mulieris è realtà ovvia e inconfutabile. La creazione di Eva (dalla costola di Adamo, Gen. 2,21) e la sua punizione (“sarai a lui sottomessa”, Gen. 3,16) diventano modelli rappresentativi dell’effettiva condizione femminile; le parole presenti nelle epistole di Paolo “le donne tacciano in assemblea” (1Cor. 14,34) e “non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo” (1Tim. 2,12), in virtù di una discutibile e pregiudiziale esegesi, assurgono a fondamenti teologici e disciplinari di esclusione delle donne dai ruoli pubblici e magisteriali.
Il ruolo subalterno della donna è, dunque, sancito innanzitutto dalla natura, prima che dalle leggi, così come l’affermazione della limitata capacità femminile in campo giuridico si fonda sulla presunta debolezza fisiologica e psicologica: nelle sue fortunate Etimologie, Isidoro di Siviglia avrà gioco facile nel far derivare il termine mulier da mollitia. Il governo delle donne è pertanto considerato contro natura, come appare nel commento dello Pseudo Ambrogio alla Lettera ai Colossesi (Col. 3,11) (IV sec.); del resto, già Aristotele aveva sentenziato che “ corruptio regiminis est quando regimen pervenit ad mulieres ” (“la corruzione dei poteri è quando il potere è in mano alle donne” Politica, I, c.13).
Altra cosa è, tuttavia, la situazione della donna reale, situazione che, nell’arco di tutto il Medioevo, varia a seconda delle etnie, delle classi sociali di appartenenza, del contesto urbano o rurale, dello specifico momento storico. La condizione di inferiorità, che costringe la donna a vivere “sotto tutela”, affidata all’autorità di un uomo, trova la sua eccezione nella condizione della donna nobile, alla quale non è impedita l’assunzione di dignità e l’esercizio del potere, in forza di una “consuetudine” che, nell’esercizio di autorità in atto, supera la stessa legge. Ciò significa che la teoria, l’ordinamento giuridico e i rapporti quotidiani sono tre piani diversi e non sempre coincidenti, cosicché il potere femminile, che prende forma in molteplici espressioni concrete, viene accettato in virtù del modello della donna virile (mulier virilis) che supera la debolezza della propria natura attraverso l’acquisizione della forza maschile.
Questa virilità femminile, tuttavia, a volte viene elogiata, altre volte biasimata, in funzione dell’uso del potere; per questo i giudizi sulle donne che esercitino mansioni di governo variano nella misura in cui esso è esercitato per il bene della Chiesa, garante della fede e dell’ortodossia. In caso contrario, il potere femminile viene demonizzato attraverso rappresentazioni negative, ridicole, farsesche: la biblica regina Jezabel, che introduce nel Regno del Nord il culto pagano (1Re 16.18.19. 21; 2Re 9), ripresa simbolicamente nella figura della falsa profetessa nel libro dell’Apocalisse (2,20), rappresenta per tutto il Medioevo il potere femminile come incongruità mostruosa. L’imperatrice Elena, al contrario, madre del convertito Costantino, diventa modello della sovrana devota che conduce alla fede, figura esemplare di un potere non fine a se stesso, bensì legittimato per il ruolo materno di guida nella fede, un ruolo che troviamo nelle regine attive nell’opera di evangelizzazione, da Clotilde in Francia a Teodolinda in Italia, a Olga in Russia.
Collegato al ruolo autorevole che le regine esercitano per l’affermazione del cristianesimo è il potere esercitato all’interno dei monasteri. I monasteri femminili hanno, infatti, un alto valore simbolico e un importante ruolo strategico nell’acquisire e mantenere il potere, nel rendere stabile il prestigio e l’autorità delle famiglie reali e aristocratiche; si veda, ad esempio, il monastero di Santa Giulia a Brescia, strettamente legato alla famiglia reale franca. La maggior parte delle principesse diventano badesse ed esercitano reali mansioni di gestione del potere in campo economico, sociale e religioso, come la nobile Ilda, badessa nel monastero di Whitby, rinomato centro culturale, reso da lei sede di un incontro conciliare tra la Chiesa celtica e quella romana.
Come ha illustrato Maria Teresa Guerra Medici nel suo studio Donne di governo nell’Europa moderna (Viella, 2005), nella società medioevale di tipo familiare, basata sui rapporti parentali, il potere si va costituendo attorno a una famiglia dominante che riesce a controllare, anche con la violenza, territori e città. In tal senso, l’interesse privato si intreccia con quello pubblico, giacché i diritti politici di comando e di giurisdizione sono considerati come attribuzioni patrimoniali dei signori. In questo modello la gestione del potere si attua attraverso la trasmissione dinastica di padre in figlio, per cui le donne “diventano indispensabili strumenti di procreazione, oggetto di scambi matrimoniali, mezzo di acquisizioni territoriali e di solidarietà parentali, veicolo di trasmissione e conservazione del potere, elementi insostituibili per la formazione e continuità della dinastia” (ivi, p. 22). L’esercizio del potere da parte delle donne non si esplica, dunque, sul campo di battaglia, bensì nel creare una rete di amicizie e di clientele, nel gestire la convivialità diplomatica e l’organizzazione domestica, a volte nel tessere intrighi di palazzo.
Tutta la famiglia partecipa alla costruzione del potere e alla trasmissione dell’indivisibilità dei beni ereditari. Le donne vi accedono con abilità e spregiudicatezza attraverso i ruoli familiari di mogli, madri e figlie. Nelle case regnanti, in quanto mogli del sovrano, esse ricoprono spesso il ruolo di reggenti o di vicarie (consortes regni) quando i mariti siano impossibilitati a governare per assenza fisica o malattia; in quanto madri, assumono il potere, come “madri tutrici”, in nome del figlio minore e, in quanto figlie, succedono al padre qualora non vi siano fratelli.
Tali forme di potere nascono, dunque, da una consuetudine che segna la storia della reggenza femminile, lunga e significativa per la società feudale europea.
Di governo vero e proprio si può cominciare a parlare dal IV secolo, quando Pulcheria (399-453) e Galla Placidia guidano gli imperi d’Oriente e di Occidente (la prima in nome del fratello Teodosio II e la seconda per conto del figlio Valentiniano III); tuttavia, anche nel periodo di transizione tra il dominio romano e quello barbarico (VI sec.) non è inconsueto l’esercizio del potere femminile, soprattutto da parte delle madri sui figli minori.
Amalasunta, figlia del re ostrogoto Teodorico, alla morte del padre governerà per otto anni in qualità di reggente del figlio Atalarico, ancora minorenne, da lei stessa istruito nella complessa arte del governare. Amalasunta è donna colta che padroneggia il latino e il greco, conoscitrice di letteratura, condottiera di successo contro Franchi e Burgundi, abile diplomatica nell’instaurare una politica di alleanza con Bisanzio e, al contempo, di conciliazione con gli elementi latini del Regno; possiede, come riferisce Cassiodoro, “qualità maschili” e si innalza al di sopra della sua condizione femminile. A conferma del modello virile, destinato a diventare un topos letterario atto a indicare e a far accettare il potere femminile, anche Procopio di Cesarea la ritrae come donna che “tenne il comando con saggezza e giustizia, dimostrando nei fatti un temperamento mascolino” (Bella Goth. V 2,2-3). Morto Atalarico, Amalasunta sposa Teodato (?-536) e lo associa al trono come consors regni; questi, però, nell’intento di rafforzare la propria posizione tra i Goti, avversi ad Amalasunta perché non tollerano che sia una donna a governare, la fa uccidere nel 535.
Per quanto riguarda Teodora, moglie di Giustiniano I e imperatrice d’Oriente, Procopio ne offre un ritratto a tinte fosche, perché autonoma da Roma. Complice dei Goti nell’uccisione di Amalasunta, è a fianco di Giustiniano nella difficile gestione del potere; grazie alle sue capacità critiche e decisionali reagisce energicamente alla rivolta di Nika (532), impedendo la fuga dell’imperatore e riprendendo il controllo dell’esercito. Teodora riesce a imporsi non solo in campo politico, ma anche religioso: appoggia, infatti, i monofisiti, ritenendo utile mantenere compatto l’impero d’Oriente piuttosto che avvicinarsi a Roma.
Relativamente al cristianesimo bizantino è da sottolineare come Bisanzio si distingua per l’importanza attribuita al culto di Maria Theotòkos (Madre di Dio) e per le possibilità di accesso delle donne al potere imperiale, in qualche modo correlate alla costruzione di una forte immagine del femminile. Irene, moglie di Leone IV, rimasta vedova, governa per dieci anni in nome del figlio Costantino VI, dimostrando abilità ed energia, tanto in ambito politico quanto religioso: è lei a convocare il concilio di Nicea per ristabilire il culto delle immagini. Allontanata dal figlio, divenuto maggiorenne, ma richiamata a gran voce a Bisanzio, regna insieme a Costantino per sei anni, fino al momento in cui lo fa deporre e accecare. Governa da sola per altri cinque anni, prima donna nella storia europea a ricoprire il ruolo di monarca sovrano. Il suo regno rappresenta un periodo importante per gli aspetti ecclesiastici, diplomatici ed economici. Viene deposta da una rivolta di palazzo nell’802.
Anche le regine dell’età merovingia Brunilde e Batilde sono regine madri cui è demandato l’esercizio del potere fino al compimento della maggiore età dei figli. La visigota Brunilde esercita la sua influenza sulla Burgundia per circa 40 anni, governando come reggente del figlio Childeberto anche quando questi avrà raggiunto la maggiore età. Le lettere inviatele da Gregorio Magno attestano il suo ruolo politico e l’interesse del vescovo di Roma di avere alleate nelle sovrane per i propri fini religiosi. La forza della personalità di Brunilde è descritta da Gregorio di Tours che, oltre a evidenziare il suo energico intervento in occasione delle elezioni dei vescovi, ne sottolinea l’uso di mezzi crudeli per il controllo del potere, quali la tortura e l’uccisione degli oppositori. Clotario II, appoggiato dalla nobiltà, la cattura e, dopo averla sottoposta a tortura, la fa uccidere.
La schiava anglosassone Batilde, presa in moglie da Clodoveo II, alla morte del marito svolge un importante ruolo politico sia nel campo delle riforme amministrative, sia nell’adoperarsi per la ricostituzione dell’unità del regno merovingio a favore del figlio Clotario III. Promotrice di molte fondazioni monastiche (favorisce la diffusione della regola di Colombano), trascorrerà i suoi ultimi giorni nell’abbazia reale di Chelles, presso Parigi, divenendo, dopo la canonizzazione, il modello della regina cristiana, benefattrice di religiosi, poveri e malati.
Nella costruzione agiografica merovingia si afferma un modello di santità femminile esaltante la santa aristocratica che sceglie di ripudiare il mondo per dedicarsi a Dio, umiliando la propria condizione sociale per mettersi al servizio dei poveri. In tal senso, Radegonda fornisce l’immagine della regina santa che preferisce il chiostro al regno. Moglie di Clotario I, quando questi le uccide il fratello, si separa da lui ritirandosi a Noyon come diaconessa.
Partecipe del potere dell’imperatore franco Ludovico II, Angelberga ha un ruolo importante nelle missioni diplomatiche e nelle guerre, intervenendo con autorevolezza nelle dispute tra Ludovico e suo fratello Lotario, nonché tra quest’ultimo e papa Adriano II. Non avendo generato eredi maschi, ma soltanto due femmine, alla morte di Ludovico (876) vedrà la sua posizione indebolirsi. Ritiratasi in convento, viene trasferita prigioniera in Germania da Carlo il Calvo.
Adelaide di Borgogna, moglie di Lotario II, prima, e dell’imperatore Ottone I, poi, esercita come coimperatrix una notevole influenza in campo diplomatico. Accompagna il marito nelle sue discese in Italia tra il 961 e il 973 e, una volta rimasta vedova, vede rafforzarsi il suo ruolo, prima in quanto tutrice del figlio Ottone II e poi, alla morte di lui, come vicaria regni. Si dimostra anche abile nel gestire le discordie locali, che vedono coinvolta l’abile ed energica nuora Teofano, di origine bizantina, reggente per otto anni in nome di Ottone III. Alla morte di Teofano, Adelaide gode ancora di una larga influenza a corte ed esercita anche un significativo ruolo in campo religioso fondando monasteri e appoggiando i riformatori cluniacensi. Si ritira, infine, nel monastero di Seltz e, dopo la morte, è ben presto venerata come santa.
Un caso particolare di potere in mano alle donne è quello conosciuto come la “pornocrazia” romana. Nella prima metà del X secolo Roma è dominata dal casato dei Teofilatti, le cui donne mettono in atto strategie spregiudicate per conquistare il potere o per trasmetterlo ai figli, controllando la vita politica romana e la scelta dei pontefici. Marozia ha un figlio da papa Sergio III. Sostenuta dalla potente madre Teodora – forse amante dell’arcivescovo di Ravenna, in seguito divenuto papa Giovanni X – riuscirà a far sedere suo figlio sul soglio pontificio col nome di Giovanni XI. Dal marito Alberico da Spoleto, Marozia ha un altro figlio, Alberico II (?-954), che governerà Roma per venti anni.
Non si può dire dunque che le donne siano state passivi oggetti di scambio, né che abbiano esercitato il potere con caratteristiche diverse da quelle degli uomini. Pur nella varietà delle esperienze, nei confronti della gestione del potere, dove valgono intuito politico e forza di carattere, le differenze sessuali appaiono poco significative.