Il potere politico del papa
In un appunto del 1930, vergato a mo’ di recensione di un articolo apparso sulla «Nuova Antologia» nel giugno dell’anno precedente, Antonio Gramsci annotava il «curioso» uso, da parte di una storiografia minore, del giudizio machiavelliano sulla «disunione» e «debolezza» d’Italia cagionate dalla Chiesa1, così da imputare a essa e soprattutto «al sistema dell’equilibrio delle potenze italiane», la ragione «storica e nazionale della mancata unione della patria, in quanto essa derivava non già da un pensiero individuale, ma da un effettivo pensiero universale, tramandatosi da generazione a generazione, lungo secoli e rispondente dunque al genio nazionale»2. Interrogandosi sul senso di questo passaggio, «l’intellettuale che non diventò mai “dottore”»3 ne rigettava ogni valore sul piano storico4, trovando tuttavia «interessante» e «non [...] completamente assurdo» lo spunto dell’autore recensito circa l’«effettivo pensiero universale», purché inteso e circoscritto «nel suo carattere politico-attuale, cioè per spiegare certi sviluppi storici legati alla vita moderna», e scriveva:
«L’Italia, per la sua funzione “cosmopolita”, durante il periodo dell’Impero Romano e durante il Medio Evo subì passivamente i rapporti internazionali, cioè nello sviluppo della sua storia i rapporti internazionali prevalsero sui rapporti nazionali. Ma il Papato appunto è l’espressione di questo fatto; dato il carattere duplice del regno papale, di essere sede di una monarchia spirituale universale e di un principato temporale, è certo che la sua potenza terrena doveva essere limitata (il Machiavelli vide benissimo ciò, come si rileva dal III capitolo del Principe e da ciò che egli riporta d’aver detto al cardinale di Roano; il Roano, al tempo in cui il Valentino veniva occupando la Romagna, gli aveva detto che gli italiani non si intendevano di guerra, ed egli rispose che i francesi non si intendevano di Stato – di politica –, “perché se se n’intendessino, non lascerebbano venire la Chiesa in tanta grandezza”, ecc. ecc.). È certo che se la Chiesa avesse avuto come principato terreno tutta la penisola, l’indipendenza degli Stati europei avrebbe corso serio pericolo: il potere spirituale può essere rispettato finché non rappresenta una egemonia politica e tutto il Medio Evo è pieno delle lotte contro il potere politico del Papa.»
«È vero dunque che negli italiani la tradizione dell’universalità romana e medioevale impedì lo sviluppo delle forze nazionali (borghesi) oltre il campo puramente economico-municipale, cioè le «forze» nazionali non divennero “forza” nazionale che dopo la Rivoluzione francese e la nuova posizione che il papato ebbe ad occupare in Europa, posizione irrimediabilmente subordinata, perché limitata e contesa nel campo spirituale dal laicismo trionfante. Tuttavia questi elementi internazionali “passivamente” prementi sulla vita italiana continuarono a operare fino al 1914 e anche (sempre meno forti) fino alla Conciliazione del febbraio 1929 e continuano anche oggi in una certa misura, determinando i rapporti esterni tra Stato italiano e Pontefice [...]»5.
Il giudizio gramsciano, con il suo netto rovesciamento della prospettiva interpretativa unita all’immagine romantico-risorgimentale diMachiavelli profeta dell’unità nazionale, presenta già, in una chiave propriamente storica (etico-politica), il problema che la moderna storiografia ha proposto nei termini del «doppio ruolo», del «carattere bidimensionale – a un tempo spirituale e temporale – della sovranità papale sulla Chiesa universale e sul proprio dominio, lo Stato pontificio»6. All’indomani della Conciliazione e del Concordato, il prigioniero di Turi rifletteva sul «carattere duplice del regno papale [...], sede di una monarchia spirituale universale e di un principato temporale», sul suo indebolimento e sulla sua «posizione irrimediabilmente subordinata» nel mondo moderno e infine sul perdurare delle ragioni della limitazione della sua «potenza terrena» nella tradizione italiana. La sua allusione alla continuità (sia pure «in una certa misura») degli elementi universalistici ‘passivamente’ prementi sulla vita italiana anche dopo il Concordato, trova riscontro altrove nei Quaderni, sia dove Gramsci esprime la sua visione rigorosamente anticoncordataria delle relazioni tra Stato e Chiesa, sia dove egli riflette sul potere del papa come «ordinatore dell’ideologia che dà il cemento più intimo alla società civile e quindi allo Stato». L’ultima questione equivaleva, per il pensatore sardo, al problema di chi rappresentasse più adeguatamente la società contemporanea italiana «dal punto di vista teorico e morale», come si legge nella parte II delle pagine dedicate alla filosofia di Benedetto Croce (il Croce «ultimo uomo del Rinascimento», «moralista e maestro di vita, costruttore di principii di condotta che astraggono da ogni confessione religiosa, anzi mostrano come si può “vivere senza religione”», il Croce la cui funzione, paradossalmente, «si potrebbe paragonare a quella del papa cattolico»):
«Il papa [...], e perché la sua autorità e influsso operano con tutta una organizzazione accentrata e bene articolata, è una grande, la più grande forza politica del paese dopo il governo, ma è la sua una autorità diventata passiva e accettata per inerzia, che anche prima del Concordato era, di fatto, un riflesso dell’autorità statale [...]. Croce è realmente una specie di papa laico, ma la morale del Croce è troppo da intellettuali, troppo del tipo Rinascimento, non può diventare popolare, mentre il papa e la sua dottrina influenzano masse sterminate di popolo con massime di condotta che si riferiscono anche alle cose più elementari. È vero che il Croce afferma che ormai questi modi di vita non sono più specificatamente cristiani e religiosi, perché “dopo Cristo siamo tutti cristiani”, cioè il cristianesimo in ciò che è reale esigenza di vita e non mitologia è stato assorbito dalla civiltà moderna [...]»7.
Il problema del Concordato, a così breve distanza di tempo dall’evento, trovava nella riflessione in solitudine di Gramsci una sua autonoma e quasi scolastica trattazione8, condotta con una rigidità dogmatica che parrebbe debitrice della prosa, scientifica e parlamentare, di un oppositore come Francesco Ruffini, il grande ecclesiasticista e storico del diritto, di cui il pensatore sardo fu uditore nella università di Torino9. Sostenendo che i concordati «intaccano in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno», Gramsci faceva seguire una più elaborata riflessione, con un recupero della dimensione storica del problema:
«Non si tratta certo più della stessa forma di sovranità supernazionale [...] quale era formalmente riconosciuta al papa nel Medio Evo, fino alle monarchie assolute e in altra forma anche dopo, fino al 1848, ma ne è una derivazione necessaria di compromesso. D’altronde anche nei periodi più splendidi del papato e del suo potere supernazionale, le cose non andarono sempre molto lisce: la supremazia papale, anche se riconosciuta giuridicamente, era contrastata di fatto in modo spesso molto aspro [...]»10.
Quella che Gramsci chiamava, nel contesto di una crisi senza precedenti della civiltà europea e nel chiuso di un carcere, «una derivazione necessaria di compromesso» dalla sovranità supernazionale della Chiesa (l’elemento universale ‘passivamente’ operante nella vita italiana), quantunque resa debole prima ancora del Concordato dalle rivoluzioni settecentesche e dai nuovi assetti europei del primo Ottocento, continuava a manifestarsi nella cultura italiana come una questione storico-attuale di primaria importanza, fino a riverberarsi nei dibattiti e negli scontri politici all’interno della Assemblea costituente eletta il 2 giugno 194611. Il papa, il ‘potere politico papale’, il ‘carattere duplice’ del suo regno, il problema della limitazione dell’influenza politica di un’autorità spirituale universale mostrano a dito uno dei caratteri, se non il più marcato dei caratteri originali della storia d’Italia, della sua appartenenza alla cristianità occidentale e del suo tipico oscillare, se non si voglia parlare di equilibrio, tra papa (e imperatore) e città, tra universalismo e particolarismo.
Se è vero che «Papato e Impero sono le due grandi quinte entro le quali si svolge la vicenda della storia medievale europea», cosicché a chi abbia presente lo scenario nel suo insieme «non può sfuggire che ogni movimento e ogni azione è condizionata dalla loro incombente presenza», è vero anche, come scrisse Giuliano Procacci nell’esordio di un bel libro di molti anni fa, che
«di nessun paese dell’Occidente cristiano è possibile delineare la storia nel corso del Medioevo senza dover continuamente fare riferimento a queste strutture universalistiche. Dell’Italia meno che di qualsiasi altro. La penisola non è soltanto, come le altre nazioni, un membro della comunità dei popoli cristiani dell’Occidente, essa ne è anche il centro di gravità e il cuore. Senza Roma, senza l’Italia, la Respublica christianorum cesserebbe infatti di essere tale»12.
È al papa di Roma e al ‘carattere duplice’ del suo potere che l’Italia deve la «posizione privilegiata di centro ideale della Respublica christiana»13: è il pontefice romano la sola «incombente presenza» nelle vicende storiche italiane (a tal punto che anche la sua assenza, nel settantennio ‘avignonese’, sarà sentita come una questione precocemente nazionale)14. Al papa, e non all’imperatore, che è e resta, fatta forse salva (ma solo in certa misura) la grande parentesi del secondo Federico, un «signore lontano», evocato sia come principio d’ordine e di giustizia temporale universale sia come garante dell’autonomia dei poteri particolari, purché, appunto, «lontano», al papa si deve la costante della storia d’Italia rappresentata dal policentrismo urbano e regionale, in relazione al problema della limitazione della sua potenza terrena, del suo potere politico incombente: giacché del papa non si può dire quel che del suo antagonista universale dicono i versi del Guglielmo Tell di Schiller: «Den Kaiser will man zum Herrn / um keinen Herrn zu haben»15.
La presenza del papa – la presenza del suo potere dal carattere duplice – è infatti tutt’uno con la presenza giuridica della Chiesa e con la sua funzione disciplinatrice in campo religioso e sociale. È stato osservato che «non è quella della Chiesa una presenza giuridica di carattere territoriale»:
«La Chiesa appare prima di tutto regolatrice di se stessa e dei rapporti attinenti la fede e la coscienza. Elabora un proprio diritto, il diritto canonico, che presenta carattere di universalità. Strettissimo è il legame con il diritto romano, dei cui valori si fa custode ed al quale attinge principî, organizzazione sistematica, linguaggio e tecnica.
Nei rapporti esterni la Chiesa si regola secondo il diritto civile romano, che diviene legge personale di chierici ed enti ecclesiastici. Ed è logico che ciò avvenga, dato che la Chiesa è sorta e si è sviluppata nell’ambito dell’Impero romano e da questo ha ottenuto diritti e privilegi.
L’autonomia giuridica consente alla Chiesa di resistere ai tentativi del potere politico di ridurla nei confini di una organizzazione di culto, con finalità esclusivamente spirituali. Al tempo stesso non le impedisce di partecipare direttamente alla vita politica, senza essere coinvolta nelle sorti delle organizzazioni politiche. Il papato legittima imperatori e sovrani o comunque dà il suo avallo all’esercizio del loro potere; i vescovi partecipano alla amministrazione civile; enti e titolari di uffici ecclesiastici sono parte integrante del sistema feudale. Le dispute, i contrasti, le sconfitte della organizzazione ecclesiastica sul terreno politico non intaccano la sua struttura autonoma»16.
Quella che Harold Berman ha chiamato «rivoluzione papale»17, tra la metà del secolo XI e il primo quarto del XII, è il grande strappo dal quale, insieme al caratteristico dualismo tra potestà secolare e autorità spirituale, si generano in Occidente una presenza e una funzione destinate a perpetuarsi e a confondersi per i secoli a venire con la sua area di più precisa e diretta influenza, l’Italia, almeno a partire dalla duplice dichiarazione in forma di privilegio che va sotto il nome, a dispetto di ogni rigorosa precisazione, di Concordato di Worms18. Il significato della rivoluzione, compendiato nelle ventisette proposizioni del celebre Dictatus papae di Gregorio VII19, testo programmatico per l’azione del papa e non semplice costruzione teorica, rimasta tra desiderio e realtà, non è limitato alla ‘scoperta’ del carattere dirompente dell’istituzionalizzarsi nel secolo XI di un dualismo permanente e di una tensione concorrenziale tra due poli, lo spirituale e il temporale, ognuno dei quali tende ad assumere una posizione egemonica nella società occidentale20. Essa in realtà rimanda a quella «solitudine di responsabilità, di decisionalità, di committenza» che non ha riscontro in nessuna altra forma e istituzione del potere in Occidente21. È questa la dimensione del potere papale, dalla ‘rivoluzione’ dei secoli XI e XII passando per tutte le successive crisi, da quella avignonese alla Riforma del secolo XVI, dal giurisdizionalismo al trauma napoleonico, fino alle sfide otto-novecentesche al «laicismo trionfante» (la «secolarizzazione», per la storiografia convenzionale; la «spiritualizzazione del secolare», secondo Berman)22.
È stato scritto che «in fondo, la vera eccezionalità dello Stato pontificio rimane il regime col quale esso è retto e che, nel momento dell’affermazione della struttura statale moderna, risalta, paradossalmente, assai di più»:
«Una definizione di questo regime è praticamente impossibile. Non si tratta di una vera e propria monarchia assoluta di tipo moderno. Benché i poteri del papa-re possano essere considerati di gran lunga superiori, quanto a discrezionalità, a quelli di un qualsiasi sovrano europeo, egli è pur sempre eletto dal collegio dei cardinali, col quale al momento della scelta, può essere costretto a stipulare una serie di ‘capitolazioni’, ossia di patti, che poi potrà anche non rispettare, ma che danno un’idea di iniziale dipendenza. L’assenza del principio ereditario toglie al rapporto con i sudditi quel sentimento dinastico che è una delle forze e delle caratteristiche eminenti delle monarchie moderne. E, in fondo, il papa rimane re in quanto è, appunto, il papa, ossia il capo, investito di profonde e altissime caratteristiche sacrali, di una comunità religiosa incommensurabilmente più ampia di quella dello Stato di cui è sovrano anche in temporalibus [...]. Insomma, le vecchie forme e l’ambigua fisionomia medievale del potere ecclesiastico, di antica ascendenza bizantina, si perpetuano attraverso i secoli, anche se la Chiesa postavignonese, e, soprattutto, la Chiesa controriformistica è qualche cosa di assai diverso dalla Chiesa medievale. La sua struttura monarchico-elettiva, assolutistica, accentrata nel governo e nella dottrina, fortemente caratterizzata da interessi mondani e da una tradizione temporalistica e legata a Roma da un vincolo non messo più in discussione in alcun modo si è ormai pienamente affermata. Essa è ormai veramente tale che la identificazione di “romana” e “cattolica”, con cui si autodefinisce, indica una realtà che va al di là della pregnanza di questi termini e della loro stretta congiunzione»23.
Per antico retaggio e per il rinnovato carattere controversistico della letteratura storico-dottrinale della modernità in materia di rapporti tra papato e impero o tra Stato e Chiesa, la storiografia sulla potestas papae ha sofferto di una riduzione nell’ambito delle polemiche intorno alla plenitudo potestatis pontificia, alla sovranità «che non si lega le mani», intesa come l’archetipo di una concezione moderna del potere sovrano, anzi come uno e forse il più importante degli elementi di accelerazione nel passaggio dalla concezione e dalla prassi tipicamente medievali di una sovranità limitata e ‘divisa’ alla concezione e alla prassi squisitamente moderne del potere in senso assolutistico.
Nell’età intermedia il concetto di plenitudo potestatis aveva infatti, anche nelle più estreme ideologie ierocratiche, il suo temperamento e in definitiva il suo limite nella complementare configurazione della sollicitudo pastoralis e soprattutto nella congiunta dimensione della potestas ordinaria et ordinata (il sembiante concreto del potere, limitato da precisi confini etico-giuridici, accanto al sembiante astratto e ‘assoluto’)24. La storia delle costruzioni dottrinali intorno alla potestà papale non sembra perciò riducibile alla storia della «creazione di una posizione di potere illimitata»25. Quando a metà del Duecento Enrico da Susa, detto l’Ostiense dal suo titolo cardinalizio, distingue tra plenitudo officii e plenitudo potestatis, tra il potere del papa «quando secundum iura ius reddit» e «quando trascendit iura», distingue certamente i due sembianti della sovranità, il sembiante concreto della potestas ordinaria et ordinata e quello astratto della potestas absoluta; e benché sia alla ‘pienezza’ dei doveri e dei poteri che egli fa appello, non sembra si possa dire che la plenitudo potestatis sia «potere allo stato puro, non dichiarativo, ma puramente volontaristico», o addirittura che plenitudo potestatis sia «già troppo moderno per essere ‘modernizzato’ da un qualsiasi altro lessema»26. Solo nella controversistica curialista a cavaliere del Trecento il papa «occupa un luogo strutturale che non è soltanto il primo in ordine d’importanza, ma è la sintesi delle potestà intermedie, ne è il centro, la ricapitolazione»27. E solo la dottrina moderna della sovranità, alla fine del secolo XVI, dichiara esplicitamente la sua matrice nella «potestà del papa che non si lega le mani» e che riconosce come suo proprio limite solo il territorio invalicabile di un ordo iuris indisponibile perché posto da Dio28.
Nell’età della canonistica classica il primato del pontefice non è ancora ‘un dominio globale’, almeno finché la mistica del servizio, viva ancora a mezzo il secolo XIII, non trapassa e trascolora nell’ideologia del potere ‘sacro’, nella crisi avignonese e nelle sue violente controversie dottrinali, oltre lo scisma e l’orizzonte del primo conciliarismo, quando i caratteri della plenitudo potestatis sono sintetizzati e cristallizzati in una letteratura che sancisce la ‘monarchizzazione’ del papato. Sembra pertanto necessario ricondurre il problema alla sua radice, che è quella di una originaria distinzione tra due sembianti della iurisdictio o del potere politico, quella spirituale da una parte e quella temporale dall’altra (distinzione che la storiografia recente ha indicato come fondamento ultimo di una costituzione dell’Occidente, per il suo rinvio a una concezione dualistica e dialettica del potere)29. Alcuni anni fa, a questo proposito Pietro Costa ha potuto allegare un passo molto noto della Summa di Stefano Tornacense, che risale agli anni Sessanta del XII secolo. Il passo suona così:
«In eadem civitate sub eodem rege duo populi sunt, et secundum duos populos duae vitae, secundum duas vitas duo principatus, secundum duos principatus duplex iurisdictionis ordo procedit. Civitas ecclesia; civitatis rex Christus; duo populi, duo in ecclesia ordines: clericorum et laicorum; duae vitae: spiritualis et carnalis; duo principatus: sacerdotium et regnum; duplex iurisdictio: divinum ius et humanum»30.
È il principio della duplex iurisdictio, commenta Costa, «il cui precipitato linguistico più frequente è la distinzione fra “iurisdictio in spiritualibus” e “iurisdictio in temporalibus”», e che in termini puramente logico-strutturali può esser definito come una relazione di complementarità31. Tutto ciò avrà pure la sua importanza in un’analisi della semantica del potere politico nella pubblicistica medievale. Nel flusso reale e frammentato della tradizione teologico-giuridica dell’età intermedia, la questione si pone in modo assai più complesso e problematico, in un sistema di simboli e di auctoritates intimamente connessi all’abito mentale del teologo-giurista, almeno fino al concilio di Trento e ai conflitti politico-religiosi destinati a rinfocolarsi tra Cinquecento e Seicento.
All’indomani dell’interdetto, nel 1609, Paolo Sarpi sosteneva che il concilio di Trento aveva ultimato il processo di ‘monarchizzazione’ del papato e coniava a questo proposito un’invenzione lessicale fulminante: il consultore veneto stimava infatti che del papato postridentino si dovesse parlare come di un «totato», cioè di una forma di potere la cui compiutezza aveva ormai acquisito una dimensione per così dire ‘totale’32. Nello stesso torno di anni, poco prima della sua morte avvenuta nel 1608, un grande giurista italiano esule in Inghilterra per causa di religione, cioè il regius professor of civil law Alberico Gentili, tra i molti appunti velocemente schizzati sulla pagina recante l’intitolazione nel manoscritto autografo del De Papatu Romano Antichristo, aveva potuto scrivere in maniera altrettanto tagliente: «Bonifacius Papa nonus anno 1392 dominium totale [...] adeptus est»33. L’espressione, molto più conforme di quella sarpiana al linguaggio della tradizione giuridica, se ne distaccava però sia per l’aggettivazione, sia per la sostituzione del nome dominium al più ovvio potestas. Non la plena potestas conseguì il papato nella crisi dello scisma d’Occidente, ma il dominium totale; non una potestà normativa e giurisdizionale, temperata proprio dalla presenza, accanto alla sua dimensione plena et absoluta, della dimensione ordinaria et ordinata, com’era nella tradizione ecclesiologica del diritto comune classico; ma una sovranità senza limiti, il pieno dominio, anzi una forma di dominato dispotico e dunque ‘totale’.
Le due espressioni, totatus e dominium totale, sono straordinariamente simili, pur nella loro appartenenza a personalità così diverse e a giudizi maturati in ambienti così lontani e dissimili: giudizi essi stessi divergenti sulla genesi del fenomeno del prepotere dei papi, poiché Sarpi pone il «totato» solo alla fine della stagione conciliare, con Trento e con la rapida propagazione del ‘mito’ della riforma cattolica; Gentili fa risalire l’acquisto del ‘potere totale’ al 1392, sotto il pontificato di Bonifacio IX e dunque a monte, per così dire, della grande stagione conciliare avviata a Costanza e che si suole ritenere chiusa proprio a Trento. Resta la coincidenza notevole di giudizi che si rivolgono, con forza polemica rinnovata, contro la dottrina canonistica ed ecclesiologica della plenitudo potestatis papale, comunque sia alla fine della stagione della trattatistica de potestate papae, in una linea che prolunga la controversistica del Trecento e Quattrocento in una nuova dimensione, che è quella del pensiero politico e storico del Cinquecento italiano più che del pensiero riformatore d’Oltralpe (Machiavelli, il Guicciardini del ricordo sulla violenza doppia del dominio dei papi, «perché ci sforzano con le arme temporale e con le spirituale»), più che Gentillet e la sua invettiva, di risalente radice conciliarista e gallicana, contro il potere demoniaco del papa, «car le Pape est aujourd’huy, et deja de long temps, paisible dominateur et Seigneur d’Enfer, et Pluton n’est plus que son vassal et simple executeur»34.
Adriano Prosperi ha ricordato in tempi recenti, in un saggio sul ‘papato spirituale’ nei programmi e nelle speranze dell’età del concilio di Trento, il conflitto della prima modernità «con un papato che aveva elaborato un sistema di potere totale – un “totatus”, come diceva fra Paolo Sarpi»35. Prosperi scrive che la contrapposta dimensione utopica dell’attesa di un papato solo ‘spirituale’ «è di straordinario interesse per la storia delle rappresentazioni mentali», «storia di sorde resistenze», dice l’autore, «ai percorsi della storia reale e di non assorbiti progetti di una chiesa capace di anticipare in terra il regno celeste» e storia che «offre una traccia utile per seguire alcuni fra i molti tentativi del pensiero politico europeo di esorcizzare la dimensione demoniaca del potere»36.
Si tratta dunque di una duplice risposta «al deciso rafforzamento del papato dopo la crisi del Grande Scisma e del conciliarismo», che sottolinea da una parte la presenza di gran lunga dominante della questione del papato nell’orizzonte della teologia controversistica e più in generale nella prima età moderna, dall’altra la reazione durissima «che trovò espressione, prima, nella satira umanistica e poi nel violento attacco teologico: da Erasmo a Lutero, dalla satira controGiulio II al “papatus inventus a Sathana” . Diventato titolare di una sacralità statale del tutto simile a quella degli altri sovrani europei, il papa aveva una componente in più e poteva impiegare tribunali più raffinati nell’arte di penetrare i contenuti delle coscienze»37.
Non è però su quest’ultimo punto – la vera crux della storia del potere nell’esperienza occidentale – che occorre insistere e nemmeno sul rapido cenno alla vecchia linea boteriana che fa della “satira umanistica” di Erasmo l’antecedente della polemica teologica della Riforma. Si deve ricordare, invece, che in questo contesto Prosperi affaccia l’idea secondo cui «la questione del papato e del posto che nella storia d’Italia occupa la sua realtà (insieme alle sue molte immagini) è tra le più eminenti e tra le meno esplorate», fino a lasciare in ombra «quel laboratorio di indagine e di discussione che ha avuto per oggetto il papato e che ha contato il nome di Machiavelli tra le presenze intellettuali più importanti» ed aggiunge:
«L’elaborazione teorica del potere papale e la costruzione delle reti istituzionali di governo ecclesiastico hanno percorso e offerto modelli al processo di crescita dello Stato moderno sul piano reale e su quello simbolico: su questo sembra che non siano possibili dubbi. Le dimensioni teologiche e giuridiche della “rivoluzione papale” – come Harold J. Berman ha definito il percorso dell’ascesa medievale del papato – continuano a offrire materia allo studio di una storia del potere straordinariamente ricca e suggestiva proprio perché mondo e sovramondo vi si incontrano alimentando una tradizione a cui l’Occidente non ha più cessato di rifarsi. Gli esempi sono nella mente di tutti: la dottrina delle origini divine del potere papale e l’intreccio fra sacerdozio e sovranità hanno fornito suggerimenti e tracce ben riconoscibili nella storia della regalità dell’Europa medievale e moderna»38.
E tuttavia «per ritrovare le tracce di questo percorso, non basta seguire le vie del discorso teologico sul papato che si fa strada prima, durante e dopo Trento». Al discorso ‘formalizzato’, simboleggiato dalle opere di Juan de Torquemada e di Domenico Domenichi, «fondamentali per gli sviluppi teorici successivi», è preferita un’altra via, che è «quella delle immagini del papato che si inseguono e si affrontano nel mondo delle fantasie, delle speranze, delle attese del popolo dei credenti»39. All’ecclesiologia che si giuridizza con le costruzioni intellettualistiche della scolastica del diritto è preferita la profezia, via contraddittoria e non univoca, storia «dei sogni, delle proteste e dei lamenti», che «può essere letta anche come una specie di misuratore dei livelli raggiunti nella realtà del potere papale»40.
La natura stessa del potere pontificio ha impedito l’emersione di una letteratura sulla ‘costituzione’ della Chiesa e sui ‘doveri’ del papa, al cospetto di una letteratura ‘ipertrofica’ sui suoi poteri. Poteva essere diversamente, per una potestà che pretende, secondo il luogo paolino, di ‘giudicare gli angeli’ e dunque a maggior ragione di imporre vincoli a tutte le potestà terrene, imperatore compreso in quanto imperium est in ecclesia? Lo speculum principis, come genere letterario che fa della ‘costituzione spirituale e morale’ del principe la costituzione stessa del potere, che fa del sistema dei limiti sul piano morale un sistema di limiti sul piano giuridico e politico, non può occuparsi del papa41:
«La natura spirituale e “pastorale” dell’ufficio papale [...] sembra aver bloccato sul nascere una serie di meccanismi ben noti agli studiosi della regalità temporale [...]. Le speranze e i desideri di un cambiamento nell’uso del potere papale hanno avuto la valvola di sicurezza della generalmente breve durata del regno, con la conseguente attesa carica di speranza di un nuovo pontefice, che è sempre stato possibile immaginare del tutto diverso dal predecessore [...]. La speranza nel cambiamento e l’ostilità nei confronti del titolare dell’ufficio hanno trovato un canale del tutto speciale: quello della profezia e dell’attesa di un “papa spirituale” mandato da Dio per porre fine agli abusi del “papa carnale”. Le fonti di questa tradizione sono numerose e creano come un contrappunto che accompagna una lunga fase del potere papale: quella che va dal XIII secolo al XVII».
Al di fuori delle larghe distinzioni di carattere scolastico, non è facile giudicare dell’esistenza di tradizioni così nettamente separate, tali cioè che la multiforme dottrina de potestate papae debba tradursi o in una letteratura di tipo profetistico, o in una controversistica a base canonistica. Nella storia dell’Italia e dell’Europa medievali le teorizzazioni del potere pontificio formano una vicenda dalla indubbia centralità. La storia della Chiesa-ordinamento, che è in così larga misura storia della rivoluzione papale, in termini bermaniani, non è in alcun modo separabile dalla storia del concetto giuridico e politico della plenitudo potestatis pontificia: anch’esse sono geminae ortae, nascono da un parto nel complesso moto di renovatio dell’Europa cristiana e appartengono indissolubilmente alla storia del potere in Occidente, o se si vuole a una cifra potestativa per la quale il sacro e il secolare, a dispetto dei moti di sacralizzazione del potere temporale e di secolarizzazione del potere ecclesiastico, non si risolvono mai l’uno nell’altro. Se «è con Bernardo di Chiaravalle [...] che la storia di “plenitudo potestatis” entra dentro una cultura che, sviluppandosi unitariamente, allargherà gradualmente il significato di quel simbolo fino a coprire con quello tutto il linguaggio della supremazia pontificia»42, è con Graziano che la teologia, scienza nuova al secolo XII, trapassa nella costruzione di un ordinamento per via di dottrina, fornendo al papato i materiali per l’edificazione di una nuova realtà politico-istituzionale43.
Al sommo delle potestà, dice un anonimo testo della controversistica curialista a cavaliere del Trecento, «est summus pontifex in quo omnes potestates agregantur, et ad quem reducuntur et ad quem tanquam in simplicissimum terminantur»44. Perciò si è potuto affermare che «la Chiesa rappresenta nel medioevo la più attendibile immagine dello stato: in un contesto in cui il potere è descritto “a nudo”, come puro “posse”, in un volontarismo che realmente si preparava ad andare oltre il quadro della tradizione medievale, la produzione di norme non è il momento dinamico, la sorgente dell’evoluzione del campo semantico, ma, semmai, un prodotto, una funzione, e anche piuttosto scontata»45.
Ciò è vero in tutto l’amplissimo panorama dell’ecclesiologia due-trecentesca, da Innocenzo III all’Ostiense, daInnocenzo IV a Egidio Romano, da Alvaro Pelagio ad Agostino d’Ancona, e specularmente, da Dante a Ockham, fin oltre la crisi avignonese, che tanto profondamente incide nella dottrina dei poteri, aprendo all’orizzonte del primo e del secondo conciliarismo, quando i caratteri costitutivi della plenitudo potestatis papale sono sintetizzati e cristallizzati in una letteratura ‘ipertrofica’, per dirla ancora con Prosperi, da Piero da Monte a Domenico Domenichi, da Teodoro de’ Lelli ad Antonio Roselli e oltre46. È in questo percorso che la mistica del servizio, viva ancora a mezzo il secolo XII, trapassa per opera del linguaggio teologico-giuridico in una diversa immagine del potere: «La pienezza del potere, associata almeno a partire da Innocenzo III alla regalità di Cristo e dunque alla regalità del suo vicario», giunge all’ecclesiologia del primo Trecento «già carica di implicazioni in senso stretto politiche e non solo ecclesiologiche»47. Tale trasformazione non avviene, ovviamente, «senza una particolare manipolazione dei simboli scritturistici, piegati a fondare la validità di un processo di potere, razionalmente organizzato in maniera non dissimile dal processo di potere gemello (la gerarchia imperiale)»48. Dal profetismo, dall’escatologismo, dai simboli scritturali si scade, è stato fatto notare, alla legittimazione di una istituzione «sacralizzata in tutto il suo contingente “esser così”, per finire con la validazione di una gerarchia, che organizzando quella istituzione secondo ruoli rigidamente fissati, ne esalta le diseguaglianze mentre ne seppellisce le istanze carismatiche»49.
Questo percorso può essere seguito passo passo, a partire dalle litanie giuristiche sulla potestas papae delle Margaritae Decretalium, dalle quali si vede come il solo limite al potere del papa sia quello di non poter limitare il potere del papa stesso («papa potest supra ius dispensare»; «papae soli reservatur translatio episcoporum et depositio»; «papa de haereditate iudicare potest ratione fidei»; «papa potestatem habet a Deo, imperator a papa»; «papa eiusdem potestatis est cuius et beatus Petrus»; «papa principem saecularem deponere potest»; «papa potest legitimare illegitimos»; «papa solus episcopos vocat fratres in litteris suis»; «contra papae voluntatem nemo habet ius in collatione beneficiorum»; «papa solus canonizat sanctos»; «papa solus est supra omne concilium et statutum»; «solus papa vicarius videtur esse in terris, et nullus maior»; «papa solus supra ius dispensat»; «papa potest mutare sententiam diffinitivam solus»; «papa non potest imponere legem successori suo nec potestatem eius limitare»)50.
Di qui si potrebbe agevolmente passare alle tentazioni ‘scientistiche’ della canonistica duecentesca, intesa a saggiare, da Bernardo da Parma a Innocenzo IV e all’Ostiense, la ‘commensurabilità’ del potere papale rispetto a quello secolare, applicando l’Almagesto di Tolomeo alla metafora del sole e della luna, per provare che la formula innocenziana «quanta est inter solem et lunam, tanta inter pontifices et reges differentia»51 doveva essere interpretata, appunto scientisticamente, come l’esatta misura della differenza di ‘magnitudo’ delle due potestà: «septies millies: et sexcenties et quadragesies quater et insuper eius medietatem est maior sacerdotalis dignitas quam regalis»52. E si potrebbe ancora discorrere a lungo delle reazioni della civilistica e del pensiero politico per tutto il Trecento, da Cino da Pistoia a Bartolo da Sassoferrato, dal Dante della Monarchia al Petrarca delle Sine nomine, così come di quella singolare parenetica avignonese che non va confusa col profetismo di un Giovanni da Rupescissa o di una Brigida di Svezia. Alludo alle lettere di Caterina da Siena, vera miniera di un’ecclesiologia per nulla ingenua e nutrita sempre di cultura teologica e giuridica (si pensi solo al non breve corpus delle lettere a Gregorio XI, il papa-giurista cresciuto agli studi civilistici nello studio perugino, alla scuola bartolista di Baldo degli Ubaldi, e dunque depositario di una tradizione dottrinale che nell’universalismo del papato e dell’impero aveva la sua base ferma)53.
Caterina da Siena è «veracissima prophetissa»; le sue rappresentazioni dell’ufficio e del potere del papa non sono sogni, neppure nel senso che somnium ha proprio in quegli anni in un genere letterario diffuso anche fra i giuristi e che acquista una sua centralità proprio allo scoppiare dello scisma (nel Somnium Viridarii, così come del Somnium di Giovanni da Legnano)54. Di lei si è scritto:
«Questa giovane, che è solo terziaria domenicana, che veste sì l’abito di Domenico ma non è propriamente consacrata religiosa, che formalmente è una laica, che gira per il mondo circondata scandalosamente da uomini devotissimi, costei fa la predica al papa, gli insegna la teologia, lo apostrofa in nome di Dio, lo supplica a ben fare, lo minaccia persino, se non metterà in atto la linea politica che lei gli suggerisce. “Guardate quanto avete cara la vita, che non ci commettiate negligenzia: né tenete a beffe le operazioni dello Spirito Santo, che sono addimandate a voi, che’l potete fare. Se voi volete giustitia, la potete fare. Pace potrete avere [...]. Autorità [...] anco l’avete. Adunque [...] non facendolo, ricevereste reprensione da Dio. Io, se fussi in voi, temerei che’l divino giudicio non venisse sopra di me. E però vi prego dolcissimamente da parte di Cristo crocifisso, che voi siate obediente alla volontà di Dio [...] acciocché non venga sopra di voi quella reprensione: Maladetto sia tu, che’l tempo e la forza che ti fu commessa, tu non l’hai adoperata [...]: Non dico più”»55.
Questo linguaggio e il suo significato costituiscono ancora, per noi, un problema arduo, se è vero che «con la profezia di Caterina si ha la massima comprensione del ruolo storico del papato»56. Il papa cui Caterina rivolge la sua predica, il papa cui ella chiede, anzi impone di far uso della plenitudo potestatis, è il papa al crocevia tra due mondi, davanti alla sua responsabilità immensa e davanti al solo potere che lo sovrasti. Non si tratta, come pure è stato detto57, di una «ecclesiologia alternativa». È piuttosto una ecclesiologia della reformatio, nel senso preciso della restaurazione di una forma originaria, che non può che essere quella dell’ecclesiologia due-trecentesca: «Siatemi uomo virile, e non timoroso. Rispondete a Dio, che vi chiama che veniate a tenere e possedere il luogo del glorioso pastore santo Pietro, di cui vicario sete rimasto»58; «Pregovi che facciate virilmente ciò che avete a fare, e con timore di Dio»; «Ora sete vicario di Cristo [...]. E perché è maggiore il peso vostro, però bisogna più ardito e viril cuore, e non timoroso per veruna cosa che avvenire potesse»59. Come non pensare, davanti a tanta incredibile audacia, a quel luogo della Quarta vita Gregorii XI edita da Baluze, dove, secondo una testimonianza che ha troppo della teatralità per non essere emblematica, si dice che il papa abbia scavalcato la madre prostrata e implorante citando il salmo 90, 13, «super aspidem et basiliscum ambulabis»60, quasi ad annunziare la nuova età che sarebbe seguita al ritorno del pontefice a Roma?
Dall’età avignonese, vero crogiolo della modernità, arrivano gli esempi più eloquenti del discorso teologico intorno al papato, quando si voglia discutere di una sua pertinenza ai ‘caratteri originali’ dell’Italia tardomedievale, nella sua dimensione policentrica in relazione indissolubile con la duplice coordinazione universalistica. Altro è indubbiamente l’orizzonte quattrocentesco, quand’anche si esca dai recinti della ‘ipertrofica’ e più nota controversistica. Tra i molti esempi, uno sembra illuminare di nuova luce il mutato orizzonte, ed è quello dello Speculum vitae humanae del vescovo di Zamora Rodrigo Sánchez de Arévalo, castellano di Castel Sant’Angelo al tempo della ‘congiura degli accademici romani’, «a quell’epoca vescovo di Calahorra, uomo molo colto e con una certa vocazione letteraria»61.
Lo Speculum di Sánchez de Arévalo, dedicato a Paolo II e subito dato alle stampe a Roma, in-4°, nel 1468 dai prototipografi Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz (fu ristampato cinque anni dopo da Johannes Philippus de Lignamine e più volte nel corso del secolo XVI)62, è diviso in due libri, dedicati rispettivamente allo stato secolare e all’ecclesiastico. Alla dignità papale sono dedicati i primi sette capitoli del libro II, preceduti da una giustificazione della disposizione che vede lo stato secolare precedere l’ecclesiastico63. Solo il primo capitolo tratta «de sublimitate, et excellentia dignitatis summi pontificatus, et de incomprehensibili eius auctoritate, et potestate, et de illius necessitate, et utilitate, et de altissimis eius mysteriis»64, presentandosi come una raccolta di luoghi comuni sul primato petrino e sul potere papale65. I capitoli secondo e terzo trattano invece delle perturbazioni e degli incommoda dell’ufficio papale, tanto nello spirituale quanto nel temporale («de spiritualibus incommodis, amaritudinibus, ministeriis, aculeis, nec non mentis afflictionibus, periculis, et laboribus summi pontificatus; de plurimis temporalibus, et corporalibus incommodis, amaritudinibus, et miseriis, et calamitatibus Romanorum pontificum»)66. Infine i capitoli quarto, quinto, sesto e settimo formano una quaestio intorno alla brevità della vita dei pontefici e alle sue cause, con una responsio finale di carattere edificante e consolatorio67.
Contenuto e stile dello Speculum vitae humanae sono lontanissimi tanto dal genere tradizionale degli specula principum quanto dalla trattatistica quattrocentesca de potestate papae, che il castellano di Castel Sant’Angelo conosceva certamente di primissima mano e della quale talvolta, come nel caso di Niccolò Cusano, era stato il destinatario (Paolo Prodi ha ricordato la lettera del 1442, nella quale «l’assolutismo pontificio viene sostenuto non in base a posizioni di tipo teocratico ma ad un insistente parallelismo tra i poteri del papa nella materie spirituali e il potere assoluto del principe nel suo regno»)68. Dei poteri (e dei doveri) del papa si tratta certamente, nello Speculum vitae humanae, ma in una prospettiva che riconduce l’ufficio e le prerogative del sommo pontefice entro la condizione tutta umana dei pro e dei contra di una dignità, per quanto sublime essa sia. Il «grande negocium» della trattazione «de sublimitate et excellentia dignitatis summi pontificatus» è affrontato e risolto mediante il ricorso a espressioni di vago sapore preteritorio, che si condensano nel concetto della incomprehensibilitas della sovranità pontificia (nel senso dell’impossibilità di una sua ‘pensabilità’ nei termini di una definizione razionale, ma anche, almeno di conseguenza, nel senso più lato dell’impossibilità di una sua delimitazione in senso giuridico-politico):
«Cuius tanta est sublimitas et eminentia, tanta immensitas, ut nullus mortalium nedum comprehendere aut satis exprimere, sed nec cogitare posset. Obtundit enim omnem humanum intellectum illius sacratissimi, et omnium eminentissimi status maiestas et excellentia»69.
E ancora:
«Quid cogitandum est de eo summo pontifice, qui vices veri dei gerit in terris, qui ad plenitudinem status, qui ad apostolicum thronum, qui ad culmen omnium dignitatum assumitur? Ex qua rivuli a fonte, rami ab arbore procedunt: qui non ad humanum tantum principatum, sed ad divinum, non ad principandum solum mortalibus, sed et immortalibus, nec modo hominibus, sed angelis, non ad iudicandum vivos, sed mortuos, non in terra solum, sed in caelo, non ad praesidendum solis fidelibus, sed infidelibus, et ut paucis agam, qui ad eam ipsam dignitatem, ad eandem iurisdictionem et coactionem, ac universalem, toto orbe supremum principatum a summo deo, et eius loco super cunctos mortales institutus, et evectus est»70.
La raccolta delle attribuzioni della maiestas pontificale è presto fatta. Il resto è una rapida collazione di luoghi scritturali, di allegazioni della storiografia antica e della filosofia aristotelica, al fine di fondare il potere papale sullo strettissimo principio della reductio ad unum, senza la quale perirebbero l’ordine del mondo («omnis ordo rerum»), la disciplina dei rapporti pubblici e privati («omnium hominum commercium»), l’unità della fede e della Chiesa insieme alla pace («fidei unitas, et ecclesiae unanimitas, et concordia simul et pax») e la stessa religione nella sua più ampia dimensione di culto reso al vero Dio («illa cunctis mortalibus necessaria ad deum meditatio»)71.
Il papa è qui il vero intermediario, «inter deum et populum mediator», il punto di congiunzione e di mediazione fra cielo e terra, fra mondano e oltremondano. Solo il papa perciò è fondamento e garanzia della giustizia e dell’equità, necessarie per il bene comune del mondo e base necessaria alla felicità stessa del genere umano72. Tutto ciò il Sánchez può ormai darlo come patente, patens, alla stregua di quelle verità per sé evidenti e che non necessitano di un’argomentazione e tanto meno di una dimostrazione per opposita:
«Quare et si caetera taceam, huius sacratissimi, et eminentissimi status summitas, maiestas, atque foelicitas, simul et necessitas, ac utilitas, in eo facile comprehenditur. Nam si, ut aiunt, nulla maior est foelicitas quam multos fecisse foelices, hunc statum beatissimum tantum foeliciorem dixerim, quanto plures super omnes mortales facilius, et ut ita dixerim foelicius, foeliciores agere potest»73.
E ancora, dopo queste acrobazie verbali e stilistiche:
«Patet igitur huius sacratissimi status excellentia, dignitas, et utilitas, atque necessitas. Patent eius laudes, et praeconia, non modo ex autoritate instituentis, ex dignissima institutione, ex causis dignissimis, sed ex fine optatissimo, ex beatis mysteriis, ex propinquitate ad deum, ex fructu desiderantissimo, ex cunctorum mortalium utilitate, et foelicitate redundantissima»74.
Ciò è sufficiente a dare un saggio dell’operetta del Sánchez, che si fa molto più interessante nei capitoli successivi, dedicati alle cause e ai rimedi della brevità della vita dei pontefici romani. Lo Speculum vitae humanae va oltre la tradizione italiana e degli specula principum e della trattatistica de potestate papae, per non dire dei motivi ecclesiologici riformatori, propri di una tradizione plurisecolare ma ormai spenti con ogni residuo sogno di reformatio della Chiesa romana. Il suo autore, uomo di curia, cioè uomo di corte, è esemplare proprio perché con la sua opera, nata nella curia e per la curia, cioè nella corte e per la corte, si può dire che cali il sipario sulle teorizzazioni del potere pontificio che a vario titolo possono ascriversi alla tradizione italiana. In tal senso, più che all’assoluto potere spirituale e temporale, il Sánchez è interessato alla dimensione propriamente terrena e mondana dell’ufficio e del potere papale, in un senso cioè che vorremmo dire tutto fisico e carnale. Da buon custode del posto chiave per la sicurezza dello Stato e «cardine del potere papale»75, egli è certamente interessato all’unico corpo, più che alle due anime del papa.
«La figura del papa-re non è soltanto un’astrazione giuridica ma una realtà concreta quotidiana con la quale sono i sudditi-fedeli in primo luogo a dover fare i conti nello sviluppo del potere assoluto del monarca»76. Non è perciò venuta meno l’ipotesi affacciata da Paolo Prodi una ventina d’anni fa nel suo Sovrano pontefice, cioè che «indipendentemente dalle realizzazioni istituzionali pontificie nel loro sviluppo secolare e dando anzi per scontato il loro declino precoce e il loro crescente stato di inferiorità rispetto alle strutture che stanno per crescere nelle altre regioni d’Europa», lo Stato pontificio della prima età moderna abbia fornito alla politica europea «un anello forse essenziale [...] nella concatenazione di elementi che porta ad un nuovo modo di concepire e di vivere la politica e l’attività di uno Stato che viene ad invadere con la sua presenza ingombrante e protettiva settori e nodi vitali della realtà umana che antecedentemente erano ritenuti del tutto estranei alla sfera del pubblico inteso come politico»77.
Certo, nello stesso anno in cui Grozio pubblica a Parigi il De iure belli ac pacis, il 1625, un suo conterraneo, Dyrk Ameyden, a Roma riconosce che il papa ha un potere pieno, «summa rerum apud romanum pontificem», proprio perché egli incarna una duplex persona, «duplicem personam patris, sive pastoris communis totius Ecclesiae catholicae, et principis dominii immediate Ecclesiae subiecti»78. Il discorso ritorna quindi alla figura del papa-re, «all’immagine di un papa sovrano che, proprio per la sua particolare e duplice fisionomia, è in grado di affrontare le esigenze emerse dal contesto storico e di fornire un modello, proprio in questi anni in cui la discussione sulle nuove dimensioni e funzioni dello Stato va emergendo in tutta Europa»79. Se ne ha conferma in un fulminante giudizio di De Luca:
«Ista vero mixtura utriusque ecclesiasticae et temporalis supremae potestatis in eadem persona aliquas in huius Principatus regimine producit singularitates, quae in aliis principatibus non permittuntur, neque juridice practicari possunt absque Apostolica auctoritate, et concessione» 80.
Ed è sempre l’Ameyden, «uno dei testimoni più interessanti della Roma cattolica della prima metà del Seicento», a mostrare che «il buon cattolico vede il papa come un monarca che come gli altri ha percorso la strada verso la concentrazione del potere»: è lui a ricordare che Urbano VIII si mostrava principe piuttosto che pontefice, governante anziché pastore, tanto da attirarsi non poche accuse, principale delle quali era quella di essere un politico integrale, al di sopra e al di là di ogni norma («il papa visto come sovrano assoluto in senso letterale: sciolto da ogni legge in quanto puro politico»)81.
«La crisi dell’universalismo politico-religioso», avrebbe detto Giorgio Falco, col pensiero rivolto al tramonto del papato medievale, «mette in giuoco alla fine i titoli stessi dell’assolutismo papale»: in un mondo mutato, questo «mantiene intatta la pregiudiziale del suo impero sulle coscienze, e, in virtù di esso, di un supremo controllo sul reggimento terreno, ma solo, vedovato dell’impero, incapace a sostenersi con le sue forze e a pronunciare una parola che trascini le moltitudini, è costretto a cercare una base materiale alla sua ideale potenza, ad aggrapparsi ai potentati laici, e a subirne l’interessata tutela»82.
«In questo quadro», ha scritto Prodi, «il potere temporale dei papi, con la sua caratteristica sovrana, diviene anche nel periodo della sua decadenza e anche dopo la sua fine materiale, parte integrante di una ecclesiologia che tende a difendere non la alterità della Chiesa rispetto allo Stato ma in certo modo una sua rivalità e concorrenza»83. Le conseguenze e gli sviluppi sono noti:
«L’incapacità dello Stato pontificio di accettare la logica dello Stato nazionale sia all’interno, rispetto ai ceti emergenti, sia all’esterno nel gioco sempre più duro dell’equilibrio delle potenze, il suo declino, i patetici e sempre più astratti tentativi di modernizzarlo separando la gestione ecclesiastica dall’amministrazione dello Stato e infine la sconfitta dell’illusione risorgimentale che bastasse smantellare le strutture esterne di questo Stato per cancellarne la presenza in Italia; l’aprirsi delle lacerazioni religiose, ideali e politiche perduranti sino ai nostri giorni»84.
Si potrà forse dire che tutto ciò era già nella fisionomia ambigua del papa e della Chiesa di Roma nello specchio del concilio Vaticano I, annunciato nello stesso momento in cui Pio IX pubblicava l’enciclica Quanta cura e il Syllabus errorum (8 dicembre 1864): da una parte un netto risveglio religioso, dall’altra «un progressivo irrigidimento nei confronti della civiltà moderna pur nei suoi aspetti positivi [...], in una linea per molti tratti opposta a quella vagheggiata da uomini come Rosmini e Newman»85. Il concilio si aprì l’8 dicembre 1869 in una atmosfera dominata dalla preoccupazione di stroncare definitivamente le controversie dottrinali sulle prerogative del pontefice. Tuttavia il modo stesso con cui la questione dell’infallibilità era presentata era tale «da confermare nei suoi timori chi era convinto che “si voleva dichiarare infallibile il papa nelle materie di fede per farlo credere infallibile nelle altre”, cioè, in concreto, in quelle che riguardavano più o meno da vicino la politica»86. Alla fine di una lunga e complessa trattativa, svoltasi in un clima acceso ed agitato, il 18 luglio 1870 il concilio votò pressoché all’unanimità il capitolo IV della costituzione dogmatica Pastor aeternus, nel quale, preceduta dalle affermazioni circa la perpetuità del primato petrino e sul valore e la natura del potere supremo del pontefice romano «su tutta la terra», le definizioni dell’infallibilità del magistero papale erano dette irreformabili per se stesse, e non in virtù del consenso della chiesa («ex sese, non autem ex consensu ecclesiae»)87.
Il 20 settembre 1870, poco più di due mesi dopo la solenne decisione conciliare, il governo italiano procedeva all’annessione di quanto restava dello Stato pontificio, occupando Roma. Il potere del papa era eretto a dogma della Chiesa universale, che ne celebrava il trionfo proprio mentre esso perdeva una delle sue anime, quella temporale. Nessuno avrebbe potuto dire, allora, che il secolo venturo avrebbe visto in rapida sequenza la fine degli imperi, la catastrofe dell’Europa e la crisi dello Stato-nazione, e che all’alba del nuovo millennio si sarebbe manifestato, sia pure tra incertezze e contraddizioni, un nuovo universalismo, a confronto con il quale l’autorità spirituale del papa di Roma sarebbe tornata ad affermare un suo ruolo storico e un suo primato.
1 N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, 2 voll., Roma 2001. Per la parte citata si veda I, XII, 17-20.
2 L. Cavina, Fiorentini e Veneziani in Romagna, «Nuova Antologia», 64, 1929, pp. 442-456, 448-449, cit. in A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975: Quaderno 5 (IX), 1930-1932 (Miscellanea), § 55, La Romagna e la sua funzione nella storia italiana, I, pp. 587-590, in patic. p. 588.
3 Alludo al vivo ritratto di Gramsci proposto da A. D’Orsi, L’intellettuale che non divenne “dottore”. Gramsci all’Università di Torino, «Studi storici», 40, 1999, pp. 39-75.
4 «Cosa vuol dire tutto ciò? Che il “genio nazionale” consisteva nel non essere “nazionale”? E il “sistema di equilibrio” delle potenze italiane non era in gran parte determinato dalla necessità di esistenza dello Stato pontificio, che era potenza mondiale e italiana nello stesso tempo? Una grande confusione viene in questa serie di problemi dal fatto che si cercano le cause del perché un certo evento storico (unità territoriale-politica della penisola italiana) non si è verificato prima del 1870. Ora se è difficile trovare e mettersi d’accordo sulle cause di un evento determinato, è certo molto difficile e quasi assurdo voler trovare le cause del perché la storia si sia sviluppata in un senso piuttosto che in un altro. In realtà non si tratta di un problema storico, ma di una necessità di carattere sentimentale e politico. Si parte dal presupposto (di carattere sentimentale e pratico immediato) che la nazione italiana sia sempre stata una nazione nei quadri attuali geografici ed ecco che allora ci si domanda perché non ha conseguito prima l’unità politica territoriale, come la Francia o la Spagna ecc.», in A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., I, pp. 588-589.
5 Ibidem, pp. 589-590. Sul celebre giudizio machiavelliano, in relazione allo sforzo degli intellettuali moderati dell’Ottocento italiano (Manzoni e Gioberti in primo luogo) per fondare il policentrismo politico italiano su fattori distinti, cfr. C. Vivanti, Lacerazioni e contrasti, in St.It.Annali, I, I caratteri originali, a cura di R. Romano, C. Vivanti, Torino 1972, pp. 867-948, in partic. pp. 869-871.
6 P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982, p. 9.
7 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., Quaderno 10 (XXXIII), 1932-1935 (La filosofia di Benedetto Croce, II), § 41, II, pp. 1302-1307. Il testo è la rielaborazione della prima stesura del Quaderno 7 (VII), 1930-1931 (Appunti di filosofia II e Miscellanea), § 17, Croce, ivi, II, pp. 867-868.
8 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., Quaderno 4 (XIII), 1930-1932 (Miscellanea), § 53, Concordati e trattati internazionali, I, pp. 493-498, prima stesura poi rielaborata nel Quaderno 16 (XXII), 1933-1934 (Argomenti di cultura. I°), § 11, Rapporti tra Stato e Chiesa, ivi, III, pp. 1865-1874.
9 Cfr. F. Ruffini, Relazioni tra Stato e Chiesa. Lineamenti storici e sistematici, a cura di F. Margiotta Broglio, Bologna 19882; A.C. Jemolo, premessa a F. Ruffini, Relazioni tra Stato e Chiesa, cit.; F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna 19922. Sulla «personalità solitaria» di Francesco Ruffini cfr. anche P. Grossi, Scienza giuridica italiana: un profilo storico, 1860-1950, Milano 2000, p. 266.
10 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., Quaderno 16 (XXII), § 11, pp. 1865-1874, III, in partic. pp. 1866-1867.
11 Per il travagliato percorso della redazione e dell’approvazione dell’art. 7 della Costituzione, che Croce giudicò «un errore logico ed uno scandalo giuridico», cfr. F. Finocchiaro, Art. 7, in Commentario della Costituzione, I, Principi fondamentali (Artt. 1-12), a cura di G. Branca, Bologna 1975, pp. 321-382; a Giuseppe Dossetti, com’è arcinoto, risale la proposta passata poi, con piccole modificazioni di forma, nel testo definitivo, cfr. G. Dossetti, La ricerca costituente, 1945-1952, a cura di A. Melloni, Bologna 1994, pp. 213-220, 241-247, 267-300; in partic. p. 209, per l’affermazione che «nemmeno ha bisogno di speciale giustificazione il riconoscimento dell’ordinamento della Chiesa per chi sappia che la moderna dottrina ecclesiastica è unanime nel riconoscere all’ordinamento canonico il carattere di ordinamento giuridico originario», con la precisazione che «tutto questo è ritenuto valido anche per il regime preconcordatario e indipendentemente dal Concordato», con riferimento a F. Ruffini, Questioni di diritto ecclesiastico, Torino 1911-1912; M. Falco, Lezioni di diritto ecclesiastico, Padova 1927.
12 G. Procacci, Storia degli italiani, I, Roma-Bari 19702, p. 5.
13 Ibidem, p. 10.
14 Cfr. D. Quaglioni, L’ultimo periodo avignonese e i ritorni a Roma, in La crisi del Trecento e il papato avignonese (1274-1378), a cura di D. Quaglioni, Milano 1994, pp. 281-310, in partic. p. 289, (Storia della Chiesa, 11), con rinvio a R. Manselli, Il sistema degli stati italiani dal 1250 al 1454, in St.It.Annali, IV, Comuni e Signorie: istituzioni, società e lotte per l’egemonia, 1981, pp. 177-263, in partic. p. 209.
15 «Si vuole l’imperatore per signore / per non avere alcun signore» Per tale principio, bene esemplificato nel distico schilleriano, cfr. il classico studio di R. Elze, Insegne del potere sovrano e delegato in Occidente, in Simboli e simbologia nell’Alto Medioevo, Atti della XXIII Settimana di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto 1975), a cura del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1976, pp. 569-593.
16 G. Ambrosini, Diritto e società, in St.It.Annali, I, 1972, pp. 305-397, in partic. pp. 322-323.
17 H.J. Berman, Law and Revolution. The Formation of the Western Legal Tradition, Cambridge (MA) 1983, (trad. it. Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Bologna 1998); Id., Law and Revolution, II. The Impact of the Protestant Reformations on the Western Legal Tradition, Cambridge (MA)-London 2007 (un’edizione italiana di questo volume, a cura e con introduzione di chi scrive, è in corso di stampa).
18 Cfr. Chiesa e Stato attraverso i secoli. Documenti raccolti e commentati, a cura di S.Z. Ehler, J.B. Morrall, Milano 1954, pp. 80-81.
19 Ibidem, pp. 56-58. Cfr. G. Barraclough, The Medieval Papacy, London 1968, p. 87. Sull’interpretazione del documento cfr. H. Fuhrmann, Papst Gregor VII. und das Kirchenrecht. Zum Problem des Dictatus papae, «Studi Gregoriani», 13, 1989, pp. 123-149, e da ultimo O. Capitani, Gregorio VII, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LIX, Roma, 2002, pp. 146-160.
20 Cfr. l’importante contributo di P. Prodi, Suggestioni (da H.J. Berman) per lo studio del ruolo del diritto papale tra medio evo ed età moderna, in Nuovi moti per la formazione del diritto, Atti del Convegno internazionale (Roma 1987), a cura del CNR, Padova 1988, pp. 93-103.
21 O. Capitani, Tradizione e interpretazione. Dialettiche ecclesiologiche del secolo XI, Roma 1990, p. 224.
22 Prefazione a H.J. Berman, Law and Revolution, cit., II, p. x.
23 G. Galasso, Le forme del potere, classi e gerarchie sociali, in Storia d’Italia, I, I caratteri generali, Torino 1972, pp. 399-599, 492-493.
24 Cfr. E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medioevale, Roma 1966 (rist. 1982), pp. 135-137.
25 P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano 1969 (rist. 2002), p. 268.
26 Ibidem, pp. 268-269, in partic. p. 271.
27 Ibidem, p. 270.
28 Cfr. D. Quaglioni, La sovranità, Roma-Bari 2004, pp. 49-70.
29 Cfr. P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna 2000.
30 P. Costa, Iurisdictio, cit., p. 129, 51n.; («Nella medesima città sotto il medesimo re ci sono due popoli, e conforme ai due popoli procedono due generi di vita, conforme alle due vite due principati, conforme ai due principati un doppio ordine di giurisdizione. La città è la chiesa; il re della città, Cristo; due i popoli, due ordini nella chiesa: quello dei chierici e quello dei laici; due le vite: la spirituale e la carnale; due principati: il sacerdozio e il regno; duplice la giurisdizione: il diritto divino e quello umano».
31 Ibidem, pp. 129-130: «L’affermazione di ‘iurisdictio’ come ‘spiritualis’ implica la negazione di essa come ‘temporalis’. Se consideriamo dunque l’enunciato ‘iurisdictio spiritualis’ come un insieme significante, esso nega implicitamente l’enunciato complementare ‘iurisdictio temporalis’».
32 Alludo alla lettera del settembre 1609 all’amico gallicano Jacques Gillot. Sarpi vi giudicava che «all’origine del “totato”, ossia dell’accentramento di tutto il potere nella persona del papa, era l’intromissione della Chiesa nelle faccende temporali, e a questo fenomeno attribuiva la perdita del suo carattere originale, che finalmente aveva ingenerato la frattura dell’unità religiosa», in C. Vivanti, Quattro lezioni su Paolo Sarpi, Napoli 2005 (Memorie dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 28), p. 89.
33 Cfr. D. Quaglioni, Il «De Papatu Romano Antichristo» del Gentili, in «Ius gentium Ius communicationis Ius belli». Alberico Gentili e gli orizzonti della modernità, Atti del Convegno di Macerata in occasione delle celebrazioni del quarto centenario della morte di Alberico Gentili (1552-1608), (Macerata 2007), a cura di L. Lacchè, Milano 2009 (Centro Internazionale di Studi Gentiliani, 13), pp. 197-207.
34 I. Gentillet, Discours contre Machiavel, A new edition of the original french text with selected variant Readings. Introduction and notes by A. D’Andrea, P.D. Stewart, Firenze 1974: Troisième Partie, VII Maxime, p. 290 [345]. Cfr. D. Quaglioni, Alessandro VI negli scrittori politici francesi del Cinquecento, in La fortuna dei Borgia, Atti del Convegno (Bologna 2000), a cura di O. Capitani, M. Chiabò, M.C. De Matteis et al., Roma 2005, pp. 14-17.
35 A. Prosperi, Un papato “spirituale”: programmi e speranze nell’età del Concilio di Trento, in Il Papato e l’Europa, a cura di G. De Rosa, G. Cracco, Soveria Mannelli 2001, pp. 239-249, in partic. p. 242.
36 Ibidem, p. 242.
37 Ibidem, p. 245.
38 Ibidem, pp. 239-240.
39 Ibidem, pp. 245-246.
40 Ibidem, p. 241.
41 Ibidem, p. 240. Sulla letteratura speculare cfr. D. Quaglioni, Il modello del principe cristiano. Gli “specula principum” fra Medio Evo e prima Età Moderna, in Modelli nella storia del pensiero politico, a cura di V.I. Comparato, Firenze 1987, pp. 103-122; Specula principum, a cura di A. De Benedictis, con la collaborazione di A. Pisapia, Frankfurt a. M. 1999, (Ius Commune. Sonderhefte, 117).
42 P. Costa, Iurisdictio, cit., p. 265.
43 Cfr. D. Quaglioni, s.v. Graziano, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LVII, Roma 2002, pp. 122-130.
44 Non ponant laici os in caelum, a cura di R. Scholz, in Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz’ VIII. Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Anschauungen des Mittelalters, hrsg.von R. Scholz, Stuttgart, F. Enke, 1903 (rist. 1962), p. 475; («c’è il sommo pontefice, nel quale tutte le potestà si radunano, a cui si riconducono e in cui si compiono come al sommo della semplicità»).
45 P. Costa, Iurisdictio, cit., p. 271, con rimando a una letteratura che precede la prima crisi mondiale del sistema europeo: J.N. Figgis, Studies of Political Thought: From Gerson to Grotius, Cambridge 1907, p. 16.
46 Cfr. A. Black, Popes and Councils, in The New Cambridge Medieval History, VII, c. 1415-c. 1500, ed. by Ch. Allmand, Cambridge 1998, pp. 65-88, in partic. pp. 76-84; cfr. Id., Monarchy and Community. Political Ideas in the Later Conciliar Controversy, 1430-1450, Cambridge 1970; Id., Council and Commune. The Conciliar Movement and the Fifteenth-Century Heritage, London, Shepherdstown (WV) 1979. Per Piero da Monte cfr. D. Quaglioni, Pietro del Monte a Roma. La tradizione del “Repertorium utriusque iuris” (c. 1453). Genesi e diffusione della letteratura giuridico-politica in età umanistica, Roma 1984 (Studi e fonti per la storia dell’Università di Roma, 3).
47 G. Briguglia, introduzione a G. Quidort di Parigi, E. Romano, Il potere del re e il potere del papa. Due trattati medievali, a cura di G. Briguglia, Genova-Milano 2009, p. 35.
48 P. Costa, Iurisdictio, cit., p. 273.
49 Ibidem, pp. 273-274.
50 Margarita Decretalium, libellus admodum singularis omnes flosculos in ipsarum Decretalium textib. reconditos secundum alphabeti ordinem explicans, in Decretales D. Gregorii papae IX suae integritati una cum glossis restitutae. Ad exemplar Romanum diligenter recognitae, Lugduni, apud Gulielmum Rovillium, sub scuto Veneto, 1584, pp. 33-34; («il papa può governare al di sopra del diritto»; «al solo papa spettano il trasferimento e la deposizione dei vescovi»; «il papa può giudicare di questioni ereditarie in ragione della fede»; «il papa ha il potere da Dio, l’imperatore dal papa»; «il papa è titolare del medesimo potere che san Pietro»; «il papa può deporre un principe secolare»; «il papa può legittimare gli illegittimi»; «il solo papa chiama fratelli i vescovi nelle sue lettere»; «contro la volontà del papa nessuno ha diritto di conferire benefici ecclesiastici»; «il solo papa canonizza i santi»; «il papa soltanto è sopra ogni concilio e statuto»; «il solo papa è ritenuto essere vicario [di Cristo] in terra, e nessuno è maggiore di lui»; «solo il papa governa al di sopra del diritto»; «solo il papa può cambiare una sentenza definitiva»; «il papa non può dettar legge al suo successore né limitarne il potere»).
51 Corpus iuris canonici, II, Decretales Gregorii IX, c. solitae, X, de maioritate et obedientia [c. 6, X, i, 33 = c. 2, Comp. III, i, 21], ed. Ae. Friedberg, Lipsiae 1879 (rist. Graz 1959), col. 198.
52 («settemila seicento quarantaquattro volte e mezza è superiore la dignità sacerdotale a quella regale»; trad. it. di F. Milana); per tutto ciò cfr. D. Quaglioni, Quanta est differentia inter solem et lunam. Tolomeo e la dottrina canonistica dei duo luminaria, in Il sole e la luna. The Sun and the Moon, «Micrologus», 12, 2004, pp. 395-406.
53 Per un ritratto di Gregorio XI cfr. Id., L’ultimo periodo avignonese e i ritorni a Roma, in La crisi del Trecento e il papato avignonese, cit., pp. 281-310, in partic. pp. 305-308.
54 Cfr. Id., La tipologia del “Somnium” nell’ambito del dibattito su scisma e concilio, in Conciliarismo, stati nazionali, inizi dell’Umanesimo, Atti del XXV Convegno internazionale (Todi 1988), a cura del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1990, pp. 97-117.
55 C. Leonardi, Caterina da Siena: mistica e profetessa, Atti del Simposio internazionale cateriniano-bernardiniano (Siena 1980), a cura di D. Maffei-P. Nardi, Siena 1982, pp. 155-172, in partic. pp. 161-162.
56 Ibidem, p. 163.
57 E. Petrucci, L’ecclesiologia alternativa alla vigilia e all’inizio del grande scisma: S. Caterina da Siena e Pietro Bohier vescovo di Orvieto, Ibidem, pp. 181-225.
58 Caterina da Siena, Le lettere di S. Caterina da Siena ridotte a miglior lezione e in ordine nuovo disposte con note di N. Tommaseo, a cura di P. Misciattelli, III, Firenze 1940, n. 206, pp. 202-205, in partic. p. 204; R. Manselli, S. Caterina nel suo tempo, Atti del Congresso internazionale di studi cateriniani (Siena-Roma, 1980), Roma, 1981, pp. 33-43; A. Volpato, Le lettere di santa Caterina sullo scisma, in La Roma di santa Caterina da Siena, a cura di M.G. Bianco, Roma 2001, pp. 75-118.
59 Caterina da Siena, Le lettere di S. Caterina da Siena, cit., IV, 1940, n. 252, pp. 68-72, in partic. pp.69-70.
60 Quarta vita Gregorii XI ex continuatore Werneri canonici Bunnensis, desumpta, in É. Baluze, Vitae paparum Avenionensium (1305-1349), a cura di G. Mollat, I, Paris 1916, p. 463. Cfr. D. Quaglioni, Santa Caterina da Siena e lo Scisma d’Occidente, in Lecturae Catharinae 2002. Santa Caterina da Siena e l’Europa, a cura di G. Minnucci, Siena 2003, pp. 19-30.
61 P. Medioli Masotti, Codici scritti dagli accademici romani nel carcere di Castel S. Angelo (1468-1469), in Vestigia. Studi in onore di Giuseppe Billanovich, a cura di R. Avesani, M. Ferrari, T. Toffano et al., II, Roma 1984, pp. 451-460, in partic. p. 451. Cfr. G. Kreuzer, Sánchez de Arévalo, Rodrigo, in Biographisch-Bibliographisches Kirchenlexikon, VIII, Hamm 1994, coll. 1296-1298. Notizie in P. Prodi, Il sovrano pontefice, cit., pp. 38-39 (a proposito dei suoi rapporti con Cusano), pp. 109, 222-223, e ampiamente in W. Benziger, Zur Theorie von Krieg und Frieden in der italienischen Renaissance. Die Disputatio de pace et bello zwischen Bartolomeo Platina und Rodrigo Sánchez de Arévalo und andere anläßlich der Pax Paolina (Rom 1468) entstandene Schriften, Frankfurt a. M. 1996.
62 Utilizzo l’edizione: Rodericus Zamorensis, Speculum vitae humanae, excudebat Parisijs, Iohan. Ruellius expensis Galeoti Pratensis, 1542.
63 Rodericus Zamorensis, Speculum vitae humanae, cit., Prooemium, ff. 3v-6r.
64 («della sublimità, ed eccellenza della dignità del sommo pontificato, e della inintelligibile sua autorità e potestà, e della sua necessità e utilità, e dei suoi profondissimi misteri»; trad. it. di F. Milana).
65 Rodericus Zamorensis, Speculum vitae humanae, cit., Prooemium, f. 104r.
66 Ibidem, f. 107r e 111r; («dei fastidi spirituali, dispiaceri, gravami, tormenti, e inoltre delle apprensioni, dei pericoli e delle fatiche del sommo pontificato; dei tanti disagi temporali e corporali, malumori, e miserie, e minacce dei pontefici romani»).
67 Ibidem, ff. 113v-129v.
68 P. Prodi, Il sovrano pontefice, cit., pp. 38-39.
69 Rodericus Zamorensis, Speculum vitae humanae, cit., II, 1, f. 104r; («di essa tale è la sublimità e l’eminenza, tale l’immensità, che nessun mortale, non che comprenderla o esprimerla in modo soddisfacente, nemmeno è in grado di pensarla. La maestà e l’eccellenza di quel santissimo stato, eminente sopra ogni altro, stordisce infatti ogni umano intelletto»; trad. it. di F. Milana).
70 Ibidem, f. 104r-v; («Che cosa si dovrà dire di quel sommo pontefice, che fa le veci del Dio vero in terra? Che è assunto alla pienezza di questo stato, al trono apostolico, al sommo di ogni dignità, dal quale tronco, come rivoli da una fonte, si dipartono i rami? Che non a un umano principato soltanto ma divino, non a governare soltanto esseri mortali ma anche immortali, né uomini soltanto ma angeli, a giudicare non solo i vivi ma i morti, non solo in terra ma in cielo, non a sovrintendere ai soli fedeli ma agli infedeli, e in breve, che è stato stabilito e innalzato dal sommo Dio, al posto suo sopra tutti i mortali, alla stessa dignità, alla medesima facoltà di giudicare e costringere che ha un supremo principato universale esteso a tutto il mondo?»).
71 Ibidem, ff. 105v-106r.
72 Ibidem.
73 Ibidem, ff. 106v-107r; («Perciò anche a tacere il resto, la sublimità, maestà e felicità di questo santissimo ed eminentissimo stato insieme con la necessità e utilità sue, facilmente in ciò si comprendono. Infatti se, come dicono, non c’è felicità maggiore che aver reso felici molti, questo stato beatissimo potrei dire tanto più felice quante più persone può rendere più felici più facilmente e direi più felicemente sopra tutti i mortali»; trad. it. di F. Milana).
74 Ibidem, f. 107r.; («È dunque evidente l’eccellenza, dignità, nonché utilità e necessità di questo santissimo stato. Sono ovvie le lodi e gli encomi, non solo per l’autorità di chi ha istituito, l’istituzione stessa nobilissima, le nobilissime cause, ma per il fine desiderabilissimo, i beati misteri, la vicinanza a dio, il frutto auspicabilissimo, l’utilità di tutti i mortali, la felicità sovrabbondante»).
75 P. Prodi, Il sovrano pontefice, cit., p. 109, nota 52.
76 Ibidem, p. 125.
77 Ibidem, p. 117.
78 De pietate Romana libellus in quattuor partes divisus, auctore Theodoro Amydeno, Romae, typis Jacobi Mascardi, 1625, p. 194; cit. in P. Prodi, Il sovrano pontefice, cit., p. 118.
79 P. Prodi, Il sovrano pontefice, cit., pp. 118-119.
80 Jo. Baptistae De Luca, Theatrum veritatis, et justitiae, sive Decisivi discursus per materias, seu titulos distincti, et ad veritatem editi in forensibus controversiis canonicis, et civilibus, in quibus in Urbe advocatus, pro una partium scripsit, vel consultus respondit, XVIII, Commentaria ad Const. Sanctae Mem. Innocentii XI. De statutariis successionibus, I, 7, Venetiis, ex typographia Balleoniana, 1734, p. 8; cit. in P. Prodi, Il sovrano pontefice, cit., p. 127; («Invero codesta fusione nella stessa persona di entrambi i poteri supremi, ecclesiastico e temporale, genera nel regime di questo Principato alcune peculiarità che non sono permesse in altri principati, né si possono legittimamente praticare senza l’ apostolica autorità e concessione»).
81 P. Prodi, Il sovrano pontefice, cit., pp. 125-126. A. Bastiaanse S.C.J., Teodoro Ameyden (1586-1656). Un neerlandese alla corte di Roma, ‘s-Gravenhage, Staatsdrukkerij, 1967, p. 359, (Studiën van het Nederlands Historisch Instituut te Rome, V), riporta questo giudizio dell’avvocato fiammingo sul papa Urbano VIII: «Princeps potius videri voluit quam pontifex, rector quam pastor. Hinc calumniae illi obiectae non paucae, quarum praecipua quod totus politicus omni lege careret».
82 G. Falco, La Santa Romana Repubblica. Profilo storico del Medio Evo, Milano-Napoli 19739, p. 333.
83 P. Prodi, Il sovrano pontefice, cit., p. 350.
84 Ibidem, p. 349.
85 G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, pp. 534-535; cfr. P. Marangon, Pio IX e le «Cinque piaghe» di Antonio Rosmini, in Il Papato e l’Europa, cit., pp. 297-318.
86 R. Aubert, Il Concilio Vaticano I (1869-1870), in R. Aubert, G. Fedalto, D. Quaglioni, Storia dei Concili, Milano 1995, pp. 182-206, in partic. p. 189.
87 Concilium Vaticanum I, Sessio IV (18 iul. 1870), Constitutio dogmatica prima de ecclesia Christi, Caput IV, De Romani pontificis infallibili magisterio, in COGD, 19914, p. 816.