Lisippo, il primo grande moderno
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Scultore prolifico e geniale, ritrattista di Alessandro Magno, Lisippo di Sicione rappresenta nel modo più chiaro la transizione in atto tra l’arte classica, espressione dei valori e degli ideali della polis, e i nuovi linguaggi artistici dei regni ellenistici. Alla creazione di questi nuovi linguaggi, l’artista contribuisce cimentandosi in generi estranei all’arte della polis, e rinnovando profondamente i generi e le tematiche tradizionali.
La lunga vita di Lisippo di Sicione copre sostanzialmente tutto il IV secolo a.C., periodo di profonda trasformazione per la Grecia dal punto di vista storico-politico, ma anche culturale e antropologico; e la sua laboriosa carriera di scultore riflette il travaglio di quest’epoca complessa, gettando un ponte tra l’arte classica, espressione della polis, e l’arte dei regni ellenistici. Agli inizi semplice fonditore, Lisippo sosteneva di non aver avuto maestri, una condizione questa del tutto isolata nell’ambiente artistico greco dell’epoca, dove il mestiere si impara attraverso un lungo apprendistato presso la bottega di un artista già affermato, o viene tramandato di padre in figlio: da questa condizione di autodidatta giungerà a diventare il ritrattista ufficiale di Alessandro Magno, e questo suo percorso si configura come un segno dei tempi nuovi, un esempio di rivolgimento sociale e di superamento di antiche regole ormai vuote di senso in un mondo in trasformazione.
Sembra comunque che Lisippo indicasse il proprio maestro nel Doriforo di Policleto (Cicerone, Bruto, 296), il che dimostra quanto la sua attività di scultore, almeno nella sua fase iniziale, sia riconducibile alla tematica tradizionale della figura atletica nuda, e alla sfida che tale tematica presentava all’artista relativamente al problema della percezione ottica dei volumi e del loro movimento nello spazio.
Le fonti letterarie attribuiscono a Lisippo una soluzione assolutamente innovativa, anzi rivoluzionaria, del problema ottico: lo scultore sceglie di rappresentare gli uomini “non come sono, ma come appaiono allo sguardo” (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXIV, 65), liberandosi così di un concetto di mimesis come fedele riproduzione di una realtà oggettivamente misurabile e conoscibile e introducendo decisamente la propria soggettività nell’interpretazione del reale: l’apparenza si sostituisce alla sostanza, la fantasia alla razionalità, i valori ottici a quelli tattili. L’artista sicionio mette a punto un nuovo canone proporzionale che modifica in modo sostanziale “le corporature squadrate degli antichi” e in virtù del quale le sue statue sembrano più alte, grazie alle teste più piccole e agli arti più sottili e slanciati.
Questo nuovo canone proporzionale è ben esemplificato nella statua dell’atleta tessalo Agia, vincitore ad Olimpia nella gara del pancrazio all’epoca delle guerre persiane; la statua era parte di un donario in bronzo realizzato da Lisippo a Farsalo tra il 336 e il 332 a.C. circa dietro commissione del tetrarca della Tessaglia Daoco II, discendente dell’atleta, ma se ne conserva solo la copia in marmo realizzata, poco dopo l’esecuzione dell’originale, per una replica del donario a Delfi. La lunghezza delle gambe dell’Agia copre più di metà della figura, e l’altezza della testa è 1/8 del totale: è quindi assai più piccola rispetto alle teste delle statue policletee, che sono 1/7 dell’altezza totale. L’atleta si presenta in una posa instabile, che suggerisce l’imminenza di un movimento, e che contrasta con l’equilibrata solidità delle figure di Policleto.
Altrettanto instabile la posa dell’Apoxyomenos dei Musei Vaticani, la statua raffigurante un atleta nell’atto di asportare con lo strigile (una sorta di raschiatoio a lama ricurva che ogni atleta recava con sé in palestra) l’impasto di olio, polvere e sudore che gli copriva il corpo al termine dell’allenamento, rinvenuta nel 1849 a Trastevere, in Vicolo delle Palme (da allora ridenominato Vicolo dell’Atleta). L’originale bronzeo si trovava a Roma, come conferma Plinio il Vecchio, che narra come l’imperatore Tiberio l’avesse fatto trasferire dalle Terme di Agrippa alla propria camera da letto, per ricondurlo poi alle Terme a seguito di una vera e propria sollevazione popolare (Nat. Hist. XXXIV, 62). La figura conquista la terza dimensione invadendo lo spazio dello spettatore con il gesto del braccio destro proteso, e l’impressione di apertura della forma è intensificata dall’inclinazione della testa e dalla direzione dello sguardo, che distrattamente si posa su un punto lontano; tutta la figura è inclinata leggermente in avanti, e mostra una contrapposizione tra arti in riposo e arti in tensione che può essere definita “antitetica” a causa della diretta opposizione tra le parti rispetto alla linea mediana del corpo, e che sovverte la disposizione “chiastica” delle membra caratteristica delle figure policletee: al braccio sinistro che compie l’azione principale corrisponde la gamba sinistra portante, mentre al braccio destro più rilassato corrisponde la gamba destra scarica. L’Apoxyomenos dichiara la conquista di una nuova indipendenza spaziale piegando trasversalmente il braccio sinistro davanti al torso: inibendo così una visione staticamente frontale, la statua non “posa” davanti allo spettatore, e anzi lo invita a girarle intorno, apprezzandola sotto diversi punti di vista; artista provetto, Lisippo sa bene che tale accorgimento potenzia l’impressione di movimento della figura, accentuandone la vitalità.
Anche l’Eros di Tespie dispone trasversalmente al torso il braccio sinistro che sorregge l’arco di cui sta saggiando con la mano destra l’elasticità, preparandosi a scagliare la freccia.
La statua, di cui sono note diverse copie di età romana, era originariamente collocata nell’antico santuario beotico che ospitava anche l’Eros prassitelico; il gesto dell’Eros lisippeo, la sua figura infantile, la capigliatura raccolta in una treccia al centro della testa, tipica dei bambini e delle divinità protettrici dell’infanzia, sono probabilmente in connessione con riti di iniziazione e di passaggio all’età adulta che dovevano svolgersi nel santuario di Tespie, dove per l’età romana si ha notizia di vere e proprie competizioni sportive tra fanciulli, gli Erotideia.
Infine, nel gruppo di Sileno con il piccolo Dioniso, noto grazie a repliche di età romana da un originale lisippeo probabilmente identificabile con il “Satiro ad Atene” menzionato da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXIV, 64), è la stessa figura del bambino, tenuto in braccio dal vecchio, che si frappone tra la sua figura, asciutta e vigorosa, e l’osservatore, assicurando alla composizione una compiuta tridimensionalità e un intrigante carattere narrativo. La testa di Sileno si abbassa con fare protettivo in direzione del volto del piccolo che gli sorride e l’incontro dei loro sguardi, che costituisce il fulcro della composizione, trasmette un’intensità affettiva assente in altri gruppi scultorei rappresentanti bambini tenuti in braccio da adulti, come l’Eirene e Pluto di Cefisodoto il Vecchio o l’Ermes con Dioniso di Prassitele da Olimpia, intensità resa più delicata dalla goffaggine timorosa con cui il vecchio sostiene il corpo di Dioniso.
La svolta nella vita e nella carriera di Lisippo è costituita dal suo incontro con Alessandro Magno; non è chiaro quando lo scultore inizi a lavorare presso la corte macedone e non è affatto certo, come pure è stato sostenuto, che egli sia presente a Mieza all’epoca in cui il giovane principe viene educato da Aristotele. Ad ogni modo, il suo ruolo di ritrattista ufficiale è sancito (secondo Orazio, Epistole II, 1, 237-244, addirittura con un editto) nel 336 a.C.; da questo momento, e fino alla morte di Alessandro nel 323 a.C., Lisippo raffigurerà numerose volte il principe, in statue singole e in gruppi scultorei, dando inizio al genere del ritratto dinastico, che avrà importanti sviluppi nel corso dell’età ellenistica e che non mancherà di influenzare la ritrattistica romana. Secondo Plutarco (Sulla fortuna e il valore di Alessandro Magno, II.2) solo Lisippo era capace di rappresentare in modo soddisfacente la complessa personalità del principe, rendendo giustizia sia al suo bell’aspetto, quasi femmineo nell’umidore degli occhi e nell’abitudine di inclinare leggermente il collo, che al suo carattere virile e leonino. Coniugando nel ritratto del Macedone l’elaborazione artistica con l’intenzione di caratterizzazione individuale, l’artista sicionio dissipa l’ambiguità insita nella ritrattistica di età classica, sospesa tra il desiderio di celebrare le virtù del singolo e il timore di turbare le regole dell’isonomia esaltando l’individualità; il ritratto non si focalizza più sul ruolo dell’individuo nella società, sulla posizione da lui ricoperta all’interno della polis, come nel ritratto di Pericle, nel quale ciò che conta è la sua caratterizzazione come stratego e come affidabile servitore dello stato, bensì sulla personalità del personaggio rappresentato, perché sono le doti individuali del dinasta, il suo carisma personale, la sua ambizione, il suo coraggio che gli consentono di conquistare e di mantenere un impero.
Ed è proprio con la lancia del conquistatore che Lisippo raffigura Alessandro in un celebre bronzo probabilmente ad Efeso, di cui si riconoscono riflessi in un bronzetto da Alessandria oggi al Louvre e in una serie di ritratti, tra cui la cosiddetta Erma Azara da Tivoli costituisce forse la redazione più vicina all’originale: l’ispirato volto del Macedone, lievemente sollevato, è coronato dalla fiammeggiante chioma leonina che le fonti letterarie descrivono come un suo tratto caratteristico, e l’attenzione dell’osservatore è catturata dallo sguardo sognante degli occhi ravvicinati e profondamente infossati sotto i muscoli periorbitali, che costituiscono una cifra stilistica lisippea riscontrabile nell’Agia e nell’Apoxyomenos.
Lisippo deve essere stato altresì impegnato a ritrarre personaggi di spicco della cerchia di Alessandro: Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXIV, 64) parla di ritratti di Efestione, intimo sodale di Alessandro morto nel 324 a.C., ed è ormai pacifica l’attribuzione allo scultore della creazione, intorno al 325 a.C., del ritratto di Aristotele, voluto dallo stesso Macedone (come testimonia una iscrizione dalla Stoà di Attalo ad Atene) e noto grazie a numerose copie marmoree di età romana, le migliori delle quali, caratterizzate da una straordinaria forza espressiva e dall’intensità dello sguardo intelligente e severo, consentono di riconoscere in Lisippo l’ideatore del genere del ritratto dell’intellettuale, destinato ad una straordinaria fioritura nel corso dell’età ellenistica, epoca che attribuisce un ruolo chiave all’uomo di pensiero.
Agli ultimi anni di vita di Lisippo e al suo rapporto con Cassandro di Macedonia è probabilmente da ricondurre la realizzazione di una statua-ritratto di Socrate per il Pompeion di Atene, con la quale la città intende in qualche modo dimostrare pentimento per la condanna a morte del filosofo. Da questa statua deriva una serie di teste ed erme-ritratto di Socrate (il cosiddetto tipo B), tra cui la nota erma Farnese al Museo Archeologico di Napoli che reca iscritta, oltre al nome del filosofo, una citazione dal Critone (46b); e forse il frammento di un affresco parietale da Efeso che mostra Socrate seduto su una panchina. È bello immaginare che simile alla composizione di Efeso fosse la collocazione della statua lisippea all’interno del Pompeion, a confondere tra gli Ateniesi seduti a conversazione il filosofo, reintegrando davvero nel tessuto connettivo della città uno dei suoi figli più illustri.
Di grande fama gode nel mondo antico la turma Alexandri (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXIV, 64), ovvero il gruppo statuario di Lisippo raffigurante Alessandro e i suoi 25 compagni morti nella battaglia contro i Persiani presso il fiume Granico (334 a.C.), dedicato dal principe nel più importante santuario macedone, il tempio di Zeus a Dion, e da qui prelevato, nel 146 a.C., da Quinto Cecilio Metello Macedonico che lo colloca nella propria porticus in Campo Marzio a Roma, dove rimane almeno fino al V secolo. Il dinamismo e l’energia sprigionati da queste statue suscitano una notevole impressione a Roma, tanto è vero che a questo gruppo si ispira molto da vicino la serie di statue marmoree rinvenute in frammenti nel santuario di Giunone Sospita a Lanuvio (frammenti oggi conservati tra Londra e Leeds), dedicato probabilmente dal più importante cittadino di Lanuvio, Lucio Licinio Murena, associato a Lucio Licinio Lucullo nella sua vittoria su Mitridate. Dell’Alessandro del gruppo del Granico si riconosce una copia, ridotta ma piuttosto vicina all’originale, in un celebre bronzetto di notevole fattura rinvenuto a Ercolano, che nell’eccezionale accuratezza con cui sono resi l’anatomia e il movimento del cavallo rampante rivela la fondatezza della fama di Lisippo come abile artista animalier. La creazione di gruppi scultorei complessi, composti da figure in azione che interagiscono tra di loro, superando il canone della disposizione paratattica di tradizione classica, costituisce uno dei più significativi contributi di Lisippo alla formazione del repertorio dei generi scultorei ellenistici.
Celebre nell’antichità il gruppo delle fatiche di Eracle, realizzato da Lisippo forse intorno al 317 a.C., per la città di Alizia in Acarnania e giunto nel II secolo a.C. a Roma, dove gradualmente assume il ruolo di serbatoio di iconografie erculee, in particolare per gli scultori impegnati nella produzione urbana di sarcofagi di età imperiale con il ciclo delle imprese dell’eroe.
Tra i gruppi lisippei non può naturalmente essere dimenticata quella che secondo alcuni autori antichi (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXIV, 63) era l’opera più bella di Lisippo, la quadriga del Sole realizzata per gli abitanti di Rodi verso l’ultimo quarto del IV secolo a.C. Per lungo tempo a quest’opera sono stati ipoteticamente ricondotti i cavalli in bronzo dorato di San Marco, giunti a Venezia in seguito al saccheggio di Costantinopoli ad opera dei crociati nel 1204, che sono però databili al II secolo, come gli studi successivi al recente restauro hanno dimostrato; né del resto la loro postura si accorda con la probabile riproduzione della quadriga lisippea presente sui timbri delle anfore prodotte, nel II secolo a.C. (momento di massima prosperità dell’isola), per l’esportazione dell’apprezzato vino rodio, timbri che raffigurano un carro guidato dalla personificazione di Helios con corona radiata e condotto da cavalli impennati. Di questa iconografia è riconoscibile una libera rielaborazione in una metopa del tempio di Atena ad Ilio, databile intorno alla fine del IV secolo a.C. e recuperata da Heinrich Schliemann in una delle sue prime, avventurose campagne di scavo sul sito dell’antica Troia.
A Lisippo va riconosciuto non soltanto il merito di aver contribuito in modo decisivo alla creazione di alcuni dei generi più significativi dell’arte ellenistica, ma anche quello di aver colto con sensibilità la profonda mutazione che la società greca subisce nel passaggio dal mondo classico a quello ellenistico: l’artista sicionio comprende che quel sistema di valori e ideali condivisi che è stato il brodo di coltura dell’arte classica va scomparendo, in particolare nelle città di nuova fondazione come Alessandria, veri e propri meltin’ pot in cui si incrociano persone di varie nazionalità e culture.
Questo nuovo pubblico va stimolato in modo nuovo: ad esempio con l’allegoria complessa e concettosa, che parla soprattutto alla figura, squisitamente ellenistica, dell’erudito, allegoria di cui Lisippo fornisce un esempio emblematico con il suo Kairós, la statua raffigurante l’occasione favorevole, creata probabilmente per Alessandro tra il 336 e il 334 a.C. a Pella, oggetto di un coevo epigramma di Posidippo di Pella (Antologia Planudea, 275) e descritta accuratamente dal retore Callistrato (Descrizioni di Statue, 6) nel IV secolo. Riflessi dell’opera sono individuabili in un rilievo frammentario da Traù (Croazia) e in un frammento di sarcofago al Museo di Antichità di Torino. Il bronzo originale raffigurava un giovane di bell’aspetto (perché opportuna è ogni cosa bella), con le ali ai piedi a rappresentarne la fuggevolezza, ed una curiosa capigliatura, con un lungo ciuffo sulla fronte (perché l’occasione può essere colta non appena si presenta) e con la nuca rasata, perché non la si può più afferrare una volta passata; con la mano sinistra doveva reggere un rasoio, che simboleggiava l’esilità del momento propizio, su cui oscillava una bilancia, emblema dell’equilibrio tra gli opposti.
Stupore e coinvolgimento emotivo suscita anche il tour de force tecnico dell’artista, la “meraviglia” che sa catturare l’attenzione: Lisippo riprende il modulo colossale, utilizzato nella scultura arcaica e poi sostanzialmente abbandonato (con l’eccezione dei simulacri crisoelefantini di Atena nel Partenone e di Zeus ad Olimpia realizzati da Fidia), per una statua di Zeus e una di Eracle a Taranto, la prima alta 40 cubiti (tra i 16 e gli oltre 17 m) e la seconda circa la metà.
L’Eracle giunge a Roma con Quinto Fabio Massimo dopo il saccheggio di Taranto nel 209 a.C. e da qui sarà trasferito a Costantinopoli nel IV secolo: le descrizioni di eruditi bizantini consentono di riconoscere la statua su monete di Eraclea e in bronzetti romani, che restituiscono l’immagine dell’eroe seduto e meditante, con la mano destra che sostiene il mento; straordinariamente espressiva una copia marmorea della testa, rinvenuta a Taranto, che presenta un volto patetico, fortemente segnato dall’età e dal tormento interiore. Quella di Eracle è, del resto, la figura mitica con cui Lisippo maggiormente mette in gioco la propria creatività, la volontà di attribuire significati e messaggi inediti alle immagini della tradizione.
Nell’Eracle in riposo tipo Farnese-Pitti, il cui archetipo è riconducibile con certezza a Lisippo grazie alla presenza sulla copia Pitti conservata a Firenze dell’iscrizione Lysippou ergon (“opera di Lisippo”), l’eroe si appoggia pesantemente alla clava puntata sotto l’ascella sinistra: la poderosa, esasperata montagna di muscoli del corpo, particolarmente apprezzabile nella copia Farnese oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli firmata dal copista ateniese Glicone, appare paradossalmente svuotata, priva di forze. La mano destra poggiata sulla schiena stringe i pomi delle Esperidi, segno che le fatiche di Eracle sono finite e che l’eroe può finalmente riposarsi; ma dal suo volto reclinato, con lo sguardo rivolto verso il basso, non traspaiono orgoglio o sollievo, ma soltanto un’infinita stanchezza e un sordo rimpianto.
Un concentrato di energia e di gioiosa vitalità è invece il piccolo Eracle Epitrapezios, raffigurato seduto su una roccia coperta dalla pelle di leone nell’atto di sollevare una coppa di vino: Lisippo crea l’originale in bronzo, probabilmente alto intorno ai 30 centimetri, per adornare ma anche per proteggere la mensa di Alessandro, dando vita così ad una serie di riproduzioni di questa figura del “grande dio in un piccolo bronzo” assai apprezzate dai collezionisti di età romana, come testimoniano Marziale (IX. 43-44) e Stazio (Silvae, IV. 6): tra le repliche giunte all’età moderna, quella conservata presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna è probabilmente la più vicina all’esuberanza dell’originale lisippeo. La medesima iconografia torna in una statua in marmo colossale rinvenuta in un santuario di Ercole ad Alba Fucens presso Chieti: si tratta di una copia più tarda, ma sembra che già lo stesso Lisippo realizzasse varianti delle proprie opere rielaborandone le dimensioni e l’iconografia, come le variazioni sul tema dell’Eracle in riposo (tipo Argo, tipo Anticitera-Sulmona, il già citato tipo Farnese-Pitti) illustrano in modo esemplare. Questo modo di lavorare giustifica forse la tradizione antica (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXIV, 37) che attribuiva a Lisippo la paternità di ben 1500 statue, e si configura come un ennesimo, illuminante segnale della modernità della figura dell’artista sicionio, abile promoter della propria attività in quello che è già un mercato dell’arte.