Il primo recupero dell'eredita greca
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso dell’epoca tardoantica nuove concezioni dell’universo basate sulle Sacre Scritture finiscono per far dimenticare modelli ben più articolati e “scientifici” come quelli tolemaici. La presenza sulle mappe di contenuti simbolici, come la segnalazione di tappe fondamentali della via della Salvezza o la centralità della città di Gerusalemme, centro della cristianità, danno un’idea precisa della finalità morale di queste mappe a discapito dello scarso interessse dell’epoca per i viaggi di esplorazione o di scambio commerciale con Paesi lontani.
La concezione dell’universo esposta nella Topographia christiana di Cosma esemplifica il ruolo centrale occupato dalla religione nel mondo medievale cristiano. In questa concezione ogni elemento sensibile deve avere una spiegazione morale, come appare evidente anche nel campo delle rappresentazioni cartografiche. Intorno alla metà del II secolo, oltre a occuparsi di astronomia, Tolomeo aveva dedicato una delle proprie opere più importanti, La geografia, alla descrizione e alla rappresentazione delle regioni abitate della Terra. A tal fine egli aveva elaborato due proiezioni cartografiche utili per riportare all’interno di un reticolo di meridiani e di paralleli, nonché alle latitudini e alle longitudini appropriate, tutte le terre emerse e i mari. Le mappe ottenibili mediante queste due proiezioni, prodotto della scienza greca, vennero ben presto dimenticate. Al loro posto subentrano rappresentazioni sintetiche del mondo basate sul dettato delle Sacre Scritture e indicanti a chi le consultava la via della Salvezza.
Una delle più antiche rappresentazioni cartografiche medievali conosciute è la mappa che corredava il Commento all’Apocalisse di san Giovanni scritto nel 776 dal Beato di Liébana. Sebbene l’originale sia andato perduto, di questa mappa esistono ancora copie risalenti a partire dal X secolo. Grazie a esse è possibile comprendere che le finalità della rappresentazione cartografica medievale esulano dalla descrizione obiettiva della superficie terrestre. La mappa del Beato rappresenta infatti i vari luoghi della Terra come teatro della genesi e del cammino dell’umanità verso la redenzione. All’estremo est, collocato in alto, compare la sede presunta del paradiso terrestre, dal quale l’umanità era discesa con Adamo ed Eva. Particolare attenzione è data ai luoghi biblici del Medio Oriente, fra i quali risaltava il Mar Rosso, con acque appropriatamente dipinte di colore rosso. Al centro delle terre emerse spicca Gerusalemme, la città per eccellenza, luogo della redenzione dell’umanità. Infine, all’estremo sud, collocato a destra, compare la Terra Incognita. Quest’ultima è inserita nella mappa in ragione del fatto che gli apostoli avevano avuto da Gesù lo speciale mandato di predicare “ai quattro angoli della Terra”. Tali “angoli” non sono interpretati dal Beato come dimostrazione che la Terra avesse forma rettangolare, come sostenuto da altri Padri della Chiesa, ma come metafora di quattro continenti, dei quali uno rimaneva ancora inesplorato.
Le rappresentazioni cartografiche con finalità morali si diffondono in buona parte dell’Europa assumendo una forma sempre più essenziale. Le cosiddette mappe OT, conosciute a partire dal IX secolo, rappresentano infatti in modo altamente semplificato e convenzionale i tre continenti. Essi vi appaiono completamente circondati dall’Oceano, delineato come una grande “O”. Le acque del Mar Mediterraneo, del Tanais (il Don) e del Nilo separano i continenti insinuandosi fra essi con una struttura che ricorda invece una grande “T”. L’Europa e l’Africa, separate dall’asta verticale della “T”, il Mar Mediterraneo, occupano rispettivamente il quarto in basso a sinistra e il quarto in basso a destra della mappa. L’Asia occupa invece tutta la metà superiore della mappa ed è separata dall’Europa e dall’Africa rispettivamente dal Tanais e dal Nilo. Al centro esatto della mappa si trova ancora una volta il luogo per eccellenza della cristianità, la città di Gerusalemme. Su queste mappe non appare alcuna traccia di meridiani, di paralleli o di altri riferimenti utili a collocare esattamente un determinato luogo sulla superficie terrestre; un fatto che evidenzia la scarsa attenzione dell’epoca per i viaggi di esplorazione o di scambio commerciale con Paesi lontani.
Tuttavia, è proprio la centralità della vita religiosa l’elemento che porta al recupero, inizialmente difficoltoso e contrastato, dell’eredità scientifica greca e alessandrina. Cosa curiosa, le premesse per un tale recupero sono state inserite in uno degli aspetti più importanti dell’istituzione ecclesiastica, vale a dire la celebrazione rituale dei momenti della vita di Gesù. La definizione del calendario liturgico e delle principali festività cristiane è infatti avvenuta in un’epoca in cui il sapere scientifico greco non viene ancora avvertito come del tutto ostile.
Da un lato, alcune delle feste cristiane sono state ricalcate sulle feste pagane, in modo da ereditarne l’aspetto sacrale e cancellarne la memoria in un colpo solo. Per esempio, il Natale è fissato al 25 dicembre (grosso modo in corrispondenza della festività pagana del solstizio d’inverno) e il giorno di san Giovanni al 24 giugno (grosso modo in corrispondenza dell’altra festività pagana del solstizio d’estate). Da un altro lato, una festa mobile estremamente importante come la Pasqua è fissata dal concilio di Nicea dell’anno 325 in base a un tipo ancora più raffinato di informazione astronomica. Per meglio evidenziare il carattere assolutamente miracoloso dell’oscuramento del Sole avvenuto nel momento della morte di Gesù sulla croce, i partecipanti al concilio decidono di far cadere la Pasqua in un giorno di primavera in cui non avrebbe mai potuto verificarsi un’eclisse naturale di Sole. Il giorno scelto è perciò la prima domenica dopo la prima Luna piena dopo il 21 marzo, data quest’ultima in cui cadeva l’equinozio di primavera. L’introduzione di concetti astronomici specifici fa sì che, per quanto i Padri della Chiesa cerchino di demolire le cosmologie greche, non possano tuttavia rinunciare ai risultati – quali la determinazione esatta del giorno dell’equinozio e della prima Luna piena di primavera – che costituiscono i fondamenti o la ricaduta materiale di quelle stesse cosmologie.
Non a caso, accanto a coloro che si oppongono fieramente al sapere greco convivono anche gli esponenti di un pensiero più moderato e aperto, secondo i quali la conoscenza filosofica e scientifica, in quanto perfezionamento dello spirito umano, non può essere sgradita a Dio. Il contributo di questi esponenti, fra cui si annoverano Clemente Alessandrino, Origene e Agostino, fa sì che, mentre alcuni Padri della Chiesa continuano ad ammonire i fedeli con una immagine negativa del sapere greco, questo stesso sapere desta l’interesse di altri Padri della Chiesa. In particolare, la scienza greca viene per quanto possibile studiata e tramandata in alcuni di quei centri di meditazione teologica, i monasteri, che a partire dall’inizio del VI secolo possono vantare una qualche indipendenza culturale rispetto alle affermazioni della cultura cristiana dominante.
Questo tipo di operazione non è esente da problemi, soprattutto perché dal V secolo in poi il centro principale di diffusione del sapere greco, Alessandria d’Egitto, ha enormemente ridotto la propria influenza sul Mediterraneo. Figure legate al pensiero platonico, come Proclo, o al pensiero aristotelico, come Simplicio, hanno cercato di trovare ambienti culturali più fertili in Grecia e in Persia, cioè in alcune delle aree periferiche del vecchio impero romano che adesso costituiscono possedimenti dell’impero d’Oriente. Altri personaggi, come Giovanni Filopono, commentatore delle opere di Aristotele, sono invece rimasti a Alessandria nel tentativo di difendere la scienza greca dalla dilagante opposizione cristiana. Nonostante ciò, la tradizione scientifica alessandrina si è dissolta o dispersa proprio in quegli aspetti empirici, matematici e geometrici che hanno contribuito a formarne il carattere più originale e innovativo. Questi aspetti non potranno essere recuperati dalla cultura monastica che si limiterà a codificare e tramandare una versione semplificata delle conoscenze scientifiche greche.
Per vari secoli i lavori di tipo enciclopedico e compilatorio realizzati da alcuni autori sul modello della Naturalis historia di Plinio il Vecchio costituiscono il principale veicolo di diffusione delle scienze matematiche. Si deve in particolare a Boezio, traduttore in latino di alcune opere di Aristotele, la stesura di compilazioni concernenti gli aspetti essenziali delle matematiche greche, quali l’aritmetica di Nicomaco di Gerasa, la geometria di Euclide e l’astronomia di Tolomeo. Queste compilazioni tramandano concetti e metodi elementari, facilmente assimilabili dal lettore, che possono risultare utili nella vita quotidiana per svolgere calcoli di tipo contabile, per determinare i confini delle proprietà terriere e per individuare gli elementi astronomici necessari a stilare calendari e oroscopi. Pur nell’estrema semplicità dei concetti e dei metodi di calcolo, le opere di Boezio mantengono in vita l’interesse di una parte del mondo latino per la scienza greca, diffondendo materiali testuali utili per avvicinarsi a tali discipline.
L’apprendimento delle scienze matematiche si inserisce nel modello delle sette arti liberali in origine delineato da Varrone e ripreso da Marziano Capella nel De nuptiis Mercurii et Philologiae. Si deve tuttavia a Isidoro, vescovo di Siviglia, e alle sue Etymologiae la diffusione di questo modello d’insegnamento all’interno della cultura cristiana, suddiviso nelle due fasi del trivio, comprendente le discipline letterarie (grammatica, retorica e dialettica), e del quadrivio, comprendente invece le discipline matematiche (aritmetica, geometria, astronomia e musica).
Nelle Etymologiae Isidoro recupera anche gli insegnamenti dei filosofi greci. Riafferma che il cosmo è costituito da un sistema di sfere concentriche, che la Terra ne occupa il centro e che possiede forma rotonda (di ruota). In merito a quest’ultima questione Isidoro affronta l’eventuale esistenza degli “antipodi” (ovvero “dai piedi al contrario”), cioè dei popoli che abitano la Terra Incognita, collocata dall’altra parte dei tre continenti noti. Il problema non è banale se si pensa che l’esistenza di popoli che vivevano “sottosopra” era tassativamente negata da Cosma in virtù di una chiara distinzione biblica fra i concetti cosmologici di “alto” e di “basso” e dalla negazione di un “al di sotto” della Terra. Isidoro demanda invece a un’altra opera, il De rerum natura, la nozione che il giorno e la notte erano prodotti dalla rotazione dei cieli intorno alla Terra. Più in generale, oltre a riaffermare concetti astronomici essenziali, Isidoro si dedica a esaminare la possibile relazione fra gli astri e la Terra e, più in dettaglio, la questione delle influenze prodotte dalle stelle e dai pianeti sui viventi. Se da una parte egli afferma, insieme ad altri Padri della Chiesa, che gli oroscopi sono privi di significato, in quanto un’influenza diretta degli astri sulle vicende terrene porterebbe a negare il libero arbitrio concesso da Dio agli uomini, dall’altra parte Isidoro propaga l’idea che stelle e pianeti abbiano effetti sensibili sulla vita vegetale e sul corpo umano. Egli dà in sostanza vigore a quel filone di studi che si dipana lungo tutto il Medioevo nel tentativo di svelare la segreta corrispondenza fra gli astri (il macrocosmo) e il corpo umano (il microcosmo), con particolare attenzione all’insorgere e al decorrere delle malattie.
Tendenzialmente sono le regioni periferiche del vecchio Impero romano a coltivare con maggiore assiduità le nozioni della scienza greca. Figure di elevato interesse culturale compaiono, oltre che nei monasteri spagnoli, anche in quelli inglesi, per esempio con il Venerabile Beda e con Alcuino di York, e in quelli tedeschi, per esempio con Rabano Mauro, arcivescovo di Magonza. Le fonti a cui questi autori attingono per i propri studi sono insieme le opere dei Padri della Chiesa e le compilazioni latine. Nel caso di Beda, l’attenzione agli aspetti generali della cosmologia si abbina all’esame dei problemi materiali legati in modo particolare alla questione del calendario, che man mano veniva avvertita come sempre più problematica. Nel De natura rerum Beda espone le concezioni cosmologiche che aveva ricavato dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio e dal De rerum natura di Isidoro, sostenendo concetti elementari come la sfericità della Terra e dell’universo, e definendo la sequenza ordinata dei sette cieli. Questa è tuttavia alquanto diversa dalla sequenza classica definita per i sette pianeti noti, e prevede nell’ordine il susseguirsi dei cieli dell’aria, dell’etere, dell’Olimpo, dello spazio igneo, del firmamento degli astri, degli angeli e della Trinità. Le acque superiori menzionate nella Genesi sono collocate sopra il firmamento degli astri e separano la creazione materiale, costituita dai quattro elementi aristotelici – terra, acqua, aria e fuoco – dalla creazione spirituale. Tutti i fenomeni del mondo materiale nascono secondo sequenze verificabili di cause e effetti prodotte dalla continua combinazione dei quattro elementi.
Anche Beda ritiene che il giorno e la notte siano prodotti dalla rotazione del firmamento intorno alla Terra, ma in più adotta la concezione tolemaica secondo cui i complessi moti apparenti dei sette pianeti, difficilmente assimilabili a semplici rotazioni uniformi, sono prodotti da combinazioni geometriche di circonferenze in movimento le une sopra le altre. Queste conoscenze basilari di astronomia permettono a Beda di riflettere con maggiore originalità sulla questione della determinazione della data della Pasqua e su problemi di misurazione del tempo. Egli affida queste e altre materie alla sua opera scientifica più importante, il De temporum ratione del 725, cercando di ridurre a leggi generali i fenomeni sensibili presi in considerazione: dai moti del Sole e della Luna alle fasi lunari e alle eclissi, fino al susseguirsi delle maree in obbedienza al ciclo lunisolare di 19 anni individuato nell’antichità da Metone di Atene.
Le opere di Beda contribuiscono in modo determinante alla rinascita della cultura scientifica europea in età carolingia. Di fatto, a partire dal IX secolo, la cognizione della sfericità della Terra e dei cieli, nonché l’idea che i fenomeni naturali possano essere investigati grazie all’osservazione e con l’impiego della matematica si affermano negli ambienti colti. A queste forme di consapevolezza si aggiungono le sollecitazioni pratiche dovute alle esigenze materiali relative al rinascere degli scambi commerciali e alla definizione di una esatta cronologia delle feste cristiane. Simili sollecitazioni producono una sempre maggiore attenzione per l’aritmetica e per l’osservazione dei fenomeni celesti. È però nel corso del X secolo che le scienze matematiche recuperano pieno terreno sull’impostazione morale dell’approccio ai fenomeni naturali prediletto dai Padri della Chiesa. Di questo generale interesse nel mondo cristiano fa fede nel 999 la nomina al soglio papale di un grande matematico formatosi in area spagnola, rinomato costruttore di globi celesti e terrestri, Gerberto di Aurillac, con il nome di papa Silvestro II.