Principe, Il
Titolo. Il titolo originale dell’opera doveva essere in latino, De principatibus, secondo una consuetudine cara a M., e così lo vediamo attestato nella celebre lettera all’amico Francesco Vettori del 10 dicembre 1513:
E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e massime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto: però io lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano. Filippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte e della cosa in sé, e de’ ragionamenti ho auto seco, ancor che tuttavolta io l’ingrasso e ripulisco (Lettere, p. 296).
M., tuttavia, chiamò il suo «opuscolo» anche De’ principati (Discorsi II i 29) e De Principe (Discorsi III xlii 8). Troviamo il titolo già volgarizzato nelle prime edizioni (postume) del 1532: a Roma presso Antonio Blado e a Firenze presso Bernardo Giunta. Fino a quel momento, il P. aveva circolato in copie manoscritte, che costituiscono il fondamento testuale delle moderne edizioni. L’esame ‘lachmanniano’ della tradizione ha messo capo, nel corso del tempo, alle successive edizioni di Giuseppe Lisio (1899), Mario Casella (1929) e Giorgio Inglese (1995, 2013), il quale ultimo approda a uno stemma codicum bipartito fra il ramo che conserva l’originaria intitolazione de principatibus (mss. Monacense e Gothano) e quello che, rimosso il titolo, esibisce le tracce di un primo sforzo editoriale (tavola dei capitoli, notabilia; mss. Laurenziano, Barberiniano, Marciano e affini). Su una diversa ipotesi (‘archetipo in movimento’) è fondata l’edizione di Mario Martelli (2006).
L’opera fu composta in una fase dolorosa per la vita di Machiavelli. Nel 1512 i Medici erano rientrati a Firenze grazie all’appoggio degli spagnoli e della cosiddetta lega Santa promossa da Giulio II contro la monarchia francese, storica alleata dei fiorentini. L’avvenimento segnò la fine della Repubblica, con il conseguente allontanamento del gonfaloniere Piero Soderini e di tutti coloro che, nel precedente regime, avevano ricoperto cariche istituzionali. Era il caso anche di M., con l’aggravante ulteriore di essere sospettato di partecipazione alla congiura antimedicea ordita da Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi. Niccolò fu processato e condannato. Dopo la dura esperienza del carcere e della tortura, nel 1513, si ritirò nel suo podere dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina, presso Firenze, in attesa che gli eventi evolvessero nella direzione di un nuovo impiego politico, ambito anche per le ristrettezze economiche cui l’inusitata condizione di disoccupato lo costringeva. Nel suo forzato esilio, tutto dedito alla lettura degli antichi e alla scrittura, M. scrisse il P., che probabilmente revisionò in tempi successivi, quasi certamente nel 1514.
Siamo anche in una fase di crisi e di sconfitta complessiva dell’Italia del tempo, i cui Stati sembravano incapaci di trovare un ruolo non subalterno nel contesto europeo e una spinta di rinnovamento della loro compagine interna. Un punto basso e disperato, estremo, la soglia di un baratro che M. intravede, ma al cui tragico, definitivo inverarsi egli poi non potrà assistere: l’angoscia di questa caduta (di Firenze e di tutta la realtà italiana) coglie M. fin dal 1513 e – com’era nel suo stile – egli tenta di fornire una risposta adeguata alla scoraggiante gravità dei problemi che si affollavano alla sua consapevolezza politica. Risposta che si muove su alcune direttrici che gli erano ben presenti fin dal suo apprendistato presso la segreteria della Repubblica fiorentina e testimoniate dai suoi cosiddetti scritti politici minori anteriori al 1513.
Una delle questioni più dibattute riguarda la vicenda compositiva del Principe. Federico Chabod, in un famoso intervento (Sulla composizione de Il Principe di Niccolò Machiavelli, «Archivum romanicum», 1927, 11, pp. 330-83, poi raccolto nel fondamentale Scritti su Machiavelli, 1964, pp. 137-93), polemico nei confronti delle precedenti tesi di Oreste Tommasini e di Friedrich Meinecke, sembrò avere risolto una volta per tutte, con argomentazioni inoppugnabili, il problema della datazione dell’opera: essa sarebbe stata composta tra il luglio e il dicembre del 1513, nel periodo della forzata inattività, dell’‘esilio’ di M., e sarebbe stata scritta quasi di getto. Gennaro Sasso ha successivamente arricchito questa tesi, precisando le ipotesi di intreccio tra la stesura del P. e quella dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: M., per comporre il P., avrebbe interrotto un trattato «sulle repubbliche» a cui stava lavorando. A tale trattato sarebbe tornato in seguito, rimaneggiandone forse l’impostazione originaria e trasformandolo sostanzialmente in una singolare forma di commento organico ad ampio raggio del testo liviano. Il nucleo primitivo (e preesistente al P.) corrisponderebbe ai primi diciotto capitoli del primo libro dei Discorsi: il resto dell’opera sarebbe stato elaborato in seguito tra il 1515 e il 1519. Tale ipotesi, con articolazioni diverse, è stata corroborata dagli interventi di Felix Gilbert e, più di recente, di Paul Larivaille. Nel tempo, tuttavia, sulle fasi di stesura del P. e sulle sue possibili, varie datazioni, il dibattito si è riacceso, grazie ad alcuni interventi di Martelli, che sono poi confluiti nella sua edizione critica dell’opera: partendo da alcune aporie e contraddizioni presenti nel testo machiavelliano, Martelli ha sostanzialmente proposto una doppia redazione del Principe. Del resto già da tempo si era avanzata l’ipotesi che la dedica a Lorenzo de’ Medici e lo stesso capitolo finale fossero probabilmente da collocare tra il 1515 e il 1516. Martelli si è spinto oltre e ha datato al 1518 (anche per ragioni di «occasioni» storiche individuabili) il rimaneggiamento profondo e l’attuale forma del testo del P., accettando comunque il 1513 come data di riferimento per il primo nucleo, la prima stesura del trattato. A questa ipotesi si sono opposti Sasso e Inglese, a sua volta editore critico del P., rielaborando la tesi di Chabod nel senso di una composizione in due fasi, la seconda delle quali comunque conclusasi entro il maggio del 1514. Conferma tale schema, anche alla luce di taluni contributi filologici di Martelli, Inglese nella nuova edizione del P. (Torino 1995, 20132, e Roma 2013).
Nel testo a noi noto, l’opera si apre con una dedica a Lorenzo di Piero de’ Medici, cui Leone X aveva affidato la guida del potere familiare a Firenze. Sempre dalla già citata missiva a Vettori veniamo a sapere che l’opera doveva essere inizialmente dedicata a Giuliano de’ Medici, che tuttavia morì nel 1516. M. rivolse allora la dedica a Lorenzo de’ Medici il Giovane, duca di Urbino. La volontà di offrire l’opera agli attuali signori di Firenze e, forse, il desiderio stesso di mettersi al lavoro su un testo che si occupi del governo monarchico (così potrebbe ancor meglio spiegarsi una possibile interruzione dei Discorsi per affrontare la materia del P.) risponderebbero al desiderio di M. di rientrare nella politica attiva, anche per far fronte – come si è accennato – alle difficili contingenze economiche in cui era venuto a trovarsi dopo il termine del suo segretariato. Non è un caso che, nella dedica, M. insista sull’esperienza acquisita negli anni precedenti e sullo studio protratto per lungo tempo. Le valutazioni sul possibile gradimento dell’opera da parte dei Medici furono, tuttavia, clamorosamente disattese dai fatti: il trattato venne accolto con indifferenza e il suo autore dovette aspettare non pochi anni per essere richiamato a ricoprire incarichi ufficiali (è del 1520 la richiesta da parte del cardinale Giulio de’ Medici, il futuro papa Clemente VII, di dedicarsi alle Istorie fiorentine).
L’opera, in volgare, consta di ventisei capitoli (ognuno dei quali porta un titoletto latino poi volgarizzato), che possono essere suddivisi in tre parti: nella prima (capp. i-xiv), M. compie un’attenta disamina delle varie tipologie di Stati, affrontando il loro funzionamento, la loro evoluzione storica, la loro organizzazione civile, politica e militare, con particolare attenzione, in quest’ultimo caso, a un problema che gli stava molto a cuore: quello del superamento dell’uso delle milizie mercenarie. Nella seconda parte (capp. xv-xxiv), la più famosa per la sua presunta ‘immoralità’, M. analizza le doti necessarie al principe, al reggitore di Stati, per mantenere saldo il proprio potere e «in civiltà» la comunità governata, doti improntate a un realismo spregiudicato e inusitato nella precedente trattatistica politica. Nella breve terza parte (capp. xxv-xxvi), M., traendo le conclusioni dalle lucide analisi condotte in precedenza, e accendendo il suo stile di una commossa enfasi retorica, esorta alla fiducia nelle possibilità di intervento dell’uomo, dei soggetti politici nella storia e negli eventi e, in particolare, incita il dedicatario nipote di Leone X a farsi punto di riferimento per la rinascita dell’Italia e la cacciata degli stranieri dai suoi Stati. Capitoli che ovviamente infiammarono – letti in una chiave particolare – gli uomini del nostro Risorgimento e che rimasero tra i più famosi in una certa cultura patriottica e nazionalista italiana. La dedica indica le due «fonti» principali del discorso machiavelliano:
Desiderando io adunque offerirmi alla vostra Magnificenza con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato in tra la mia supellettile cosa quale io abbia più cara o tanto essistimi quanto la cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche; le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate e essaminate e ora in uno piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenza vostra (Principe dedica 2; corsivo nostro).
L’opera inizia con l’esame dei diversi tipi di principato (ereditario, nuovo e misto) e prende in considerazione per quali vie – «o con l’armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù» (Principe i 4) – a essi si pervenga. Il cap. ii, dopo l’importantissima indicazione della stesura di almeno una parte dei Discorsi («Io lascerò indreto el ragionare delle republiche, perché altra volta ne ragionai a lungo», § 1), tratta dei principati ereditari. M. li ritiene stabili e sicuri: al principe ereditario, infatti, è sufficiente mantenere gli ordinamenti dei suoi predecessori per reggere lo Stato; può usare con parsimonia la forza, dal momento che, se il principato ereditario è molto antico (l’esempio addotto è il ducato di Ferrara), nessuno ricorderà più le prove di crudeltà o di vendetta a suo tempo necessarie per imporsi (l’atteggiamento nei confronti della parte avversa ritorna spesso nel P., e rimanda alla rissosa politica rinascimentale). Viceversa, oggetto dell’analisi del cap. iii è ciò che M. chiama «principato misto» (→ principato: principato misto): il termine, coniato dall’autore non senza incertezze («che si può chiamare tutto insieme quasi misto», § 1), designa uno Stato acquisito da parte di un principe che già precedentemente era signore di un proprio territorio, come il re di Francia Luigi XII, impegnato nella conquista del ducato di Milano allo scadere del 15° secolo. Il principato «misto» rientra dunque nella categoria dei principati nuovi, quelli di più difficile mantenimento. La gestione dei principati nuovi, ovvero acquistati con le armi, comporta problemi di difficile soluzione, derivati dall’instabilità del popolo e dall’animosità degli avversari. Il primo, infatti, è disposto a cambiare spesso signore, credendo di migliorare le proprie condizioni e finendo spesso per ritrovarsi in condizioni peggiori di quelle precedenti; i secondi, offesi «con gente d’arme e con infinite altre iniurie» (§ 2) dai vincitori, non dimenticano facilmente i torti subiti.
I principati possono essere governati con autorità assoluta, sull’esempio di Alessandro Magno o dei turchi, o con l’aiuto dei baroni, come il re di Francia (capp. iv-v), mentre il cap. v allarga il discorso alle «repubbliche». Il cap. vi, invece, affronta i principati «nuovi» (ossia di nuova costituzione) istituiti con la «virtù» e con le armi proprie (Mosè, Ciro, Romolo, Teseo, Gerone), mentre il vii, quelli che si acquistano con la «fortuna». Tra i moderni, Francesco Sforza pervenne al principato con la virtù, Cesare Borgia con la fortuna (cap. vii). Quest’ultimo serve a M. per esaltare le capacità strategiche del principe «nuovo»; è vero, infatti, che costui divenne principe per una somma di fortunati eventi e in virtù delle armi del padre, ma seppe poi mantenersi nel dominio grazie alla propria «virtù», diventando, in un certo periodo, arbitro delle sorti dell’Italia centrale. A questo punto il P. analizza altri casi: l’ascesa a principe del privato cittadino, o per via di scelleratezze (Agatocle di Siracusa), o con il favore di sostenitori (capp. viii-ix). Alla sicurezza militare è dedicato il cap. x, mentre la natura privilegiata dei principati ecclesiastici, con l’elogio della politica di Alessandro VI e Giulio II, è oggetto di analisi nell’xi. I capitoli successivi (xii-xiv) sono dedicati alla questione delle milizie. M. prende in esame le necessità militari del principato, distinguendo diversi tipi di esercito: quello costituito da armi proprie (i sudditi stessi del principe, da lui direttamente assoldati); da armi mercenarie; da armi ausiliarie (messe a disposizione da un altro principe); e da armi miste (cioè sia proprie sia mercenarie). L’idea che esista un nesso inscindibile tra strutture militari e ordinamenti civili attraversa tutta l’opera di M., il quale del resto alla costruzione di un esercito regolare fiorentino lavorò per gran parte della propria vita. Già in uno scritto del 1506, La cagione dell’Ordinanza, dove la si truovi, e quel che bisogni fare, M. argomenta l’inseparabilità di armi e governo: «Io lascerò stare indreto el disputare se li era bene o no ordinare lo stato vostro alle armi, perché ognuno sa che chi dice imperio, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandano [...] dice iustizia e armi» (§ 2, in SPM, p. 470). Il motivo sarà poi ribadito perentoriamente in Discorsi III xxxi: «il fondamento di tutti gli stati è la buona milizia; [...] dove non è questa, non possono essere né leggi buone né alcuna altra cosa buona» (§ 22). L’attività militare è per M. più un fatto di coesione sociale che una mera necessità di difesa. Il cap. xiv, conclusivo di questa sezione, prende in esame le qualità che il principe deve possedere sotto il profilo militare.
Nuovo oggetto della riflessione dello scrittore è la personalità del principe, con le sue qualità individuali e comportamentali (cap. xv): se egli debba essere liberale o parsimonioso (cap. xvi), amato o temuto (cap. xvii). M. mostra come il principe debba avere contemporaneamente le qualità della «golpe» e del «lione» (cap. xviii) e saper evitare l’odio dei sudditi. Dopo aver discusso della necessità di evitare l’odio e il disprezzo, dell’utilità delle fortificazioni e di altre puntuali questioni (capp. xix-xx), M. affronta le qualità utili a ottenere la stima dei cittadini (cap. xxi), prima di soffermarsi ad analizzare di quali consiglieri il principe debba circondarsi (cap. xxii) e, nel contempo, di come evitare gli adulatori (cap. xxiii). A questo punto, M., valutata la grave situazione politica e militare della penisola, la cui responsabilità è attribuita all’inerzia dei principi italiani (cap. xxiv), dispiega una lunga riflessione sulla «fortuna» e su come le si debba resistere (cap. xxv). Premessa fondamentale, questa, all’ultimo capitolo, nel quale M. auspica l’avvento di un principe «nuovo» in grado di liberare l’Italia dal dominio straniero (cap. xxvi). L’opera si conclude con la citazione di alcuni versi della canzone “All’Italia” di Francesco Petrarca.
Il P. si ricollega a quella stessa manualistica sul buon governo da cui vuole prendere le distanze. La materia è ordinata per grandi blocchi ragionativi, sì da esaurire tutti gli argomenti connessi all’esercizio del potere da parte del principe. Eppure, si è detto, M. rovescia dall’interno il genere della trattatistica politica, valendosi di premesse concettuali affatto nuove, attraverso uno stile altrettanto inedito ed efficace. Ancora una volta il cambiamento di rotta è dichiarato nella dedica:
La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche [...]; perché io ho voluto o che veruna cosa la onori o che solamente la varietà della materia o la gravità del subietto la facci grata (Principe dedica 4).
Effettivamente, la lettura di una qualunque pagina del P. non produce alcuna impressione di armoniosa eleganza, ma, al contrario, suscita l’effetto di una densità aspra e difficoltosa. Si tratta, tuttavia, di uno stile funzionale agli obiettivi che M. si è proposto. Il lettore viene condotto, attraverso la consequenzialità di un ragionamento incalzante e persuasivo, all’evidenza di una conclusione che non ammette repliche. La chiarezza dimostrativa del discorso passa soprattutto dalla paratassi, ovvero dall’uso abbondante di frasi coordinate piuttosto che di subordinate: ne consegue che ogni pagina del P. ha un ritmo frantumato e nervoso, il ragionamento si raggruma attorno a brevi frasi apodittiche, di carattere assoluto, ma di indubbia efficacia argomentativa. La consequenzialità del ragionamento, resa con brevi frasi coordinate, conduce a una conclusione assoluta e irrefutabile. Altrettanto frequente è l’uso della congiunzione disgiuntiva «o»; in tal modo i termini dell’argomentazione si dispongono per coppie oppositive che escludono qualunque tipo di compromesso, qualunque possibilità di sfumatura o di cautela. Tutto il cap. i è costruito in questo modo: «E’ principati sono o ereditarii [...] o sono nuovi. E’ nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che gli acquista [...]» (§§ 2-3). L’assolutezza del discorso, la sua efficacia dimostrativa aliena da qualunque incertezza, passa anche attraverso l’uso di verbi categorici, che esprimono l’idea della necessità: «conviene», «debbe», «si debbe» e così via. Il P. non cerca mai strade intermedie, scorciatoie buone a tacitare le coscienze, ma inefficaci dal punto di vista pratico: il ragionamento stringente e asseverativo è anzi lo specchio di una politica che non può permettersi titubanze o temporeggiamenti. Da ogni singola scelta passa il successo o l’insuccesso del sovrano, che può significare sopravvivenza o morte dello Stato. Lo stile del P. è la perfetta traduzione, in termini letterari, di questa concezione drammatica della politica.
La persuasività che M. riesce a donare spesso alle pagine del P. passa anche attraverso il ricorso a un lessico fortemente connotato nel senso della concretezza, con una terminologia derivata dall’esperienza quotidiana che meglio può imporsi all’immaginazione del lettore: la metafora del fiume in piena applicata alla fortuna, o quella della casa a rischio di crollo applicata allo Stato (con l’uso di termini tecnici come ripari, argini, ruinare che vengono direttamente dalla conoscenza dell’arte edificatoria). Di ambito animale è l’altra grande serie di metafore del cap. xviii, nelle quali si auspica per il principe un comportamento che sappia congiungere quello della volpe e quello del leone. Infine, il fatto che M. attribuisca ad alcune parole un preciso significato tecnico (si pensi a due termini che ricorrono spesso come occasione e riscontro) concorre al tentativo di rendere la politica una disciplina rigorosa, sottratta agli incerti confini dell’ideale e consegnata invece alla perentorietà della verifica e della prova.
Sempre nella lettera del 10 dicembre 1513 a Vettori, M. suggerisce alcune tematiche principali dell’opera: «che cosa è principato, di quali spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono» (Lettere, p. 296). Il nucleo centrale della riflessione si appunta, dunque, sulle forme del potere monarchico e sulla possibilità, per il principe, di mantenere saldi i propri domini. Come lascia intuire lo slancio ideale dell’ultimo capitolo, si tratta di una riflessione tutt’altro che svincolata da contingenze reali, dettata anzi dall’urgenza di una risposta alla crisi che stava attraversando i vari potentati della penisola: dal 1494, anno della discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, i piccoli Stati italiani si erano ritrovati in balia degli scontri tra le grandi potenze europee: Francia, Spagna e impero germanico, a cui si aggiungeva, sullo stesso suolo italiano (e almeno fino al 1527, anno del sacco di Roma), lo Stato della Chiesa, sempre pronto a fare e disfare alleanze per ribadire il proprio potere e ampliare eventualmente i propri territori.
Di fronte dunque a una situazione così drammaticamente instabile, del tutto inutile sarebbe risultato presentare un’opera astratta e lontana da ogni riferimento al presente, quali erano i trattati medievali e umanistici sul buon governo: le opere di Egidio Colonna, del Platina, di Giovanni Garzoni o di Giovanni Pontano, solo per citare alcuni nomi, presentavano un catalogo ideale di virtù attribuibili al principe, senza porsi alcun interrogativo sulla reale incidenza di esse nella politica attiva. Il principe doveva essere buono con i sudditi, liberale, prudente, saggio e capace di circondarsi di consiglieri altrettanto saggi. Questo ritratto ideale viene messo in discussione nel P.: non è l’«immaginazione» di qualità impraticabili che interessa a M., bensì la «verità effettuale della cosa» (xv 3), ovvero l’analisi obiettiva e senza infingimenti della pratica politica, con tutte le sue asperità e le sue crudezze. Ogni scrupolo moralistico, ogni astratta fantasia viene bandita in nome di una disamina il più possibile certa e irrefutabile dei fenomeni del potere e della loro ricaduta sulla compagine civile.
Forse proprio le tumultuose vicende italiane hanno condotto M. a una concezione drammatica della politica: gli Stati sono continuamente soggetti ai pericoli di un’aggressione esterna o a disordini interni, i principi al tradimento degli alleati o alla rivolta dei sudditi; ogni mossa del sovrano deve perciò prevedere i fattori di rischio così da disinnescarli; ogni strategia deve essere approntata a partire da una valutazione attenta dello scenario politico, da una conoscenza approfondita della realtà oggettiva.
La ricerca di regole universali, di leggi valide in ogni circostanza, è infatti l’altra grande novità del trattato machiavelliano, dalla quale esso riceve il suo tipico stile asciutto e oggettivo, quasi scientifico. Perché questo sia possibile, M. deve presupporre che il comportamento umano presenti sempre delle costanti invariabili, pur mutando i tempi e le circostanze. Ecco perché nella dedica a Lorenzo de’ Medici egli sottolinea la necessità dell’«esperienza» e dello «studio» insieme: la prima, misurata sui testi degli antichi storici, consente di verificare l’immutabilità dell’animo umano, e quindi della condotta degli uomini di potere; il secondo consente di estrarre dalle opere della tradizione il succo di un insegnamento da mettere a frutto nel presente. Non a caso i capitoli del P. pongono quasi sempre a confronto un esempio tratto dalle storie antiche e un esempio moderno, per ricavarne argomentazioni conclusive su ciò che di giusto o sbagliato ha commesso qualche sovrano. E gli errori, in una realtà piena di trappole e di rischi, sono sempre in agguato.
Del resto, la rappresentazione degli uomini che si dispiega nelle pagine del P. è stata non a torto definita un’antropologia negativa; lungi dall’azzerare qualunque ipotesi di costruzione politica, essa costituisce anzi il piedistallo per la condotta del principe ‘nuovo’: «uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni» (xv 5); «perché degli uomini si può dire questo, generalmente, ch’e’ sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ periculi, cupidi del guadagno; e mentre fai loro bene, e’ sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli [...] quando il bisogno è discosto: ma quando ti si appressa, si rivoltono» (xvii 10), «e se li uomini fussino tutti buoni questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi e non la osservarebbono a te [scil. la fedeltà], tu etiam non l’hai a osservare a loro» (xviii 9).
Il mondo che emerge dalle opere di M. appare un recinto di risse e conflitti, dove primordiali istinti di sopraffazione si sommano a movimenti vili o circospetti, ad ambigui servilismi o sfrontati voltafaccia. Un recinto dove fanno capolino l’indole animalesca dell’uomo, la sua ineludibile tensione alla sopravvivenza, le sue antiche pulsioni ai comportamenti violenti e rabbiosi. Eppure, questa presa di coscienza, tanto disillusa quanto perspicua, sull’indole scellerata dell’uomo, innesca un nuovo modo di concepire la politica, depurato di qualunque facile moralismo, di idealismi astratti e dunque inservibili.
La grande lezione di M. sta dunque, prima di tutto, nella lucida consapevolezza della matrice ferina dell’uomo, nella possibilità di educarla e coltivarla per metterne a frutto i lasciti di energia primordiale e impetuosa, di forza straordinaria, di astuzia selvaggia e spontanea. Una lezione che rinuncia a letture troppo elementari della storia e della realtà contemporanea, per aprirsi a una visione ampia, complessa e stratificata del reale e delle sue declinazioni politiche. Il tentativo di M. è di sbaragliare qualunque costruzione di maniera per andare al cuore della verità: ecco perché il suo principe, quando serva, deve imparare a poter «essere non buono». Allo stesso modo, il principe che descrive M. deve, se può, essere generoso; ma dal momento che essere generosi costa caro, è meglio essere parsimoniosi; in tal modo non si dilapideranno i beni dello Stato (cap. xvi). Il principe nuovo dovrà poi essere pietoso, ma all’occorrenza anche crudele; e di fronte al dilemma se sia meglio per un principe essere amato o temuto, M. non esita a optare per la seconda soluzione, perché gli uomini sono volubili e, se per caso desiderano ribellarsi al dominio imposto, colpiranno più volentieri quel principe che si sia dimostrato amorevole; infatti l’amore è sorretto da un vincolo di riconoscenza che si può facilmente tradire, laddove il timore, fondandosi sulla paura della punizione, non abbandona mai i sudditi (cap. xvii). Ancora: il principe deve essere leale, ma può, quando occorra, tradire la parola data. Infine (ecco l’attitudine ferina imporsi con l’energia che le è propria), se le leggi che il principe si è dato, e che ha dato al proprio Stato, non bastano a conservarlo, egli può ricorrere alla forza, tipica delle bestie. Deve insomma mostrarsi uomo e animale insieme: l’astuzia della volpe e la forza del leone possono aver ragione di ogni nemico. Il mondo che emerge dal P. (ma anche dai Discorsi o dalla Mandragola) è un mondo di vessazioni e violenze, dove brulica un’umanità infida o codarda, meschina o abietta, e dove solo chi riesce a guidare i propri istinti, servendosi dell’energia primordiale che li intride, sarà poi in grado di sbaragliare la forza altrettanto primordiale e dirompente rappresentata dalla «fortuna», per realizzare, in via definitiva, il bene dello Stato.
L’audacia di chi riesce a imporsi sugli eventi, guidando l’energia ferina di cui è impastato l’uomo, diventa per M. il terreno principale su cui lanciare la sfida ai teorici che l’hanno preceduto e, in ultima istanza, alla politica del proprio tempo. Una sfida di liberazione, di affrancamento furioso dagli impacci che ancora opprimono gli uomini in quello scorcio di secolo (e d’altro canto il riso, che tanta parte, non sempre adeguatamente esplorata, ha nell’opera di M., che altro è se non un’istanza di liberazione franca e assoluta?). È un punto, questo, che va ribadito con forza, proprio perché, di là dalla congerie di interpretazioni che i secoli hanno depositato sull’opera del Segretario, appare essenziale alla comprensione di una serie di testi che altrimenti si rischierebbe di cogliere solo nelle loro necessità contingenti, nell’angusta dimensione di un’occasionalità generata da circostanze biografiche sfavorevoli, e non nella portata amplissima di un pensiero che si svolge coerentemente dalle prime alle ultime pagine con una carica si vorrebbe dire quasi eversiva nella sua novità dirompente (Dotti 1979 e 2003).
Dunque lo sforzo di M. consiste nel tentativo di sottrarre l’uomo, come individuo e soggetto politico, ai pesanti vincoli naturali e ideologici che lo opprimono. La virtù (questo termine tanto semplice e tanto equivocato) altro non è se non la scoperta di poter agire sulla realtà arginandola e modificandola per non esserne travolti e riuscendo anzi a dominarla per volgerla se possibile a proprio favore. È una «virtù» che ha perso qualunque connotato religioso o morale e si definisce, per l’uomo politico machiavelliano, soprattutto come spregiudicata capacità di leggere gli eventi, riuscendo a imporsi su di essi con un’energia (intellettuale e fisica) mai prima conosciuta.
Non che gli eventi politici contemporanei non abbiano formato i nuclei di questo pensiero, come giustamente Carlo Dionisotti, Felix Gilbert, Gennaro Sasso e altri hanno sottolineato; ma è indubbio che tale pensiero poi li travalichi come lascito politico e filosofico per i secoli a venire. Se anche non si vuole riconoscere la cifra di una progettualità compiuta alle istanze liberatorie machiavelliane, non si può tuttavia non accettarne la carica di straordinaria novità rispetto alle grandi figure che avevano fondato la tradizione del sapere volgare, e che l’autore del P. ben conosceva e amava: per Dante l’uomo – già libero e indotto al peccato solo dalla volontaria rinuncia a tale condizione – trova la sua radice primaria nella bontà e nel desiderio di Dio; per Petrarca (esemplari le pagine del Secretum) la «nativa virtus» di ciascuno si realizza nell’amore celeste, mentre le passioni la traviano e la riducono in catene; per M., invece, il nucleo che fonda l’uomo è un’istintività ferina, impastata di egoismo e crudeltà: tuttavia tale ferocia originaria può essere corretta e guidata dal «savio datore di leggi» (Istorie fiorentine III i), in grado appunto di convogliare l’energia primitiva e naturale degli istinti verso un solido dominio di sé e della realtà circostante, così da realizzare l’armonico crescere dello Stato, il suo mantenimento e la sua difesa.
Si capisce bene come, in un siffatto orizzonte di pensiero, la politica divenga il luogo di un agonismo sfrenato, dove riesce a imporsi chi è dotato di un decisionismo rapido e non sempre indolore, di un coraggio che non arretra di fronte a scelte estreme, in definitiva di una maggiore e impavida spregiudicatezza: il luogo dello scontro e della lotta per la trasformazione della realtà e per il consolidamento delle forme migliori della sua organizzazione civile e sociale, non di una pacificazione ingenua e ingannevole. In esso necessariamente la radice di ferina impulsività che è in noi, incoercibile proprio perché pertiene alla nostra natura ‘animale’, erompe con una violenza che, imprevedibilmente, nell’agone spietato della politica, si carica di valori anche positivi. Individuare tale terreno e i modi della sua articolazione vuol dire, tra l’altro, conoscerlo e praticarlo per quello che esso effettivamente è, non per quello che si vorrebbe che fosse: non si possono truccare le carte o velare le piaghe.
Se si vuole, questo è un esito di Umanesimo radicale in M.: la scoperta del terreno della politica vuol dire – nella sostanza – una scoperta di liberazione dell’uomo. L’uomo può agire, modificare, trasformare la realtà (anche naturale) e non solo esserne succube, seppure a prezzi a volte altissimi. Singolarmente proprio i due capitoli finali del ‘monarchico’ P. esprimono al meglio questa profonda sostanza ‘libertaria’ di M., che tanto sovente si è soliti inseguire in altre pagine. Ma il terreno della politica, e le potenzialità che vi sono connesse, esigono un dimensionamento istituzionale, sociale, legislativo di grande respiro, che per M. non può attuarsi se non nelle forme moderne in cui gli Stati europei si vanno organizzando: attraverso processi tutt’altro che indolori e in cui la redistribuzione del potere deve correre parallela a nuove alleanze sociali. In tale clima, la sconfitta delle vecchie oligarchie patrizie e aristocratiche potrebbe infine consentire un ruolo attivo nuovo all’insieme dei ‘governati’, siano essi di una repubblica o di un regno (Sasso 1993; Inglese 2006). Non è un caso che, nel P., nella parte finale della dedica, M. individui una sorta di rapporto indispensabile e biunivoco tra governanti e governati a partire da una bellissima metafora tratta dalla pratica cartografica:
[...] così come coloro che disegnano e’ paesi, si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ luoghi bassi si pongono alto sopra a’ monti, similmente a conoscer bene la natura de’ populi bisogna essere principe e a conoscer bene quella de’ principi conviene essere populare (Principe dedica 5).
L’etica di M. e del P. è, come ha mirabilmente mostrato il filosofo Isaiah Berlin (→), un’etica laica e ‘romana’, non certo ‘cristiana’, ovvero propria di valori connessi al bene dello Stato come premessa ineludibile per il bene dei singoli, così come appunto insegnava il modello antico, romano della virtus civile e militare. Per questo al nuovo principe si richiede di essere attento anche a una disincantata e realistica presa d’atto della natura umana. Il cap. xviii è una pietra miliare della storia del pensiero politico, filosofico, antropologico e letterario. M. coglie nell’intreccio indissolubile tra ‘ferinità’ e ratio lo snodo vincente del principe, legittimando appieno come ‘virtù’ quella componente animale propria dell’uomo e che appare decisiva, se ben conosciuta e condotta, per la sua affermazione nel mondo delle vane simulazioni e dei teatri ipocriti dei potenti.
Con periodi incalzanti e argomentazioni stringenti M. rivoluziona ogni antropologia del passato, classico e cristiano: l’uomo è al tempo stesso bestia e uomo (il Centauro evocato mirabilmente), potenza di istinto, ferinità e ragione. E M. prospetta, per il capace reggitore di Stati, la possibilità di «sapere bene usare la bestia e l’uomo», precetto che fu in grado di applicare, secondo le argomentazioni machiavelliane, Achille, allevato dal centauro Chirone «mezzo bestia e mezzo uomo», a significare, nell’arcano insegnamento del mito, il necessario apprendistato di una duplice natura, perché l’una senza l’altra «non è durabile» (xviii 4 e 6). Tale irriducibile dualismo può essere volto a una buona politica, sfruttando entrambe le componenti dell’uomo:
Sendo dunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la golpe e il lione, perché el lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi; bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci e lione a sbigottire e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono. Non può pertanto uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai da osservare a loro; né mai a un principe mancorno cagioni legittime da colorire la inosservanzia (xviii 7-9).
La forza rivoluzionaria di M. sta proprio nel dichiarare la piena pertinenza della sfera istintuale-corporea e naturalistica come motore anche positivo, e non solo distruttivo, delle azioni, negando contestualmente che la ragione speculativa possa configurarsi (come tutto il pensiero precedente aveva invece sempre sostenuto) quale unica chiave di accesso all’interpretazione e conoscenza del mondo, dell’uomo, delle sue scelte. Non a caso, con un linguaggio all’apparenza semplice, da ‘bestiario’ o da favolistica popolare, M. approfondisce e declina le proprietà di tale natura ferina dell’uomo, inventandosi un linguaggio nuovo per un terreno sconosciuto, per un abisso della natura umana che nessuno aveva mai osato esplorare e che egli marca in modo indimenticabile, per sempre, con le celebri metafore della ‘volpe’, del ‘leone’, dei ‘lupi’. Secoli prima del Romanticismo, di Jekyll e Hyde, di Friedrich Nietzsche e di Sigmund Freud, M. aveva così già colto, aprendo definitivamente lo spartito della modernità, come occorresse ragionare dell’uomo e della sua duplice natura senza infingimenti e moralismi, al fine di conseguire efficaci e giuste scelte politiche.
Il principe deve operare con ogni suo atto per la salvezza dello Stato: è in questo senso che egli assume, nelle pagine machiavelliane, una dimensione quasi ‘titanica’. I suoi sforzi di contrapporsi alle contingenze avverse, di dominarle per il proprio tornaconto, riuscendo a vincere l’umanità infida che lo circonda, nascono dall’impeto di una giovinezza vigorosa e forte, e ne fanno una figura per certi versi ‘eroica’. Il personaggio che, nelle pagine del trattato, più si avvicina a questa immagine di condottiero energico e volitivo, in grado di vincere ogni tipo di circostanza esterna, è Cesare Borgia, presso il quale M. aveva compiuto una serie di ambascerie successive agli inizi del Cinquecento. Niccolò lo aveva conosciuto nel giugno del 1502, in missione per conto del futuro gonfaloniere perpetuo Piero Soderini: il Valentino, con piglio energico e deciso, stava riconquistando al papato tutti i territori ribelli della Romagna, sino a Urbino. In Toscana, la ribellione di Arezzo al dominio di Firenze si diceva fosse fomentata dallo stesso Borgia. Per questo la Repubblica si sentiva stretta d’assedio: il compito di M. era di fornire un ritratto del condottiero, capirne le motivazioni, prevederne le intenzioni. I dispacci che il Segretario invia alla magistratura dei Dieci tradiscono l’ammirazione per il Valentino, descritto come astuto e imperscrutabile, virile, coraggioso, sempre in grado di assecondare gli esiti favorevoli della sorte (Dotti 1979; Dionisotti 1980; Sasso 1993; Inglese 2006). Il ritratto che esce dalle pagine del P. non è meno lusinghiero: «lo essemplo delle azioni sue» (vii 9) è quanto di più vicino all’idea che M. sta elaborando sulla figura del sovrano. Basti dire che il Borgia decide di non «dependere più da le arme e fortuna d’altri» (§ 18); che non ricusa «gli inganni» e non si fa scrupoli di «dissimulare l’animo suo» (§ 21); che piega i signorotti di Romagna inviando loro il suo luogotenente, Ramiro de Lorqua, «uomo crudele ed espedito» (§ 24), ma poi, pensando che l’eccessivo rigore possa alienargli le simpatie della popolazione, ne addossa tutta la colpa allo stesso de Lorqua, squartato senza tanti complimenti sulla piazza di Cesena; che, infine, non solo si occupa della gestione degli affari presenti, ma prepara il terreno per quelli futuri, sgombrando il campo da possibili nemici, conquistando alleati, rafforzando il proprio potere in ogni modo. E se questo potere non gli è valso a mantenere il proprio dominio per un tempo sufficientemente lungo, ciò è dipeso non dai suoi errori, ma da «una estraordinaria e estrema malignità di fortuna» (§ 9).
Siamo di fronte, con il Borgia, all’esempio più tipico della virtù machiavelliana, quell’infuocato nodo di decisionismo, destrezza, astuzia e forza che solo può battere la suddetta «fortuna». Tuttavia, nonostante un solo errore sia bastato a perderlo, l’autore sente di poterlo additare a esempio di principe ‘nuovo’, in quanto è stato in grado di sottrarre il proprio potere al dominio della fortuna per sottometterlo al fermo controllo di una virtù smisurata. Si badi: il significato che M. attribuisce a queste parole è molto lontano da quello comunemente inteso: la «virtù» non ha alcuna connotazione morale; rappresenta invece quel misto di audacia, forza, intelligenza, coraggio attraverso il quale l’uomo può dominare la realtàe imporre le proprie scelte. È dunque una qualità eminentemente positiva, ma secondo un’accezione tutta diversa da quella cristiana. La «fortuna» è, invece, quell’insieme di circostanze che si frappone tra l’obiettivo individuato dall’uomo e la sua realizzazione: è la realtà stessa, che con il suo mutevole e incessante divenire, con quanto di imprevedibile e indeterminabile la caratterizza, può ostacolare il conseguimento dei piani che l’uomo si è dato. L’esito della lotta tra queste due immani potenze è sempre incerto, ma che M. preveda la possibilità, per l’uomo, di vincere le circostanze avverse e dominare la realtà la dice lunga sulla forza propositiva delle sue pagine: ammettere che la «virtù» possa sconfiggere la «fortuna» significa dare all’uomo proporzioni gigantesche, proiettarlo su uno sfondo di battaglie titaniche ed energie sovrumane, significa immaginare la possibilità di un riscatto politico e militare, quel medesimo che sta alla base della redazione del P. e che detta le sue ultime pagine, piene di una tensione etica vibrante e commossa:
E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate, da la fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare ch’e’ non fussi da insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per l[e] variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assimiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano e’ piani, ruinano li arbori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resistere: e quivi volta e’ sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ ripari a tenerla (xxv 1-7).
La spregiudicatezza del principe deve essere lungimirante, avendo come fondamento la consapevolezza chiara del dolore e del sangue che l’azione politica può comportare, e non illudendosi che la tensione ai comuni valori morali (bontà, magnanimità, comprensione) garantisca necessariamente lariuscita di tale azione. È naturale che questo nuovo modo di interpretare le dinamiche dello scenario politico nasca dai rapporti tumultuosi tra gli Stati e gli staterelli della penisola nell’epoca in cui M. si trova a vivere: non a caso la sua formazione egli se l’era fatta ‘sul campo’, viaggiando da diplomatico per tutta la penisola e anche fuori, potendo valutare le pulsioni vendicative, i desideri di sopraffazione, le sospettosità, le viltà o i motivi di mero interesse che muovevano l’azione dei signori e dei potenti.
È in tale quadro che M. vuole sottolineare con forza la capacità e la possibilità dei soggetti di intervenire – adeguatamente attrezzati e formati – nella realtà «oggettiva» per modificarla e rinnovarla, verificando la possibilità della virtù di contrastare la fortuna, l’oggettivo, imprevedibile svolgersi degli eventi, la barriera stessa della umana progettualità razionale. Chi si muove nel terreno della politica deve conoscere i compromessi, le violenze, le astuzie, che vi convivono accanto agli slanci ideali, agli atti eroici, al gusto del progetto utopico; ovvero occorre guardare alla «verità effettuale» delle cose come presupposto essenziale per conoscerle prima ancora che per trasformarle:
Ma sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverebbe vivere che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare impara più presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni (xv 3-5).
Un’ansia di conoscenza – ‘scientifica’ e valliana in un certo senso – guida M. a esplorare i meandri anche più tortuosi e aspri della realtà: occorre davvero a tutti i costi trasformare il mondo e liberare gli uomini dalle catene dell’oggettività ineluttabile (la fortuna); e per questo è necessario un piano di ampio respiro, capace di comprendere al suo interno sia le tappe audaci di quel processo sia i modelli passati che ne hanno forgiato le radici e mostrato l’umana fattibilità. In M. la storia e gli eroi del mondo antico non sono mai meri exempla di ciceroniana ascendenza, statue da venerare e riprodurre nella loro ieratica immodificabilità: sono la prova tangibile delle possibilità dell’uomo, dei vasti confini della sua capacità progettuale, il concreto – in questo caso sì – exemplum dell’inverarsi della virtù vincitrice, una sorta di ‘rivelazione’ laica sul destino dell’uomo nel mondo. M. è della tempra di quei grandi pensatori moderni che hanno fermamente creduto che conoscere il mondo e la sua storia fosse connaturato con la volontà stessa di trasformarlo: che è poi fiducia nella ‘trasformazione’, contro ogni rassegnazione volta a relegare l’uomo entro i confini angusti del fatalismo, del provvidenzialismo, del meccanicismo. In questo orizzonte va letto anche il recupero operato da M. delle figure bibliche che ricava per lo più dall’Antico Testamento (si pensi al Mosè del cap. vi): sono i profeti ‘armati’ da lui facilmente assimilabili – quanto a ‘virtù’ – agli eroi romani.
Di questa sostanza, insieme etica e politica, è materiata la proposta lucida e coraggiosa, la sfida del P.: di fronte a una situazione disperata, caratterizzata proprio dall’incapacità di capire e agire dei signori italiani schiacciati dal rapido mutare degli eventi su scala mondiale, M., lungi dall’arrendersi, dal cinico rassegnarsi, propone una soluzione estrema che, se non frutterà nell’immediata contingenza storica per cui fu ideata, diventerà in breve tempo – nel bene e nel male – paradigma stesso della politica come tale, intesa come risposta dell’uomo alla sfida che il tempo, gli eventi, la natura incessantemente gli pongono.
Metodologicamente arcaiche, quindi, e vuote le dispute più o meno dotte che in passato si accesero sulle presunte contraddizioni e lacerazioni tra il M. ‘repubblicano’ dei Discorsi e quello ‘monarchico’ del P.: Gennaro Sasso, Isaiah Berlin, Nicola Matteucci, Paul Larivaille, Ugo Dotti, Giorgio Inglese, fra gli altri, lo hanno giustamente ribadito. Con il P. non era tanto in gioco infatti una banale questione di schieramento ideologico, quanto la natura stessa della politica a una sua prova estrema: il degrado italiano (italiano – si badi – non solo fiorentino) era giunto a un punto tale che occorreva rapidamente sia riconsiderare a fondo la realtà in cui ci si trovava a operare (senza veli e ipocrisia), sia proporre soluzioni adeguate. Forse che l’Italia del primo Cinquecento poteva essere realisticamente tratta fuori dalla sua crisi mortale ricorrendo a un modello repubblicano valido per alcune città-Stato (Firenze, Venezia), ma certamente non adeguato per soluzioni più ampie? La nuova Europa, l’Europa alle cui profonde trasformazioni territoriali e istituzionali M. aveva sempre guardato con occhi di antesignano, andava ormai riaggregandosi per forti e compatti Stati monarchici a vasto raggio ‘nazionale’ (il referente caro a M. e a cui egli dedicherà acutissime considerazioni è soprattutto la Francia): di qui la proposta del P., che tiene conto e del degrado politico italiano e delle linee di tendenza dominanti nelle grandi realtà europee. Solo un sovrano capace di dominare su un vasto territorio (non necessariamente ‘nazionale’ nell’accezione risorgimentale del termine) e di farsi quindi punto di riferimento per tutti gli Stati italiani avrebbe potuto risollevare le sorti, altrimenti perdenti, dell’intera penisola e dei suoi popoli.
Tutto ciò non è affatto in contraddizione con l’anima sicuramente ‘libertaria’ di M., alla cui sostanza egli continuerà a ispirarsi per riflettere su realtà limitate come le città-Stato di antica matrice repubblicana (Firenze in primis): e per Firenze egli sempre con ostinazione penserà (e lo proporrà perfino ai Medici!) al regime repubblicano come al regime ottimale. Con il P. egli si pone un problema di altra natura e sostanzialmente volto a misurarsi con la dimensione europea delle tendenze politiche e istituzionali: di qui la risposta in apparenza così diversa rispetto ai Discorsi ma così profondamente coerente con la riflessione già da tempo da M. avviata sulla natura della politica (e già lo si osservava) e sulla natura dello Stato e delle leggi in quanto tali.
In altre parole: costruire lo Stato per M. nel P. vuol dire uscire dall’ambigua eredità feudale dei rapporti di mero ‘possesso’ tra signore e sudditi e dall’anarchica parcellizzazione del potere gestito dagli aristocratici, dai ‘gentiluomini’, in una catena di rapporti sostanzialmente personalistici. E vuol dire anche – nelle città-Stato a tradizione comunale – liberarsi dalle incrostazioni soffocanti di una struttura rigidamente corporativa, incapace per un verso di essere realmente rappresentativa e per l’altro di evitare il formarsi di gruppi di potere ‘privati’ costantemente volti all’occupazione della res publica (e le pagine di Sallustio e di Livio fornivano a M. molteplici suggestioni in questo senso). Lo Stato, insomma, è per M. – qualunque sia l’assetto istituzionale in cui si dispieghi – già in embrione lo Stato moderno, quale andava sviluppandosi in altre realtà europee: lo Stato garante verso i suoi ‘contraenti’, lo Stato fondato sul supporto essenziale delle leggi, che ne tutelano la forza e il giusto ordinamento. Non a caso il tema delle ‘leggi’ e quello delle ‘armi proprie’ (non mercenarie) tornano costantemente nelle sue pagine: in essi M. ha individuato giustamente (e ancora Livio, Cicerone, Appiano e i giuristi latini gli sono maestri accanto ad Aristotele e Platone) il fondamento essenziale, ‘oggettivo’ del consolidarsi degli Stati e a essi dedica continua attenzione.
Ecco perché il P. non può essere riduttivamente letto come una sorta di semplice vademecum a uso dello Stato assoluto o – peggio – tirannico: anzi M. è lontanissimo da tale prospettiva. Il sovrano può fondare la sua legittimazione proprio negando l’arbitrio, il semplice possesso privatistico, la gestione faziosa e tirannica del potere. Egli è il creatore e il reggitore di uno Stato ‘nuovo’ in quanto garante di una legalità sostanziale in cui tutti, anche il ‘popolo’, possano riconoscersi e tale anzi da annientare i germi della dissoluzione in chiave feudale, ‘privatistica’ della sua compagine (appunto con il contenimento anche duro dei ‘gentiluomini’, come nel cap. ix: il modello è dato dai re di Francia con le loro vittoriose campagne di ridimensionamento dello strapotere baronale e con la forte centralizzazione statuale del regno). Stati italiani nuovi perché capaci anche di arginare l’anomalia dello Stato della Chiesa, il cui potere temporale e territoriale M. individua lucidamente, sulla scorta di tante suggestioni dantesche e valliane, e come poi rimarcherà anche l’amico Francesco Guicciardini, come una delle cause principali, e da molto tempo, della crisi italiana (cap. xi). Che questo percorso, che il raggiungimento di questo fine realmente ‘nuovo’ possano essere lastricati di sangue, violenza, inganno M. né lo nega né lo occulta: egli semplicemente prende atto di una realtà in cui i «profeti [...] disarmati» (vi 21) sono destinati a soccombere e in cui i progetti che non tengono conto di ciò sono destinati a restare (come tanti trattati medievali e umanistici de principatibus) lettera morta, del tutto inefficaci rispetto al fine di modificare la sostanza profonda delle cose. Sostanza che è costituita anche da rapporti di potere e da rapporti sociali, che M. ben conosce e ben addita al suo principe: la conquista o il consolidamento dello Stato (ed è evidente che M. dedichi più passione ed enfasi al principe ‘nuovo’ e cerchi di costruirsi nel duca Valentino, Cesare Borgia, una sorta di modello funzionale al suo disegno) passano per una redistribuzione dei rapporti di forza e di potere. Come già si diceva, ciò può avvenire innanzitutto con il coatto ridimensionamento dei luoghi eccentrici e occulti del potere stesso, degli Stati nello Stato, dei vecchi privilegi feudali, in una dialettica di nuove alleanze capaci di collocare il ‘popolo’ in una posizione nuova e centrale, da semplice ‘dominato’ o ‘possesso’ a ‘governato’, a soggetto anche attivo nel rafforzamento del principe: in cambio di una legalità che lo tuteli dai soprusi dei mille signorotti locali, in cambio di un ordine di cui esso stesso (per es., con la coscrizione obbligatoria e la partecipazione a un vero e proprio esercito di leva) può essere mallevadore e protagonista.
È in quest’orizzonte che si staglia il concetto di ‘tumultuarietà’, così importante per il pensiero machiavelliano nell’analisi dei rapporti di potere e riconosciuto elemento fondamentale nella dialettica sociale. La ‘tumultuarietà’ aveva reso grande, per M., Roma: i conflitti sociali per lui erano stati infatti un forte motore di innovazione per l’antica Repubblica (Pedullà 2011). Ma si fa subito evidente alla sua riflessione una differenza rilevante tra il passato e i tempi presenti: il conflitto tra patrizi e plebei servì alla coesione dello Stato, promuovendone il progresso civile; gli scontri tra classi di cittadini nella storia fiorentina, invece, avevano determinato solo la rottura dell’unità sociale, contribuendo a indebolire le strutture politiche. Concetto ribadito nei Discorsi: «Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma» (I iv 5; cfr. anche Istorie fiorentine III). E ciò M. sosteneva contro la vulgata magnatizia che aborriva dai conflitti civili nel nome della conservazione dell’esistente. Così, sul piano antropologico e individuale, la ‘tumultuarietà’ dei giovani è l’antidoto unico per arginare l’altrettanto impetuoso corso della fortuna. Tumulto, ferocia, astuzia: un lessico a consolidata connotazione negativa che M. volge in positivo, come forte motore di trasformazione (Sasso 1993; Varotti 1998; Anselmi 2008).
Forte fu il sospetto mantenuto sempre da M. verso i modi storici con cui i Medici tentarono di edificare il loro regime a Firenze: modi ambigui, sostanzialmente fondati proprio su una occupazione ‘privatistica’ del potere e che, nel minare la vecchia compagine comunale-repubblicana, non erano però in grado di sostituirvi una nuova forma-Stato adeguata all’evolversi dei tempi (si veda il cap. ix). Non a caso, solo dopo il 1513 e i papati medicei, solo dopo che l’auctoritas dei Medici sembrerà potersi felicemente coniugare con profonde riforme istituzionali (quanto lunga nei tempi l’ombra del mito augusteo), M. guarderà a essi come a credibili protagonisti di un rinnovamento fiorentino e italiano, di cui appunto il P. vuole essere banditore. Ecco perché allora convivono il ‘monarchico’ P. e i ‘repubblicani’ Discorsi, la fiducia nella virtù e l’attenzione amara alle piene irrefrenabili della fortuna, l’ammirazione per la mente dell’uomo e il disincanto con cui guardare alle sue insopprimibili radici ferine, ai suoi bisogni tanto elementari quanto potenti di una potenza arcana e ancestrale. Senza mai rinunciare però all’esserci nella realtà e nella lotta per la sua modificazione.
In questo senso, M. spazza via di forza gran parte della ideologia spicciola circolante nei ceti dirigenti fiorentini, quegli stessi ceti con cui era stato del resto in continuo contatto durante il suo servizio presso la cancelleria della Repubblica e con cui – più o meno velatamente – aveva già da allora polemizzato: non si tratta solo – come già tanti segnalarono – dell’insofferenza di M. verso la forma mentis del compromesso esasperato, dell’indecisione, della confusione interna dei poteri e delle contraddittorie politiche estere, tutte cose che in effetti «ruinorono» la Repubblica fiorentina e il suo gonfaloniere, il Soderini. Si tratta di un dissenso più profondo: il P. e i Discorsi (ma anche le Istorie fiorentine) rivelano una concezione dello Stato e della politica che non può più essere compresa negli angusti ambiti del vecchio ceto dirigente fiorentino (Gilbert 1977). Né degli ottimati, la cui vocazione all’occupazione oligarchica della Repubblica cozzava contro le fondamentali intuizioni di M.; né dei popolari di governo, la cui miopia e ristrettezza di vedute – tutte ancorate o alla dinamica corporativa delle frazionate libertates comunali medievali o al radicalismo massimalista alla Savonarola – mal si conciliavano con il rinnovamento profondo preteso dai tempi e dai più generali eventi su scala europea.
Nel vigoroso e radicale richiamo alla vera e doppia natura umana si radica l’altro perno rivoluzionario del P., in evidenza nel famoso periodo che chiude il cap. xxv, il capitolo che affronta la possibilità per la virtù dispiegata dai soggetti pronti e perspicaci di sconfiggere i limiti oggettivi che si frappongono alle libere scelte, ovvero alla fortuna:
Concludo adunque, che, variando la fortuna e’ tempi e stando li uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme e, come e’ discordano, infelici. Io iudico bene questo, ch’e’ sia meglio essere impetuoso che respettivo: perché la fortuna è donna, e è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla; e si vede che la si lascia più vincere da questi che da quegli che freddamente procedono; e però sempre, come donna, è amica de’ giovani perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano (§§ 25-27).
Con un’audacia senza alcun precedente, in due capitoli cruciali dell’opera, M. sconvolge così i picchetti della virtus classica, annettendovi sia il campo dell’istintualità animale sia quello della giovinezza, come alleati indispensabili per l’agire politico. I soggetti nuovi che M. evoca come protagonisti (con la famosa immagine della fortuna/donna che solo ai giovani e al loro impeto si sottomette) sono i giovani, le giovani generazioni; la giovinezza con il suo ‘impeto’ «non respettivo», con la sua innata mescolanza di potenza ferina e di raziocinio audace, è l’unica in grado di vincere la scommessa del cambiamento e del rinnovamento politico e militare (è, questo, tema a lui caro, cfr. Arte della guerra I 47; Clizia IV i; Istorie fiorentine III xxvii). In una società in cui da sempre, fin dall’antichità stessa, solo la maturità/vecchiaia e la sua prudenza erano indicate al vertice supremo della saggezza, M., in assoluta controtendenza, proclama e celebra il rinnovamento generazionale come motore primo del cambiamento vittorioso dell’agire politico. Bisognerà aspettare la Rivoluzione francese e i movimenti libertari dei giovani romantici per vedere finalmente in essere questo auspicio di M., così sconvolgente nell’anticipare i percorsi stessi della modernità. Ed è anche per tutto ciò che nella cultura illuministica e libertaria francese, inglese, americana, italiana risorgimentale M. e il P. stesso si accamperanno come viatici essenziali e ineludibili per le nuove generazioni protagoniste delle lotte rivoluzionarie tra Sette e Ottocento. Anche Vittorio Alfieri si infiammava di fronte ai protagonisti che M. enumera come fondatori e savi datori di leggi nei grandi regni del passato: nel cap. vi del P., infatti, sono allineati, in una serialità in cui la storia sacra va fondendosi con quella profana, Romolo, Ciro e Teseo, accanto a Mosè.
Qualcuno ha perciò voluto vedere, in virtù di questi lettori entusiasti del Sette e Ottocento, forti tinte provvidenzialistiche nel capitolo finale, il xxvi, del P.: ma occorre stare attenti a non confondere la grande carica emotiva presente in quella pagina, volta a sottolineare l’irripetibile occasione di un momento fortunato in cui l’ordine delle cose del mondo sembrava poter coincidere con quello umano, con un provvidenzialismo finalistico e metastorico lontanissimo dai presupposti machiavelliani. Il richiamo, non casuale, alla canzone di Petrarca “Italia mia” (Rerum vulgarium fragmenta CXXVIII) con cui si chiude il P. è proprio l’appello, attraverso il poeta che è già ormai nel Cinquecento il maestro consacrato dell’Umanesimo non meno etico che letterario, a un riscatto non più rinviabile (come poi ciò che accadrà negli anni subito dopo la morte di M. drammaticamente mostrerà). Riscatto però da leggersi in controluce con tutti i capitoli precedenti fortemente segnati da quella dura riflessione sulla natura umana e i fini autentici della politica di cui si diceva. Ovvero sapendo di dover guardare all’uomo nella sua interezza, razionale e ferina, senza veli o infingimenti; con quel disincanto sulla sua natura, quel pessimismo sul difficile equilibrio dei suoi istinti, così ben in evidenza nel P.; eppure con la consapevolezza, tutta laica e materialistica, che una tale natura, così come si presenta ed è nella sua «verità effettuale», può trasformarsi – e benissimo ne argomentava Ezio Raimondi (1972) – in un vitalistico e potente trampolino di audacia vincente e innovativa nell’azione politica. La natura non è né negata né sublimata: è accettata, è forgiata, è fatta parte di un progetto complessivo che, lungi dallo svilirla, la esalta anzi al centro del suo ordito, e come tale pulsa – energica e potente – nelle pagine del P., fondative proprio perciò della nostra modernità più drammatica e complessa.
Quanto alle fonti, si può affermare come ampie e motivate suggestioni M. derivò certamente dagli eroi della Roma repubblicana (seppure non sempre citati nel P.), quali li poteva ricavare dalle pagine del suo amatissimo Livio, soprattutto. Non solo per ciò che attiene al fondatore stesso di Roma, Romolo, ma, implicitamente, anche per alcuni dei grandi capi e condottieri «rifondatori», in situazioni di estrema crisi, della potenza romana: fra tutti Furio Camillo (protagonista non a caso di molte pagine dei Discorsi). Così come non gli furono estranei il modello della Ciropedia di Senofonte nonché certe emblematiche figure tratteggiate da Tucidide. Ma il debito di M. verso il mondo classico non si esaurisce certo in uno scarno catalogo dei possibili ‘calchi’ storici cui egli andava adattando la figura del suo principe.
C’è qualcosa di più e di più profondo, che pertiene alla natura stessa del paradigma politico-conoscitivo machiavelliano, al suo radicalismo, al suo realismo, al suo naturalismo: già si disse come sia difficile enucleare fonti medievali per tutto ciò, a eccezione probabilmente del ricchissimo filone averroistico su cui, e proprio a proposito di M., Sasso (1967, 1987-1997 e 1993) ha opportunamente richiamato l’attenzione. Inoltre l’enorme potenzialità liberatoria di energie umane individuata da M. nel terreno ‘duro’ della politica poco ha da spartire sia con l’ideale libertas dell’Umanesimo civile fiorentino sia con le corporative libertates della stessa società comunale, anche allora punto più alto di utopico ‘conciliarismo’ comunitario (Marsilio da Padova). Né, all’opposto, poteva soccorrerlo il rigido modello unitario, squisitamente medievale, imperniato sull’asse Chiesa-Impero. Il discorso di M. va oltre questi confini e, radicandosi nella realtà, ne ipotizza un modello di analisi e di trasformazione legato ad alcuni fondamentali paradigmi classici così come erano stati riletti dall’Umanesimo e – appunto – da certo averroismo:
innanzitutto – va detto subito con chiarezza – Aristotele (→). La Politica e l’Etica nicomachea, testi di ampia circolazione e di scontata conoscenza a Firenze, forniscono a M. importanti spunti di riflessione sia sulla natura degli Stati sia sulla natura stessa dell’uomo, della sua ineliminabile mescidanza di razionalità e ‘ferinità’ specifica dell’umano in quanto tale.
Proprio quest’ultimo, che è nodo centrale nella riflessione del P., ha precisi addentellati con pagine esemplari dell’Etica nicomachea. Piuttosto che inseguire improbabili e sofisticate tracce di fonti ora medievali (bestiari) ora antiche a valenza metafisica (platonismo) ora contemporanee, si parta dal più evidente e dal più ovvio dei dati e si dia, anche per M., ad Aristotele quel che è di Aristotele. A Firenze il filone aristotelico-naturalistico è tutt’altro che secondario rispetto all’egemonia neoplatonica, se ne consideriamo gli esiti in M., Vettori, Guicciardini, Antonio Brucioli e così via. Non a caso, accanto ad Aristotele, va segnalata in M. la consistente presenza del naturalismo a matrice epicureo-lucreziana: egli non solo conosce direttamente e postilla Lucrezio, ma senza dubbio pratica le letture dell’Umanesimo ‘epicureo’ di un certo Panormita, di Lorenzo Valla, di Michele Marullo. Quel ‘pessimismo antropologico’ (pur riscattato da una inesauribile ansia vitalistica) che abbiamo visto protagonista del P. non attinge forse a tali linfe? Né gli era certo estranea la memorabile lezione di curiositas conoscitiva insita nella monumentale opera naturalistica di Plinio, proprio da poco volgarizzata da Cristoforo Landino.
A questo proposito bisogna ricordare il legame problematico che unì M. con l’illustre tradizione umanistica che aveva fatto del concetto di ‘fortuna’ uno dei temi di maggiore speculazione e che aveva definito, con epicentro in Leon Battista Alberti, una linea di pensiero capace, nel radicalizzare certi assunti già petrarcheschi, di configurarsi come un vero e proprio controcanto rispetto al cosiddetto Umanesimo civile fiorentino. La ‘fortuna’ per Alberti può, infatti, travolgere tutto e il saggio può opporvisi stoicamente se non è troppo imbevuto di un classicismo di maniera e utopico: prima di M., Alberti poneva già le fondamenta di un discorso critico sul classicismo umanistico e certo suo velleitarismo astratto, avviando un percorso che avrà ancora pieno vigore fin nella satira antipedantesca di tutto il Cinque e Seicento. Per Alberti la vita è appunto accomodamento, argine, prudenza, rifiuto degli eccessi, architettura sapiente, rifugio in una giusta dissimulazione che sappia escludere l’ipocrisia. La religiosità è scabra ed essenziale, quasi nel ‘silenzio di Dio’. Gli antichi sono modelli di virtù pubbliche e di saggezza privata ma essi vanno imitati con misura, con la ratio del De remediis di Petrarca. Alberti insiste sulla misura, sul rifiuto degli eccessi, sulla ‘tumultuarietà’ del popolo o dei giovani, rischiosa per affrontare il fragile e precario equilibrio dell’uomo nel mondo. Di qui l’appello costante alla rigida formazione dei giovani, di cui proprio ferocia ed eccessi vanno imbrigliati; di qui ancora l’approdo di Alberti, davvero in esplicita collisione con il primo Umanesimo fiorentino, verso una visione politica moderata, in cui solo i ‘pochi’ e i ‘saggi’, depositari di sofisticate esperienze possono garantire alla navicella dello Stato la giusta rotta (anche il principe, se saggio, lo potrebbe – suggerirà l’Alberti più tardo).
Ora, la posizione politica di Alberti sta tutta in questo pessimismo etico e antropologico che caratterizza il suo pensiero con la delineazione di una virtù sobria ed essenziale che ne scaturisce, quasi viatico per l’individuo in sé e ‘solo’, più che per l’uomo come essere ‘sociale’ o ‘politico’: la cura delle masserizie, la simbiosi di onore e virtù, l’uso accorto del tempo e del denaro senza che siano dilapidati, il riso sermocinale sono i viatici indispensabili per questa virtù che diviene ‘pubblica’ e ‘politica’ solo se sa fare i conti con la crescita della virtù individuale, dell’apprendistato rigoroso e laico del dotto attraverso il senso pieno dello studio come ragionevolezza equilibratrice (Theogenius, De iciarchia, ma già il De commodis) in cui appunto la ‘sublime inutilità’ della scrittura e delle lettere deve accompagnarsi con la parte ‘nobile’ del fare (economico, architettonico, urbanistico, artistico, matematico). Se l’apprendistato dell’uomo con responsabilità si radica nelle humanae litterae, dei limiti di esse e di chi le pratica retoricamente e a vanvera occorre tener conto (con altra e ulteriore declinazione e slittamento conseguente questo punto tornerà centrale nella grande trattatistica rinascimentale sul comportamento e sul disciplinamento di matrice laica e cortigiana, da Giovanni Pontano a Baldassarre Castiglione, a Pietro Bembo, a Stefano Guazzo). Così come il sapere teorico deve sempre sapersi commisurare con il fare, con la ‘masserizia’, altrettanto la vita della città deve correlarsi con quella della campagna.
È un Umanesimo, quello di Alberti, del tutto particolare, poco retorico, poco incline a entusiasmi acritici, contiguo, per vari aspetti, forse a un certo Valla e a un certo Biondo e battipista sicuramente per il M. che vuole coniugare la lezione delle cose antiche con l’esperienza di quelle presenti. Il ‘luciferino’ Segretario non evita certo gli ‘estremi’ in cui l’uomo si colloca e che, con tonalità diverse ma comuni nella radice, Dante, Petrarca e Alberti avevano indicato. Come Alberti, anche M. si misura con tutto ciò nelle stesse opere letterarie, dove il percorso della ratio tra istinti ferini, astuzia, apprendistato laico di una saggezza politica al crinale tra scenari della respublica fiorentina e vizi privati del suo ceto dirigente appare di straordinaria efficacia: ne sono testimonianza i Decennali, la Mandragola, l’Asino. Ma la virtù di M. è di un conio particolare: egli interpreta certo Roma, la romanitas e la tradizione classica in modo forte e attivo, rileggendo in chiave tutta politica potenti suggestioni già operanti in Petrarca, nei Rerum memorandarum libri come nel De remediis o in famosi testi del Canzoniere, da M. citati in punti decisivi di suoi testi capitali. Ma questa rimeditazione tutta attiva e disincantata del valore degli antichi (si pensi alla famosa pagina finale dell’Arte della guerra) passa, in parte come per Alberti, attraverso il ridimensionamento dell’utopismo bruniano e con la ripresa piuttosto del Valla (del famoso proemio alle Elegantiae) e di Biondo Flavio (fonte decisiva per le Istorie fiorentine di M.): insomma una rilettura, debitrice questa sì anche verso il grande Petrarca storico del De viris illustribus, che punta l’accento sull’etica del primato della civiltà romana, sulla forza delle sue istituzioni e delle sue leggi, sulla magnanimità esemplare dei suoi protagonisti mettendo in ombra un’idea di impero come puro dominio militare sulle genti (Sasso 1987-1997). E quindi leggere oggi M. vuol dire leggerlo attraverso una filigrana in realtà mai praticata a fondo dalla critica, e che mette a fuoco il decisivo ruolo, per il suo apprendistato, accanto ai classici antichi o a Dante, di Petrarca e Alberti in primo luogo. Anzi M. ci appare come una sorta di precipitato finale di questa particolare trafila e ancora una volta, come già Alberti rispetto a Petrarca con uno smottamento, un ulteriore slittamento di senso e di prospettiva rispetto sia a Petrarca sia ad Alberti.
Il cap. xxv del P. andrebbe letto in controcanto sia con il prologo ai Libri della famiglia (lessico e argomentazioni sono davvero contigui) sia con l’intera opera dell’Alberti. M., infatti, non mette in discussione la fragilità dell’uomo, e dell’uomo politico in particolare, di fronte al turbine rovinoso della fortuna: usa la stessa potente metafora del fiume in piena cara a Petrarca e ad Alberti, come si è visto. Parla cioè di quella «inondazione», che in un celebre capitolo dei Discorsi (II v) è indicata come una delle tre cause (accanto a «peste» e «fame», ma delle tre la più importante) atte a devastare e «purgare» gli uomini, a distruggerne le civiltà e i popoli, cancellandone la memoria storica in un mondo che nella sua sostanza perenne dura eterno (Sasso 1987-1997, 1° vol., pp. 167 e segg.). E questo grandioso capitolo, che rivitalizza i topoi della fragilità della storia umana e delle sue civiltà e religioni (compreso il cristianesimo, ovviamente, per lo ‘scandaloso’ M.) rispetto all’eternità del mondo, sembra davvero figlio di una ricca tradizione aristotelica ma anche dei Trionfi petrarcheschi e specie delle loro memorabili terzine finali.
M. usa cioè nel P. una metafora tratta da un concetto che in lui stesso presuppone forti connessioni filosofiche e potenti richiami a testi fondativi della cultura occidentale classica e volgare: ma poi interviene lo scarto geniale e rivoluzionario. Cosa opporre alla forza devastante di questa fortuna che, nella successiva celebre serie metaforica, è poi dipinta come «giovane donna» impetuosa e indomabile? M. vi oppone la forza e la ferocia «poco rispettive» del giovane. Proprio quell’eccesso di ferocia e quella mancanza di prudenza che Alberti rifiutava nel nome dell’equilibrio, della moderazione, del lungo apprendistato dei giovani rispetto ai seniores – in sostanza unica possibilità di argine alla fortuna –, in M. divengono invece essi il baluardo in grado di arginare le «inondazioni» della fortuna, di imbrigliarne e domarne gli imperscrutabili disegni di donna giovane e sensuale.
Il giovane eroe incarna la virtù necessaria, commista di astuzia, ferocia, sapere politico e militare pronto al magnanimo tributo per la causa laica e romana della repubblica: secondo un progetto di morale pubblica e politica, del tutto non cristiana, ma ‘romana’ appunto, che Berlin (1979) ha descritto con grande lucidità. La rivoluzione antropologica che M., nel P. (ma anche nelle opere teatrali), mette in campo, assumendo la ferocia del giovane «poco rispettivo» al centro della virtù vincitrice sui marosi del mondo, produce uno scarto netto rispetto a Petrarca e Alberti, proprio mentre fa propria tutta la pregnanza di quel lessico metaforico a forte valenza etica e filosofica che da essi era stato avviato.
Ciò che in Petrarca e in Alberti appariva segno di instabilità e pericolo (in sintonia con l’intera tradizione classica e patristica) diviene per M. possibile punto di forza. Appare con ciò evidente quanto in lui prevalga così il forte sentire l’uomo come essere politico e sociale (radicalizza le note posizioni aristoteliche e averroistiche) e come le virtù e i vizi privati non possano essere giudicati che alla luce della res publica, senza separatezze care a certi filoni di pensiero stoici ed epicurei. Di qui la passione repubblicana e innovatrice propria di M. che infiammerà tanto i giovani degli Orti Oricellari, ben altra rispetto al pessimistico moderatismo politico di Alberti.
Tutto quanto finora detto ci porta a escludere una presenza consistente del ‘teorema’ platonico e neoplatonico in M.: Platone gli fornì certo, specie con la Repubblica, significative suggestioni sulla natura e l’evoluzione degli Stati ma non molto di più. Il paradigma che, dall’osservazione analitica del reale, tende a costruire regole generali, quasi delle ‘categorie’ (e fuori da ogni metafisico ‘regno dei fini’ ma sempre verificabili nell’hic et nunc della propria esperienza), è tanto lontano dal procedimento platonico quanto è prossimo alla metodologia aristotelica così come era stata ripresa e rinnovata dal filone naturalistico di matrice averroistica (si guardi a Bologna e Padova, a un Pietro Pomponazzi, tanto per fare un nome emblematico) e da un certo Umanesimo quattrocentesco. Il che la dice lunga sulla sostanziale distanza, epistemica, concettuale, esistente (a parte alcuni anni della giovinezza) tra M. e i cenacoli medicei più ‘ortodossi’.
Lontano M. è anche da Seneca e dalla sua lezione di ‘spiritualità’, dai dubbi e dalle lacerazioni che avevano portato il grande latino a interrogarsi tragicamente sulla consistenza morale del negotium e sulla contestuale necessità di un recedere, di uno svincolarsi dalla barbara corruzione della politica e del potere: nel momento estremo di crisi non sono consentiti a M. i tormenti di Seneca e la sua è propriamente una risposta ‘altra’, del politico pronto a ingaggiare un’ultima battaglia, costi quel che costi sul piano morale.
Più complesso il rapporto con un altro maestro del nostro Umanesimo, Cicerone. Per un verso certamente M. recepisce dalle sue opere molte importanti riflessioni sul significato delle leggi nello Stato, sul ruolo e sulle competenze necessari al politico, sull’ineliminabile fondamento ‘legalitario’ e non ‘privatistico’ o arbitrario dell’istituzione pubblica e delle sue articolazioni sui patti essenziali che debbono regolare la vita civile. Per l’altro, M. non aderisce all’ottimismo umanistico di Cicerone, all’esaltazione di una humanitas da contrapporre seccamente alla ferinitas, a un fine umano che deve in ultimo coincidere con un fine divino delle cose, a un impegno politico che, stoicamente, non può che inverare il progetto etico dell’humanitas rinnovata. Se quanto si diceva in precedenza sul naturalismo e sul pessimismo antropologico di M. è giusto, allora il P. appare lontano davvero (più dei Discorsi, probabilmente) da questi assunti ciceroniani.
Un ruolo centrale nelle ‘letture’ di M. hanno invece – e qui va ribadito – gli storici classici, specie Livio, Sallustio, Tacito, Tucidide, Senofonte. Intanto per quella funzione essenziale che lo studio del passato acquista (come vedemmo) nel progetto politico machiavelliano. In secondo luogo, all’interno del passato, per la necessità che ha M. di misurarsi con gli esempi più grandi, con l’‘officina umana’ osservata nelle sue tensioni, nei suoi progetti, nei suoi successi e nei suoi crolli ai livelli estremi, negli «esperimenti» massimi, quali appunto poteva fornirli un certo passato greco e, soprattutto, romano. Tanto più che, grazie alle esplorazioni d’avanguardia di un Biondo (per fare l’esempio forse più vistoso), molti viatici erano stati forniti a chi avesse voluto avventurarsi nel passato antico e nelle sue istituzioni, realizzazioni, fonti: un testo capitale e ancora poco esplorato come la Roma triumphans va forse ormai decisamente accostato alle opere politiche di M. come di altri pensatori del Rinascimento, e se ne ricaverebbero – è credibile – sorprese non irrilevanti. Certo il modello liviano si conferma come il più importante nel pensiero di M. e – come abbiamo visto – irraggia la sua influenza ben oltre i Discorsi, entro lo stesso Principe. Né accanto a Sallustio e Tacito (preziosi per studiare i processi di degenerazione del potere), a Senofonte (archetipo illustre di una «pedagogia» per il principe) e a Polibio, va sottovalutata, in M., l’influenza del Tucidide precocemente tradotto in latino da Valla nel Quattrocento: per quell’ambizione scientifica, razionale e naturalistica presente al fondo della sua rivoluzionaria metodologia storiografica e sostanzialmente improntata a un paradigma ‘medico’ di analisi della società spesso ricorrente anche nelle pagine di M. e nel P. in particolare. Forse altri debiti classici si potrebbero sottolineare: qui ci siamo voluti soffermare sui più evidenti e rilevanti. Già da soli essi mostrano quale sia l’ampiezza della cultura classica, di ascendenza umanistica, in M. e quali folti reticoli intertestuali sostanzino il tessuto di un’opera come il Principe. Non reticoli casuali, comunque, né un’esperienza purchessia delle «cose antique»: ma una riflessione meditata con la cernita di percorsi ben precisi, di mediazioni ben definibili e tali da dare piena forza e linfa alla rivoluzionaria proposta del Principe.
Se, per un verso, la novità del P. sta anche in questo modo particolare di rapportarsi al passato classico, di leggere le sue fonti, di adeguarne l’insegnamento al presente, per l’altro, l’insieme complessivo del trattato è davvero senza precedenti, perfino, nella forma: non solo per la scelta senza esitazioni del volgare in un genere ‘illustre’ che tradizionalmente aveva privilegiato il latino, ma anche per la novità stilistica stessa della costruzione del periodo. Come tanti studiosi hanno sottolineato, da Fredi Chiappelli a Raimondi, esso è articolato in modo binomio e oppositivo, tale da porre sempre il lettore di fronte a scelte precise, radicali, in una consequenzialità non certo aprioristicamente tutta data ma in cui l’intreccio induzione/deduzione richiama già il costituirsi del moderno procedere per esperimenti/verifica/leggi generali/loro applicabilità concreta. Il ‘genere’ de principatibus, apparentemente rispettato, ne esce in realtà (come per altri ‘generi’ frequentati da M.) del tutto ribaltato, rovesciato come un guanto: ciò che la vecchia forma tendeva a velare, occultare, in aeree e astratte ipotesi qui, invece, viene esibito nel suo nocciolo duro di verità, senza pudori e senza schermi, con chiarezza e secondo un lessico e un codice che lo rendono immediatamente fruibile da una cerchia ampia di lettori, ben più ampia di quella di corte cui tradizionalmente erano indirizzati scritti di questo tipo (e a cui anche M., nella dedica, formalmente indirizza il suo). Infatti nella sostanza, il P., proprio per come è costruito, si apre a un ventaglio amplissimo di fruizione, quasi M. avesse piena consapevolezza che un progetto di simile audacia non potesse attuarsi se non sostenuto da schieramenti ben più complessi e larghi di quelli riducibili alle sole dinamiche cortigiane. Che era poi il nocciolo stesso del suo modo di intendere il principato e i rapporti tra sovrano e ‘governati’. Tutto ciò ci fa comprendere come mai il P. abbia goduto in tutti i tempi di una grandissima fortuna e come anche oggi, nonché essere letto e tradotto in tutto il mondo, resti forse il classico italiano più conosciuto in assoluto. Certo la storia di questa fortuna è alterna e ricca di singolari intrecci; per un fatto molto semplice, del resto: in ogni epoca leggere il P. e misurarsi con i problemi da esso posti vuole dire necessariamente fare i conti con la politica in quanto tale, con le dinamiche del potere, con la sostanza stessa dell’agire dell’uomo nel mondo. Impossibile, quindi, una lettura serena e ‘neutra’: lo ‘scandalo’ del P. costringe sempre a riflettere, discutere, indignarsi, prendere posizione, mai acquietarsi.
La fortuna di M. si lega soprattutto alle vicende delle opere politiche. Se in Italia la lezione dell’autore del P. e dei Discorsi subì i colpi di una dura critica, inasprita con la messa all’Indice del 1559 (e per tre secoli le sue opere continuarono a essere lette in edizioni clandestine e in manoscritti, mentre la loro ricezione ebbe, per lo più, con poche, parziali eccezioni, la forma dell’antimachiavellismo), bisogna guardare ai grandi Stati europei per verificarne un apprezzamento significativo. Caso esemplare risulta proprio quello del P., già conosciuto e circolante prima ancora di essere stampato, tanto da essere vittima anche di un plagio. Le sue prime edizioni videro la luce nel 1532 e in breve tempo si moltiplicarono, in tutta Europa, lungo il Cinquecento: immediatamente il pensiero di M. divenne oggetto di vivaci dibattiti e aspre polemiche, influenzando con un peso senza precedenti la nascita del moderno pensiero politico, come mostrò, in pagine ormai classiche, Giuliano Procacci (1995). Il pensiero cristiano, sia riformatore sia controriformatore, individuò rapidamente in M. un bersaglio polemico quasi d’obbligo, nel tentativo di rifondare un certo terreno unificante tra etica e politica di fatto abraso dagli scritti di Machiavelli. Questa polemica portò a deformazioni profonde e aberranti del suo pensiero, spesso ridotto volutamente a un ‘prontuario’ di ricette spregiudicate e feroci per il politicien (è la storia del cosiddetto machiavellismo secentesco). Contro questo M. ovviamente non potevano che polemizzare i sostenitori di uno Stato etico e gli avversari della politica degradata a rozza manifestazione del potere (è l’antimachiavellismo, e si pensi a Blaise Pascal): in Francia particolarmente tale dibattito fu vissuto, nel fuoco delle lotte di quel Paese fra Cinque e Seicento, con drammatica intensità.
Ma è evidente che il P. e M. poco c’entravano con le deformazioni «di parte» di cui furono oggetto: tant’è che, tra Cinque e Seicento, da Montaigne a Giovanni Botero, da Thomas Hobbes a Baruch Spinoza, non pochi grandi pensatori europei seppero, pur nel ciclone fuorviante delle polemiche, leggere in modo appropriato il testo di M., facendone rivivere alcune fondamentali intuizioni nelle loro pagine migliori. Il Settecento e l’Illuminismo riaprirono una stagione di piena rivalutazione del pensiero di M. e del P., pure se letti in una chiave «di parte», repubblicana e riformatrice questa volta. Fondamentale passaggio in questo senso fu la voce Machiavélisme stesa da Denis Diderot per l’Enciclopédie, la cui eco rintracciamo fin nei Sepolcri di Ugo Foscolo. E al pensiero di M. guarderanno con profondo interesse i teorici repubblicani inglesi e americani all’epoca della Rivoluzione americana e della nascita degli Stati Uniti d’America (Pocock 1975; Skinner 1978).
Con il Romanticismo in Europa e con il Risorgimento in Italia si portò definitivamente a compimento la rivalutazione (che in certi casi si trasformò addirittura in apologia) di M.: da Johann Gottlieb Fichte a Georg Wilhelm Friedrich Hegel a Francesco De Sanctis egli è sempre più collocato fra i padri fondatori dei moderno pensiero politico di matrice laica, l’uomo di rottura rispetto all’episteme medievale. E così lo leggono gli stessi Karl Marx e Fried rich Engels. In Italia, in modo particolare, il nostro nazionalismo risorgimentale individuerà proprio nel P., nelle sue pagine finali, una sorta di proprio breviario laico, di archetipo di riferimento. Il Romanticismo e il Risorgimento aprirono così due fronti di lettura del P.: uno, di attenzione al periodo storico in cui esso nacque e che frutterà una ininterrotta, splendida stagione di studi critici e storiografici su M. e sul suo pensiero (si pensi, per il tardo Ottocento, all’ancora fondamentale biografia di Pasquale Villari); l’altro, di uso in chiave nazionalistica delle sue pagine, che porterà a letture ancora una volta fuorvianti quando non aberranti (specie durante il fascismo). A tali strumentalizzazioni reagiranno, con profondo spirito storico e critico, pensatori e studiosi come Benedetto Croce, Luigi Russo, Federico Chabod e, sul versante marxista, con le sue fondamentali notazioni dei Quaderni, Antonio Gramsci. Il secondo dopoguerra ha visto così, in Italia e in tutto il mondo (specie nei Paesi anglosassoni), un progressivo diffondersi e ispessirsi degli studi su M. e sul P., volti sostanzialmente a definire più in profondità la collocazione storica, le fonti, le radici di pensiero, gli esiti letterari, i rapporti con le altre opere di M. stesso: ricordare i nomi di Felix Gilbert, Isaiah Berlin, Gennaro Sasso, Carlo Dionisotti, Franco Gaeta, Sergio Bertelli, Nicola Matteucci, Ezio Raimondi, Giuliano Procacci, Mario Martelli, Jean-Jacques Marchand, Giorgio Inglese, è solo proporre una campionatura essenziale di una stagione di studi machiavelliani che continua a conoscere una straordinaria fertilità di esiti e di prospettive.
Questo non vuol dire che l’accentuazione storica, critica e filologica abbia messo in disparte lo ‘scandalo’ politico e metodico del P.: anzi proprio perché studiate più a fondo e più storicamente inquadrate, le sue pagine continuano a costituire un referente essenziale nel dibattito sempre vivo sulla natura della politica e sul ruolo dei soggetti nella possibile trasformazione del mondo. In questo senso, lungi dal tramontare, i grandi orizzonti del P. sembrano anzi aprirsi a una ulteriore, nuova stagione di disputa e di fertile confronto, sempre più indispensabile in questo lacerato e tormentato mondo del terzo millennio.
Bibliografia: G. Ritter, Die Dämonie der Macht, Stuttgart 19475 (trad. it. Il volto demoniaco del potere, Bologna 1958); F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino 1964; F. Gilbert, Machiavelli and Guicciardini. Politics and history in sixteenth-century Florence, Princeton 1965 (trad. it. Torino 1970); G. Sasso, Studi su Machiavelli, Napoli 1967; E. Raimondi, Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna 1972; J.G.A. Pocock, The Machiavellian moment. Florentine political thought and the Atlantic republican tradition, Princeton 1975 (trad. it. 2 voll., Bologna 1980); F. Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, Bologna 19772; Q. Skinner, The foundations of modern political thought, 2 voll., Cambridge 1978 (trad. it. 2 voll., Bologna 1989); I. Berlin, Against the current. Essays in the history of ideas, London 1979 (trad. it. Milano 2000); U. Dotti, Niccolò Machiavelli. La fenomenologia del potere, Milano 1979; C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980; J. Macek, Machiavelli e il machiavellismo, Firenze 1980; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli 1987-1997; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, nuova ed. Bologna 1993; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; C. Varotti, Gloria e ambizione politica nel Rinascimento. Da Petrarca a Machiavelli, Milano 1998; M. Viroli, Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Roma-Bari 1998; L. Villari, Niccolò Machiavelli, Casale Monferrato 2000; U. Dotti, Machiavelli rivoluzionario. Vita e opere, Roma 2003; G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma 2003; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; G.M. Anselmi, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento. Le radici italiane dell’Europa moderna, Roma 2008; G. Pedullà, Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 2011; P. Vincieri, Machiavelli. Il divenire e la virtù, Genova 2011; G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013; E. Cutinelli-Rendina, Introduzione a Machiavelli, Roma-Bari 20135; N. Machiavelli, Il Principe. Edizione del cinquecentennale, trad. in italiano moderno di C. Donzelli, introduzione e commento di G. Pedullà, Roma 2013; Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo. 1513-2013, a cura di A. Campi, catalogo della mostra, Roma, Complesso del Vittoriano, 25 aprile - 16 giugno 2013, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2013; G.M. Anselmi, Leggere Machiavelli, Bologna 2014.