Il problema dell’allargamento dell’Unione Europea
Il quinto allargamento dell’Unione Europea si è concluso a metà del primo decennio del 21° sec. (1° maggio 2004) con l’ingresso di otto Paesi dell’Europa dell’Est: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria, a cui si sono aggiunti Cipro e Malta e, in seguito, il 1° gennaio 2007, Bulgaria e Romania. Sebbene le politiche di allargamento abbiano da sempre fatto parte del progetto d’integrazione – basti ricordare come il Trattato di Maastricht (1992) riconosca a ogni Paese europeo che «rispetti i principi dell’Unione» il diritto di presentare domanda d’ingresso (art. 49) – l’inizio del nuovo secolo ha visto riproporsi la questione dell’allargamento in termini radicalmente nuovi e più complessi. L’adesione di altri dodici membri rappresenta la più grande ondata d’allargamento e costituisce uno sviluppo di enorme portata sia dal punto di vista delle esigenze di rinnovamento istituzionale e politico dell’Unione Europea, sia dalla prospettiva più ampia del significato culturale e sociale del progetto di integrazione.
Da una parte, l’impatto demografico, economico e sociale del processo d’allargamento ha reso ancora più urgente il bisogno di riforme in grado di assicurare la trasparenza democratica e l’efficacia governativa delle istituzioni europee, esigenza peraltro avvertita già all’indomani di Maastricht. Dall’altra, il quinto allargamento ha suscitato una serie di nuove questioni in merito alla sostenibilità politica di un’Europa sempre più estesa, alla coincidenza tra i suoi confini geografici e culturali e all’effettiva capacità di mantenere la promessa di sviluppo pacifico e di prosperità che dell’Unione ha sempre costituito sia la principale ragione d’essere, sia la maggiore attrattiva al suo esterno.
Conclusosi il quinto allargamento, altri Paesi premono affinché l’Unione Europea ne consideri la candidatura. Tra questi vanno ricordati la Croazia e la Turchia, con i quali sono già stati aperti i negoziati per l’accesso; i Paesi dei Balcani Occidentali, la cui importanza strategica è stata più volte ribadita; ma anche le varie ex repubbliche sovietiche confinanti con i nuovi Stati membri e i Paesi che un tempo costituivano il partenariato euromediterraneo. La capacità dell’Unione Europea di fare i conti con queste nuove richieste dipende dalla possibilità di superare la crisi di legittimità avvertita all’indomani del referendum irlandese sul Trattato di Lisbona (dic. 2007), svoltosi nel giugno del 2008, e dalla coerenza di un progetto di rinnovamento il più possibile vicino ai cittadini e in grado di far percepire l’Europa come forza politica distinta e con una propria anima sociale.
Se si indagano le origini del processo che a maggio del 2004 e a gennaio del 2007 ha portato all’inclusione formale nell’UE di un numero di Paesi situati a est della vecchia cortina di ferro, è curioso notare come il quinto allargamento sia stato avviato senza una chiara idea dei limiti delle possibili candidature e senza un accordo precedente per specifiche riforme interne nei Paesi interessati. Un tale insolito modo di procedere stava a indicare simbolicamente, all’indomani della guerra fredda, la ferma volontà dell’Unione Europea di impegnarsi in un progetto d’integrazione volto a promuovere la stabilità politica e lo sviluppo economico del continente. Esso esprimeva anche la fiducia che i Paesi candidati si sarebbero conformati comunque a determinate esigenze politiche e istituzionali, prima fra tutte la richiesta di adottare l’acquis communautaire, cioè l’esistente corpo legislativo comunitario, e di soddisfare tutti gli obblighi di partecipazione all’Unione Europea.
In realtà, una volta terminata la stagione delle dichiarazioni euforiche e delle promesse solenni, il vero percorso pratico di sviluppo dei negoziati per l’adesione si rivelò tortuoso. Una volta stabiliti, da parte del Consiglio europeo di Copenaghen (1993), i criteri che ogni Paese doveva rispettare per potersi qualificare all’ingresso, nel decennio successivo spettò alla Commissione europea il compito di articolare meglio le tappe per l’adesione dei candidati e di monitorare il progresso di adattamento all’acquis communautaire. In particolare il Consiglio di Copenaghen aveva posto l’accento su alcuni criteri importanti: a) la stabilità istituzionale volta a garantire il funzionamento della democrazia, il rispetto per i diritti umani, il rafforzamento dello Stato di diritto e il rispetto per le minoranze etniche; b) l’esistenza di un’economia di mercato e la capacità di assorbire la pressione competitiva dell’Unione; c) il dovere di farsi carico degli obblighi di partecipazione e di conformarsi ai fini politici, economici e monetari dell’Unione. Per garantire il progresso dei Paesi candidati in questa direzione, venne istituito nel 2000, in sede di Commissione europea, un Direttorato generale per l’allargamento e venne sviluppata una strategia di preaccesso, ambiziosamente chiamata Agenda 2000.
Agenda 2000 consisteva nella pubblicazione di una serie di rapporti annuali volti a misurare l’adozione dell’acquis da parte dei Paesi candidati e il progresso fatto in quattro ambiti fondamentali ma distinti: riforme istituzionali; riforme delle politiche interne (in particolare politiche agricole comuni e fondi strutturali); trattative per l’adesione (in particolare selezione dei candidati) e preparativi per l’ingresso. Tali rapporti erano progressivamente sottoposti al Consiglio europeo, il quale decideva le scadenze future, si esprimeva formalmente riguardo alle fasi dei negoziati e stabiliva le prospettive di estensione ad altri candidati. Tra le sedute importanti vanno ricordati il Consiglio europeo tenutosi a Helsinki nel dicembre 1999, durante il quale si decise di accettare la raccomandazione della Commissione a estendere lo status di candidati a sei Paesi inizialmente esclusi dai negoziati, ossia Malta, Slovacchia, Lettonia, Lituania, Bulgaria e Romania, e il Consiglio europeo di Laeken del 2001, che prese atto della road map tracciata dalla Commissione nel 2000 per stabilire le scadenze delle varie tappe di preadesione e che confermò l’anno 2002 come termine dei negoziati. I Paesi membri si accordarono per un allargamento a big bang, accettando la simultanea inclusione nell’Unione Europea di dieci nuovi Stati e, in un momento successivo, della Bulgaria e della Romania.
I negoziati per l’adesione all’Unione Europea sono solitamente preceduti da accordi bilaterali volti a sostenere finanziariamente e istituzionalmente i Paesi candidati nei preparativi per le riforme. In particolare, il ruolo più importante durante il quinto allargamento è stato svolto dagli Accordi di associazione e dai partenariati europei. Questi comprendevano l’uso dei programmi di assistenza economica come PHARE (Poland and Hungary: Assistance for Restructuring their Economies), CARDS (Community Assistance for Reconstruction Development and Stability) nei Balcani, ISPA (Instrument for Structural Policies for Pre-Accession) e SAPARD (Special Accession Programme for Agriculture and Rural Development), grazie ai quali l’Unione Europea mirava a sostenere i Paesi candidati con investimenti necessari all’adozione dell’acquis. Più in generale, gli Accordi di associazione si ponevano obiettivi sia economici sia politici. Dal punto di vista economico, essi tentavano di favorire la progressiva integrazione dei Paesi candidati nel Mercato unico europeo tramite una serie di strumenti destinati a promuovere il commercio bilaterale e in grado di avviare il processo di liberalizzazione degli scambi. Dal punto di vista politico, si trattava di favorire l’inserimento progressivo nelle istituzioni comunitarie attraverso misure volte ad avvicinare le legislazioni, a rafforzare il dialogo istituzionalizzato tra Paesi membri e candidati e a sostenere la cooperazione in materia di politica estera e di sicurezza comune.
Agli Accordi di associazione solitamente fanno seguito i negoziati per l’adesione. Questi sono organizzati per capitoli, ognuno dei quali verte su un aspetto particolare dell’acquis communautaire a cui i Paesi candidati sono tenuti ad adeguarsi. Durante il quinto allargamento i capitoli erano 31 e comprendevano le seguenti questioni: la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali (capitoli da 1 a 4), il diritto societario e la politica della concorrenza (capitoli 5 e 6), l’agricoltura, la pesca, i trasporti (capitoli 7, 8 e 9), il fisco, l’unione economica e monetaria e le statistiche (capitoli 10, 11 e 12), la politica sociale e dell’occupazione, l’energia, la politica industriale, le piccole e medie imprese (capitoli 13, 14, 15 e 16), la scienza e la ricerca, l’istruzione e la formazione (capitoli 17 e 18), la telecomunicazione e le tecnologie dell’informazione, la cultura e la politica audiovisiva (capitoli 19 e 20), la politica regionale e gli strumenti strutturali (capitolo 21), l’ambiente (capitolo 22), la tutela del consumatore (capitolo 23), la giustizia e gli affari sociali (capitolo 24), l’unione doganale (capitolo 25), le relazioni esterne e la politica estera e di sicurezza comune (capitoli 26 e 27), il controllo finanziario e le disposizioni finanziarie e di bilancio (capitoli 28 e 29), le istituzioni (capitolo 30) e un ultimo capitolo intitolato ‘altro’ (31). Si è preferito iniziare con le politiche del mercato comune, seguite dalle politiche interne, poi dagli affari esteri e infine, come a sottolinearne l’importanza e il fatto che vengano discusse nella fase finale dei negoziati, le politiche del bilancio (The future of Europe, 2004).
Solitamente i negoziati si aprono con un processo di visualizzazione (screening), descritto anche come «esame analitico dell’acquis», che mira a informare i Paesi candidati degli obblighi legati alla legislazione dell’Unione Europea e a identificare potenziali temi soggetti a trattative, seguito poi dall’apertura dei negoziati sui capitoli cosiddetti facili. Nel caso del quinto allargamento è stato chiesto ai candidati di esprimersi riguardo alla possibilità di applicare in pieno l’acquis subito dopo l’adesione o di richiedere un periodo di transizione per potersi adeguare alle regolamentazioni comunitarie. Dopo il quinto allargamento, la Commissione ha adottato un criterio più rigido, secondo il quale ai Paesi interessati sono già fissati degli standard da realizzare prima ancora che vengano aperti i negoziati su determinati capitoli. L’Unione Europea esprime poi la sua posizione sull’andamento delle trattative e stabilisce altri obiettivi da raggiungere affinché un capitolo sia considerato chiuso.
Oggi i Paesi candidati si trovano quindi doppiamente vincolati: nella fase di apertura dei capitoli essi sono tenuti ad applicare standard che comportano la necessità di articolare strategie d’accesso e determinati piani d’azione e impongono obblighi contrattuali che rispecchiano le esigenze dell’acquis. Nella fase di chiusura invece, gli standard impongono l’adozione di misure legislative, amministrative e giudiziarie che dimostrino l’effettiva implementazione dell’acquis come, per es., nel caso dei capitoli economici, il funzionamento di un’economia di mercato. Se un Paese candidato cessa di rispettare gli standard di apertura o chiusura di un capitolo soggetto a trattative in corso, la Commissione europea può proporre la sospensione o la riapertura dei negoziati.
La recente introduzione di ulteriori obblighi e condizioni specifiche, che vincolano i Paesi candidati al rispetto dell’acquis prima ancora dell’apertura dei negoziati per l’adesione, è dovuta anche alla consapevolezza delle difficoltà che l’Unione Europea ha dovuto affrontare durante il quinto allargamento, che vide i Paesi candidati domandare diverse volte periodi di transizione molto più lunghi rispetto a quelli che l’Unione Europea era disposta a concedere. In quella sede, il capitolo sull’ambiente, quello sulla libera circolazione delle persone e dei capitali, quello sulle politiche agricole, quello sulle istituzioni e quello sul bilancio e i fondi strutturali si rivelarono particolarmente difficili da negoziare. Nell’ipotesi di un successivo allargamento dell’Unione ai Balcani Occidentali e alla Turchia, è naturale aspettarsi che tali difficoltà si ripropongano. Questa è anche la ragione per cui la Commissione europea oggi adotta criteri più stringenti di preadesione, volti a minimizzare le controversie in fase di trattative per l’ingresso.
Durante il quinto allargamento, il capitolo sull’ambiente si è concluso nella prima metà del 2001 dopo una serie di controversie sorte dalla richiesta, ai Paesi candidati, di adeguare i propri standard ambientali a quelli della media dell’Unione Europea. Per un verso, i Paesi candidati lamentavano i costi sostanziali di infrastruttura e tecnologia nel settore pubblico e privato che la conformazione alle norme europee avrebbe comportato; per l’altro verso, le lobby economiche dell’Unione lamentavano il vantaggio competitivo che il mancato adeguamento a questi standard avrebbe conferito ai nuovi membri nel Mercato unico europeo. Il compromesso si raggiunse soltanto dopo che le parti si accordarono sulla distinzione tra aspetti delle regole ambientali legati alla produzione e altri che non avrebbero avuto un impatto sul mercato unico, con periodi di transizione fino a dieci anni concessi per gli ultimi.
Un’altra questione complessa riguardava il capitolo sulla libera circolazione delle persone, uno dei pilastri legislativi dell’Unione Europea, che pure in quella sede si rivelò facile preda di manipolazioni politiche da parte degli Stati membri. Nonostante uno studio del 2002 effettuato dalla Commissione europea avesse dichiarato infondati i timori di un’invasione da parte dei lavoratori dell’Est, Stati confinanti come la Germania e l’Austria premevano per ottenere garanzie contro la minaccia di un flusso improvviso di immigrati provenienti da Paesi con alti tassi di disoccupazione e salari più bassi rispetto alla media europea. I nuovi arrivati nell’Unione Europea dovettero così rassegnarsi all’adozione di misure diverse a seconda dei vari Paesi membri, alcuni dei quali erano a favore di chiare restrizioni all’accesso (Germania e Austria), altri di uno schema di progressivo abbattimento delle barriere (Belgio, Danimarca, Francia, Lussemburgo, Olanda) e altri ancora a un mercato del lavoro aperto (Finlandia, Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna, Svezia, Regno Unito). Nonostante questo sia in contraddizione con uno dei principi fondanti dell’Unione Europea, quello della libera circolazione delle persone, i cittadini dei nuovi Paesi membri dovranno attendere la fine di un periodo di transizione fino a 7 anni prima che i loro lavoratori possano godere di una piena libertà di movimento all’interno dell’Unione. Infatti, lo schema che va sotto il nome di 2+3+2 richiede ai Paesi membri dell’Unione di esprimere periodicamente la loro opinione sulle prospettive di apertura dei propri mercati del lavoro ai nuovi membri. Va infine notato come tutti i Paesi membri, a eccezione della Svezia e della Finlandia, si siano pronunciati a favore delle restrizioni all’accesso dei cittadini provenienti dalla Bulgaria e dalla Romania. In compenso i candidati membri sono riusciti a ottenere qualche concessione sull’applicazione di un altro capitolo fondamentale dell’acquis, quello sulla libera circolazione dei capitali e la vendita di proprietà, specialmente terre agricole, a investitori stranieri.
Proprio le politiche agricole, insieme ai fondi strutturali, costituiscono l’ultima lunga controversia sorta tra Paesi membri e candidati durante i negoziati per l’adesione. Vista la presenza di un largo settore agricolo e un PIL (Prodotto Interno Lordo) pro capite al di sotto della media europea nei Paesi candidati, un’applicazione rigorosa della normativa comunitaria avrebbe richiesto consistenti trasferimenti finanziari in sussidi agricoli ai Paesi candidati e un bilancio generale molto più alto di quello disponibile. Di conseguenza, è stato deciso, nonostante le proteste che ponevano l’accento sulla discriminazione tra vecchi e nuovi membri UE in materia di politiche agricole, che tali sussidi non sarebbero stati corrisposti da subito in misura equa agli agricoltori dei nuovi Paesi membri. Anche per quel che riguarda i fondi strutturali (aiuti regionali, fondi per la coesione e così via), l’Unione ha stanziato somme di gran lunga minori rispetto a quelle concesse ai Paesi candidati nelle precedenti fasi di allargamento e ha richiesto ai nuovi membri di assumere da subito il ruolo di pieni contribuenti al bilancio comunitario, a differenza di quanto già avvenuto in passato.
Le vicende riportate nei precedenti paragrafi ci permettono di affrontare una delle questioni più importanti suscitate dalla recente inclusione di nuovi membri nell’Unione Europea: il metodo di allargamento. Questo tema acquisisce particolare rilevanza se si sottolinea che sarà proprio il modello di allargamento sviluppato durante quest’ultima ondata a costituire un fondamentale punto di riferimento nella gestione di candidature successive.
Innanzitutto, dal punto di vista degli attori coinvolti, si deve sottolineare il ruolo fondamentale svolto dalla Commissione europea in tutte le fasi dell’allargamento, da quella di determinazione delle strategie di preadesione, alla guida dei negoziati, alla fase finale di inclusione, all’esame di possibili candidature ulteriori. Le responsabilità della Commissione nella facilitazione e nel monitoraggio del progresso fatto da parte dei Paesi candidati e la sua discrezione nello stabilire scadenze per l’apertura dei vari capitoli dell’acquis costituiscono una delle novità più importanti del quinto allargamento. Sebbene la Commissione europea non svolga un ruolo formale, essa è l’unica istituzione a godere del diritto di presentare proposte direttamente al Consiglio europeo. Inoltre la funzione di monitoraggio e consulenza ai Paesi candidati, svolta durante tutta la fase di preadesione, le permette un alto grado di interferenza negli affari interni di un numero significativo di Stati, prima ancora che questi siano membri dell’Unione, punto quest’ultimo dalle notevoli implicazioni.
Questo ha fatto sì che nel processo di allargamento la Commissione abbia aumentato il suo potere di controllo istituzionale, sollevando questioni complesse di legittimità e trasparenza democratica. A differenza del Parlamento, la Commissione europea è un organo i cui membri non vengono eletti direttamente dai cittadini dell’Unione. Inoltre, sebbene essa costituisca il motore di riforme più importante all’interno dei Paesi candidati, questi non partecipano alle decisioni prese dalla Commissione e non hanno alcun controllo sulla sua composizione. Un tale modo di procedere suscita preoccupazione non solo perché rafforza i dubbi sul cosiddetto deficit democratico dell’Unione Europea, ma anche perché in questo modo si riduce lo spazio di espressione di volontà politica da parte dei cittadini degli Stati sia membri sia candidati. Per un verso, molte riforme amministrative ed economiche, spesso anche impopolari, vengono presentate come inevitabili, con il rischio di rafforzare la tendenza allo scetticismo dei cittadini nei confronti delle istituzioni europee. Per un altro verso, si riduce la capacità dei governi nazionali di rispondere alle esigenze sociali dell’elettorato e si corre il rischio di una depoliticizzazione della sfera pubblica, con il conseguente svuotamento di potere di mobilitazione e contestazione da parte dei cittadini e l’assenza di progettazione politica da parte dei principali attori nazionali che inevitabilmente ne deriva.
Una critica analoga emerge anche dall’analisi dei quattro principi che hanno guidato il quinto allargamento, qualora messi a confronto con quelli precedenti: complessità, differenziazione, condizionamento e asimmetria (Driven to change, 2004). Per quanto riguarda il primo, è stato notato come, a differenza degli allargamenti precedenti, caratterizzati da due fasi – una di Accordi di associazione e un’altra di adesione – il processo sia diventato più complesso. Sono emerse tappe intermedie durante le quali l’Unione Europea ha sviluppato strumenti specifici che spesso andavano al di là di quanto richiesto esplicitamente dall’acquis e che hanno reso più lungo e più tortuoso il processo di adesione dei Paesi candidati. Inoltre, nel gestire i rapporti con questi ultimi, la Commissione ha seguito un principio di differenziazione, secondo il quale le domande d’ingresso si considerano ognuna nello specifico. Contrariamente a quanto osservato nel metodo classico dell’allargamento che portava l’Unione Europea a trattare con gruppi di Paesi in stretti rapporti l’uno con l’altro (Preston 1997), nel caso del quinto allargamento si è preferito patteggiare separatamente con i singoli Stati interessati, generando così una forte concorrenza tra di loro e spesso sfruttando i timori di alcuni candidati di rimanere indietro rispetto ad altri.
Un’altra novità molto importante è stato l’uso estensivo del principio di condizionamento (conditionality) delle politiche interne dei Paesi candidati, per indurli a intraprendere le riforme in vista dell’adozione dell’acquis communautaire. Il principio di condizionamento è stato regolarmente usato dalla Commissione europea durante le trattative per l’adesione, per garantire sia l’adozione da parte dei Paesi candidati dei criteri di Copenaghen, sia l’adattamento delle loro istituzioni e l’effettiva capacità di implementare quanto imposto dall’acquis. Mentre nelle precedenti sessioni di allargamento ci si limitava a chiedere ai Paesi candidati di accettare gli obblighi comunitari una volta acquisito lo status di Paese membro dell’Unione, in questo caso gli obblighi diventavano vincolanti prima ancora di avviare il processo di adesione e si accompagnavano a una serie di richieste specifiche per determinate riforme interne. Va notato inoltre che queste richieste non erano state fissate in precedenza, ma venivano modificate a seconda dei cambiamenti politici intervenuti di volta in volta e con una tendenza ad aggiungere nuove e più dettagliate clausole mano a mano che si procedeva nelle trattative per l’adesione.
Tutto ciò ha portato a un’ulteriore novità nel processo del quinto allargamento: il progressivo emergere di un’asimmetria tra le istituzioni europee e quelle dei Paesi candidati, che vedeva le ultime spesso subordinate alla volontà politica degli Stati membri. Mentre i precedenti processi di adesione si basavano su strumenti bilaterali che imponevano obblighi e condizioni contrattuali a entrambe le parti, in questo caso i Paesi candidati erano costretti a costose riforme amministrative, economiche e giudiziarie con pochissimi margini di intervento interno o possibilità di opporsi a quanto stabilito dalla Commissione europea. Inoltre, le condizioni che erano state presentate ai Paesi candidati in una serie di politiche (soprattutto quelle che riguardavano la protezione dei diritti delle minoranze etniche) non erano mai state imposte o praticate dagli stessi Stati membri, oppure, in altri casi, questi avevano avuto a disposizione tempi decisamente più lunghi per potersi adeguare.
Nel caso dei candidati dell’Est, le riforme economiche che imponevano la privatizzazione di ampie aree economiche, banche e servizi pubblici, l’apertura delle industrie locali alla pressione competitiva delle compagnie dell’Ovest e la riduzione di sussidi statali a settori in difficoltà, imponevano costi enormi di transizione e aggiustamento sia dal punto di vista politico sia da quello finanziario, togliendo risorse ad altre aree fondamentali di intervento pubblico come l’educazione o la sanità. Inoltre, sebbene alcune delle riforme amministrative abbiano giovato a questi Paesi, portando alla creazione di un apparato burocratico più efficiente, a maggiore attenzione alla separazione tra potere amministrativo e giudiziario o a garantire libertà tradizionalmente trascurate come quella di associazione e stampa, i tempi e i modi in cui queste riforme sono state imposte o effettuate hanno suscitato molte perplessità. In più il modello a cui ispirarsi spesso non era esemplare: alcuni parametri stringenti di trasparenza democratica ed efficienza interna posti dal quinto allargamento ai Paesi candidati erano ignorati negli stessi Paesi membri, al punto che più volte si è ironizzato sul fatto che se l’Unione Europea presentasse domanda per diventare un membro di sé stessa, paradossalmente dovrebbe vedersela rifiutare.
La conclusione del quinto allargamento ha segnato la fine di alcune controversie tra vecchi e nuovi membri sorte durante lo svolgimento dei negoziati, ma anche l’apertura di una nuova fase per le istituzioni dell’Unione Europea. Le questioni maggiori da affrontare in futuro riguardano per un verso la capacità effettiva d’integrazione dei Paesi membri nelle strutture dell’Unione e il loro sviluppo politico interno, per un altro verso l’attitudine delle stesse istituzioni comunitarie a prendere decisioni collettive, data la maggiore diversità di tradizioni politiche e culturali che contrassegna l’Europa a ventisette Stati. Occorre misurare la sua effettiva capacità di rappresentare un’entità politica sovranazionale in grado di esprimere la volontà generale dei suoi cittadini e non un mero aggregato di Stati che perseguono interessi individuali e separatamente articolati.
Per quanto riguarda le sfide che i Paesi membri dovranno affrontare, sorge intanto la questione di quello che è stato definito il paradosso implicito nel principio di condizionamento. Tale principio, come abbiamo visto, ha segnato tutte le fasi del processo d’allargamento ma ora rischia di avere ripercussioni negative sulla salute della democrazia negli Stati di recente adesione (Après enlargement, 2006). Infatti, nonostante l’obiettivo dei negoziati fosse quello di abilitare i nuovi membri all’eguale partecipazione nelle strutture comunitarie e di prepararli ad assumere gli obblighi dell’acquis, l’uso persistente del principio di condizionamento in quella fase corre il rischio di indebolire i processi futuri di costruzione dell’Unione. Ci vorrà tempo per smantellare i rapporti di potere stabiliti durante le fasi di negoziato e per cancellare gli effetti della dipendenza dei nuovi Stati da quelli vecchi, coltivata durante le fasi di negoziato all’adesione.
Il processo di adeguamento all’acquis, che ha portato all’adozione di metodi di lavoro propri dell’Unione Europea e a relegare in secondo piano tradizioni e saperi locali, rischia di lasciare gli attori politici nazionali senza idee chiare su come procedere politicamente per completare le tappe di postadesione. Le sfide sono molte. I nuovi Paesi membri dovranno fare i conti con le riforme amministrative, di polizia e controllo dei propri confini, rese necessarie dalla loro recente entrata nell’area Schengen. Essi dovranno inoltre affrontare una serie di responsabilità legate all’entrata nell’Unione monetaria europea: la Slovenia ha già adottato l’euro il 1° gennaio 2007 e deve ora stabilizzare i suoi rapporti con la Banca centrale europea e mantenere bassi i tassi di inflazione e di interesse, mentre altri Paesi stanno attraversando una fase preparatoria che li vincola al rispetto dei criteri di stabilità fiscale imposti dal Trattato di Maastricht e a una serie di riforme necessarie per garantire l’efficienza monetaria. Inoltre l’integrazione europea complica il processo decisionale all’interno dei nuovi membri, rendendolo più decentralizzato e operante su una molteplicità di versanti istituzionali, indebolendo così il margine d’azione dei parlamenti nazionali e rafforzando il potere di entità non maggioritarie come la Commissione o la Corte europea di giustizia.
Proprio quest’ultimo punto introduce una delle questioni più serie che l’Unione Europea allargata si è trovata di recente ad affrontare, quella delle sue riforme istituzionali. Tali riforme sono state rese necessarie per un verso dall’anticipata difficoltà di coordinare le priorità di ventisette membri all’interno dell’Unione senza sacrificarne l’unità politica, e per l’altro dalle crescenti critiche al suo deficit democratico e alla mancata trasparenza decisionale. La questione delle riforme è al centro del recente Trattato di Lisbona, modesto erede del Trattato per la costituzione europea, fallito in seguito ai referendum costituzionali in Francia e Olanda, e il cui sviluppo appare particolarmente incerto alla luce di un nuovo rifiuto in Irlanda in occasione del referendum del 12 giugno 2008.
Il Trattato di Lisbona comprende la riduzione del numero di commissari europei e di membri del Parlamento, l’adozione delle procedure di voto a doppia maggioranza qualificata all’interno del Consiglio europeo, la creazione di una carica di presidente del Consiglio dell’Unione per due anni e mezzo (rinnovabili), la creazione di una carica di Alto rappresentante per gli affari esteri e le politiche di sicurezza, l’attribuzione di personalità legale all’Unione, il rafforzamento dei parlamenti nazionali tramite il diritto di obiettare alla normativa comunitaria e una clausola di uscita dall’Unione per i membri che lo vorranno. Inoltre il Trattato estende il sistema di maggioranza qualificata a oltre 40 nuove materie e fa riferimento ai cambiamenti climatici e alla solidarietà energetica tra Paesi membri. Nonostante queste misure siano volte a ottenere maggiore coerenza istituzionale all’interno dell’Unione, non è sfuggito come già nel corso delle discussioni gli Stati membri abbiano più volte tentato di far prevalere i propri interessi nazionali anche a discapito dell’unità politica europea. È il caso, per es., della cosiddetta clausola di Ioannina, voluta dalla Polonia, che permette a una minoranza di Stati membri di ritardare per un certo periodo decisioni fondamentali prese a doppia maggioranza dal Consiglio, anche se non si possiede un numero di voti sufficiente per bloccarne l’approvazione.
Se già il percorso di approvazione del testo del Trattato di Lisbona ha dimostrato in modo chiaro le difficoltà di realizzare concretamente quell’«uniti nella diversità» affermato nel motto dell’Unione Europea, le vicende recenti riguardanti l’adozione del Trattato nei vari Paesi membri hanno gettato le istituzioni comunitarie in una crisi profonda. La ratifica definitiva del testo, prevista per la fine del 2008, e la sua entrata in vigore, attesa prima delle elezioni europee del 2009, sono state rinviate in seguito all’esito negativo del referendum del giugno 2008 in Irlanda. Benché sia difficile valutare quanto il timore derivante dall’allargamento dell’Unione Europea abbia determinato il no irlandese al Trattato di Lisbona, una delle maggiori cause del rifiuto è stata attribuita alla mancata comprensione, da parte dell’elettorato irlandese, dei contenuti di un testo considerato troppo lungo e intricato. Tale reazione alla complessità del testo del Trattato è ironica, visto che il suo obiettivo principale era proprio quello di semplificare l’architettonica delle istituzioni europee di fronte alle sfide, sia di contenuto sia procedurali, che un’Unione Europea a 27 Stati si preparava ad affrontare. Un tale difetto di comunicazione tra istituzioni europee e cittadini ha portato a una strenua difesa del principio di sovranità nazionale in aree chiave come la politica economica e quella di sicurezza, nonostante le rassicurazioni sul fatto che i cambiamenti introdotti dal Trattato di Lisbona non modificavano sostanzialmente i principi fondanti dell’Unione, ma si limitavano a migliorarne l’efficienza operativa.
Sebbene non fosse la prima volta che l’elettorato irlandese prendeva posizione negativa rispetto a un importante nuovo progetto europeo (a una simile esperienza si era già assistito durante il percorso di ratifica del Trattato di Nizza), una tale reazione da parte di un Paese che ha tratto enormi vantaggi dai fondi strutturali dell’Unione Europea ha rafforzato le preoccupazioni sulla fattibilità del progetto europeo e suscitato timori riguardo alle possibili ripercussioni anche tra i nuovi membri. Questa reazione, inoltre, ha fatto trasparire un certo scetticismo da parte dell’opinione pubblica di un Paese che si è visto minacciato dagli ultimi sviluppi dell’Unione Europea e dove diversi raggruppamenti sociali hanno lamentato, per es., la possibilità che il Trattato aprisse uno spiraglio a un sistema fiscale unico, oppure la minaccia alla neutralità del Paese, o ancora l’indebolimento dei sussidi ai propri agricoltori e infine la pressione derivante da un più ampio mercato del lavoro. Per un altro verso, è emerso chiaramente come il fatto di aver ricavato benefici dal processo dell’integrazione europea non costituisse di per sé una garanzia sicura dell’accettazione dei valori fondanti dell’Unione e come un simile scenario potesse ripetersi in futuro anche tra i nuovi membri, nell’ipotesi di un ulteriore allargamento dell’Unione stessa.
I dibattiti intorno al fallimento del referendum irlandese all’interno dei nuovi Paesi membri illustrano chiaramente alcune delle difficoltà a cui il progetto va incontro. All’indomani del referendum irlandese è stato proprio Václav Klaus, il presidente di uno dei più importanti nuovi Stati membri (la Repubblica Ceca) a celebrare il rifiuto del Trattato di Lisbona come una «vittoria della libertà e della ragione» e a dichiarare che la sua ratifica «non poteva continuare». All’estremo opposto invece si sono sentite reazioni simili a quelle dei socialdemocratici romeni, i quali hanno proposto il lancio di un nuovo referendum in Irlanda ma nel quadro di un aut aut che costringerebbe il Paese o a impegnarsi nella ratifica e promozione del Trattato di Lisbona oppure ad abbandonare l’Unione Europea. Altri tentativi di mediazione includono la promessa di specifiche garanzie istituzionali all’Irlanda, il rilancio del referendum in seguito a una campagna di sensibilizzazione dei suoi cittadini rispetto agli obiettivi dell’Unione Europea e la promozione di specifiche politiche di cooperazione che permetterebbero al resto dell’Europa di avanzare nel processo di integrazione senza ulteriori ostacoli. Le strategie concrete per superare l’impasse istituzionale, emerse nel luglio 2008, prevedono, per es., l’estensione del mandato della Commissione europea fino all’approvazione del Trattato; la possibilità di modificare alcuni suoi articoli per fornire garanzie di svincolamento all’Irlanda; la promessa di non ridurre il numero dei commissari europei e altre garanzie riguardo al rispetto della sovranità nazionale in materia di tasse, neutralità militare e aborto. In queste condizioni si spera che un nuovo referendum da tenere in Irlanda tra settembre e ottobre 2009 possa produrre un esito diverso e, sebbene le modifiche introdotte appaiano plausibili nel breve termine, è difficile non interrogarsi sui problemi che a lungo termine si troverà ad affrontare un processo di integrazione che si concepisca come realmente sovranazionale. Se per un verso l’allargamento dell’Unione Europea apre enormi spazi di collaborazione e crea possibilità storiche senza precedenti, le tensioni tra i Paesi membri e la disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni europee continuano a costituire uno dei principali ostacoli da superare. Più aumenta il numero dei cittadini dell’Unione, insieme a quello degli Stati membri, più diventa urgente la questione del deficit democratico e la necessità di stabilire meccanismi di governo che possano combinare rappresentatività ed efficienza. Inoltre, la capacità dei cittadini dei vari Paesi membri di sviluppare una solidarietà transnazionale e in grado di superare il riferimento esclusivo ai propri interessi nazionali dipende in gran parte dall’abilità delle istituzioni europee di promuovere un progetto di giustizia sociale dal quale i settori più vulnerabili di tutte queste società possano trarre beneficio. In tal modo si potrebbe sperare di porre un freno alla manipolazione del percorso di integrazione europea da parte di quelle forze politiche populiste e xenofobe che, all’interno degli Stati membri, agitano lo spettro dell’allargamento, strumentalizzando i timori connessi all’espansione del mercato del lavoro oppure alla possibile libera circolazione delle persone e ostacolando così l’intero processo.
Un ultimo ambito in cui il coordinamento tra vecchi e nuovi membri dell’Unione appare difficile è quello della politica estera comune. Nonostante l’auspicio di costruire un’Unione Europea con una politica estera indipendente da quella degli Stati Uniti e in grado di ristabilire un equilibrio multipolare globale, il processo di allargamento ha moltiplicato i dubbi sull’effettiva capacità dell’Unione di esprimersi con una voce unica in materia di politica estera. Una scissione tra vecchi e futuri membri dell’Unione è già emersa chiaramente nell’inverno del 2003, nel contesto della guerra all’Irāq, quando, proprio mentre la Francia e la Germania esprimevano preoccupazione sull’avventura bellica statunitense, molti Paesi dell’Europa orientale (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Lettonia, Lituania, Estonia, Slovacchia, Slovenia, Bulgaria e Romania) ribadivano invece il loro sostegno agli Stati Uniti.
Chiaramente questo posizionamento è anche dovuto alla doppia affiliazione alle strutture comunitarie e alla NATO (North Atlantic Treaty Organization) che molti membri dell’Unione Europea condividono. Nonostante alcuni singoli episodi di attrito diplomatico, sembra dunque ingenuo ipotizzare una vera svolta indipendentista nella politica estera dell’Unione Europea, considerando il peso esercitato dagli Stati Uniti in un’alleanza militare di cui molti Paesi candidati europei condividono importanti finalità o alla quale auspicano l’adesione. Simili episodi tuttavia dimostrano che il cosiddetto dilemma di ‘allargamento versus approfondimento’ è destinato a durare e ad avere serie ripercussioni. Anche se nel corso della storia l’allargamento è stato accompagnato da fasi di approfondimento, una delle proposte recenti per risolvere le difficoltà di coordinarsi si appella al modello di un’Europa a due velocità, con un nucleo di Stati membri più vicini in termini di tradizioni politiche e volontà di integrarsi che procede speditamente secondo riforme di tipo semifederale, seguito da un altro gruppo che invece fa ricorso ad accordi intergovernativi e con un margine più ampio di utilizzo del voto all’unanimità. L’obiezione a questa proposta è stata tuttavia che così si rischia di consolidare gerarchie di potere già esistenti, operando una selezione arbitraria tra inclusi ed esclusi dal nucleo di veloce integrazione oppure rafforzando i timori sulla creazione di un asse franco-tedesco pericolosamente dominante. Pare ancora troppo presto per fare pronostici sul fatto se questa sarà comunque la strategia preferita nell’Unione Europea dopo il quinto allargamento o se si opterà per metodi diversi e più radicali di riforma istituzionale.
All’indomani del processo che ha visto dodici nuovi Stati aderire all’Unione Europea, l’allora Commissario per l’allargamento Günter Verheugen dichiarò che il processo poteva per il momento ritenersi concluso. L’Unione Europea entrava in una nuova fase di assestamento e di interrogazione sui suoi obiettivi e avrebbe avuto bisogno di qualche tempo prima di poter considerare seriamente altre possibili candidature. Intanto queste si moltiplicavano e sembrava difficile non prestare ascolto a chi vedeva nei negoziati per l’allargamento gli esiti di maggior successo nell’ambito della politica estera dell’Unione, premendo affinché il processo rimanesse aperto, se non altro per indurre i Paesi vicini a sostanziali riforme politiche interne grazie alla promessa dell’adesione.
Un altro dato interessante costituisce il recente interessamento a fare parte dell’Unione Europea di un Paese come l’Islanda, spesso considerato euroscettico, ma ora in preda a difficoltà economiche in seguito alla crisi finanziaria esplosa nell’autunno del 2008. Vista la partecipazione dell’Islanda nell’Area economica europea (AEA), il commissario per l’allargamento Olli Rehn ha dichiarato che se le procedure d’ingresso venissero avviate in fretta, l’Islanda avrebbe buone possibilità di aggiungersi all’Unione nello stesso tempo della Croazia.
Di tutti i Paesi che hanno espresso la volontà di aderire all’Unione Europea, la Turchia è quello che ha alle spalle la storia più lunga di dialogo con le istituzioni comunitarie, con un Accordo di associazione firmato già nel 1963 e una domanda d’ingresso che risale al 1987. Le trattative ufficiali per l’adesione sono state aperte nel 2005, ma nel novembre 2006 la Commissione ha raccomandato la loro parziale sospensione a causa del mancato progresso del Paese nella soluzione del conflitto con Cipro. Il Consiglio europeo ha di conseguenza sospeso i negoziati su 8 dei 35 capitoli aperti. Nel quadro dei negoziati, definito come rigoroso da parte del Commissario europeo per l’allargamento, Olli Rehn, è stato affermato che, sebbene l’obiettivo condiviso delle trattative sia l’adesione della Turchia all’Unione, il loro esito sarà aperto e non potrà essere garantito in partenza. Se alla fine dei negoziati la Turchia non si qualificasse per l’adesione a causa del suo mancato progresso nelle riforme imposte dai criteri di Copenaghen, gli Stati membri hanno promesso comunque di garantirne il «pieno ancoraggio nelle strutture dell’Unione tramite un legame il più forte possibile». I negoziati per l’adesione prevedono una serie di conferenze intergovernative alle quali dovranno partecipare sia la Turchia sia tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e dove le decisioni dovranno essere prese all’unanimità. L’Unione Europea potrebbe considerare la possibilità di lunghi periodi di transizione, deroghe, accordi specifici o clausole permanenti nelle sue proposte per ogni capitolo dei negoziati. Inoltre questi potrebbero essere sospesi in qualsiasi momento nel caso di «una violazione seria e persistente dei principi della democrazia, dei diritti umani e delle libertà su cui l’Unione si fonda» e potranno in ogni caso concludersi soltanto dopo il 2014, data stabilita per la nuova finanziaria europea.
Le difficoltà che la Turchia affronta nel vedersi riconoscere un ruolo di candidato a pieno titolo dell’Unione Europea e le controversie che le sue trattative per l’adesione suscitano oggi tra i vari Stati membri hanno radici politiche, economiche ma soprattutto culturali. Per quanto riguarda le difficoltà economiche, si sottolinea spesso come la Turchia sia un Paese molto povero rispetto alla media europea e nonostante la sua economia in crescita e una popolazione giovane possano apportare benefici al mercato unico, essa potrebbe rappresentare un peso per il bilancio dell’Unione, soprattutto per quanto riguarda i sussidi agricoli e le politiche di coesione. Dal punto di vista geostrategico la Turchia svolge un ruolo importante, vista la sua posizione di confine sia con il Medio Oriente sia con le regioni del Mar Nero. Inoltre il suo orientamento filoccidentale in politica estera è ineccepibile: già membro della NATO, la Turchia è il Paese che contribuisce con il numero più alto di soldati al mantenimento delle forze dell’organizzazione nordatlantica. I timori che quest’allargamento suscita sono però legati al fatto che se la Turchia diventasse membro dell’Unione, quest’ultima si troverebbe a condividere i suoi confini con Paesi politicamente instabili come l’Azerbaigian, l’Armenia, l’Irān e la Siria. Una volta allargata alla Turchia, l’Unione Europea si troverebbe ad affrontare in modo più immediato la questione delle relazioni da intrattenere con questi Stati e possibilmente anche a fare i conti con qualche richiesta in più di adesione.
Un altro ambito che ostacola il progresso dei negoziati con l’Unione Europea è quello delle riforme politiche. L’Unione ha più volte espresso preoccupazione in merito alle politiche nei confronti delle minoranze etniche, in particolare quella curda, alle limitazioni alla libertà di espressione e all’influenza dei militari nella sfera pubblica. Vi sono comunque stati dei progressi in questa direzione, come la riforma dell’articolo 301 del codice penale turco, datata aprile 2008, auspicata dall’Unione Europea. L’articolo limitava la libertà di espressione di scrittori e giornalisti sottolineando come gli insulti contro la ‘turchità’ fossero un crimine perseguito penalmente (fino a tre anni di prigione) e la sua recente revisione in Parlamento testimonia chiaramente la volontà di Ankara di impegnarsi con le riforme imposte dai criteri di Copenaghen.
Un’altra questione che blocca i negoziati per l’adesione è quella della Repubblica turca di Cipro del Nord (non riconosciuta internazionalmente), dove la Turchia è intervenuta militarmente nel 1974, e che è separata dalla Repubblica di Cipro a sud da una forza di pace delle Nazioni Unite. In un referendum del 2003, la parte greca dell’isola, che si apprestava a entrare nell’Unione Europea (1° maggio 2004), si è espressa contro un piano di riunificazione proposto dalle Nazioni Unite e accolto con favore al Nord. I rapporti tra le due repubbliche continuano a essere tesi e sebbene la Turchia abbia firmato un protocollo che estende ai dodici nuovi membri il Trattato di associazione di Ankara del 1963, riconoscendo così implicitamente la repubblica greco-cipriota, il governo turco ha sottolineato che l’adozione di questo protocollo non implica il riconoscimento di tale repubblica.
Forse però l’argomento più ricorrente per mettere in discussione le prospettive di adesione della Turchia all’Unione Europea è quello che pone l’accento sulle differenze culturali e religiose tra questo Paese e gli attuali Stati membri. La questione sembra avere più carattere normativo che empirico: ci si chiede quali caratteristiche le popolazioni europee debbano condividere per poter essere governate dalle stesse istituzioni e si sottolineano ora le tradizioni politiche e istituzionali, ora l’identità culturale e i valori cristiani, ora la fede in un futuro progetto politico. In questa fase storica, specialmente dopo la sconfitta dei referendum costituzionali in Francia e Olanda e il rifiuto del Trattato di Lisbona nel referendum irlandese, con l’aumento dello scetticismo verso il progetto europeo che ne è conseguito, gli argomenti di natura essenzialista, culturale o religiosa si sono moltiplicati, relegando in secondo piano la questione della progettualità politica e rendendo più complesso presentare a un’opinione pubblica già diffidente la prospettiva dell’adesione di un Paese a maggioranza musulmana, con tradizioni culturali profondamente diverse e con istituzioni laiche ora sotto attacco da una rinascita dell’islam e del conservatorismo politico.
I sostenitori dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea sottolineano come in questo modo l’Europa manderebbe un segnale positivo, dimostrando di essere in grado di dialogare con tradizioni culturali e religiose profondamente diverse e portando avanti il suo slogan politico: «uniti nella diversità». Il capo della Commissione europea, José Manuel Durão Barroso, ha di recente dichiarato che i negoziati di adesione dovrebbero essere tenuti aperti, ammonendo i Paesi membri a non esprimere decisioni definitive fino alla fine del processo. Le decisioni future dipendono, per un verso, dagli sviluppi interni della Turchia e dal passo delle sue riforme in conformità ai criteri di Copenaghen e, per l’altro, dall’opinione pubblica nazionale dei principali Paesi europei.
Diverso da quello della Turchia si prospetta invece il futuro per l’adesione all’Unione Europea dei Paesi dei Balcani Occidentali: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro e Serbia. Il Consiglio europeo ha dichiarato, nel dicembre 2007, che il futuro dei Balcani Occidentali resta nell’Unione Europea e ha ribadito il suo interesse strategico nel mantenimento della pace e della stabilità nella regione, riconoscendo come la prospettiva dell’integrazione costituisca il migliore mezzo per avvicinarsi a questo fine. Lo strumento usato dall’Unione Europea per facilitare l’avvicinamento delle legislazioni di questi Paesi alla legislazione comunitaria sono gli Accordi di stabilizzazione e associazione, trattati di cooperazione simili agli Accordi europei già usati nel caso del quinto allargamento, ma che dettano condizioni ancora più stringenti agli Stati che desiderano candidarsi e comprendono la creazione di aree di libero scambio. Questi accordi sono preceduti da liberalizzazioni asimmetriche del commercio bilaterale.
Tra tutti i Paesi potenzialmente candidati nei Balcani Occidentali la Croazia è quello con una prospettiva più probabile d’ingresso nell’Unione. La sua domanda di adesione risale al 2003, mentre la decisione del Consiglio europeo di conferirle lo status di Paese candidato è stata presa a metà del 2004. La Croazia sperava allora di aderire insieme alla Romania e alla Bulgaria, ma l’Unione Europea ritenne insufficienti le riforme attuate e la cooperazione del Paese con il Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Iugoslavia. In particolare, la mancata estradizione del generale Ante Gotovina al Tribunale internazionale risultò fatale per la data di apertura dei negoziati, inizialmente stabilita per il marzo del 2005, ma rimandata alla fine dello stesso anno. Il processo di visualizzazione dei 33 capitoli dell’acquis si è concluso nell’ottobre del 2006. Nel caso di un buon andamento delle riforme, l’adesione potrebbe avvenire in un perio;do compreso tra il 2010 e il 2012.
Per quanto riguarda gli altri Paesi dei Balcani Occidentali, le prospettive per l’ingresso nell’Unione sono più remote. La Macedonia si è vista riconoscere lo status di candidato potenziale nel dicembre 2005, ma non è stata stabilita una data per l’avvio dei negoziati. L’Albania e il Montenegro (indipendente dal giugno 2006) hanno firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione rispettivamente nel giugno 2006 e nell’ottobre 2007. Nel caso della Bosnia ed Erzegovina, invece, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione si è conclusa con successo a metà del 2008, dopo il completamento di una riforma della polizia, elemento che costituiva una delle richieste più importanti dell’Unione Europea.
Per quanto riguarda la Serbia, l’Accordo di stabilizzazione e associazione è stato firmato nell’aprile 2008. La Commissione europea riconosce al Paese un ruolo chiave per la stabilità nella regione, sia dal punto di vista economico sia da quello politico, tuttavia i rapporti con i Paesi membri si sono complicati a partire dal fallimento delle trattative internazionali per la definizione dello status del Kosovo e la dichiarazione unilaterale d’indipendenza di quest’ultimo il 17 febbraio 2008. L’evento ha creato imbarazzo in seno al Consiglio europeo, viste le difficoltà che i Paesi membri tuttora affrontano quando si tratta di prendere una posizione comune in materia di politica estera. La preoccupazione di molti Paesi membri era quella di stabilire, con il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, un precedente politico che poi poteva essere usato per criticare la posizione di molti di loro rispetto alle proprie minoranze etniche. Perciò anche se l’Unione ha dichiarato la posizione del Kosovo sui generis e ha escluso che esso ponesse un precedente politico, il Consiglio europeo ha stabilito che gli Stati membri decideranno sulle loro relazioni con il Kosovo compatibilmente alle tradizioni e prassi nazionali e alla legge internazionale. Posizione anche questa contraddittoria se si sottolinea che la Commissione europea ha di recente affermato che «il Kosovo, come tutti gli altri Paesi dei Balcani, ha una prospettiva chiara e tangibile nell’Unione» (Commissione, rapporto 2007-08). Una svolta positiva nei rapporti con la Serbia è comunque giunta dopo l’accordo per la creazione di un governo filoeuropeo nel giugno del 2008 e in seguito alla cattura, da parte della polizia serba, del sospettato criminale di guerra Radovan Karadžić.
In generale lo sviluppo successivo del processo di allargamento ai Balcani Occidentali dipende dal progresso fatto in materie come il consolidamento delle istituzioni democratiche, la riforma amministrativa e giudiziaria, la lotta contro la corruzione e il crimine organizzato, lo sviluppo socioeconomico e la cooperazione con il Tribunale internazionale per i crimini dell’ex Iugoslavia. Un ruolo importante svolgono le riforme volte a facilitare lo sviluppo della società civile e il diffondersi di iniziative che favoriscano il dialogo multietnico e l’educazione multiculturale. Vista la difficoltà di attuare in tempi brevi alcune di queste riforme, tranne che in Croazia, sembra difficile ipotizzare date di apertura dei negoziati per l’adesione con gli altri Paesi dei Balcani Occidentali.
Lo spostamento a Est dei confini europei, avvenuto con il quinto allargamento, ha posto il problema immediato di come ci si dovesse relazionare ai nuovi vicini, molti dei quali auspicano l’adesione nell’UE anche in virtù della loro storia di cooperazione rafforzata bilaterale con alcuni dei nuovi membri. A questo fine nel 2004 è stata approvata una Politica europea di prossimità (European neighbourhood policy) che regola i rapporti con Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Armenia, Azerbaigian e Georgia, ma che comprende anche i Paesi che un tempo costituivano il partenariato euromediterraneo: Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Israele, Giordania, Autorità Palestinese, Libano, Siria. Gli accordi sono stati offerti anche alla Russia, che però ha rifiutato, scettica nei confronti delle relazioni dell’Unione con alcuni Paesi a lei più vicini storicamente e che sostiene di vedere il suo ruolo come partner strategico dell’Unione piuttosto che come eventuale Paese candidato.
Il dato più notevole rispetto alla Politica europea di prossimità è che essa funziona in modo analogo agli accordi di preadesione con i Paesi candidati in fase di negoziato, ma senza offrire una prospettiva chiara d’integrazione. L’obiettivo esplicito è infatti quello di rafforzare la cooperazione con le istituzioni comunitarie in temi come la liberalizzazione del commercio, il dialogo politico, la giustizia e la sicurezza, le riforme sociali, i trasporti, l’energia, l’ambiente, l’educazione e altro. L’Unione Europea ha stabilito piani individuali di azione per ognuno dei partner e controlla regolarmente il loro progresso nelle riforme. Ciò significa che a questi Stati viene richiesto di adottare una serie di regolamentazioni europee e di conformarsi a gran parte dell’acquis ma escludendo che la cooperazione possa essere intesa come una promessa di adesione. Infatti le politiche sono state dichiarate neutrali per quanto riguarda l’accesso e nonostante l’Unione offra benefici a lungo termine, essa richiede riforme spesso costose, senza soddisfare i bisogni dei partner in materie come il commercio agricolo o la liberalizzazione dei visti per visitare l’Unione. In sintesi, la Politica europea di prossimità rappresenta un passo avanti nella cooperazione su questioni come i flussi migratori, la sicurezza, il crimine internazionale e la sicurezza delle provviste energetiche, ma è anche soggetta a importanti critiche a causa dell’uso unilaterale del principio di condizionamento.
La conclusione del quinto allargamento dell’Unione Europea ha lasciato aperte molte questioni concernenti sia la riforma interna delle sue istituzioni sia la definizione di Europa che la modifica dei suoi confini chiama in causa. Che cos’è l’Europa? Un’entità geografica? Un gruppo di Paesi con certe affinità culturali e una storia comune di cooperazione e ostilità? O semplicemente un progetto politico, da adeguare di volta in volta a determinate circostanze geopolitiche e socioeconomiche? Quanto allargamento è concretamente sostenibile? E quanto se ne può giustificare dal punto di vista normativo?
È lecito ipotizzare che queste domande continueranno a provocare accesi dibattiti tra i fautori di un’idea di Europa imperniata su valori tradizionali e una precisa identità storica consolidata e coloro che ne sottolineano l’afflato cosmopolita e la responsabilità delle istituzioni dell’Unione di continuare a rappresentare una forza dinamica di emancipazione sociale e politica. La soluzione di questo dilemma dipende molto dalle trasformazioni politiche interne ai Paesi membri e dall’atteggiamento delle opinioni pubbliche nazionali nei confronti delle istituzioni comunitarie. Essa però è determinata anche dalla capacità della stessa Unione Europea di sciogliere le proprie contraddizioni e di soddisfare i bisogni dei cittadini europei relazionandosi a loro in modo più diretto, trasparente e democratico possibile.
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