Il problema dell'amministrazione
Le personalità e le figurazioni della cultura giuridico-amministrativa di cui nel seguito ci occuperemo si muovono sullo sfondo storico del primo cinquantennio di vita del Regno d’Italia o poco più.
Si tratta di circa mezzo secolo in cui la costruzione dello Stato unitario procede secondo due tappe, abbastanza nettamente individuabili. Vi è dapprima la fase dell’unificazione, realizzata nel segno di scelte e pratiche politiche di impronta liberale; quindi, a partire dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, l’emergere e il prevalere di scelte e pratiche politiche più tipiche di uno Stato sociale. Sono queste infatti che, agli inizi del secolo successivo, concludono davvero il processo di costruzione e nazionalizzazione dello Stato italiano, dotando quest’ultimo della legittimazione e della capacità di integrazione che gli sono indispensabili.
In realtà, al di là di definizioni così sintetiche, il quadro dei decenni in questione si presenta ricco di sfumature e contraddizioni. Né aiuta molto a semplificarlo il fatto di limitarsi ai tratti di esso che direttamente riguardano il ῾problema dell’amministrazione᾿. È evidente, infatti, che in un processo di costruzione dello Stato la vicenda amministrativa svolge un ruolo cruciale; anzi essa sembra, in certa misura, assorbire e strutturare molti degli altri profili – politici, economici, sociali – dello State-building.
Del resto, la dottrina giuridica ha ripetutamente sostenuto e variamente fraseggiato l’intrinsecità di costituzione e amministrazione. Ebbene, tale intrinsecità è ancora più pronunciata e facilmente osservabile in Italia nell’arco di tempo in esame. Qui, l’edificazione dello Stato richiese infatti un’estesa e robusta infrastruttura di norme e apparati amministrativi che integrassero e supplissero un dettato costituzionale indubbiamente scarno. Lo statuto albertino infatti, ben diversamente da una costituzione come quella belga – pure da esso in gran parte presa a modello – non conteneva norme che riguardassero, per es., i conflitti tra amministrazione e cittadini o l’organizzazione dei poteri locali (si vedano, in proposito, gli articoli 93 e 108 della Carta belga del 1831).
Non è dunque forzato sostenere che la costituzione del Regno d’Italia risultò definita da interventi legislativi aventi a oggetto l’amministrazione. Si pensi alle cosiddette leggi di unificazione amministrativa, varate nel 1865 (in realtà, gli allegati A-F della l. 20 marzo 1865, nr. 2248); al complesso di leggi, in parte riformatrici delle precedenti, promosse da Francesco Crispi tra il 1888 e il 1890; alla legislazione, infine, che viene ascritta all’influenza di Giovanni Giolitti, nel primo decennio del Novecento. In effetti, è proprio a questi diversi corpi normativi che si è, più sopra, fatto implicito riferimento, parlando delle scansioni nel processo di edificazione dello Stato unitario.
Questa ‘costituzione amministrativa’ e il pensiero giuridico-amministrativo che su di essa riflette danno vita a una dialettica complessa e tutt’altro che univoca, tale tuttavia da gettare luce sugli svolgimenti di entrambi i suoi termini.
A ben vedere, infatti, le fasi comunemente riconosciute in quella che chiameremo qui ‘amministrativistica’ coincidono abbastanza nitidamente con le scansioni sopra proposte per la ‘costituzione amministrativa’. In particolare, la fase che si inaugura con le riforme di Crispi coincide con il marcato riposizionamento scientifico-accademico degli studi amministrativi che si verifica in quegli anni, per impulso unanimemente attribuito a Vittorio Emanuele Orlando. Anzi, il 1889, anno centrale per la legislazione crispina, è anche quello nel quale Orlando tiene la prolusione da cui si fa datare la ‘svolta’ da lui promossa (V.E. Orlando, I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico, in Id., Diritto pubblico generale. Scritti varii coordinati in sistema (1881-1940), 1940).
Certo, distinguere negli svolgimenti del pensiero giuridico-amministrativo una fase ‘preorlandiana’ e una orlandiana sacrifica più di qualche sfumatura, sopravvalutando, per es., il successo dell’iniziativa del maestro siciliano e le continuità che essa lasciò sussistere (Rebuffa 1981, p. 177; Lanchester 2004, pp. 5-6; Cassese 2010, p. 279). È comunque distinzione plausibile e descrittivamente utile. In questo senso, sarà accolta nella partizione di questo saggio.
A ognuna della due fasi individuate saranno dunque dedicati tre paragrafi, riguardanti rispettivamente i tratti della vicenda amministrativa, i profili generali del pensiero giuridico-amministrativo come disciplina, i rapporti tra quello e gli ordinamenti amministrativi coevi. Un paragrafo conclusivo delineerà in estrema sintesi spunti e tendenze destinati a svilupparsi nel corso del 20° secolo.
Come noto, l’unificazione italiana comportò l’estensione – sia pure non immediata – alle provincie annesse della legislazione e dei moduli organizzativi propri del Regno di Sardegna.
Questa ‘piemontesizzazione’ degli ordini amministrativi non riguardò solo il tessuto normativo, ma anche l’attribuzione di posti di responsabilità politica a personale prevalentemente proveniente dalle antiche provincie del Regno di Sardegna. Sotto quest’ultimo profilo sono chiare la tendenza e l’intenzione egemoniche che portarono alla esclusione di personale di origine meridionale. Si trattasse di prefetti o di presidenti del consiglio, tale personale non raggiunse posizioni di rilievo se non a partire dall’età crispina (Crispi essendo, appunto, il primo presidente del consiglio italiano proveniente dal Sud). Ciò non è irrilevante – come si vedrà – anche ai fini di considerazioni direttamente riguardanti l'amministrativistica.
L’edificazione dello Stato nazionale procedette dunque secondo i dettami di un’uniformità legislativa che replicò il modello piemontese, con temperamenti solo occasionali e tattici. Altrettanto chiara, sebbene più sfumata, è la qualificazione liberale della politica amministrativa seguita in questa fase. In alcuni settori rilevanti ed emblematici dell’assetto e delle politiche statali l’indirizzo del legislatore fu, in questo senso, coerente.
Nell’ambito dell’assistenza sociale, il neonato Stato italiano optò per una blanda azione regolativa dell’attività delle opere pie, affidata agli enti locali (con la ῾gran legge᾿ del 3 agosto 1862, nr. 753). In materia di espropriazione per pubblica utilità, si aderì (con il decreto legislativo 25 giugno 1865, nr. 2539) a una linea rispettosa delle cautele di cui già l’art. 29 dello Statuto circondava l’istituto e lo si configurò come una ῾vendita forzata᾿, con rispetto pieno quindi del valore della proprietà.
Per quanto riguarda i conflitti tra cittadini e pubblica amministrazione, ovvero la capacità dei primi di resistere agli atti della seconda, il legislatore volle introdurre, con l’allegato E della legge citata, la giurisdizione unica (e quindi l’abolizione dei tribunali ordinari del contenzioso). Si trattò di una scelta guidata da ῾spirito liberale᾿ (V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Primo trattato completo di diritto amministrativo, 3° vol., 1901, p. 637); giacché essa fu intesa, sia pure con lacune e incertezze, a limitare il privilegio dell’amministrazione nei confronti del cittadino che a essa si opponeva.
Certo, in altri ambiti la silhouette istituzionale del Paese all’indomani dell’unificazione non rassomigliava certo all’immagine del ῾guardiano di notte᾿ delineata dall’ideologia liberale. Ma non vi è dubbio che la classe politica italiana condivise l’ideale di un bilanciamento tra autorità statale, autonomia della società civile e libertà individuali, soprattutto sollecito di evitare gli eccessi della prima.
Una stridente e marcante smentita di siffatto bilanciamento venne invece dall’assetto dato al governo locale. Qui l’indirizzo centralistico si affermò nettamente – a tacere d’altro –, attraverso la nomina governativa del sindaco, l’esiguo numero di funzioni attribuite ai municipi, la loro soggezione a penetranti controlli. A favore di questo assetto non giocava solo la spinta inerziale della tradizione sabauda. Forte era anche la preoccupazione per l’uso che dell’autonomia locale avrebbero potuto fare forze politiche e sociali non devote alla giovane nazione e poco avvezze al maneggio corretto e prudente delle cose civiche.
Va aggiunto solo che questa diffidenza, non sempre immotivata, nei confronti dell’atteggiarsi dei governi locali mutò di espressione, ma non di intensità nei decenni successivi. Nei quali, anzi, taluni tratti del centralismo vennero accentuati (per es., con riferimento ai controlli sulle attività degli enti locali), quasi dando ragione alla pretesa del legislatore del 1865 di avere, tutto sommato, regolato la materia secondo principi non accentratori.
Una materia denominata diritto amministrativo era prevista già nel regolamento delle facoltà di Giurisprudenza adottato all’indomani dell’Unità (r.d. 14 sett. 1862, nr. 842); e nel 1882 si sarebbero avuti in Italia otto professori ordinari di questa materia, essendo solo due di più quelli di diritto costituzionale (Lanchester 2004, p. 31). Ciò non dà tuttavia esatta misura dell’estensione e della ricchezza che gli studi amministrativi ebbero in questa stagione.
Dovendosene sintetizzare gli orientamenti dogmatici e metodologici, si può dire che ci si trova al cospetto di un diritto amministrativo che non trova certo un riferimento cruciale negli ordinamenti vigenti. Esso ha anzi ascendenze filosofiche di vario tipo e spesso le articola e filtra attraverso materiali e punti di vista che oggi attribuiamo a discipline diverse: la scienza politica, l’economia, la storia, la statistica ecc. (Rebuffa 1981, p. 24).
Va notato che, a rigore, questa commistione di accostamenti può apparire ῾eclettica᾿ (ossia composizione di fattori essenzialmente separati) solo a uno sguardo anacronistico, interno cioè a un sistema di saperi costituitosi dopo la grande frammentazione che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ha inteso specializzare le diverse discipline sociali ovvero ῾purificarle᾿, basandole su statuti scientifici individuali.
Ma si sta invece parlando qui di studiosi immersi in un Ottocento in cui sono ancora presenti e incisive ῾scienze dello Stato᾿ unitariamente concepite. Alcuni tra i maestri di questa stagione del diritto amministrativo erano al contempo docenti di materie come diritto internazionale, storia del diritto, filosofia del diritto e, oltre a ciò, di economia politica, di statistica o di scienza dell’amministrazione. È il caso di figure niente affatto marginali quali Giovanni De Gioannis Gianquinto (1821-1883) e Carlo Francesco Ferraris (1850-1924); ma anche di molti altri: Giusto Emanuele Garelli Della Morea (1821-1893), Domenico Mantovani-Orsetti (1832-1915) ecc. (Sandulli 2009, pp. 43-48).
Risultava a costoro del tutto naturale ragionare di amministrazione (e diritto amministrativo) chiamando a concorso principi, nozioni e dati provenienti da campi del sapere diversi. E costituiva compito sempre imprescindibile enunciare la collocazione del diritto amministrativo nella mappa di tali saperi, individuando tra loro le parentele più strette e quelle più lasche. Sicché l’autonomia della discipina in questione non poteva mai essere data per scontata, ma doveva essere argomentata e circostanziata.
Del resto, la professione di un ῾diritto amministrativo᾿ postulava, ovviamente, la realtà, la consapevolezza e l’accettazione dell’esistenza di un’attività dello Stato specificamente amministrativa – diversa, in particolare, da quella giurisdizionale (Mannori, Sordi 2001, pp. 282-87). Ma ciò, a sua volta, costituiva solo la premessa di un diritto amministrativo autonomo. E poteva ben riconoscersi il ruolo nuovo, specifico e crescente degli apparati amministrativi dello Stato senza ammettersi che tale ruolo dovesse formare l’oggetto di un diritto dotato di tratti propri, distinto e separato, in particolare, dal diritto privato.
Così Lorenzo Meucci (1835-1905), autore del più longevo e fortunato manuale di diritto amministrativo prodotto in questa stagione di studi, sottolinea la necessità di realizzare un rinnovamento di questa disciplina. Ma afferma pure che essa «in molti punti è parte, in altri è svolgimento, in pochissimi modificazione del diritto civile inteso largamente e a modo romano» (Istituzioni di diritto amministrativo, 19096, p. 7).
Tale opzione convergeva con quella che negava al diritto amministrativo lo statuto di diritto speciale, pertinente a un soggetto dotato di poteri speciali, sovrastanti i diritti dei singoli. Ed è evidente la congruità tra tale accostamento e un’ontologia di carattere liberale, refrattaria all’idea che regole speciali – o addirittura privilegi – si dovessero riconoscere all’amministrazione nella sua relazione o nei suoi conflitti con i cittadini.
A esiti diversi, ma non in contrasto con la medesima ideologia liberale, portano atteggiamenti più fortemente orientati alla autonomia del diritto amministrativo, come quello di De Gioannis Gianquinto. Questi si preoccupa di precisare i confini tra diritto amministrativo, da un lato, e economia politica e scienza della pubblica amministrazione, dall’altro. Ma è chiaro che poi, nel suo ragionamento scientifico, utilizza criteri provenienti dalle diverse discipline.
Così, per es., quando analizza i problemi connessi alla legislazione mineraria ritiene che la loro ῾esatta᾿ soluzione non può trovarsi che «nella giusta e armonica composizione» di tre principi: il «giuridico», lo «economico-politico» e lo «amministrativo». E quella soluzione deve basarsi su una nozione razionale di proprietà, «consentanea alla filosofia giuridica e alla buona economia politica» (G. De Gioannis Gianquinto, Principio giuridico fondamentale della legislazione sulle miniere, «Archivio giuridico», 1869, 3, pp. 367-68).
Altri numerosi esempi di questa commistione di logiche sarebbe agevole trarre dalle opere di questo autore come da quelle – per fare un nome – di un Garelli Della Morea. Ma importa più rilevare invece il nesso esistente tra la presenza nella riflessione di questi amministrativisti di concetti e dati extragiuridici e la distanza critica di questi autori dagli ordinamenti vigenti. I materiali extragiuridici consentono infatti una messa in discussione di quegli ordinamenti sulla base di principi di filosofia politica, per un verso, e di funzionalità pratica, per altro verso. E si tratta di una verifica che ha natura inevitabilmente diversa da quella di coerenza soprattutto giuridico-formale sulla quale si eserciteranno i giuristi orlandiani.
Un tratto che contraddistingue la dottrina prodotta nelle prime due, tre decadi dopo l’Unità fu dunque un rapporto di confronto piuttosto che di adesione rispetto agli ordinamenti amministrativi vigenti (Rebuffa 1981, p. 29). Tale atteggiamento aveva origini di varia natura. Contava senza dubbio l’elemento ‘filosofico’ sopra richiamato; ma contavano poi motivi diversi. E tra questi indubbiamente la relazione dei nostri giuristi con l’esperienza politica incarnata dal nuovo Regno d’Italia.
Rispetto a questa vi era chi mostrava forti riserve sulle ideologie – e le idee organizzative – che la cementavano. È il caso di correnti di studio definite neoguelfe (Cianferotti 1998, pp. 60-94), aventi il loro punto di riferimento nella tradizione di pensiero del Meridione del Paese (correnti che la ῾piemontesizzazione᾿ aveva in qualche misura antagonizzato). E connesse a queste vi erano posizioni dotate certo di una loro originale e robusta proposta dottrinaria. Si pensi a una figura come quella di Federico Persico (1828-1916), ordinario di diritto amministrativo a Napoli dal 1868 al 1919, esponente di una visione organicistica dello Stato e della società che gli faceva figurare l’assetto politico-amministrativo del Paese in termini anche radicalmente diversi dagli esistenti.
Ma tra i critici dell’amministrazione dell’unificazione vi era anche chi, aderendo con entusiasmo all'῾avventura᾿ del nuovo Regno, proprio per questo voleva vederla avviata su basi più solide, su strutture normative diversamente e meglio fondate. E, in verità, l’accennata distanza critica dei ῾preorlandiani᾿ nei confronti degli ordinamenti dell’unificazione non significa assolutamente opposizione sistematica. Al contrario: nei punti in cui quegli ordinamenti collimavano con le opzioni ideali e teoriche sopra sommariamente delineate essi erano valutati positivamente da questa prima amministrativistica unitaria.
Ciò vale, per es., per la legge di abolizione del contenzioso. Giacomo Macrì (1831-1908) la considerò in sintonia con «il principio della civile uguaglianza» (Corso di diritto amministrativo, 1878, p. 272). De Gioannis Gianquinto indirizzò le sue critiche non alla direzione assunta da quella riforma, ma piuttosto al fatto che in quella direzione non si fosse proceduto in maniera coerente (Dei conflitti di attribuzione, 1873, pp. 103-05). Meucci ancora nella sesta e ultima edizione delle sue Istituzioni, datata 1909, chiamava «fortunata» la «scienza» italiana per avere «vinta la causa» (pp. 59-60).
Lo stesso favore per i precetti del liberalismo spiega l’apprezzamento di questi studiosi per l’assetto dato dal legislatore alla questione dell'espropriazione per pubblica utilità. Tale apprezzamento è chiaramente espresso, per es., da De Gioannis Gianquinto. Sulla scia di una classica posizione di Giandomenico Romagnosi (ripresa anche da Garelli Della Morea), egli afferma che l’utilità collettiva legittimamente prevale su quella dei privati ove abbia le caratteristiche di un’autentica «necessità» (Corso di diritto pubblico amministrativo, 2° vol., 1879, p. 349). Per questo apprezza il fatto che la legge italiana, da lui confrontata con le straniere, abbia riservata al legislatore – e non rilasciata all’esecutivo – la competenza a dichiarare siffatta utilità per i lavori di grandi rilievo.
Analogamente De Gioannis Gianquinto ritiene che il sistema italiano, adottato dalla «gran legge» concili «in giuste proporzioni [corsivo aggiunto], la libertà ed autonomia della beneficienza privata con gli interessi della cosa pubblica» (Corso di diritto pubblico amministrativo, 1° vol., 1877, p. 201) – abbia, in sostanza, aderito a una modalità che, seguendo la sua descrizione, viene senz’altro da definire sussidiaria.
Sul tema degli enti locali è invece sensibile l’opposizione degli studiosi considerati – e anzi il loro vero e proprio rovesciamento di paradigma politico – rispetto agli orientamenti centralisti del legislatore. Il postulato dell’autonomia locale viene infatti fondato su una pretesa originarietà, su una ribadita priorità ontologica e cronologica della comunità locale rispetto allo Stato, cui essa avrebbe sacrificato solo «una parte della sovranità propria» (G.E. Garelli Della Morea, Il diritto amministrativo italiano. Lezioni, 1885, p. 19). Si tratta di posizioni non sempre rigorosamente e conseguentemente sviluppate e anzi spesso segnate da contraddizioni. E, certo, talvolta sembra pesare in esse la nostalgia verso passati ordinamenti corporativi.
Fatto è che persino Giuseppe Mantellini (1816-1885), sicuramente tra le voci di questo torno d’anni più comprese delle ragioni della statualità, sottolinea il carattere politico dei comuni (caratterizzazione che la dottrina di fine secolo negherà). Sicché questo grand commis de l’Etat, avvocato generale erariale, che non esita a eguagliare lo Stato a Dio, rende anch’egli omaggio alla originarietà dei corpi comunali: essi appartengono a quei «corpi essenziali [...] che la legge non può non creare, e si sarebbe detto meglio a dire, che non può non riconoscere» (G. Mantellini, Lo Stato e il Codice civile, 1° vol., 1879, pp. 38 e 40, corsivo aggiunto).
La consonanza tra quest’ultimo verbo e l’art. 5 della vigente Costituzione repubblicana serva qui a dire che un così forte senso delle autonomie locali riprenderà il suo posto nella dottrina solo a partire dalla seconda metà del Novecento.
Una svolta nel percorso dello State-building fu segnato dall’avvento al potere di Crispi (1887). Le riforme da lui promosse risposero a una duplice esigenza di rinnovamento dell’amministrazione (Le riforme crispine, 1990). Per un verso, sembrava infatti necessario imprimere a questa maggiore vigore e capacità di dirigere il processo di modernizzazione della società italiana. Per altro verso, sembrava necessario attrezzare gli apparati di governo a rispondere alla sfida portata allo Stato liberale del profilarsi della cosiddetta questione sociale (Mannori, Sordi 2001, pp. 400-09).
Emblematica della risposta crispina al primo tipo di esigenza (concernente il rinvigorimento e la capacità di direzione) fu proprio la riforma degli enti locali (l. 30 dic. 1888, nr. 5865). Questi venivano ῾tonificati᾿ attraverso il rafforzamento del principio elettivo nella formazione delle magistrature locali (allargamento del suffragio ῾amministrativo᾿, elezione locale – e non nomina regia – del sindaco). Al tempo stesso, comuni e province venivano ancor più strettamente sottoposti al controllo del governo attraverso la creazione della Giunta provinciale amministrativa, assicurando così, almeno nelle intenzioni, funzionalità o compatibilità dell’azione degli enti locali rispetto alle politiche nazionali (F. Rugge, Il ῾Self-government᾿ e i controlli, «Amministrare», 1992, 1, pp. 5-28; Aimo 2010).
La risposta alla seconda esigenza (accogliere la sfida lanciata dalla questione sociale) fu affidata a provvedimenti di diversa natura. Tra questi fu rilevante la riforma delle opere pie (l. 17 luglio 1890, nr. 6972), caratterizzata da spirito ben diverso da quello ispiratore della 'gran legge'. Ora l’intenzione era non solo di razionalizzare l’impiego sociale dei patrimoni di questi ῾corpi morali᾿, ma anche di allargare e universalizzare la platea dei beneficiari «senza distinzione di culto religioso o di opinioni politiche» (art. 78). Interventi speciali basati sulla cosiddetta legge per Napoli (l. 15 genn. 1885, nr. 2892), applicata successivamente ad altri comuni, permettevano frattanto interventi di risanamento urbano attraverso modalità derogatorie rispetto alla legge sull’espropriazione per pubblica utilità del 1865 (Le riforme crispine, 1990).
In età giolittiana, poi, il protagonismo statale e le politiche dell’amministrazione divennero ancor più nettamente orientate all’integrazione e alla protezione sociale. Si pensi solo alla l. 31 genn. 1901, nr. 23, regolativa dell’emigrazione, alla l. 29 giugno 1902, nr. 246, introduttiva del Consiglio superiore del lavoro, al t.u. 10 nov. 1907, nr. 818 sulla protezione del lavoro delle donne e dei fanciulli.
Soprattutto, in questa stagione, emerge la figura dell’impresa pubblica. Disegnata inizialmente con riferimento alle aziende municipali produttrici di beni e servizi (l. 29 marzo 1903, nr. 203), essa fu applicata alla gestione dei servizi ferroviari (con la creazione di un’apposita 'azienda autonoma' in base alle leggi 22 apr. 1905, nr. 137 e 7 luglio 1907, nr. 429), ai servizi telefonici (riscattati con l. 15 luglio 1907, nr. 429), ma anche alla gestioni di grandi imprese finanziarie come l’Istituto nazionale delle assicurazioni (l. 4 apr. 1912, nr. 305). Si tratta di un’innovazione destinata a modificare il settore pubblico, che crescentemente comprenderà questi e consimili enti pubblici creati a fini economici, finanziari e assistenziali.
Tale pluralità di soggetti, spesso intitolati ad agire secondo le norme del diritto privato, verrà sviluppata ulteriormente dopo la Prima guerra mondiale, costituendo quella che è parsa, rispetto alla tipica amministrazione ministeriale e degli enti locali, una vera e propria ῾amministrazione parallela᾿. Fu anche grazie alla crescita di questa che l’Italia conobbe le politiche di integrazione e di benessere tipiche dello Stato sociale.
La ῾svolta᾿ orlandiana, coeva – come si accennava – a questi sviluppi, si presenta come una duplice impresa di razionalizzazione: duplice – si badi – nel senso di presentarsi con due facce tra loro connesse. Da un lato, essa è operazione di ripensamento e sistemazione scientifico-disciplinare; dall’altro, essa è fissazione e validazione della forma assunta dallo Stato italiano sul finire dell’Ottocento.
Dunque, in primo luogo, il diritto amministrativo si trasforma in senso disciplinare e accademico. Vengono così superate le contiguità con altri ambiti del diritto: tanto con il diritto civile che con il costituzionale, e non da ultima con la scienza dell’amministrazione – qui attraverso un intenso confronto in cui è centrale la figura di Ferraris (Mozzarelli, Nespor 1981). I materiali di discipline altre cessano così di arricchire – o ῾contaminare᾿ – il ragionamento dell’amministrativista.
In secondo luogo, e congiuntamente, si riduce la distanza del giurista dagli ordinamenti amministrativi e dalle norme positive che li regolano, delle quali ora il pensiero giuridico-amministrativo si propone di costituire l’intelaiatura razionale. Infatti, la ribadita distinzione tra legge e diritto (o ῾scienza del diritto᾿) darà in realtà luogo a un vicendevole, ineludibile modellamento dell’ordinamento sulla dottrina e viceversa.
Ma al centro di uno e dell’altra sta ora – ed è profilo tipico di questa stagione di studi – un’amministrazione pubblica ῾sovrana᾿, che per dirigere la società (o la nazione, ormai nel suo pieno farsi) deve esserle ragionevolmente sovraordinata. Certo, tale potestà pubblica deve sempre aderire ai principi liberali, ma questa volta ponendosi l’accento sull’esigenza di un più esteso intervento e di un più perentorio comando. È l’amministrazione di uno Stato «forte di una propria autonomia, che cresce e si fortifica malgrado lo svilupparsi dell’individuo, anzi in armonia con tale sviluppo» (V.E. Orlando, Diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione, «Archivio giuridico», 1887, 38, 5-6, p. 29).
Correlativamente, se qualcuno aveva pensato il diritto amministrativo come ῾diritto civile nei suoi rapporti con la pubblica amministrazione᾿ ora esso è davvero e pienamente diritto dell’amministrazione pubblica nei suoi rapporti con la società civile. È un diritto che deve potere articolare nei confronti del cittadino «supremazia», «unilateralità», «limitata responsabilità» (Mannori, Sordi 2001, p. 354). E la scienza che lo pensa deve, a sua volta, costruire questi concetti come concetti informatori dell’amministrazione. Essa è perciò scienza di un diritto amministrativo ῾nazionale᾿, non solo né tanto perché aderisce ai dettami di una scuola giuridica, quella orlandiana, che ῾nazionale᾿ vuole denominarsi; ma anche perché, dismessa ogni polemica, ipostatizza un ordinamento che intende dare vertebratura a uno Stato e a una società compiutamente nazionali (Cassese 2010, p. 266).
Non per caso, questo diritto amministrativo si affermerà come codice professionale di una burocrazia in costante espansione numerica e morfologica, tesa all’integrazione della compagine nazionale e ormai avviata alla ῾meridionalizzazione᾿. Si tratta di una compagine – come riconosce lo stesso Orlando – «riabilitata agli occhi dei più imparziali osservatori» e autrice «di pagine gloriose nella storia contemporanea» (V.E. Orlando, Diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione, cit., pp. 31-32).
Intanto i professori ordinari di diritto amministrativo passano, tra il 1882 e il 1922, da otto a quindici, superando quelli di diritto costituzionale, che nel 1922, saranno tredici (Lanchester 2004, p. 31). E, a siglare e a inverare organicità e sistematicità della nuova amministrativistica, esce in volumi, a partire dal 1900, il Primo trattato completo di diritto amministrativo, diretto dall’Orlando. L’opera, che aspira a compattezza di assunti e svolgimenti scientifici, raccoglie i migliori studiosi di diritto amministrativo del tempo (incluse voci di non stretta osservanza orlandiana). E si presenta come prismatica rappresentazione della ormai poderosa attrezzatura materiale e dottrinaria di cui può valersi l’Italia agli inizi del 20° secolo.
Uno dei terreni su cui il nuovo diritto amministrativo si forgiò fu quello della giustizia amministrativa. La soluzione data a questo problema dal legislatore del 1865 non era stata soddisfacente. Essa non tutelava adeguatamente il cittadino – soprattutto di fronte a un’amministrazione pubblica in cui sembrava si facesse avvertire, sempre più invasivo, il peso dei partiti. Su questa problematica si sviluppò quindi una convergente azione della dottrina, della giurisprudenza e della politica (in questa vicenda fu infatti decisivo il peso di personalità politicamente molto in vista come Marco Minghetti e Silvio Spaventa). E le iniziative riformatrici, culminarono nella creazione della IV sezione del Consiglio di Stato (l. 31 marzo 1889, nr. 5992), intesa a creare un giudice amministrativo che offrisse ai ricorrenti sufficienti garanzie di terzietà.
Il ruolo della dottrina, importante nel sollecitare e disegnare la riforma, sarà ancora più importante nella sua difficile applicazione (Mannori, Sordi 2001, p. 338). Questa richiedeva un affinamento di concetti e procedure che vide protagonisti proprio i giuristi della nuova generazione. Tra questi vi fu senz’altro Oreste Ranelletti (1868-1956), che diede rilevante impulso all’elaborazione di una figura, quella dell’interesse legittimo, destinata a un lungo, non pacifico percorso (B. Sordi, Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale, 1985, pp. 269-79).
Un altro ambito in cui la nuova amministrativistica venne messa alla prova fu la collocazione da dare agli enti locali nella ῾costituzione amministrativa᾿ del Paese. Si è visto come questo tema avesse agito da rovello nell’amministrativistica precedente. A rendere il tema più delicato vi era ora la crescente importanza che in primis i municipi assumevano, in una fase in cui le città andavano rapidamente sviluppandosi ed esprimendo una crescente domanda di governo.
Per questa generazione di giuristi il problema non era però di secondare gli sviluppi in corso contestando la rivendicazione di un’autonomia comunale percepita come disgregatrice. Si trattava piuttosto di pensare una relazione di questi soggetti con lo Stato (e il suo governo), tale da consentire loro di dispiegare un’azione propria, trattenendo al contempo quei soggetti e quell’azione nella sfera della statualità.
La creazione della nozione di autarchia a opera di Santi Romano (1875-1947) rispose a queste esigenze. Tramite questa nozione, l’attività degli enti locali veniva inquadrata come
amministrazione indiretta dello Stato, compiuta da una persona giuridica per diritto subbiettivo e nell’interesse, oltre che dello Stato, suo proprio (Decentramento amministrativo, in Enciclopedia giuridica italiana, 4° vol., 1911, p. 450).
Il concetto di 'amministrazione indiretta' escludeva evidentemente quell’alterità originaria del Comune che la precedente dottrina aveva, più o meno tralatiziamente, ammesso; come, peraltro, la nozione di autarchia era intesa a cancellare la parola e l’idea di 'autonomia' locale (F. Rugge, Autonomia ed autarchia degli enti locali: all’origine dello Stato Amministrativo, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale, 1986, pp. 273-87).
Ponendo accanto al decentramento autarchico territoriale quello 'istituzionale', Romano disegnava poi lo schema utile a contenere, nel senso sopra detto, non solo le autonomie territoriali, ma anche gli enti pubblici che si prospettavano – lo si è accennato – quale nuova frontiera dell’azione pubblica. Del resto, al dispiegarsi di una ῾amministrazione integrativa᾿ non bastava stabilizzare il rapporto tra Stato ed enti locali, organando questi ultimi in una governance nazionale di complessità crescente. Nel suo proiettarsi dentro la sfera della vita sociale questa amministrazione si imbatteva in problemi nuovi che richiedevano elaborazioni adeguate, ispirate al cambiamento di prospettive ormai verificatosi.
Certamente le richiedevano le nascenti imprese pubbliche a base municipale e nazionale. Non stupisce così che nella relazione alla Camera sul disegno di legge per la municipalizzazione, tra i primi riferimenti bibliografici, si ritrovi la monografia di un altro giurista della nuova scuola: Federico Cammeo (1872-1939). Questi vi polemizza contro certi orientamenti liberisti che, in questa materia, agiscono «a ritroso della giustizia e della ragione» (cit. in D. Sorace, Il giovane Cammeo e i servizi pubblici, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1993, 21, p. 513).
Potrebbe aggiungersi che quegli atteggiamenti agiscono a ritroso anche rispetto alla corrente del pensiero giuridico-amministrativo del tempo. Pressoché coetanea di queste osservazioni di Cammeo è infatti la soluzione che Oreste Ranelletti formula a proposito di un problema critico per lo sviluppo dei servizi pubblici: il problema delle concessioni amministrative. Queste ultime sarebbero nell’interpretazione dell’autorevole studioso, atti unilaterali dell’amministrazione, la cui revoca – al contrario di ciò che vale per l’espropriazione – non comporta indennizzo. La revoca sottrarrebbe al privato una facoltà che già nasceva condizionata; l’estinzione di quella facoltà sarebbe espressione «di un male che affetta la facoltà medesima» (O. Ranelletti, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni amministrative. Parte III: Facoltà create dalle autorizzazioni e concessioni, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 1896, 21, 3, p. 12 e segg.).
Si tratta chiaramente di posizioni che fortemente contrastano con i postulati del liberalismo economico ottocentesco e con quelli che erano stati i suoi riverberi nell’amministrativistica. Esse concorrono a configurare un universo giuspubblicistico statocentrico, segnato da una forte asimmetria tra privati e pubblica amministrazione.
Lo stesso schema asimmetrico veniva del resto applicato al rapporto di pubblico impiego che la legge 25 giugno 1908, nr. 290 giungeva per la prima volta a regolamentare in modo organico – e con il contributo di Orlando, allora ministro di Grazia e Giustizia (Melis 1996, p. 234). In perfetta sintonia con tali norme, Ranelletti qualificava quel rapporto come di «soggezione», di «speciale comando», situandolo dunque ben al di fuori della sfera civilistica (Principii di diritto amministrativo. Introduzione e nozioni fondamentali, 1912, p. 452).
Si trattava di un’opinione ormai ampiamente condivisa, ma particolarmente autorevole anche al di fuori della dottrina, se è vero che qualche anno dopo, nel 1918, Ranelletti avrebbe avuto ruolo di rilievo in una Commissione di riforma della burocrazia statale (Melis 1996, p. 286).
L’amministrativistica di estrazione orlandiana non rimarrà incontrastata. Sia pure con limitato successo accademico si faranno avvertire le sopravvivenze dell’approccio ῾eclettico᾿ (presenti, per es., in una personalità come Ferraris) o voci ispirate a diversi orientamenti, come quello psicologico di Giovanni Vacchelli (1866-1960), influenzato dalla scuola tedesca del diritto sociale (come emerge chiaramente anche dal suo Il Comune nel diritto pubblico moderno, 1890). Soprattutto però troveranno presto espressione visioni profondamente avvertite delle tendenze politiche del Novecento incipiente.
La voce in questo senso più significativa è nuovamente quella di Romano. Attraverso un percorso che si può ben definire «la più straordinaria avventura intellettuale vissuta da un giurista del XX secolo», ma che configura anche una sorta di sdoppiamento (Grossi 2000, p. 110) sarà questo autore a certificare, prima con qualche sconcerto poi con lucida razionalizzazione, la crisi di uno Stato in precedenza figurato – con il suo stesso apporto – in modo così compatto e agguerrito.
All’origine di tale crisi vi era il protagonismo di formazioni sociali di diversa natura, le quali contendevano allo Stato il monopolio della volontà politica. Con ciò esse obbligavano lo Stato ad articolarsi per rispondere alla loro pressione o addirittura ad accogliere al suo interno una pluralità di momenti organizzativi. L’amministrazione pubblica sarà fortemente investita da questi processi che troveranno espressione specialmente nello sviluppo di enti pubblici di vario tipo.
Questa tendenza, cui già sopra si è accennato, diverrà dirompente nei decenni successivi. Presto infatti fioriranno nuove figure di enti pubblici, in cui l’uso del diritto privato da parte di soggetti pubblici sarà consueto. Di fronte a questa realtà non sarà più sufficiente dilatare la nozione di autarchia istituzionale elaborata da Romano. Il panorama sarà dominato da enti 'parastatali' che diventava difficile inquadrare attraverso categorie tradizionali, soprattutto se di queste ci si intendeva servire – come nel caso della nozione di autarchia – per ricondurre quegli enti nell’orbita della statualità (Mannori, Sordi 2001, pp. 470-77).
La verità è che è proprio quest’ultima che sta ormai cambiando. E il mastice che gli antichi assetti politico-sociali e le dottrine orlandiane non sono più in grado di provvederle è offerto forse adesso dalla possente presenza della forma-partito. Non per caso, un autore del periodo fascista, trattando degli enti parastatali, constaterà che solo il potenziamento del potere esecutivo e la forza di un’unica ῾fede᾿ politica potevano tenere testa ai poteri e ai privilegi di quegli enti: è il partito fascista – concluderà – il soggetto che li «riunisce e coordina» (G. Cammarosano, Gli 'enti parastatali' nel diritto positivo italiano, «Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione», 1935, 1, p. 545).
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