Il problema della pena di morte
Il Dei delitti e delle pene, pubblicato anonimo a Livorno nel 1764, esprime con perfetto tempismo la ormai conseguita maturità del problema penale nella cultura giuridica europea. Nei suoi brevi e nervosi paragrafi Cesare Beccaria, prendendo come punti di riferimento i principi dell’utilitarismo e dell’umanitarismo, imposta su nuove basi il dibattito sul diritto di punire e fonda le concezioni liberali e garantiste della modernità penale. La pagina più famosa del Dei delitti e delle pene resta quella nella quale viene sviluppata la prima autorevole ed efficace critica alla pena di morte, di cui si auspica esplicitamente l’abolizione.
Idee contrarie alla pena capitale erano già state manifestate fin dall’età medievale in circoscritti ambiti teologici e filosofici, ma le posizioni abolizioniste avevano sempre avuto scarsa risonanza. Gli stessi ispiratori del pensiero beccariano non avevano palesato un particolare sfavore nei confronti della pena capitale, pur lamentando l’arretratezza dei vigenti ordinamenti penali: Montesquieu nell’Esprit des lois (1748) aveva affermato che l’omicida merita la morte, mentre Jean-Jacques Rousseau nel Contrat social (1762) aveva giustificato il ricorso alla pena capitale nei confronti degli assassini o dei nemici pubblici che avessero infranto il patto sociale.
Intorno al 1760 i tempi sono però maturi per un salto di qualità anche in tema di pena di morte. Sul finire di quell’anno il giurista fiorentino Giuseppe Pelli redige un'inedita dissertazione nella quale contesta la pena capitale con motivazioni umanitarie e contrattualiste che anticipano quelle beccariane. Nello stesso 1764 un protagonista dell’Illuminismo penale, Joseph von Sonnenfels, fa sentire da Vienna la sua voce, negando che la pena di morte risponda agli specifici scopi preventivi propri delle pene. È peraltro solo grazie alla pubblicazione del trattatello beccariano che l’istanza abolizionista penetra in modo definitivo nel dibattito culturale e, dato ancor più rilevante, entra a far parte pressoché stabilmente dell’agenda del legislatore. In effetti, a due secoli e mezzo di distanza il problema della pena di morte resta ancora drammaticamente attuale quando si consideri che tale pena è tuttora prevista non solo da numerosi regimi totalitari ma anche da alcuni sperimentati ordinamenti democratici.
Conviene dunque assumere come punto di partenza della presente sintesi le argomentazioni sulle quali Beccaria fonda la pretesa abolizionista.
L’illuminista lombardo affronta il problema nel § XXVIII del Dei delitti e delle pene, dopo avere discusso, nel § XXVII, il tema della dolcezza delle pene. Su quest’ultimo punto Beccaria osserva come l’atrocità delle pene sia contraria ai principi di umanità, leda il principio di proporzionalità e risulti inefficace da un punto di vista utilitaristico, in quanto ciò che rileva perché una pena ottenga il suo effetto non è la crudeltà dei castighi ma la loro infallibilità. Ed è proprio la constatazione dell'inutilità di questa «prodigalità di supplicii» che lo induce a esaminare se la pena di morte sia veramente utile e giusta.
Contro la pena di morte Beccaria sviluppa tre argomenti. I primi due sono basati sui principi del contrattualismo e dell’utilitarismo e intendono dimostrare l’illegittimità e l’inutilità della pena di morte. Il terzo argomento è invece di natura etica ed è accennato nella parte finale del paragrafo.
Il primo argomento affonda le proprie radici nella speculazione giusnaturalistica legata al patto sociale, e afferma che la pena di morte è giuridicamente illegittima in quanto essa non trova fondamento nel contratto con cui si è costituita la società e dal quale discendono leggi e sovranità. Il diritto di punire si basa bensì su una delega contenuta nel patto sociale, ma con questa delega il singolo non ha affatto concesso ad altri «l’arbitrio di ucciderlo». Le leggi espressione del diritto di punire sono infatti costituite dalla «somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno», e in questo «minimo sacrificio di libertà» non è ricompreso il sacrificio del «massimo di tutti i beni», la vita, che costituisce un diritto naturale indisponibile (tanto che «l’uomo non è padrone di uccidersi»). In altre parole, nessuno sottoscrivendo il patto sociale può avere ceduto il diritto alla vita, del quale non avrebbe comunque potuto disporre essendo tale diritto (come aveva insegnato John Locke) inalienabile.
Il secondo argomento, rigidamente utilitaristico, rappresenta la parte più articolata e politica del discorso beccariano. Se la pena capitale non è un diritto fondato sul contratto sociale essa, osserva Beccaria, rappresenta non un atto di giustizia ma una «guerra» finalizzata all’eliminazione fisica di un cittadino quando questa sia reputata utile o necessaria. Beccaria intende vincere «la causa dell’umanità» proprio dimostrando che la pena di morte non è necessaria in quanto meno utile della detenzione perpetua.
Il ragionamento prende le mosse dall’individuazione di due ipotesi nelle quali la morte di un cittadino «può credersi» utile o necessaria. Ciò si potrebbe verificare
a) quando in caso di pericolo per la libertà della nazione e nei periodi di guerra civile e di anarchia, un soggetto, pur privato della libertà, abbia «relazioni» e «potenza» tali da minacciare la «sicurezza della nazione» e la «forma di governo stabilita»;
b) quando in una situazione di normalità, e cioè «durante il tranquillo regno delle leggi», tale pena costituisca l’«unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti».
La formulazione delle due ipotesi testé riassunte ha indotto alcuni studiosi a ritenere la posizione di Beccaria contraddittoria e non pienamente abolizionista. In realtà, una lettura meno superficiale della pagina in oggetto, segnata dal ripetuto e sapiente ricorso all’espressione può credersi, induce a concludere che Beccaria non preveda in uno Stato di diritto alcun caso in cui la pena di morte possa essere, giusta, utile e necessaria.
Se infatti è vero che nei due casi testé menzionati la pena di morte «può credersi» utile o necessaria, si deve peraltro osservare che
a) la prima delle due ipotesi configura una situazione di assenza o di sospensione della società organizzata e delle sue leggi («quando i disordini stessi tengon luogo di leggi»), che non incide dunque sul principio della non necessarietà della pena di morte in una società civile, e anzi contribuisce a dimostrarne a contrario la sussistenza;
b) la fondatezza della seconda ipotesi è smentita sia dall’esperienza storica che dall’esame della natura umana.
In ordine a questo secondo punto Beccaria sottolinea come «l’esperienza di tutti i secoli» dimostri che «l’ultimo supplicio» non abbia mai «distolti gli uomini determinati dall’offender la società». Ciò che infatti rileva a tal fine non è l’intensità della pena ma la sua estensione nel tempo («Non è l’intensione della pena che fa il maggiore effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa»). Il massimo effetto dissuasivo non discende dallo spettacolo «terribile ma passeggero» della morte di un criminale, ma dal «lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa con le sue fatiche quella società che ha offesa». Questo, a ben vedere, è il deterrente che incide veramente sulla determinazione a delinquere. Il «freno più forte contro i delitti» è dunque «la pena di schiavitù perpetua», che deve sostituirsi alla pena di morte, mentre la presunta esemplarità di quest’ultima ha invece effetti contraddittori (in quanto la pena capitale «diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni») e diseducativi («per l’esempio di atrocità che dà agli uomini»).
Evidente, in questa seconda argomentazione, è la decisa prevalenza del presupposto utilitarista sugli altri elementi ideali – a cominciare da quello umanitario – che concorrono a formare il pensiero beccariano. La descrizione dello stato di «schiavitù perpetua» chiamato a surrogare la pena di morte non lascia dubbi al proposito: la «bestia di servigio» è condannata ai lavori forzati a vita «fra i ceppi e le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro», e la condanna non rappresenta la fine ma l’inizio dei suoi mali. Si tratta di un regime potenzialmente «più crudele» della pena capitale e probabilmente altrettanto distruttivo, anche se Beccaria precisa che tale condizione per la sua durezza e per la sua perpetuità in realtà «spaventa più chi la vede che chi la soffre». Chi la subisce finisce infatti per concentrarsi sull’infelicità del momento presente, perdendo di vista l’assenza di prospettive future.
Il Beccaria paladino dell’umanizzazione del sistema penale si riaffaccia con il terzo e ultimo argomento, che respinge la pena di morte come moralmente ingiusta. Questo argomento, come già rilevato, più che distesamente esposto risulta semplicemente abbozzato. Esso merita peraltro di essere sottilineato in quanto coniuga la condanna logica e etica della pena capitale all’esaltazione della sacralità della vita umana. L’illogicità e l’immoralità della pena di morte discendono dall’«assurdo» secondo cui le leggi, «che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e per allontanare i cittadini dall’assassinio» finiscono per ordinare «un pubblico assassinio». In ordine poi alla sacralità della vita, Beccaria si chiede innanzitutto quali siano «i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte», e per rispondere a questo interrogativo riflette sulla detestata figura del carnefice, «innocente esecutore della pubblica volontà», e sull’universale disprezzo che la circonda. Le motivazioni profonde di tale disprezzo risiedono nel fatto che
gli uomini nel più secreto dei loro animi […] hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo.
In altre parole, tutti gli uomini hanno sempre saputo che la propria vita non è «affidata ad altro potere che non sia quello delle leggi naturali», mentre ora la vedono in balia dei «gravi sacerdoti della giustizia» che ne dispongono «con indifferente tranquillità». Nondimeno, la vita di ogni uomo rimane essenzialmente sacra, e nessuno ne può disporre. Dunque, la sua distruzione è assolutamente ingiusta.
Il clamoroso successo che immediatamente arride al Dei delitti e delle pene dà la stura a molteplici prese di posizione che si collocano nell’ampio ventaglio che va dalle critiche più feroci alle più convinte adesioni. Ed è ben comprensibile che, tra le numerose tesi sviluppate dall’illuminista milanese, una delle più discusse se non la più discussa in assoluto sia stata quella che, attraverso la proposta abolizionista, forse più di ogni altra incideva su un aspetto costitutivo della tradizione penalistica quale il ricorso indiscriminato alla pena capitale. In effetti, a conferma della loro portata rivoluzionaria le conclusioni beccariane non vengono condivise dalla maggioranza dei commentatori, e tra questi anche da molti tra coloro che accolgono il messaggio di riforma e umanizzazione del sistema penale che scaturisce dalle pagine del Dei delitti e delle pene.
Che il trattatello del 1764 sia stato oggetto di violenti attacchi da parte di una nutrita serie di difensori della tradizione non stupisce. In Italia, nel fuoco di sbarramento messo in opera contro le idee di Beccaria si distingue il monaco vallombrosano Ferdinando Facchinei, che subito comprende come il Dei delitti e delle pene possieda notevoli potenzialità eversive poiché mette in discussione la consolidata visione dei rapporti fra politica e religione. Facchinei nei primi giorni del 1765 pubblica un opuscolo di Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene nel quale sviluppa un'articolata difesa del tradizionale sistema delle pene, delle consolidate procedure inquisitorie e della natura divina della giustizia, considerata fondamento inattaccabile della società.
In tema di pena di morte Facchinei porta un attacco frontale sostenendo l’empietà delle posizioni espresse da Beccaria. Temibile è l’accusa di non riconoscere ai sovrani il diritto a irrogare la pena di morte (con il rischio di un’imputazione di lesa maestà). Ancora più minacciosa è l’accusa di contestare le Sacre Scritture e di affermare non giuste e necessarie le pene capitali decretate da Dio nel governo del Popolo eletto (il che comporta un’imputazione di lesa maestà divina). Osserva Facchinei:
Se l’autore crede alla Sacra Scrittura dunque deve credere alla medesima anche quando gl’insegna che la pena di morte è giusta, e necessaria, e che si devono rispettare le leggi ed i sovrani (p. 133).
Queste pericolose accuse non esauriscono il ricco bagaglio argomentativo messo in campo dal monaco vallombrosano, che intende confutare l’«insano ragionamento» di Beccaria cercando di volgere a proprio vantaggio anche il presupposto contrattualista. A tale fine egli osserva preliminarmente – considerando il contrattualismo mera ipotesi di lavoro – come sia incontestabile che l’uomo libero, prima di entrare in società, per la propria sicurezza e tranquillità abbia il diritto di uccidere un altro uomo che voglia privarlo della vita. Ma se la società – prosegue Facchinei – nasce per garantire agli uomini maggiore sicurezza e tranquillità, non si può ammettere che, dopo l’entrata in essa, venga meno questo diritto all’autodifesa trasferito alla società e che, di conseguenza, l’individuo divenga meno sicuro e tranquillo in questa condizione rispetto a quando era solo, aveva il diritto all’autodifesa e lo esercitava con pienezza. In altre parole, la pena di morte è strumento di autodifesa e di autoconservazione della società contro i malvagi, ed è dunque legittima e necessaria.
Passando poi all’argomento utilitarista, Facchinei contesta che la pena che trasforma l’individuo in «bestia da servigio» sia più utile della pena di morte. Dopo avere osservato che filosoficamente tale pena è meno tollerabile della morte, egli nega che la pena capitale abbia un effetto dissuasivo minore della pena perpetua (e dunque sia meno utile e non necessaria), in quanto è invece proprio quest’ultima a ingenerare nel pubblico un sentimento di abitudine e di indifferenza. Inoltre, al contrario di quanto afferma Beccaria la prospettiva della schiavitù anche più penosa non trattiene affatto dal commettere i delitti più atroci, poiché chi subisce una condanna perpetua spera sempre di potersene liberare proprio perché conserva la vita.
Alle Note ed osservazioni di Facchinei Pietro e Alessandro Verri oppongono a stretto giro una puntuale Risposta nella quale si preoccupano innanzitutto di proteggere Beccaria dalle accuse di lesa maestà umana e divina. A tale scopo i due fratelli scindono abilmente – scomponendo l’endiadi di matrice romano-canonica ius et potestas – il diritto di punire con la morte dalla potestà sovrana di fare altrettanto quando ciò sia utile e necessario. Questo diritto non esiste, poiché è escluso dal patto sociale, ma la potestà sovrana rimane intatta – analogamente a quanto accade in caso di guerra – quando «si trova che la morte d’un uomo sia utile e necessaria al ben pubblico». Ma poiché nel Dei delitti e delle pene si dimostra appunto che in una situazione di normale funzionamento della società la pena di morte non è né utile né necessaria, ne consegue che questa «non deve darsi».
Sulle tracce di Facchinei, e con argomentazioni analoghe, numerosi sono coloro che negli anni Settanta e Ottanta muovono all’assalto delle concezioni abolizioniste. Tra gli appartenenti a questa schiera, diffusa in tutta la penisola e animata da spirito reazionario, si distinguono l’abruzzese Antonio Silla, il milanese Paolo Vergani, il torinese Francescantonio Pescatore, il napoletano Gaetano Majo. Al primo è comunemente attribuito Il dritto di punire o sia risposta al trattato De’ delitti e delle pene del signor marchese di Beccaria (1772), opera nella quale sono riprese alla lettera molte delle tesi di Facchinei e segnatamente quelle relative all’origine divina del diritto di punire e al carattere di utilità e di necessarietà della pena di morte. Vergani pubblica il Della pena di morte (1777) ove, affermata l’ineluttabilità della pena capitale, da un lato mostra moderazione augurandosi che la morte sia inflitta solo nei casi di maggiore gravità (onde limitare il ricorso alla grazia sovrana) e in base a prove certe (poiché ritiene insufficiente la sola confessione), ma dall’altro manifesta pieno favore per l’esacerbazione dell’esecuzione capitale come elemento necessario per accrescerne l’effetto intimidatorio. Come Silla, anche Pescatore, nel Saggio intorno diverse opinioni di alcuni moderati politici sopra i delitti e le pene (1780), e Majo, in La giustizia delle leggi prevenienti i delitti (1787), appaiono particolarmente preoccupati della laicizzazione del diritto penale conseguente alla dissociazione tra l’elemento sacro e quello politico, e dunque sviluppano la loro critica riaffermando con forza la matrice divina del potere sovrano di dare la morte. Majo in particolare ritiene che alla pena capitale si debba ricorrere con notevole frequenza e anche per reati di scarsa gravità come il falso. Meno radicale appare invece la posizione di un conservatore non reazionario come Giovanni Battista Gherardo d’Arco che, in una dissertazione Del fondamento del diritto di punire (composta nel 1775 e pubblicata nel 1781), coniuga la rivendicazione al sovrano del diritto di ricorrere alla pena capitale con un rassegnato scetticismo nei confronti dell’ideologia umanitaria del secolo.
Oltralpe – ove travolgente era stato il successo di Beccaria – la reazione è capitanata da un magistrato, Pierre-François Muyart de Vouglans, autore di una Réfutation des principes hasardés dans le Traité des délits et des peines (1767) che dà voce allo sterile tradizionalismo della parte maggioritaria del ceto giudiziario europeo (si pensi, al riguardo, alla totale chiusura manifestata in tema di pena capitale dal Senato di Milano in una sua nota Consulta del 1776). A Muyart si contrappongono alcuni celebri philosophes.
Dopo iniziali incertezze, Voltaire nel Prix de la justice et de l’humanité (1777) diviene un fervente sostenitore dell’eliminazione della pena di morte, e sulla scia di Voltaire netta è la presa di posizione di Jacques-Pierre Brissot de Warville nella Théorie des loix criminelles (1781). La maggioranza degli autori transalpini preferisce peraltro seguire le orme di Montesquieu e Rousseau, optando per una linea di compromesso che biasima l’eccessivo ricorso alla pena capitale ma lo ritiene comunque necessario in casi estremi. Analoghe, nel contesto culturale tedesco, saranno le prese di posizione di Karl Ferdinand Hommel e dello stesso Immanuel Kant, che non esiterà a giudicare un «sofisma» la tesi contrattualista di Beccaria.
In questa sede conviene peraltro non soffermarsi sulla pur coinvolgente vicenda del successo europeo del Dei delitti e delle pene, e prendere piuttosto in specifica considerazione l’impatto che la proposta abolizionista di Beccaria ebbe sulla cultura giuridica italiana. A tale scopo, è opportuno concentrare l’attenzione su quella generazione di criminalisti postbeccariani a cui nel maturo Settecento spettò il non agevole compito storico di costruire la nuova sintassi della giustizia penale.
Traghettatori verso la modernità e mediatori tra il sistema penale della tradizione e le razionali e laiche costruzioni elaborate dal pensiero settecentesco, i giuristi postbeccariani formano una composita comunità di solidi studiosi. Ciò che maggiormente li caratterizza è, da un lato, il rifiuto delle posizioni estreme e, dall’altro, la volontà di inserire la giustizia penale in un quadro strutturale bensì nuovo ma che non respinga in toto gli assetti nei quali essi stessi si sono formati. Poste queste premesse, è agevole comprendere per quale motivo questi penalisti si muovano con estrema circospezione nel momento in cui si trovano a dover fare i conti con la proposta abolizionista, della cui portata destabilizzante sono ben consci. Ed è altrettanto agevole comprendere per quale motivo l’approdo comune della riflessione dei postbeccariani preveda la massima compressione del ricorso alla pena di morte e il contemporaneo rifiuto della sua totale abolizione.
All’avanguardia in questo itinerario si collocano taluni giuristi pratici pronti a reagire agli stimoli nuovi. Nel 1766 Paolo Risi, magistrato di carriera, pubblica a Milano le Animadversiones ad criminalem iurisprudentiam pertinentes, prima opera di un tecnico del diritto che possa essere salutata – nonostante la forma ancorata alla tradizione – come pienamente beccariana. A due anni dal Dei delitti e delle pene Risi assume in tema di pena di morte una posizione estremamente cauta, destinata peraltro a evolversi in senso abolizionista. I limiti posti al ricorso alla pena capitale sono di triplice natura. Innanzitutto, non può essere applicata se non appaia necessaria in rapporto alla natura del delitto. In secondo luogo, è possibile irrogarla solo sulla base di un’esplicita e letterale applicazione dei «verba legis». Infine, alla pena capitale si deve guardare come a un estremo rimedio, utilizzabile esclusivamente quando non si possa «aliter consuli Reipublicae».
Circa dieci anni dopo le Animadversiones, e sempre in area lombarda, il tema della pena di morte è affrontato da due avvocati, il milanese Franchino Rusca e il bormiese Alberto De Simoni. Il primo pubblica uno Specimen jurisprudentiae criminalis ad principia legis naturae (1775) nel quale conferma la necessità del ricorso alla pena capitale auspicandone peraltro un uso ristretto. Più interessante è l’opera di Alberto De Simoni, che dà alle stampe un trattato Del furto e sua pena (1776) originato da un caso giudiziario conclusosi con l’esecuzione di un ladro accusato di una serie di furti semplici e difeso dall’autore. L’opera si risolve in una sorta di contrappunto alle idee e alle opinioni espresse nel Dei delitti e delle pene da parte di un giurista sostanzialmente conservatore ma non indifferente alla filosofia dei lumi. In particolare, De Simoni critica con forza il ricorso alla pena capitale per i reati non atroci in quanto contrario ai principi di umanità e di proporzionalità e alle leggi naturali e divine. De Simoni non giunge peraltro a pronunciare una piena condanna dell’istituto. Al contrario, lo ammette senza esitazione nei casi di necessità, riconducendolo alla sfera della sovranità come conseguenza dell’origine divina di quest’ultima e come diritto-dovere prodotto dal patto sociale.
Dagli anni Settanta i temi beccariani, compresa l’abolizione della pena di morte, iniziano a essere significativamente presenti anche nelle opere di area accademica. A Roma Filippo Maria Renazzi pubblica tra il 1773 e il 1786 gli Elementa juris criminalis, nei quali avvia un itinerario di generale ristrutturazione del sistema della giustizia penale fondato sull’accoglimento di una parte consistente delle istanze illuministe. Renazzi, che si trova a operare in un ambiente non favorevole, appare estremamente reticente nel prendere una chiara posizione sul punto centrale della pena capitale e, dopo numerose esitazioni, finisce per accettarla, pur non esprimendosi a chiare lettere sull’argomento.
Negli stessi anni e fino al 1786, anno di promulgazione della Leopoldina (v. oltre), anche gli esponenti della scuola pisana sono concordi nell’ammettere un limitato ricorso della pena di morte. Francesco Foggi, nel Saggio sopra l’impunità legittima o l’asilo (1774), segue Rousseau e, criticando l’argomento contrattualista, afferma che dal patto sociale scaturisce un ente che ha diritti ulteriori rispetto alle parti che l’hanno formato, tra i quali figura anche quello di punire con la morte. Il maestro di Foggi, Giovanni Maria Lampredi, nei Juris publici universalis sive juris naturae et gentium theoremata (1776-1778) si conforma a Beccaria nel ritenere generalmente inutile il ricorso alla pena capitale nella società civile, ma ammette che nella potestas eminens conferita al sovrano sia ricompreso il diritto di privare della vita un suddito quando ciò sia indispensabile per la salute pubblica.
Nel 1784 il milanese Antonio Giudici, già professore a Pavia, pubblica una Apologia della giurisprudenza romana che reca come trasparente sottotitolo Note critiche al libro intitolato Dei delitti e delle pene. Scopo dell’opera è quello di rivendicare all’esperienza giurisprudenziale basata sul diritto romano il ruolo di insuperabile modello. La posizione è assunta con fermezza ma con spiccata moderazione, evidente specie quando si affrontano temi delicati quali la tortura e la pena di morte, che viene giustificata in base al diritto naturale all’autodifesa contro l’ingiusta aggressione, parallelo a quello che spetta al sovrano per la difesa dello Stato. Nondimeno, il ricorso alla pena capitale è giudicato necessario solo per i delitti veramente atroci, rappresentati dalla lesa maestà, dai «pubblici assassinii» e dagli «omicidi deliberati», e cioè dai reati che «infrangono il nodo sociale e turbano con premeditata malvagità la pubblica o privata sicurezza delle persone».
Una posizione assai vicina a quella che accomuna la gran parte dei giuristi postbeccariani era stata assunta, un anno prima della pubblicazione dell’Apologia di Giudici, anche da una delle grandi voci dell’Illuminismo europeo, Gaetano Filangieri, che nel terzo volume della Scienza della legislazione (1783) aveva giudicato pienamente legittima la pena di morte in quanto parte integrante del diritto di punire. Filangieri critica in particolare l’argomento contrattualista di Beccaria secondo cui le leggi espressione del diritto di punire sono costituite dalla «somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno», considerandolo (al pari di Kant) un vero e proprio «sofisma» che, se generalizzato, finirebbe per privare di legittimità qualsiasi tipo di pena. In realtà – afferma il filosofo napoletano – nello stato di natura ciascuno ha il diritto di togliere la vita a tutti per proteggere la propria ingiustamente minacciata. Il patto sociale non ha fatto altro che trasferire tale diritto alla società e renderlo sempre praticabile. In altre parole, il diritto di applicare la pena di morte non è un ‘nuovo’ diritto ma un perfezionamento di quello esistente in natura, e deriva da una cessione di diritti esercitabili non su sé stessi ma sugli altri. Resta il fatto, conclude Filangieri, che il diritto di punire con la morte deve essere gestito con estremo equilibrio per una cospicua serie di buoni motivi. Una sua smodata e arbitraria applicazione porterebbe infatti, come dimostra l’esperienza, alla distruzione del corpo sociale, non consentirebbe di preservarne l’efficacia come strumento di intimidazione, e violerebbe il principio di proporzionalità delle pene.
Alla metà degli anni Ottanta sembra dunque prendere corpo tra i giuristi una posizione largamente maggioritaria che arresta la recezione della nuova filosofia penale beccariana alle soglie della pena di morte, circoscrivibile ai casi che la esigano come extrema ratio ma non eliminabile. Per restare all’ambito partenopeo, anche Francesco Mario Pagano ammette eccezionalmente l'«ultimo supplicio» per crimini particolarmente efferati.
La maturità dei tempi cui abbiamo fatto cenno in esordio trova peraltro la sua più significativa conferma proprio in questo momento, grazie a un intervento legislativo destinato ad assumere una straordinaria valenza simbolica. Ci riferiamo alla promulgazione, il 30 novembre 1786, della Leopoldina, quella Riforma della legislazione criminale toscana che al § LI per la prima volta sopprime ufficialmente, con un primato probabilmente planetario, la pena di morte sostituendola con i pubblici lavori a vita. La matrice beccariana di tale scelta normativa, voluta in prima persona da Pietro Leopoldo, è evidente specie se si consultano i lavori preparatori.
Nella Veduta 11 del Progetto iniziale il granduca motiva l’abolizione riprendendo quasi alla lettera l’argomentazione contrattualistica di Beccaria: «nessun membro della Società ha potuto trasfondere nella medesima un diritto, che non ha lui stesso sulla sua propria persona» (cit. in Zuliani 1995, p. 207). Il dato è ovviamente significativo, come sono significative le posizioni tutt’altro che univoche assunte in argomento dai consiglieri del sovrano. In particolare, l’auditore Giuliano Tosi ritiene debole l’argomento contrattualistico e sconsiglia di fondare su di esso l’abolizione perché «non tutti ne potrebbero rimaner convinti». Sulla base di questo e di altri suggerimenti, Pietro Leopoldo riscrive interamente il paragrafo eliminando qualsiasi riferimento al contrattualismo. In compenso, egli sviluppa altre motivazioni di sapore beccariano: la pena dei lavori pubblici a vita è assai più utile della pena capitale, attua con la sua esemplarità un migliore effetto di prevenzione generale e speciale, e realizza un'opportuna mitigazione delle pene che si accorda pienamente con «la maggior dolcezza e docilità di costumi» del popolo toscano e «del presente secolo». Inoltre – e qui siamo di fronte a una motivazione umanitaria fino a quel momento trascurata – l’abolizione della pena di morte consente «la correzione del reo figlio anche esso della Società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi».
Gli ulteriori sviluppi del dibattito sulla pena di morte sono condizionati dai mutamenti normativi determinati dalla Leopoldina e dai successivi provvedimenti che rendono effimero il pur fondamentale intervento del 1786. Il 30 giugno 1790, a seguito di moti popolari, la pena capitale viene infatti reintrodotta in Toscana contro i promotori di tumulti, e nel 1795 il nuovo granduca Ferdinando estende – con la Ferdinandina – la previsione della pena capitale ai reati di lesa maestà umana e divina e agli omicidi premeditati.
Le reazioni a queste variazioni normative non furono univoche. Nel 1787 Piero Ranucci, professore di Istituzioni criminali a Pisa e futuro ispiratore della Ferdinandina, nel commentare la Leopoldina approva senz’altro l’abolizione della pena capitale, ma sulla base di un’unica empirica motivazione tra le molte presenti nel § LI, e cioè il «dolce e mansueto carattere della nazione toscana». Per il resto, egli continua a sostenere, come Lampredi e Foggi, la legittimità della pena capitale come diritto del sovrano esercitabile ex iure necessitatis e con finalità di intimidazione generale.
Sul versante opposto, ampia e convinta è l’apologia delle scelte leopoldine operata nel trattato Della pena di morte (1788) da un allievo di Lampredi, Cammillo Ciaramelli, che ripropone in modo appassionato ma non sempre lucido ed efficace le argomentazioni beccariane. Particolarmente originale era invece stata, due anni prima, la posizione abolizionista assunta da Cesare Malanima, giurista ed erudito pisano, nel Commentario filologico-critico sopra i delitti e le pene secondo il gius divino. Con una serie di argomentazione di natura teologica, Malanima aveva sostenuto che mentre nel Vecchio Testamento la morte del reo era conforme al comando divino e aveva il significato di un sacrificio di purificazione per la rottura dell’Alleanza con Dio, con l’avvento di Cristo e della nuova Alleanza tutte le colpe sono espiate con l’Eucaristia, e deve perciò cessare il sacrificio della vita umana. In altre parole, il divieto delle pene capitali è conforme al diritto divino della nuova Alleanza, e conservare la pena di morte significa rifiutare il Nuovo Testamento e l’unico fondamentale sacrificio espiatorio, che è quello di Cristo.
Dopo le oscillazioni degli anni Ottanta, a metà degli anni Novanta la più significativa manifestazione di un generale ritorno a posizioni antiabolizioniste è rappresentata da uno scritto giovanile di Giovanni Carmignani, il Saggio di giurisprudenza criminale (1795). Concepita come confutazione delle opinioni di Beccaria a sostegno della controriforma ferdinandina, l’opera afferma la necessità della pena capitale respingendo l’argomento contrattualista e sostituendolo con uno organicista: come al singolo individuo spetta il diritto di conservare se stesso e le parti che lo compongono, così la società ha il diritto di conservare se stessa e le parti che la compongono eliminando gli elementi cancrenosi (e cioè chi rappresenti per essa un pericolo).
Quanto all’argomento utilitarista Carmignani, dopo avere osservato che la giustizia coincide con l’utilità del maggior numero, mediante un'analitica serie di argomentazioni ritiene di poter dimostrare che la pena di morte si conferma senz’altro utile a fini preventivi, e conclude che essa è dunque espressione di giustizia. Peraltro, per conservare efficacia alla pena di morte ne deve essere fatto un uso responsabilmente moderato, limitato ai sovversivi, ai traditori e agli omicidi.
Un analogo auspicio era stato formulato pochi anni prima da un altro criminalista di scuola pisana, Luigi Cremani, che tra il 1791 e il 1793 aveva pubblicato a Pavia, ove insegnava dal 1775, il De iure criminali libri tres, opera di sintesi che rappresenta il prodotto di maggior spessore tecnico-scientifico dell’attività di mediazione tra tradizione e innovazione svolta dai giuristi postbeccariani. In tema di pena di morte la cauta opinione di Cremani è esemplare della posizione assunta da un’intera generazione di penalisti pratici e accademici, e può essere considerata come l’approdo di una speculazione protrattasi per circa un trentennio, alla quale appartengono anche opere di minore respiro ma non prive di interesse, come quella dell’avvocato Giuseppe Bonvicini, che nel pubblicare le Osservazioni sopra varj mezzi di prevenire i delitti nella civil società (1787) aveva auspicato un limitato ricorso alla pena di morte «allor che con la vita del colpevole non possa il ben pubblico conciliarsi».
Secondo Cremani, la pena capitale trova il suo principale fondamento in un diritto di autoconservazione contro ogni lesione illegittima. Tale diritto è per natura proprio del singolo individuo ma appartiene anche alla società dal momento del suo costituirsi. Il che non significa peraltro che vi si debba fare ricorso in ogni circostanza. Cremani tende infatti a restringerne l’applicazione ai casi più gravi: egli non accetta la «nimia clementia» degli abolizionisti ma nemmeno la «nimia severitas» dei tradizionalisti, ritiene che la «recta ratio» sia la «media», e conclude che la pena di morte debba essere riservata ai crimini «quae vere gravissima sunt», e in primo luogo ai reati contro lo Stato.
Che agli inizi degli anni Novanta il dibattito avviato dal Dei delitti e delle pene si stia assestando, dopo la fiammata leopoldina, su un diffuso convincimento circa la legittimità della pena di morte condizionato dall’altrettanto diffusa opinione che a essa si debba ricorrere solo nei casi gravi, è confermato dalla presa di posizione di un altro esponente di primo piano del pensiero penalistico dell’epoca, Gian Domenico Romagnosi. Nel 1791 il filosofo emiliano dà alle stampe la Genesi del diritto penale, nella quale non manca di trattare il tema, liquidandolo peraltro in pochi brevi capoversi quasi a sottolineare la perduta centralità dell’argomento. Anche secondo Romagnosi il diritto di infliggere la morte discende dal diritto di difesa contro ogni ingiusta aggressione che minacci l’esistenza dell’aggredito, e spetta originariamente sia a ogni singolo individuo sia all’intero corpo sociale. La pena di morte è dunque giusta, a condizione che sia necessaria per distogliere dal commettere reati gravi. Romagnosi non dice peraltro in quali casi si manifesti concretamente tale necessità, e si limita a osservare che saranno le specifiche circostanze di fatto a determinarne la sussistenza.
Nonostante l’affievolirsi delle contrapposizioni, è proprio all’inizio degli anni Novanta che il dibattito sulla pena di morte vive la sua ultima intensa stagione, spostandosi nuovamente dalle pagine dei giuristi e dei polemisti all’officina del legislatore, e trovando temporaneamente nuova linfa in un ulteriore argomento abolizionista: la irreparabilità della pena di morte in caso di errore giudiziario.
L’argomento viene per la prima volta approfondito da un allievo di Cremani, Tommaso Nani, nel breve trattato De indiciis eorumque usu in cognoscendis criminibus (1781). Nani ridefinisce il problema della pena capitale in base a parametri innovativi in quanto lo inquadra nella dimensione tecnico-processuale sottesa al passaggio dal tradizionale sistema della prova legale a quello della certezza morale. La possibilità di irrogare la pena capitale deve poggiare, a giudizio di Nani, su un fondamento assai più consistente di una piena prova che sia tale secondo i criteri comunemente accettati. La pena di morte deve infatti richiedere, per essere pronunciata, un cumulo probatorio corrispondente alla fisica evidenza, rarissima certo a verificarsi ma non del tutto impossibile. Quando, e si tratta della stragrande maggioranza dei casi, tale fisica evidenza non può essere conseguita, quando cioè il giudice decide sulla base della probabilità che presiede alla formazione della certezza morale, il ricorso alla pena capitale dev'essere disapprovato («extremum supplicium improbari debet»), e il giudice deve applicare una pena che comporti per il condannato un danno sempre riparabile. A questa posizione di principio Nani aggiunge poi un ulteriore rilievo che chiarisce la sua personalissima considerazione della delicata questione. Il fatto che il danno provocato dalla pena capitale risulti definitivo spinge il giovane giurista, nelle ultime righe della sua opera, ad abbandonare per un momento la circospetta scelta dei termini che caratterizza il suo lavoro, e lo induce ad affermare «vehementissime» che, proprio in conseguenza di questa irreparabilità, mai il sovrano dovrebbe esercitare nei confronti dei cittadini «ex causa delicti» lo «ius vitae et necis», e che la pena di morte dovrebbe essere sempre proscritta, anche nei casi di confessione spontanea dell’imputato (pp. 179-83).
Più avanti negli anni Nani rientrerà prudentemente nella schiera maggioritaria di coloro che, pur disapprovando l’uso frequente della pena capitale, la reputavano tuttavia non eliminabile in assoluto. Ciò che peraltro rileva in questa sede è il fatto che proprio il tema dell’irreparabilità sviluppato in ottica processuale da Nani è destinato a salire alla ribalta in un’ultima memorabile occasione priva di effetti concreti ma ricca di valenze ideali. Intendiamo riferirci alle discussioni svoltesi a Milano nel gennaio del 1792 nell’ambito della Giunta nominata da Leopoldo II allo scopo di approntare un progetto di codice penale per la Lombardia austriaca. In tale circostanza la corrente di minoranza della Giunta, formata – oltre che da Gallarati Scotti – da Risi e da Beccaria, non esita a opporsi fermamente al ricorso alla pena capitale non solo perché la giudica, con argomentazioni non nuove, «non giusta» in quanto «non necessaria» e «meno efficace della pena perpetua», ma anche perché essa risulta «irreparabile», e tale irreparabilità viene presa in considerazione sia dal punto di vista della «inevitabile imperfezione delle umane prove» che sotto il profilo dei «limiti della certezza morale».
Come noto, a Milano l’ultima battaglia dell’abolizionismo settecentesco si conclude con una nuova sconfitta in quanto il progetto della Giunta finisce per ammettere a beneficio dell’«utile pubblico» la pena di morte, anche se in un numero di casi ampiamente inferiore rispetto agli assetti tradizionali. Questa chiara scelta normativa, unitamente al revirement che si registra negli stessi anni in Toscana, pone fine alla fase illuministica dell’abolizionismo, messo in crisi dall’affievolirsi delle spinte ideali e dall’avviata opera di codificazione che, nel momento in cui si confronta con le urgenze dei tempi, è spesso costretta ad accantonare le grandi dichiarazioni di principio.
La crociata abolizionista ha comunque ottenuto un risultato non trascurabile: quello di diffondere la percezione della pena di morte come castigo «orribile» – l’espressione è contenuta nei verbali della Giunta milanese – ancorché talvolta necessario. Allo scadere del secolo cercheranno di mantenere vivo lo spirito abolizionista autori come Giovanni Compagnoni, che negli Elementi di diritto costituzionale democratico (1797) sosterrà l’illegittimità della pena capitale rivisitando i consueti argomenti contrattualistici e utilitaristici. Sarà però necessario attendere l’esaurirsi della parabola napoleonica e il consolidarsi della Restaurazione per assistere alla rinascita di un forte interesse per il tema dell’eliminazione della pena di morte.
Da un punto di vista dottrinale, l’aspetto più significativo del temporaneo esaurimento, intorno al 1790, della forza propulsiva dell’abolizionismo è individuabile nel tramonto dell’impostazione contrattualistica del problema del diritto di punire. Assolutamente centrale nel Dei delitti e delle pene, quest'impostazione filosofica aveva mostrato le prime crepe in occasione dei lavori preparatori della Leopoldina ed era stata progressivamente percepita come artificiosa in quanto basata su una pura ipotesi logica. Quando, nel secondo quarto del 19° sec., numerosi autori riapriranno il dibattito sulla legittimità della pena di morte, lo faranno con argomenti politici e scientifici di ben maggiore concretezza. E mentre Romagnosi, nella Memoria sulle pene capitali (1830), non esiterà a dileggiare la «favoletta del contratto sociale», nel 1836 uno dei primi giuristi a incamminarsi sui nuovi itinerari della civiltà giuridica, con una celebre Lezione accademica sulla pena di morte, sarà proprio quel Giovanni Carmignani che, quarant’anni prima, aveva contribuito a scolpire l’epitaffio dell’abolizionismo illuminista.
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