Il processo di concentrazione del sistema bancario
Principali trend evolutivi del settore bancario
A partire dall’inizio degli anni Novanta, l’industria bancaria europea ha conosciuto un processo di concentrazione che non ha precedenti nel secondo dopoguerra. Deregolamentazione finanziaria, progresso tecnologico e crescente integrazione tra i mercati sono le principali determinanti della fase di aggregazione tra aziende bancarie.
Il progressivo abbattimento delle barriere fisiche e regolamentari ha accresciuto il grado di concorrenza e la contendibilità degli assetti proprietari, e ha spinto le istituzioni finanziarie ad ampliare la gamma dei servizi proposti a famiglie e imprese.
Il progresso tecnologico ha avuto un ruolo fondamentale nella riduzione dei costi e nel miglioramento dei servizi offerti. L’innovazione nelle telecomunicazioni e nell’elaborazione elettronica dei dati, insieme alla diffusione di Internet, ha facilitato i flussi informativi tra banche e clienti e tra banca e banca, contribuendo a velocizzare le operazioni e a ridurre i costi dei servizi. L’enorme sviluppo dell’ICT (Information and Communication Technology) ha consentito la creazione di nuovi canali distributivi attraverso cui le banche possono fornire una vasta scelta di servizi informativi e dispositivi, raggiungendo in modo diretto la propria clientela.
L’uso intenso dell’ICT e dei canali distributivi diretti richiede tuttavia consistenti e continui investimenti e, di conseguenza, un aumento dei costi fissi. Il progresso tecnologico accentua l’importanza delle economie di scala nella produzione di servizi finanziari. Le aggregazioni rappresentano quindi un’opportunità per migliorare l’efficienza e il processo di creazione di valore.
Le economie di scala non si fermano tuttavia all’ICT. L’offerta di nuovi servizi finanziari, le innovazioni nei canali distributivi e nei sistemi di pagamento, le più avanzate tecniche gestionali sono infatti realizzate in modo più efficiente nelle istituzioni di maggiori dimensioni.
In Europa, un importante fattore di cambiamento è rappresentato dal processo di integrazione dei mercati finanziari, che ha contribuito ad accrescere il grado di concorrenza in mercati altamente segmentati. L’introduzione della moneta unica ha consentito la riduzione del costo del credito e dei costi di transazione.
Il consolidamento rappresenta la risposta dell’industria bancaria ai cambiamenti del quadro competitivo e all’accentuarsi della concorrenza. Si è ridotto il numero degli intermediari bancari ed è aumentata la concentrazione del mercato. Ciò nonostante, il grado di competizione non è affatto diminuito. La concorrenza è particolarmente vivace su tutti i segmenti dell’attività bancaria. I margini di ricavo si assottigliano e l’innovazione finanziaria, tecnologica e normativa richiede elevati investimenti. Numerose sono le banche che hanno adottato importanti strategie di riposizionamento geografico e settoriale.
Il presente saggio si articola in una prima parte che esamina le determinanti e le forme del consolidamento, una seconda sulle caratteristiche del fenomeno a livello europeo, una terza sugli effetti del consolidamento e una quarta sulle prospettive e gli scenari.
Le determinanti e le forme del consolidamento
Un’analisi su determinanti e forme del consolidamento impone qualche riflessione sui processi di crescita delle banche. La crescita è un processo imprescindibile della vita delle imprese. Essa può realizzarsi attraverso l’espansione nell’ambito di uno specifico core business, per integrazione verticale a monte o a valle di un processo produttivo, o per diversificazione verso prodotti o segmenti di clientela contigui.
Nelle diverse teorie dell’impresa, la crescita è considerata sia nella sua valenza di obiettivo a sé stante, sia come strumento per il conseguimento del profitto. Le possibilità di rimanere in modo profittevole sul mercato sono generalmente legate alla capacità di aumentare i volumi di attività o di entrare in nuove aree d’affari. L’aumento della scala dimensionale e la diversificazione dell’attività sono sempre più importanti nel caso dei servizi bancari e finanziari, a fronte della crescente complessità e concorrenza del contesto operativo. Nelle più moderne elaborazioni teoriche, l’enfasi passa dal profitto alla creazione di ‘valore per l’azionista’, sebbene le motivazioni del consolidamento possano essere legate anche ad altri stakeholders, quali i manager o i governi centrali o locali. Tra l’altro, la crescita dimensionale può essere vista anche come mezzo di difesa contro le scalate ostili.
Per comprendere come i processi di aggregazione consentono di creare valore, ci viene in aiuto la teoria economica che individua complesse relazioni tra crescita da una parte, e costi, ricavi e rischi dell’attività bancaria dall’altra. Tali relazioni trovano una sintesi nei concetti di economie di scala e di scopo, potere di mercato, diversificazione del rischio. In particolare, la crescita per espansione e per integrazione consente di beneficiare di economie di dimensione (o di scala) qualora all’aumentare dei volumi di attività corrisponda una diminuzione dei costi medi unitari del prodotto, vale a dire un miglioramento dell’efficienza operativa. La relazione tra crescita e prezzi è invece legata all’ipotesi teorica che all’aumentare della dimensione d’impresa corrisponda un aumento del potere di mercato e quindi della capacità di determinare i prezzi. Gli effetti sulla creazione di valore derivanti dalla crescita per diversificazione sono legati, da un lato, ai vantaggi di efficienza associati alla produzione congiunta di più servizi o alla ripartizione di costi comuni su una gamma di prodotti (economie di scopo), dall’altro, alla riduzione della variabilità del reddito. Questo aspetto, che si rifà ai capisaldi della teoria del portafoglio, è particolarmente rilevante per l’industria bancaria in quanto si fonda sulla valutazione del profilo rischio-rendimento delle nuove aree d’affari, dei nuovi segmenti di clientela, dei nuovi mercati territoriali in relazione alla connotazione rischio-rendimento delle attività preesistenti.
Le economie di scala e di scopo, da sole, non sono sufficienti a giustificare la grande dimensione dell’attività bancaria. La ragion d’essere delle grandi banche è da ricondurre anche ad altri fattori, tra cui il controllo dei rischi, la possibilità di servire grandi clienti, di operare a livello internazionale e di effettuare investimenti di ampia portata.
Entro questo quadro vanno viste le strategie di crescita dimensionale e di diversificazione attuate negli ultimi anni dalle imprese bancarie.
Le modalità del consolidamento
Lo sviluppo aziendale può realizzarsi per linee interne e per linee esterne. La crescita endogena avviene tramite aumento del grado di utilizzo della capacità produttiva esistente o per apertura di nuove strutture produttive o di vendita, vale a dire gli sportelli bancari. Rispetto alla crescita organica, la via esterna consente di raggiungere gli obiettivi di crescita molto più velocemente. L’acquisizione di una banca commerciale, infatti, porta con sé il beneficio di una rete di sportelli radicata, una base di clientela già fidelizzata, un marchio riconosciuto, relazioni e conoscenze a livello locale.
Il consolidamento è considerato generalmente il risultato delle decisioni di crescita per linee esterne, tramite fusioni, pure o per incorporazione, acquisizioni di partecipazioni di controllo, accordi e joint-ventures. Anche le acquisizioni di quote di minoranza rientrano tra le modalità dei processi di crescita esterna, qualora siano preliminari a forme di aggregazione più stretta. Il consolidamento può però avvenire anche per via endogena, quando le banche più efficienti guadagnano quote di mercato in virtù della loro superiore capacità operativa e in tal modo inducono alla marginalizzazione o all’uscita dal mercato delle banche più deboli.
Le joint-ventures possono essere viste come una modalità per attuare politiche di diversificazione in attività altamente specialistiche o per entrare in aree di business non presidiate, sfruttando la messa in comune di competenze da parte di un operatore specializzato. Possono rappresentare anche il primo passo per l’avvio di collaborazioni con intermediari esteri.
Fusioni e acquisizioni rappresentano di gran lunga la principale modalità con cui è stato realizzato il processo di consolidamento dell’industria bancaria in questi anni. Di esse, pertanto, si dirà in modo più esteso nel prosieguo di questo saggio.
Un altro aspetto relativo alle modalità del consolidamento attiene ai modelli organizzativi che, nell’elaborazione teorica, tradizionalmente distinguono tra banca universale e gruppo plurifunzionale. La banca universale copre l’intera gamma di operazioni finanziarie a breve e a medio/lungo termine, operando direttamente su tutti i segmenti dell’attività bancaria in senso stretto, nonché in tutte le forme di servizi e prodotti presenti sui mercati finanziari. Nella realtà, anche e soprattutto all’aumentare della dimensione e della diversificazione per aree d’affari, il modello organizzativo di gran lunga prevalente è quello del gruppo polifunzionale, nel quale le diverse attività fanno capo a società distinte (bancarie, finanziarie, assicurative, strumentali), ma collegate tra loro da legami partecipativi, di controllo o meno. Un particolare modello organizzativo adottato dai gruppi bancari è quello definito di tipo federale, dove una capogruppo, in forma di holding o di azienda bancaria operativa, controlla un certo numero di banche specializzate per territorio. Altri modelli vedono la compresenza di banche specializzate per segmento di clientela (retail, che operano con i risparmiatori e i piccoli operatori economici; private, che si dedicano ai clienti con elevate disponibilità finanziarie; corporate, che si rivolgono alle imprese medie e grandi) o per comparti creditizi (quali il credito agli investimenti, alle infrastrutture, agli enti pubblici, al consumo, i mutui residenziali).
All’aumento della dimensione, della diversificazione operativa, dell’internazionalizzazione corrispondono strutture organizzative sempre più articolate e complesse. La complessità e i conseguenti problemi di gestione, coordinamento e controllo possono rappresentare una conseguenza indesiderata dei processi di consolidamento.
Il consolidamento in Europa
Il processo di concentrazione ha visto una prima fase rilevante alla fine degli anni Novanta. Da allora, è proseguito con diverse intensità.
Dal 1999 al 2007 il numero di banche dell’Unione Europea (UE) a 15 Paesi si è ridotto del 3,1% medio annuo, passando da quasi 8900 a poco meno di 6900 (−22,4%), secondo i dati della BCE (Banca Centrale Europea). Il calo è stato più marcato negli anni a cavallo del secolo, in concomitanza con l’intensificarsi del processo di concentrazione (fig. 1).
Nonostante la riduzione del numero di istituzioni creditizie, dal 2000 al 2007 il totale delle attività del settore bancario nella UE a 15 ha continuato a crescere a tassi significativi, pari all’8,7% medio annuo (+94% circa in totale). Tale evoluzione sta a testimoniare un aumento della dimensione media delle banche, passata tra il 1997 e il 2007 da 1,8 a 5,8 miliardi di euro in termini di totale attivo (fig. 2).
Il calo del numero di istituzioni creditizie è strettamente legato all’attività di merger and acquisition (M&A) all’interno del settore bancario, che è stata particolarmente vivace negli ultimi dieci anni, con un picco nel 2007 di gran lunga superiore al precedente massimo raggiunto nel 2000 (fig. 3).
Due tendenze hanno contraddistinto l’attività di M&A negli anni più recenti: l’aumento delle dimensioni medie delle operazioni e la crescente importanza delle aggregazioni cross-border (transnazionali; fig. 4). Questi fenomeni hanno indotto importanti cambiamenti qualitativi nella struttura dell’industria. Durante la prima ondata degli anni Novanta, infatti, le operazioni di M&A hanno coinvolto soprattutto intermediari di piccole dimensioni e hanno avuto principalmente l’obiettivo di aumentare l’efficienza. Già verso la fine degli anni Novanta le operazioni di M&A sono diventate più importanti in termini di dimensione, motivate anche dall’obiettivo di migliorare la posizione competitiva sul mercato. Il processo di M&A è stato particolarmente vivace all’interno dell’area euro, anche in prospettiva dell’integrazione monetaria, ma ha assunto intensità diverse nei singoli Paesi in relazione al diverso grado di concentrazione bancaria esistente.
La gran parte delle operazioni di M&A riguardanti il settore bancario è di carattere nazionale. Il processo di consolidamento può essere infatti interpretato come un percorso evolutivo che, schematizzando, vede dapprima la concentrazione all’interno di uno stesso mercato (in-market), soprattutto dove vi è elevata frammentazione, seguita da una fase di consolidamento attraverso l’estensione del mercato (market-extension). Un simile processo è riferibile sia ai mercati geografici sia alle aree d’affari.
L’iniziale prevalenza delle operazioni in-market non dovrebbe quindi stupire, mentre una crescente apertura internazionale e operativa è altamente plausibile all’aumentare della dimensione delle banche e della concentrazione del mercato. Alla base del consolidamento nazionale si trova anche la possibilità di conseguire maggiori economie di costo nelle operazioni di tipo in-market, piuttosto che in quelle di tipo market-extension, in ragione delle sovrapposizioni che si possono generare nel primo caso. Le operazioni di aggregazione talvolta possono essere ispirate anche all’obiettivo della creazione di campioni nazionali, a scopo difensivo o preventivo. Questa motivazione è plausibile soprattutto nelle fasi più avanzate del processo di consolidamento. L’idea è che, per non dover giocare in difesa in uno scenario di consolidamento cross-border, è indispensabile che le banche siano innanzitutto forti nel proprio mercato interno domestico, non solo dal punto di vista dimensionale, ma anche attraverso il miglioramento dell’efficienza e della capacità di creare valore. L’osservazione dell’esperienza fatta dall’inizio degli anni Novanta a oggi conferma che la crescita dimensionale è stata una condizione essenziale per il mantenimento dell’autonomia e per la difesa della leadership delle banche nei mercati interni di riferimento. Le aggregazioni hanno portato alla formazione di intermediari in grado di competere in tutti i segmenti dell’intermediazione e di assumere posizioni di rilievo anche a livello internazionale. In generale, le banche hanno preferito consolidare le proprie posizioni entro i confini nazionali prima di avviare una strategia di ingresso nei mercati esteri.
Come conseguenza del calo del numero di banche e dello sviluppo dei volumi dell’attività bancaria, si è avuto un aumento della concentrazione del mercato. La quota di attività bancarie facente capo alle prime cinque banche (indice CR5) si è accresciuta in buona parte dei Paesi europei, soprattutto verso la fine degli anni Novanta. Negli anni più recenti, l’aumento della concentrazione è stato particolarmente significativo in Paesi come Belgio, Portogallo, Regno Unito, Francia. Nel complesso, nell’Unione monetaria a 12 l’indice CR5 è passato tra il 2001 e il 2006 dal 39% al 43%. Un analogo incremento si osserva negli stessi anni anche per l’area allargata della UE a 25 Paesi, che vede l’indice CR5 salire dal 38% al 42%.
Permangono, tuttavia, significative differenze a livello nazionale. La Germania si conferma il mercato meno concentrato, con un indice CR5 pari soltanto al 22% nel 2006. Paesi più piccoli, invece, si caratterizzano per una concentrazione maggiore, come Paesi Bassi e Belgio che vedono un indice CR5 pari all’85% circa.
Per quanto riguarda l’Italia, l’indice CR5 (calcolato sulla base dell’attivo dei gruppi bancari) pari nel 2000 al 48,6%, è salito nel 2007 al 51,5%, e nella prima metà del 2008 al 54,6% (nei cinque principali Paesi europei è in media del 46%).
L’attuale assetto del settore bancario italiano è il risultato di un processo di trasformazione e modernizzazione senza precedenti, che ha preso avvio all’inizio degli anni Novanta. Da allora, sono migliorati sensibilmente il grado di efficienza e gli indici di produttività. Il settore è ora completamente aperto ai capitali privati, di provenienza nazionale o estera. Tramite le privatizzazioni, si è avviata un’intensa opera di consolidamento, con oltre 350 operazioni di M&A tra banche italiane negli ultimi dieci anni, che hanno interessato il 70% circa del mercato, in termini di quote delle banche oggetto delle operazioni.
La mappa del settore bancario è stata completamente ridisegnata. Le banche italiane sono ora protagoniste dello scenario competitivo continentale e ben solide sul proprio mercato domestico: due grandi banche sono tra le primissime in Europa per capitalizzazione. Le dimensioni si sono ampliate, con un totale attivo medio dei primi cinque gruppi salito a oltre 400 miliardi di euro nel 2007, dai 40 miliardi circa di vent’anni prima.
Il grado di concentrazione raggiunto in gran parte dei sistemi bancari europei è assai alto, se misurato considerando le attività che fanno capo ai maggiori gruppi. Proprio con riguardo ai grandi gruppi, l’obiettivo dello sviluppo può risultare frenato, in alcuni contesti nazionali, dai limiti rappresentati dalla dimensione del mercato interno, dalle esigenze di evitare un’eccessiva concentrazione degli affidamenti e dalle norme di tutela della concorrenza. Inoltre, in molti Paesi dell’Europa occidentale il mercato interno è ormai giunto a una fase di maturità, o prossimo a essa, con spazi di crescita limitati. Ciò si aggiunge al grado di concentrazione elevato nel motivare la ricerca di nuove opportunità di crescita oltre i confini nazionali.
L’attività di M&A cross-border
Anche negli anni più recenti, a fronte di una progressiva maggiore apertura internazionale, la gran parte delle operazioni di M&A ha riguardato operazioni domestiche, a eccezione del 2005 quando le operazioni cross-border all’interno dell’area euro hanno superato il 50% del totale del valore delle M&A del sistema bancario dell’area (fig. 4).
Il fenomeno delle operazioni cross-border è comunque sempre più significativo. Motivati dalla maggiore apertura dei mercati e sospinti dai livelli di concentrazione già raggiunti sul mercato interno, i campioni nazionali hanno cominciato a guardare al di fuori dei propri confini. In generale, le principali motivazioni dell’internazionalizzazione sono la ricerca di nuove fonti di crescita e la diversificazione dei ricavi.
In una prima fase, le strategie di internazionalizzazione si sono rivolte soprattutto verso target al di fuori dell’area euro e anche al di fuori della UE, motivate dal processo di convergenza dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, dal loro elevato potenziale di sviluppo in presenza di livelli molto bassi di bancarizzazione, dalle privatizzazioni.
Poche sono state le operazioni all’interno della core Europe (i Paesi corrispondenti alla UE a 15), per l’esistenza di ostacoli di natura culturale e linguistica, ma anche legati alla frammentazione regolamentare. Il permanere di differenze talvolta notevoli fra le leggi e le normative di ciascuno Stato membro si traduce in un aumento dei costi di realizzazione delle operazioni di M&A cross-border, in una riduzione delle sinergie attese e in un potenziale allungamento dei tempi di compimento delle integrazioni. La mancanza di una completa armonizzazione caratterizza il campo fiscale, ma anche altri ambiti di fondamentale importanza per l’attività d’impresa, quali il diritto societario, la legislazione a tutela dei consumatori e degli investitori, le normative che regolano i mercati finanziari, la vigilanza bancaria e finanziaria. Ci possono tuttavia essere anche altri fattori di natura più specificamente politica, storica o culturale che rappresentano un deterrente per le banche estere a entrare in un mercato. Il loro effetto è quello di limitare la libertà di accesso al mercato, riducendone in tal modo anche l’attrattività per potenziali investimenti. Fattori quali la struttura proprietaria, pubblica oppure privata, o la natura societaria, di banca in forma di società per azioni o mutualistica, possono sicuramente avere un impatto sul consolidamento.
Un recente filone di ricerca si è focalizzato sulle regole e le procedure di approvazione delle concentrazioni da parte delle autorità nazionali di vigilanza per indagare se esse possano costituire una barriera alle operazioni di consolidamento cross-border nel settore bancario europeo. Sulla base dell’evidenza empirica, vi è una minore probabilità che una grande banca sia acquisita da un’istituzione creditizia estera se il processo di approvazione delle fusioni non è trasparente. Alla base di questo comportamento vi sarebbe la volontà di mantenere il controllo delle maggiori istituzioni creditizie in mani domestiche, bloccando in tal modo le fusioni cross-border.
Nel corso degli ultimissimi anni, con il procedere dell’allargamento dell’Unione Europea e nel quadro della crescente importanza economica dei Paesi emergenti, si è assistito a un aumento delle operazioni di M&A con target esterni all’Unione. Nel 2006, in particolare, il valore delle operazioni verso Paesi esterni alla UE a 25 (principalmente Turchia, Cina, Stati Uniti, Romania, Paesi del Sud-Est asiatico, Russia) ha raggiunto il valore delle operazioni cross-border all’interno della UE. Queste ultime, nonostante il calo rispetto al valore eccezionale dell’anno prima, si sono confermate importanti.
Dopo la fase dei campioni nazionali, sta quindi cominciando a emergere una tendenza verso la creazione di banche paneuropee. A partire dal 2000, le operazioni di M&A cross-border tra banche dell’Europa occidentale sono diventate di dimensioni sempre più grandi, fino a toccare nel 2007 un valore complessivo di 112 miliardi di euro.
In conseguenza del processo di M&A cross-border, si è assistito a un incremento dell’importanza sui singoli mercati interni delle banche a controllo estero. Nella UE a 25, la quota di mercato delle banche a controllo estero, misurata in base al totale degli attivi bancari, è aumentata dal 23,2% del 2001 al 27,1% del 2006. Nell’Unione monetaria a 12, la stessa quota è salita dal 13,8% al 17,9%. La più alta incidenza dell’estero nella UE a 25 rispetto all’area euro si spiega con la presenza del Regno Unito, dove la quota delle banche estere è superiore al 50%, ma anche con l’elevata proprietà straniera nei sistemi bancari dell’Europa centrale e orientale.
Più di recente, l’ondata delle operazioni di M&A verso l’Europa centrale e orientale è rallentata a seguito degli elevati livelli di proprietà estera già raggiunti in molti Paesi e del completamento delle privatizzazioni. Le aree di maggiore interesse per gli investimenti nel capitale delle banche sono diventate la Russia, la Cina, l’India, i Paesi del Mediterraneo, ma anche gli Stati Uniti e l’America Latina, verso cui si rivolgono soprattutto le banche spagnole.
Gli effetti del consolidamento
Da un punto di vista teorico, il consolidamento del sistema bancario ha due principali effetti: il miglioramento dell’efficienza e l’aumento del potere di mercato, con possibili impatti sulla concorrenza e sui prezzi. Altre potenziali conseguenze riguardano la riduzione della disponibilità di servizi finanziari ai clienti di minori dimensioni, tipicamente le piccole e medie imprese. A livello sistemico, si sono ipotizzate conseguenze sulla stabilità qualora a seguito delle concentrazioni le istituzioni creditizie maggiori diventassero troppo complesse da vigilare. Si osserva, inoltre, che al crescere della dimensione dell’istituzione creditizia aumenta la probabilità di supporto sistemico in caso di difficoltà, un concetto che viene usualmente sintetizzato con l’espressione too big to fail.
Efficienza
Il principale motivo alla base dell’aggregazione tra banche è rappresentato dai guadagni di efficienza attesi attraverso la riduzione dei costi. Con le fusioni le banche puntano a migliorare la propria efficienza operativa tramite il raggiungimento di economie di scala e l’eliminazione di funzioni centrali comuni e dei back-offices. Guadagni di efficienza possono derivare anche dalla razionalizzazione delle reti di sportelli, laddove si verifichino sovrapposizioni in conseguenza delle aggregazioni, tipicamente nelle operazioni cosiddette in-market. All’opposto, si ritiene che le M&A cross-border non generino significative sinergie soprattutto con riferimento all’attività di banca commerciale al dettaglio, mentre non si dovrebbero vedere impedimenti alla realizzazione di significative sinergie dal lato delle attività all’ingrosso o di quelle che possono essere condotte su scala globale, come, per es., l’investment banking o l’asset management.
Gli studi empirici confermano che la maggior parte dei guadagni attesi in termini di miglioramenti operativi postfusione derivano dall’opportunità di ridurre i costi, mentre i miglioramenti dal lato dei ricavi sono relativamente più contenuti.
L’esperienza internazionale indica che, a livello d’impresa bancaria, i risultati delle operazioni di M&A non sempre sono in linea con le attese. Oltre una certa soglia dimensionale, si osserva che possono emergere diseconomie di scala, riconducibili alla complessità della gestione di grandi organizzazioni. Tale esito deve essere considerato temporaneo, una fase transitoria da ricondurre al lasso temporale con cui si esplicano i guadagni di efficienza attesi dalle operazioni di M&A. Il ritardo può riflettere difficoltà nel ridefinire le politiche creditizie, razionalizzare la rete di sportelli, integrare i sistemi operativi e di elaborazione dati, formare il personale e gestire le differenze culturali (Amel, Barnes, Panetta, Salleo 2004). Una volta superate le difficoltà, si dischiude un potenziale elevato per rilanciare la crescita e aumentare la creazione di valore, affrontando da posizioni di forza la competizione in un contesto di mercato divenuto più complesso.
Dagli anni Novanta e fino all’aggravarsi della crisi innescata dai mutui subprime statunitensi, le banche europee hanno registrato una buona performance reddituale, nonostante diversi shock esterni. Il consolidamento può quindi aver contributo a migliorare la loro capacità di resistenza, in quanto le istituzioni più deboli sono state generalmente acquisite da quelle più redditizie e solide.
Potere di mercato e concorrenza
L’ipotesi è che all’aumento della concentrazione corrisponda un aumento del potere di mercato e una riduzione del grado di concorrenza. In realtà, l’esperienza dimostra che, nonostante il significativo processo di concentrazione osservato negli ultimi anni, il grado di competizione non è affatto diminuito. Infatti, mentre secondo l’interpretazione tradizionale la concentrazione erode la concorrenza, concentrazione e concorrenza possono invece aumentare simultaneamente quando è la concorrenza che induce il consolidamento. Per es., in un mercato dove le imprese inefficienti vengono acquisite da quelle efficienti, la concorrenza si può rafforzare e, contemporaneamente, aumenta anche la concentrazione.
Pertanto, rispetto alle ipotesi teoriche, l’aumento della concentrazione non necessariamente si concretizza nella possibilità per le banche di praticare prezzi meno favorevoli per i clienti, in quanto l’aumento del potere di mercato viene controbilanciato da altri effetti che si traducono in benefici per i clienti. In particolare, i guadagni di efficienza derivanti dalle economie di scala o di scopo o dal miglioramento delle capacità manageriali possono essere in parte trasferiti ai clienti, nella forma di condizioni di prezzo più favorevoli e una migliore qualità del servizio. Uno studio riferito al mercato italiano dei depositi bancari (Focarelli, Panetta 2003), per es., ha trovato che gli effetti a lungo termine delle operazioni di M&A sono favorevoli sui prezzi praticati ai clienti. Lo studio dimostra che nelle fusioni in-market (il mercato considerato è quello provinciale) il tasso sui depositi delle banche interessate dall’operazione subisce un temporaneo impatto sfavorevole. Nel lungo termine, invece, prevale l’effetto dei guadagni di efficienza, determinando un beneficio permanente per i risparmiatori in termini di migliore remunerazione dei depositi.
Un altro filone di studio si è occupato degli effetti delle M&A bancarie sul costo del credito alle imprese, proponendosi di verificare se le fusioni accrescano il patrimonio informativo delle banche circa la rischiosità delle singole imprese e se, in seguito a un’aggregazione, le banche migliorino la propria capacità di elaborare le informazioni di cui sono in possesso, con effetti sul costo del credito (Panetta, Schivardi, Shum 2005). L’evidenza dimostra che le fusioni realizzate dalle banche italiane negli anni Novanta hanno determinato sia guadagni di efficienza (rappresentati da una traslazione verso il basso della curva dei tassi bancari), sia un miglioramento della capacità delle banche stesse di selezionare le imprese con il grado di affidabilità più elevato. Il primo effetto è in linea con quanto mostrato da lavori precedenti relativi al mercato italiano, cioè che i guadagni di efficienza generati dalle fusioni tra banche hanno più che compensato le conseguenze che potrebbero derivare da un incremento del potere di mercato. L’effetto composto è quello che si verifica quando, dopo un’operazione di concentrazione, i tassi bancari subiscono una riduzione per i clienti con migliori prospettive di sviluppo, mentre registrano un aumento per i clienti di bassa qualità.
Implicazioni sul credito alle piccole e medie imprese
L’impatto del consolidamento risulta evidente dagli effetti diretti sull’industria bancaria, ma si possono avere conseguenze importanti anche sull’economia nel suo complesso. Di particolare interesse sono le implicazioni sulle condizioni di finanziamento delle piccole e medie imprese.
Il consolidamento del mercato bancario ha determinato profondi cambiamenti nella struttura dell’offerta di credito, che si riflettono – tra l’altro – nell’evoluzione del rapporto tra banche e imprese, e sulle condizioni di accesso al credito. La portata e l’intensità del processo nei principali mercati bancari mondiali ha sollevato, inevitabilmente, rilevanti questioni di politica economica, tra le quali la possibilità che una maggiore dimensione delle nuove banche frutto di fusioni e acquisizioni generi una contrazione dell’offerta di credito – in particolare alle piccole e medie imprese – a causa di diseconomie organizzative associate alla dimensione bancaria.
In particolare, l’aumento delle dimensioni aziendali comporta una crescente complessità organizzativa delle imprese bancarie. Nelle grandi banche il numero di livelli gerarchici che si frappongono tra l’organo che delibera l’erogazione del fido e il gestore della relazione con il cliente finale è maggiore di quello riscontrabile nelle banche di piccole dimensioni. Ciò comporta modalità di interazione con i clienti più ‘impersonali’. Inoltre, la complessità organizzativa incide indubbiamente sull’efficienza dell’attività di valutazione e monitoraggio della clientela di piccole dimensioni, con tutti i relativi rischi di scarsa trasparenza dal punto di vista informativo.
Di conseguenza, la letteratura ipotizza che le banche di maggiori dimensioni tendano a privilegiare rapporti meno esclusivi e più formali, che non necessitano della raccolta e dell’utilizzo di informazioni non codificabili, e dunque a limitare l’esposizione verso le piccole imprese. Viceversa, le banche di minori dimensioni o quelle dotate di struttura organizzativa (e decisionale) decentrata sarebbero meglio attrezzate a raccogliere e trattare anche informazioni soft, cioè il patrimonio di informazioni, prevalentemente qualitative, e dati riservati acquisiti dall’intermediario finanziario attraverso l’interazione ripetuta con l’impresa cliente e con l’ambiente in cui essa opera. Detto altrimenti, le banche locali sarebbero meglio dotate per affidare efficientemente segmenti di clientela che più necessitano di finanza ‘informata’.
L’evidenza sulle conseguenze del consolidamento sul finanziamento delle piccole e medie imprese delinea un quadro piuttosto articolato e non univoco. Sostegno empirico all’ipotesi che le strutture a bassa complessità organizzativa hanno un vantaggio informativo nello stabilire relazioni basate sullo scambio di informazioni non codificate e non standardizzate è stato fornito da un recente studio (Berger, Miller, Petersen et al. 2005), in cui si mostra come, rispetto alle piccole banche, gli intermediari di maggiore dimensione tendano a fornire prestiti a clienti localizzati a maggiore distanza, a imprese più grandi e a fare un maggiore uso di informazione codificata. Altri studi hanno evidenziato che gli effetti del consolidamento dipendono in maniera significativa dal tipo di istituzioni coinvolte. Negli Stati Uniti, come anche in Italia (Sapienza 2002), si è osservato che, mentre le operazioni di consolidamento avvenute tra banche medio-grandi (o quelle in cui le banche grandi hanno incorporato una banca piccola) hanno portato effettivamente a una riduzione dei prestiti alle piccole imprese, le fusioni e le acquisizioni che hanno visto coinvolte due o più banche piccole, o quelle dove comunque una banca piccola è stata la banca incorporante, i prestiti alle piccole imprese hanno mostrato la tendenza ad aumentare.
Tuttavia, oltre al diverso comportamento assunto dalle banche coinvolte nelle operazioni di consolidamento, occorre tenere anche conto della reazione delle altre banche operanti nel mercato in cui avvengono le fusioni e della nascita di nuove istituzioni bancarie, che spesso finiscono per compensare l’effetto dimensione. Detto in altre parole, le fusioni e le acquisizioni spingerebbero le banche concorrenti a coprire i segmenti di mercato lasciati scoperti dalla nuova banca sorta dalla fusione e a limitare la riduzione (oppure addirittura a consentire l’aumento) dell’ammontare di prestiti complessivamente concessi alle piccole imprese.
Con riguardo all’esperienza italiana, le grandi banche sono consapevoli dei possibili effetti delle fusioni sulla capacità di fare credito alle piccole e medie imprese (PMI). Pertanto, i gruppi nati da operazioni di fusione hanno adottato modelli organizzativi volti a preservare il radicamento territoriale e i rapporti con le piccole imprese locali degli istituti confluiti nei gruppi. L’obiettivo è evitare, o quanto meno mitigare, gli effetti indesiderati sulla disponibilità e le condizioni di credito alle piccole e medie imprese. A livello di sistema, non si sono verificati effetti di restrizione sul credito alle PMI grazie anche alla concorrenza e al rafforzamento del ruolo delle piccole banche locali; queste ultime, infatti, potrebbero aver sfruttato il loro vantaggio comparato nel trattare con quella fascia di clientela che incontra maggiori difficoltà ad adeguarsi alle nuove politiche creditizie perseguite dalle banche grandi, basate su un più intenso utilizzo di informazioni codificate nonché di metodi di valutazione standardizzati.
Anche a livello europeo l’evidenza indica che difficilmente il consolidamento ha un effetto negativo sul credito alle PMI, sia in quanto si rendono disponibili fonti alternative di finanziamento, anche grazie al maggiore attivismo delle banche concorrenti, sia perché le operazioni di M&A migliorano la capacità delle banche nella valutazione del rischio del prenditore (European central bank 2005).
Prospettive
Accanto ai drivers di lungo periodo delle operazioni di aggregazione, quali la crescita dimensionale e la diversificazione, negli anni più recenti e almeno fino al 2007, alcuni sviluppi hanno contribuito a creare un contesto favorevole all’attività di M&A. Tra questi, l’introduzione dei nuovi criteri contabili IFRS (International Financial Reporting Standards), che consente di armonizzare i sistemi di reporting riducendo i costi di conformità nel caso di operazioni cross-border. Inoltre, fino all’esplodere della crisi finanziaria globale, il clima macroeconomico favorevole, i bassi tassi di interesse, la liquidità abbondante, i mercati azionari in crescita, la buona redditività delle banche hanno concorso a sostenere l’ondata di fusioni e acquisizioni. L’attivismo degli investitori, l’aggressività di alcuni competitori e la prospettiva, più a lungo termine, della potenziale entrata sul mercato delle banche dei Paesi emergenti hanno fornito lo stimolo per operazioni di aggregazione a carattere difensivo.
La crisi globale del credito, innescata nel 2007 dai mutui subprime statunitensi, ha portato a un repentino cambiamento del contesto operativo. Il suo impatto sul processo di consolidamento non è univoco. Da un lato, la carenza di liquidità e di capitali e l’aumento del loro costo rendono più difficile il finanziamento delle acquisizioni effettuate per cassa. Inoltre, la turbolenza finanziaria e l’incertezza sugli sviluppi della crisi inducono maggiore prudenza in generale sulle strategie di crescita esterna, con attenzione alle valutazioni dei possibili target e cautela nei riguardi delle operazioni cross-border. D’altro canto, si fanno più frequenti che in passato acquisizioni con finalità di salvataggio, quindi essenzialmente domestiche, fino a vere e proprie nazionalizzazioni.
Il processo di consolidamento risente anche della necessità per alcune banche di focalizzarsi sulla pulizia del proprio bilancio, sul rafforzamento del patrimonio e sulla ristrutturazione dei processi operativi e dell’organizzazione. L’occasione della razionalizzazione degli attivi bancari rappresenta altresì un’opportunità per operazioni di finanza straordinaria. Alcuni recenti sviluppi hanno infatti mostrato che il processo di concentrazione non va solo in un’unica direzione, e può avvenire anche attraverso la frammentazione della catena del valore. La necessità per alcune banche di ridurre gli attivi e rafforzare il patrimonio può portare al ridimensionamento o all’eliminazione di alcune aree d’affari, creando un’opportunità per i concorrenti. Anche in una fase di ripensamento delle strategie e di pausa del processo di consolidamento, alle banche più solide si possono dunque presentare concrete e valide possibilità di crescita esterna.
In ogni caso, nel lungo termine il processo di consolidamento è destinato a proseguire, sia sul fronte domestico, specialmente nei Paesi, come la Germania, dove il mercato bancario è ancora altamente frammentato, sia a livello cross-border. In proposito, in una prima fase della crisi finanziaria, la necessità di rafforzare il capitale di alcune grandi banche ha portato all’entrata nell’azionariato di nuovi azionisti, anche esteri. L’emergere dei fondi sovrani nelle operazioni di ricapitalizzazione rappresenta uno sviluppo interessante per i mercati finanziari, che però non va sottovalutato sia per le implicazioni sistemiche, sia per quelle strategico-industriali.
In conclusione, considerato che le banche operano in un contesto altamente dinamico di globalizzazione, cambiamenti regolamentari e progresso tecnologico, i motivi di fondo che governano le forze della concorrenza e del cambiamento non sembrano destinati a mutare. Pertanto, la prospettiva di lungo termine del consolidamento dell’industria e della crescente internazionalizzazione dovrebbe confermarsi.
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