Il progetto
L’argomento di questo saggio è il concetto di progetto, la specificazione di una nozione più ampia e generale. Si progetta infatti una legge, un viaggio, un edificio, un libro, una macchina, un periodo della vita, la vita stessa. Inteso in questo senso, esteso e interdisciplinare, il progetto si configura come l’insieme delle scelte che devono essere effettuate per ottenere un determinato risultato. Ovviamente tali scelte devono essere conseguenti, non in contraddizione tra di loro, coprire tutto l’arco delle decisioni da prendere ed essere capaci di evolvere nel tempo secondo le diverse circostanze che si presenteranno durante il processo di conseguimento dell’obiettivo prefissato. Perché ci sia un progetto occorre allora che il risultato al quale si vuole pervenire sia chiaro, che le fasi da superare siano altrettanto precisate, che attorno all’obiettivo si raggiunga il consenso necessario. Nel progetto di architettura – argomento su cui Ludovico Quaroni ha scritto il famoso libro Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura (1977) – le scelte compiute si rendono evidenti attraverso una serie di elaborati disegnati e scritti. La parte grafica illustra tutti gli aspetti del futuro edificio, dalle piante alle sezioni, ai prospetti, alle prospettive o, come si dice oggi dopo la diffusione nell’architettura del digitale, ai renderings fino ai particolari costruttivi; le relazioni descrivono dettagliatamente l’opera futura, soffermandosi su tutti gli aspetti che i disegni non riescono a restituire. Affinché il progetto possa conseguire il suo obiettivo, la condizione necessaria è che, per tutto il tempo della sua realizzazione, le risorse tecniche da esso previste continuino a esistere. Di conseguenza non può passare un periodo troppo lungo tra la sua redazione e la realizzazione.
Il progetto può essere considerato da tre punti di vista. È un sistema di conoscenze finalizzato alla trasformazione di alcuni aspetti del mondo fisico; è un dispositivo comunicativo che propone un certo numero di informazioni nel modo più efficiente possibile; è complessivamente una memoria, ossia un modo di classificare e ordinare dati perché essi risultino accessibili e consultabili anche dopo un lungo periodo. Da Giovanni Battista Piranesi in poi, il progetto può costituire anche un’opera d’arte, dal momento che con la sua opera il grande incisore veneziano, seguito subito dopo dagli architetti della Rivoluzione francese come Étienne-Louis Boullée, Claude-Nicolas Ledoux e Jean-Jacques Lequeu, ha fatto sì che il valore del progetto non consista solo nel suo eventuale risultato concreto, ma si riconosca dal suo contenuto autonomo. Affrontare l’argomento del progetto di architettura comporta preliminarmente l’analisi di una serie di livelli teorici e operativi in cui, in un’ambivalente relazione di dipendenza e di attiva modificazione, esso si inserisce, nonché una riconfigurazione dello stato attuale dell’architettura, utile per contestualizzare il discorso che sarà svolto e le tesi che esso proporrà.
Condizione attuale dell’architettura
Tra la fine del Novecento e l’inizio del 21° sec. l’architettura ha vissuto una serie di profonde mutazioni teoriche e pratiche a seguito dei grandi cambiamenti che hanno interessato la scena mondiale soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino (1989), evento che, concludendo il ‘secolo breve’, ha dato inizio alla globalizzazione. Conseguentemente a queste mutazioni anche l’idea di progetto si è modificata, aprendo rinnovate prospettive concettuali e un orizzonte strumentale e tematico anch’esso inedito. Alcune delle trasformazioni avvenute sembrano configurarsi come fenomeni che presentano elementi variabili e transitori; altre possiedono invece caratteri più strutturali i quali, riguardando la sfera economico-produttiva, appaiono per più di un verso irreversibili e permanenti. In entrambi i casi queste mutazioni non stanno agendo a livello preliminarmente implicito, come se cercassero il modo migliore per produrre i loro effetti rimanendo per così dire in attesa, ma si sono dispiegate istantaneamente in tutta la loro ampiezza con risultati di notevole portata urbana e architettonica. C’è da aggiungere che queste trasformazioni hanno conferito all’architettura una condizione nuova, uno stato complesso e metamorfico che si cercherà di comprendere e di argomentare in modo, per quanto sarà possibile, esteso e articolato.
Prima di procedere all’analisi di questa condizione nuova è necessario soffermarsi brevemente su alcune ipotesi teoriche o, se si preferisce, su una serie di metafore descrittive emerse nel dibattito recente sulla natura e sugli obiettivi della globalizzazione. La classe creativa di Richard Florida, il mondo piatto di Thomas Lauren Friedman, la liquidità di Zygmunt Bauman, la moltitudine di Antonio Negri e Michael Hardt sono altrettante immagini concettuali che rivelano con la forza esplicativa dello slogan circostanze e processi che interessano il mondo globale. Tali immagini concettuali esprimono per un verso le enigmatiche e imprevedibili logiche che strutturano e insieme destabilizzano la società contemporanea, per l’altro cercano di sintetizzare gli effetti che la tecnologia può avere su quelle stesse dinamiche.
La condizione dell’architettura contemporanea è segnata in maniera determinante da alcuni fattori tra loro interdipendenti. Tra questi i principali sono la globalizzazione; la concentrazione nelle città, nelle metropoli e nelle megalopoli della maggioranza degli abitanti del pianeta; la questione ambientale; il digitale; un’idea del corpo umano come realtà mutante, nello stesso tempo fisica e astratta. La globalizzazione ha avuto come effetto principale una forma particolare di unificazione del mondo. Ogni suo punto si è aperto agli scambi delle merci e delle informazioni; è nato un mercato che lo coinvolge interamente, nel quale i flussi finanziari, peraltro privi di una connotazione riconoscibile, configurandosi come astratti e atopici, hanno messo in stretta relazione le diverse economie; un turismo, che muove masse sempre più imponenti di persone, descrive ogni itinerario del pianeta, compresi quelli più distanti e impervi. Un aspetto importante di questo turismo globale consiste nel fatto che è l’architettura contemporanea ad avere maggiore importanza, come testimoniano le varie Expo, le grandi manifestazioni sportive come i campionati mondiali di calcio e le Olimpiadi, altrettante occasioni per la realizzazione di interventi urbani spettacolari. Questo ‘turismo del nuovo’, ancora in gran parte inesplorato nei suoi rituali, è una delle più evidenti e radicali materializzazioni dello spirito della globalizzazione. Esso sta infatti producendo uno sguardo sul mondo in cui chi visita e ciò che è visitato si compongono in relazioni complesse e inaspettate. Tra le conseguenze della globalizzazione c’è la crisi, se non proprio un superamento di fatto, dell’idea di Stato, sostituita da una concezione più aperta e dinamica delle comunità nazionali. Al contempo la nascita di nuovi paradigmi globali ha prodotto una riaffermazione delle identità, in un gioco contraddittorio fatto della riscoperta e della rivendicazione di ciò che è locale e della opposta ricerca di moduli comunicativi senza più tracce evidenti di una provenienza certa, senza più la necessità di un radicamento in una precisa tradizione culturale. La globalizzazione si qualifica inoltre per il suo comprendere aspetti positivi e negativi. Per molti studiosi essa può essere infatti considerata un elemento di coesione, ancorché denso di tensioni e di arretramenti; per altri, al contrario, è qualcosa che, comprendendo fenomeni come la delocalizzazione, la deindustrializzazione e la deterritorializzazione, rivela una sua funzione riduttrice della stratificazione dei segni che l’uomo ha tracciato nel mondo nel corso della storia, con il risultato che la compresenza di processi insediativi diversi e alternativi tende a non essere più avvertita. La dialettica tra risorgenti localizzazioni e radicali cancellazioni delle identità attraversa a partire dal 1989 la scena mondiale, costituendo un sottofondo comune a ogni operazione sia urbana sia architettonica.
Il sorpasso, avvenuto nei primi anni del 21° sec., della popolazione urbana rispetto a quella rurale ha sancito un nuovo primato mondiale della città. Sospesa tra il trionfalismo che accompagna l’ascesa di Shanghai, Pechino, Taiwan, Dubai e il catastrofismo sostenuto dagli avversari della globalizzazione (come Saskia Sassen e Mike Davis), la città contemporanea si sta trasformando sempre più rapidamente in una sua autorappresentazione spettacolare, nella quale edifici sempre più audaci si elevano ad altezze vertiginose esprimendo un’energia che appare letteralmente inesauribile. Tra infrastrutture potenti che costruiscono un gigantesco e suggestivo paesaggio artificiale si ergono costruzioni che, mentre sfidano le leggi di gravità, si pongono come macchine mediatiche le quali raccontano e propagandano i fasti della globalizzazione. Al contempo questi aspetti autocelebrativi si invertono nel degrado che investe le sterminate periferie urbane. Ovviamente il disastro non è generalizzabile. La città ha smarrito gran parte della consapevolezza di sé. Lo testimonia il cospicuo numero di aggettivi che servono a evidenziarne i caratteri più emergenti: analoga, visibile, generica, fisica, diffusa, possibile, distratta; oppure le definizioni città collage, città fortezza, città fabbrica sono alcune delle specificazioni necessarie a dare sostanza a un concetto che appare sempre più sfuggente. Dopo l’11 settembre 2001 tale perdita di consapevolezza si è accentuata, aumentando a dismisura la divaricazione tra il modello catastrofico e quello trionfale. La nuova mitologia urbana, che vede le città divenire parchi a tema di sé stesse impegnandole in una competizione ogni anno più accesa, nasconde contrasti sociali duri e forse insuperabili. Le ipotesi relative a una sempre maggiore disponibilità delle città a farsi pervadere in ogni loro punto, come conseguenza della crescente presenza di flussi informativi, non trovano riscontro nella vita urbana. Tali flussi, che dovrebbero aumentare la libertà dei suoi abitanti di agirla e di modificarla, sono infatti contraddetti, nei loro possibili esiti, dalla presenza di separazioni fisiche e virtuali sempre più numerose. L’impenetrabilità delle gated communities, in realtà, più apparente che vera, si contrappone così all’estrema disponibilità degli spazi del consumo. La presenza di questi recinti, autentici ostacoli a una circolazione totale di persone e di idee, smentisce in modo inequivocabile il trasferimento nella città dell’accessibilità della rete. La metafora della ‘città liquida’ rivela in tal modo la sua illusorietà. Ma la situazione ambigua, incerta e ambivalente della città contemporanea è evidente anche per altri processi che la interessano. Per es., le città cinesi divorano il loro passato in un’inarrestabile bulimia, immolando al nuovo interi quartieri di notevole significato architettonico e ambientale, mentre le metropoli dell’America Latina sono sempre più divise tra immensi agglomerati di baracche fatiscenti, come a Caracas, San Paolo e Buenos Aires, e smaglianti centri commerciali circondati da eleganti edifici per uffici e da lussuose torri residenziali. Al contempo le città europee si dotano di sofisticate attrezzature urbane – edifici, parchi, spazi pubblici, piste ciclabili –, di infrastrutture per rendere meno rapido il loro declino, derivante dal fatto che la fase di progressiva espansione, prottrattasi per duecento anni, sembra essersi definitivamente conclusa. Con l’eccezione di Londra, che sta vivendo un nuovo ciclo caratterizzato da una veloce espansione delle attività culturali e creative, le città europee si stanno defilando, sebbene in modo strategicamente attenuato, dalla sfida che le impegna per la conquista di nuovi spazi produttivi, commerciali, rappresentativi e turistici. Un altro fenomeno, certamente preoccupante, consiste nel fatto che più le città cercano di affermarsi nella competizione globale – o comunque, come quelle europee, di migliorare le proprie strutture – più rinunciano a una vera pianificazione del proprio futuro. L’urbanistica come momento di confronto collettivo tra le comunità, le amministrazioni e i tecnici è stata esautorata a vantaggio di interventi casuali, governati dagli investitori immobiliari legati alla finanza internazionale. Anche del progetto urbano si fa volentieri a meno preferendo accordi diretti tra operatori privati e amministratori pubblici, accordi che eliminano il controllo sul proprio abitare delle popolazioni interessate. Questa deregulation, ormai trentennale, è considerata come qualcosa di insuperabile anche tra molti di coloro che ne individuano i limiti.
La questione ecologica, comparsa ufficialmente con il Rapporto sui limiti dello sviluppo, edito nel 1972 dal Club di Roma su iniziativa di Aurelio Peccei, è ormai centrale in tutto il pianeta. Essa sta cambiando la stessa nozione di architettura, per molti studiosi del tutto rifluita in quella di ambiente. La scarsità delle risorse, l’inquinamento, la forbice tra dissipazione e indisponibilità del petrolio, dell’acqua e di altre sostanze necessarie alla vita della comunità, alla produzione industriale e agli scambi – una diseguaglianza di mezzi che separa le economie consolidate da quelle arretrate – disegnano un quadro preoccupante che la possibilità di disporre di energie rinnovabili come quelle idriche, eoliche e solari, non riesce a riequilibrare in modo apprezzabile. Gli architetti sono sempre più consapevoli di questa emergenza con il limite, però, che molte delle soluzioni proposte vengono ricercate all’interno delle stesse tecnologie che hanno causato il problema. In effetti, mentre alcuni architetti cercano di recuperare modalità costruttive ecologiche usando il legno, la terra o la pietra, si moltiplicano i grattacieli (che superano il mezzo chilometro d’altezza), la cui realizzazione è consentita soltanto dall’utilizzo di materiali estremamente sofisticati come cementi e acciai ad alta resistenza, resine particolari, rivestimenti speciali. Materiali che richiedono un forte investimento energetico per essere prodotti e gestiti nel tempo.
Per quanto riguarda il digitale, il quarto fattore alla base della condizione attuale dell’architettura, occorre riconoscere che esso ha avuto su quest’ultima un’influenza decisiva. Anche se la natura di tale incidenza non è ancora del tutto chiara, è indubbio che il digitale ha prodotto nel progetto e nella realizzazione degli edifici modificazioni essenziali. È possibile identificare tale incidenza in tre ambiti. Il primo concerne il potenziamento degli strumenti progettuali ottenuto dal computer, un incremento tecnico che consente di impostare e di risolvere problemi che, con il disegno tradizionale, avrebbero richiesto un tempo decisamente maggiore, non consentendo inoltre la precisione raggiungibile con l’aiuto dell’elettronica. Il secondo ambito del digitale – esaurientemente indagato, a livello concettuale e nelle sue implicazioni operative, da teorici come William J. Mitchell, Livio Sacchi e Antonino Saggio – si può riassumere nelle possibilità di archiviare e di classificare i dati in modo notevolmente più avanzato e flessibile di quello messo a disposizione da precedenti sistemi di organizzazione delle informazioni relative al progetto. Il computer è infatti in grado di costruire blocchi di dati omogenei da mettere in relazione con altri assemblaggi di informazioni alla ricerca di connessioni e di ibridazioni conoscitive e creative che non si limitano al solo livello analitico, essendo portatrici di suggerimenti compositivi. Il terzo ambito, il più innovativo, è all’origine di un nuovo immaginario formale. Gli scenari virtuali si nutrono di superfici continue, di spazialità avvolgenti e infinite, di involucri che prelevano temi strutturali dal cosmo e dall’universo biologico e vegetale. L’anello di Möbius, le galassie, le spugne, le conchiglie, le meduse, i crostacei, i fiori, le ramificazioni degli alberi, i cristalli fanno parte di un patrimonio neonaturalistico denso di suggestioni figurative al quale attingono molti architetti in ogni parte del mondo. In tale repertorio, se affiora un remoto retrogusto gotico, sono presenti anche tematiche spaziali nuove le quali, razionalizzando intuizioni futuriste ed espressioniste, intendono trasporre nell’ambito dell’architettura quella fluidità che caratterizza l’incessante scorrere delle informazioni nel mondo globale.
Il corpo, il quinto elemento alla base della nuova condizione dell’architettura, si propone oggi come un’entità postorganica che può essere riplasmata, ibridata, contaminata, corretta con l’inserimento di elementi artificiali, rinnovata tramite trapianti, spinta dalle biotecnologie verso limiti prima impensabili. Nello stesso tempo il corpo, al quale si chiede di conformarsi ai modelli di bellezza e di efficienza imposti dai media, subisce una crescente smaterializzazione essendosi dotato – si pensi a Internet – di strumenti conoscitivi che possono essere assimilati a nuovi sensi. Così come nell’età premoderna il corpo era stato il modello dell’architettura, nell’era elettronica il corpo immateriale è il nuovo paradigma che sostiene molte delle ricerche che vedono l’edificio conformarsi come un ectoplasma trasparente, un’astratta emittente di informazioni. Sospeso tra le pratiche di mutazione fisica – il body building, il piercing, la chirurgia plastica, il branding ecc. – che ne esaltano la concretezza e le proiezioni verso la virtualità assimilandolo a una pura proiezione energetica, il corpo vive una profonda dissociazione, ancora non del tutto avvertita nelle sue importanti implicazioni.
Questioni generali
Prima di continuare l’analisi sulla condizione attuale dell’architettura, con una particolare attenzione al problema del progetto, non sembra inutile approfondire alcuni degli argomenti generali sottesi al discorso fin qui svolto. Uno di questi è il tempo. Nella modernità il tempo si è confermato come una traiettoria lineare che traduceva perfettamente il rapporto diretto e in qualche modo meccanico tra intenzioni e risultato. L’avvento della postmodernità ha cambiato radicalmente questo schema. Dal tempo assiale si è passati a un tempo avvolgente, nel quale il passato e il futuro si annodano su un presente totalizzato. In un moto a spirale il tempo si dilata e si comprime includendo il prima e il dopo in un’assoluta istantaneità. Il tempo postmoderno ha coinvolto l’idea di storia e, conseguentemente, quella di moderno. Più volte, dalla fine del 20° sec., si è cercato di riformulare tale concetto ipotizzando l’esistenza di un altro moderno contrapposto al moderno canonico (di Nikolaus Pevsner e della Staatliches Bauhaus), una specie cioè di modernità alternativa sottratta agli eccessi antistoricisti delle avanguardie, ma anche la possibilità di un moderno più ampio nel quale, accanto alle sperimentazioni più ardite, possano convivere tendenze attente a una riflessione sul passato. Lo stesso concetto di contemporaneo risente di questa mutazione dell’idea di tempo; con esso si tende infatti a indicare non tanto ciò che accade ora, ma ciò che, avvenendo oggi, è capace di riscrivere la genealogia del moderno canonico nel momento stesso in cui la proietta sugli orizzonti della comunicazione e della moda.
Un altro argomento da considerare è quello della complessità. Studiosi come Ilya Prigogine, Stephen Jay Gould e Murray Gell-Mann hanno chiarito che complessità non significa necessariamente molteplicità di cose, immerse in una situazione caotica. Perché un’entità sia complessa occorre che vi sia in essa gerarchia, adattabilità, ambivalenza, conflittualità. In qualche modo la complessità è qualcosa che abbrevia la distanza tra la struttura dei fenomeni naturali e quella delle idee e delle realizzazioni umane. Rimane alla fine un problema aperto, ossia in che modo la complessità diventi operabile se non si inverte nella semplicità dei problemi da affrontare e delle loro soluzioni, senza dimenticare che la stessa complessità rischia facilmente di produrre forme diffuse di relativismo generico, oltre alla difficoltà di scegliere tra diverse opzioni teoriche e operative. Intesa invece come trascrizione dell’idea di vivente, la complessità può rinviare alle modalità, già sfiorate da Johann Wolf-gang von Goethe, attraverso le quali un principio genetico, per sua natura semplice e unitario, può sviluppare organismi strutturalmente ampi e articolati.
Un terzo argomento da approfondire è l’idea di realtà. Per un aspetto essa non può configurarsi, secondo un’analisi di Vittorio Gregotti (2004), come un insieme di fattori, di processi e di cose da assumere in toto come una premessa immutabile al fare. Al contrario, occorre stabilire tra la realtà e l’operare architettonico una distanza critica, ovvero una tensione riformatrice alimentata dalla volontà di non assecondare in tutto e per tutto le condizioni con le quali ci si confronta nell’esercizio dell’architettura, ma di trasformarle in vista del conseguimento di risultati socialmente più significativi e anche esteticamente più avanzati. La condizione descritta si traduce nella presenza in architettura di una serie di coppie dialettiche. Esse oppongono due termini antinomici creando campi tensionali che si riflettono poi sul progetto. Tra queste coppie dialettiche le più determinanti sono: continuità-discontinuità, ordine-disordine, stabilità-fluidità, interezza-frammentarietà, certezza-aleatorietà, opera-evento, casualità-necessità, unità-molteplicità, integrità-ibridazione, stanzialità-nomadismo, anonimato-visibilità, comunicazione-laconicità, superficie-profondità, microcosmo-macrocosmo, istantaneità-durata, struttura-involucro, velocità-lentezza, memoria-amnesia. Si tratta, come è evidente, di coppie dialettiche non omogenee. Alcune di esse riguardano infatti questioni generali, altre concernono invece livelli più interni ai problemi di scrittura architettonica. In ogni caso tali opposizioni costellano il campo già di per sé accidentato del progetto e contribuiscono ad aumentare le difficoltà che esso sta attraversando in questi anni, rendendolo, anche al contempo, più aperto e consapevole.
Per meglio comprendere in tutte le sue implicazioni il quadro fin qui tratteggiato, occorre contestualizzarlo all’interno di una serie di convinzioni diffuse e prevalenti che influenzano oggi l’architettura. Passandole in rassegna si ritroveranno molti degli argomenti già introdotti, ma essi acquisteranno una evidenza maggiore, dal momento che risulterà più chiaro il loro rapporto con le questioni disciplinari. La prima di queste condizioni consiste nella crisi, se non proprio nell’eclissi definitiva, del senso della ‘località’. Le espressioni di una cultura radicata in un punto preciso della Terra sono state del tutto esautorate a vantaggio di ciò che viene ritenuto globale, intendendo con questo termine qualcosa di diverso e di estraneo a ogni manifestazione identificabile con un luogo. Qualcosa, in una parola, di sostanzialmente atopico e sincreticamente interculturale. Questa idea della globalità non corrisponde in realtà a ciò che sta avvenendo in questi anni, e che ciascuno può constatare. In effetti, la globalità autentica dovrebbe identificarsi nella diffusione planetaria delle singole realtà locali, ove queste siano in grado di raggiungere un valore capace di farle conoscere a livello mondiale, in una reciproca interazione con i valori prodotti in altri luoghi. In breve dovrebbe essere globale ciò che, nascendo da una cultura particolare, conquista una notorietà mondiale, diventando patrimonio dell’umanità nel momento in cui incorpora e rappresenta una differenza. Oggi, invece, prevale un’edizione amplificata di quello che fino a un paio di decenni fa veniva chiamato imperialismo, vale a dire l’imposizione, da parte dei Paesi egemoni, dei loro modelli culturali con i relativi prodotti, dei loro schemi comportamentali con i conseguenti stili di vita, delle loro merci con il totalizzante indotto iconico che esse producono. In questo senso la globalizzazione non è tanto differente dal vecchio ‘internazionalismo’. Il secondo fenomeno con il quale si confronta oggi l’architettura riguarda lo statuto dei saperi. La ‘società liquida’, di cui ha parlato Z. Bauman (2000), prima ricordato, sembra aver trovato una corrispondenza nei saperi, anch’essi divenuti sistemi di conoscenze che non dispongono più di una consistenza solida, autonoma e durevole, ma si intersecano e si intrecciano l’un l’altro in combinazioni molteplici, metamorfiche e transitorie. Anche in questo caso occorre chiedersi se questa condizione di interazione tra i diversi saperi sia qualcosa di veramente nuovo o non sia piuttosto una semplice accelerazione di quello scambio interdisciplinare tanto caro alla modernità. Per ciò che concerne l’architettura c’è da osservare che l’attuale ‘liquefazione-fluidificazione’ dei saperi le sta facendo perdere la sua consistenza disciplinare confondendola con la sociologia, l’antropologia, la comunicazione, la geopolitica. La terza condizione che interessa oggi l’architettura è il primato indiscusso del mercato, con la conseguente esaltazione del consumo. Mitizzato da Rem Koolhaas il rito dello shopping, ma soprattutto le logiche astratte e totalizzanti della finanza globale, materializzate nella locuzione enigmatica real estate, delineano un quadro di sostanziale subordinazione alle dinamiche economiche. Il mercato è uno strumento essenziale per la vita delle comunità perché garantisce e incrementa la libertà, moltiplicando per ogni individuo le occasioni di realizzare i propri obiettivi, ma è un errore pensarlo come un fine, considerandolo quasi alla stregua di una entità metafisica al di sopra di ogni condizionamento. Il quarto fenomeno, del quale molti teorici e critici si stanno oggi occupando, consiste nella trasformazione dell’architettura in una pratica rivolta quasi esclusivamente all’inarrestabile dilagare della comunicazione, un fenomeno più che discutibile ed estremamente dannoso, contro il quale si batte da anni V. Gregotti. L’architettura, che ha sempre avuto, tra le altre, anche una finalità comunicativa, si identifica oggi quasi del tutto con questa funzione, con il risultato di accentuare oltre ogni limite la sua presenza nei vari circuiti dell’immagine. Divenuta uno dei tanti mass media, l’architettura è costretta a mettere in secondo piano i suoi contenuti più specifici, quali il suo essere principalmente uno spazio abitabile, il costruire situazioni urbane, l’incorporare una temporalità. La quinta condizione è la trasformazione dell’architettura in un’attività ambientale governata dalla questione ecologica. Dalle problematiche relative alla gestione a quelle relative alla sicurezza, dalla crescente presenza di estese e prolungate procedure amministrative e normative al governo dei cicli edilizi intesi nei loro aspetti energetici e nel loro avvicendamento fisico, dalla costruzione alla demolizione, si disegna un orizzonte teorico e operativo nel quale il piano della forma è completamente trasceso da una sorta di ‘neofunzionalismo ambientale’. In particolare l’emergenza ecologica si configura come il luogo di convergenza e di sintesi di molte delle questioni fin qui elencate. Il sesto fenomeno, uno dei più importanti dal punto di vista della situazione attuale dell’architettura, si riconosce nella convinzione diffusa che la città sia ormai sfuggita definitivamente al controllo dei suoi abitanti nonché degli architetti che dovrebbero, sulla base di una delega ricevuta dagli abitanti stessi, progettarne le modificazioni future. Si ritiene da più parti che la città evolva con leggi proprie, imprevedibili, oltre che difficilmente comprensibili. Si tratta di una convinzione estremamente dannosa perché delegittima alla radice il progetto urbano, finendo con il consegnare la città a quella logica di interventi architettonici puntuali e casuali, privi di qualsiasi relazione tra loro, che si affidano al prestigio dell’autore e all’eccentricità spettacolare della loro presenza. Il settimo fenomeno si identifica in una progressiva estetizzazione della società. Materializzato dall’arte e dalla moda, questo processo investe ogni aspetto dell’architettura, che diviene per questo sempre più incidentale e performativa. Essa si propone come un’espressione prevalentemente soggettiva nella quale le sue fondamentali componenti collettive sono via via ridotte, se non del tutto emarginate. L’ottava condizione è l’ibridazione dei linguaggi, che si scambiano temi e motivi in una circolarità che li vede perdere i loro caratteri distintivi in una omologazione di strutture e di temi. Il nono fenomeno è l’avvicinamento, se non proprio l’identificazione, tra reale e virtuale. L’universo della simulazione sta diventando sempre più il luogo dell’autentico – si pensi ai reality show o a Second life – mentre la realtà vera acquista i tratti della rappresentazione. La Venezia di Las Vegas e quella reale sono di fatto equivalenti. Un altro primato, quello della complessità, diventata ormai un concetto buono per tutti gli usi, si aggiunge come decimo fenomeno ai precedenti, con l’indesiderata e di fatto inevitabile equivalenza di ogni opinione teorica e di ogni scelta operativa che tale primato comporta. L’undicesima condizione si ravvisa nell’avvenuta e consolidata equivalenza tra cultura alta e cultura bassa, immesse entrambe in una emissione incessante di segnali e di messaggi, tra i quali è di fatto impossibile, se non del tutto inutile, cercare di distinguere gerarchie di valori e di contenuti. La dodicesima condizione consiste infine nella compresenza delle problematiche relative al grande numero messe a punto nel Novecento, corredate dalle relative soluzioni massificate, con le opposte esigenze di individualizzare tali soluzioni. Se il secolo scorso ha dovuto trasformare la quantità in qualità, inventando una ‘qualità di massa’, oggi la stessa qualità tende a specificarsi, come avviene nel disegno industriale, in risposte il più possibile diverse, rivolte a gruppi ristretti di utenti, pur se originate da una base tecnica e funzionale che continua a rimanere comune.
Queste dodici condizioni si confrontano con una contraddizione destinata a diventare sempre più determinante che riguarda la sproporzione tra le potenzialità del digitale, in particolare quelle che potrebbero contribuire a ridisegnare il rapporto tra l’individuo e le istituzioni, e la crescente riduzione al presente di ogni prospettiva temporale, ciò che si potrebbe definire l’eclissi della critica. Le potenzialità del digitale permettono di accedere a nuove forme di rappresentanza e di espressione proposte dall’universo elettronico ostacolate dalla resistenza che le istituzioni sociali, politiche e urbane, oppongono a queste stesse possibilità, con il risultato che la potenziale democrazia dello spazio digitale non riesce a influire sullo spazio reale, rimanendo una pura virtualità; mentre il secondo elemento finisce con il togliere energia al pensiero sul futuro, costretto a evadere in un limbo pseudoutopistico e sostanzialmente pubblicitario che schiaccia il futuro stesso sulla più estrema attualità. Per quanto riguarda l’eclissi della critica si tratta di un fenomeno per il quale la lettura delle opere si è progressivamente trasformata in un’attività che si limita a illustrarle così come il commento delle varie porzioni disciplinari degli architetti si riduce a registrarle, inserendole in laboriose tassonomie senza però verificarne la validità. Rinunciando a interrogare gli edifici e i loro autori alla ricerca delle motivazioni per le quali sono stati pensati e costruiti, motivazioni che toccano la sfera del sociale, della politica e della cultura, la critica si limita ad assecondare l’attuale deriva mediatica dell’architettura svolgendo un semplice lavoro di assegnazione delle opere a determinate tendenze della scena architettonica contemporanea. Una critica di servizio dunque, che ha perso di vista quasi del tutto il proprio insostituibile compito che è, etimologicamente, quello di mettere in crisi ciò che essa assume come oggetto della propria analisi.
Linguaggio architettonico e globalizzazione: tre modelli
Se si analizza il fenomeno della globalizzazione dal punto di vista del linguaggio dell’architettura, considerato nel suo costruirsi come un sistema di segni orientato e finalizzato, e cioè ‘progettato’ nella sua realtà grammaticale e sintattica e nei propri contenuti, emergono tre distinte modalità attraverso le quali esso si definisce nelle sue coordinate costitutive per poi inverarsi nel paesaggio, nella città e nell’edificio. Proiettato nelle nuove logiche di uno scambio planetario sempre più intenso e accelerato, il linguaggio architettonico si articola oggi in tematiche e in espressioni strutturali molto diverse tra loro seppure, spesso, ibridate secondo sincretismi più o meno convincenti ed efficaci. Prima di passare in rassegna queste tre modalità occorre comunque, sempre in modo estremamente sintetico, verificare se esiste una differenza tra l’internazionalismo, che tanta parte ha avuto nell’architettura del Novecento, come testimonia l’Internation-al style teorizzato, anzi, più esattamente ‘inventato’ nel 1932 da Henry-Russell Hitchcock e Philip John-son, e l’attuale globalizzazione. In effetti tra le due nozioni non c’è una vera e propria sovrapposizione. L’internazionalismo implicava che alcune tendenze, nonché alcuni nodi tematici, si diffondessero in vari contesti salvaguardando, però, l’esistenza di confini tra gli Stati, barriere sensibili che funzionavano come dispositivi selettivi. Le culture agivano come filtri che consentivano ad alcune forme linguistiche di penetrare al loro interno, a volte mediante opportuni adattamenti, mentre altre venivano bloccate. Si pensi, per es., alla Francia, un Paese da sempre molto attento a distinguere tra ciò che può essere organicamente assimilato nel proprio sistema identitario e ciò che deve al contrario essere escluso. A fronte di questo principio critico che sovrintendeva all’internazionalismo, la globalizzazione comporta invece un’idea di unicità, ossia ciò che è globale non subisce più derive legate alla singolarità degli Stati, ma cerca di trascenderli. Stati i quali, peraltro, cedono progressivamente i propri tratti fondativi al processo di omologazione che li coinvolge, concentrando quelli rimanenti nelle loro città più importanti. In qualche modo il mondo globalizzato non è più un mondo di nazioni, ma di città in reciproca competizione.
Riassumendo quanto detto si potrebbe sostenere che, mentre l’internazionalismo non era in prima istanza atopico, ma dialetticamente sospeso tra localizzazione e delocalizzazione, la globalizzazione è del tutto priva, almeno apparentemente, di legami con i singoli contesti. Inoltre l’internazionalismo non era simultaneo, qualità che caratterizza invece la globalizzazione. L’ultimo elemento è l’interconnessione, ossia una stretta dipendenza di una situazione dall’altra. Atopia, simultaneità e interconnessione, alle quali occorre sommare la dimensione della comunicazione, oggi totalizzante, sono dunque le categorie che hanno segnato il transito dell’internazionalismo degli anni Cinquanta e Sessanta all’attuale globalizzazione. Resta da aggiungere che la globalizzazione non è uno sviluppo naturale dell’internazionalismo, una sua meccanica estensione, ma un fenomeno per molti versi dotato di caratteri autonomi e originali.
Dal momento che la delocalizzazione, cui si è accennato a proposito dell’atopia, attraversa oggi in varie formulazioni teoriche e operative la città e l’architettura, risulta sicuramente più chiaro fare riferimento a ciò che è stato chiamato deterritorializzazione. Si tratta della rescissione definitiva di ogni legame tra un intervento architettonico e il suo sito, qualcosa che sta ai luoghi, ormai soppiantati dai ‘non luoghi’, come le vecchie classi sociali identificate dal marxismo stanno alla moltitudine, una di quelle immagini concettuali prima richiamate per comprendere la natura e gli obiettivi della pluralità dei nuovi ceti che formano la società globale. Eliminando ogni relazione di necessità con il proprio sito, l’edificio fuoriesce in qualche modo da sé stesso proponendosi come un’entità iperastratta ormai completamente sradicata, immersa in quella destabilizzante liquidità che da qualche tempo costituisce, come si è detto, il principale oggetto della riflessione di Bauman. È proprio la difficoltà di descrivere la moltitudine nelle sue manifestazioni che fa comprendere come l’architettura attuale, destinata alla moltitudine stessa, si inscriva in un ambito problematico quanto mai intricato e metamorfico.
È possibile ora tornare ai tre modelli linguistici relativi alla globalità architettonica, con l’avvertenza che quanto è stato appena detto rende il discorso che segue ampiamente riduttivo, se non semplicemente indicativo di una situazione troppo ampia per poter essere esaminata in modo esauriente. Il primo modello potrebbe essere chiamato neoimperialista, e consiste nell’imposizione, a livello mondiale, dei prodotti dei Paesi più potenti. Gli Stati Uniti in primo luogo, ma anche l’Inghilterra, la Francia, i Paesi Bassi, il Giappone, la Germania sono stati in grado negli ultimi decenni di far prevalere in tutto il mondo la loro architettura e i loro progettisti. Il tutto in una pura logica di mercato che, se da un lato non risulta in contraddizione con il valore intrinseco delle opere e degli architetti interessati a questa vera e propria colonizzazione – opere e architetti molto spesso di indiscutibile importanza –, dall’altro di sicuro non procede, nella sua fenomenologia, da elementi qualitativi. Una fenomenologia, va ricordato, ancora piuttosto oscura. Il caso di Frank O. Gehry è in questo senso esemplare. Gli architetti e i loro edifici sono ‘esportati’ come qualsiasi altra merce, il tutto con il supporto di adeguate strategie informative, ivi compresa la creazione di costruzioni narrative che mitizzano movimenti e personalità. Lo stesso concetto di archistar, oggi tanto diffuso, è un moltiplicatore mediatico, che si autoalimenta assumendo analogamente strumenti propagandistici prelevati dal mondo dello spettacolo, tra i quali la celebrazione divistica, l’esasperazione performativa e l’ipervalutazione delle quantità messe in campo.
Il secondo modello potrebbe essere chiamato neoesperantista. In questo caso si cerca di unire, in composizioni spesso complesse, più scritture architettoniche provenienti da contesti linguistici diversi. In altre parole il tentativo è quello di costruire una combinazione alchemica di frammenti di scritture, nell’intenzione di dar vita a una sorta di lingua comune. Un ottimo esempio di questa linea di ricerca è rappresentato dalle Petronas Towers (1998) di Cesar Pelli a Kuala Lumpur, in cui elementi tratti dall’architettura malese si affiancano a stilemi tipicamente nordamericani con l’aggiunta, soprattutto negli interni, di accenti europei. L’effetto è quello di un mosaico di scritture architettoniche parziali il quale, pur se suggestivo, emette segnali contrastanti e a volte contraddittori. In queste architetture, il metodo della ‘campionatura’ prende il posto dell’operazione compositiva vera e propria, con la conseguenza che il prodotto finale risulta quasi inevitabilmente sfocato e intermittente.
Il terzo modello, che ribalta radicalmente il primo, è quello locale. Come è avvenuto per l’opera di Álvaro Siza Vieira, un’architettura capace di interpretare i caratteri più profondi di un contesto preciso può pervenire a una notorietà paragonabile a quella che contraddistingue le opere degli architetti compresi nel primo e nel secondo modello. Tale schieramento si differenzia dagli altri due soprattutto perché in esso è ancora presente un atteggiamento oppositivo nei confronti delle condizioni attuali dell’architettura e più esattamente della stessa realtà, laddove il primo e il secondo gruppo si limitano a rappresentare, a volte molto bene, la situazione esistente. All’interno di questo terzo gruppo è possibile comprendere anche quegli architetti – tra i molti Oswald Mathias Ungers, Maurizio Sacripanti, Aldo Rossi, Giorgio Grassi, Vittorio Gregotti, Antonio Monestiroli, Salvatore Bisogni – che, pur appartenendo a tendenze diffuse internazionalmente – si pensi agli ultimi esiti del razionalismo critico –, sono riusciti a conferire al fatto di partecipare a una situazione comune una connotazione del tutto inedita, oltre che fortemente personale, determinata dal riferirsi a temi e motivi culturali tratti dai contesti di provenienza. Temi e motivi locali che vengono fatti reagire con gli elementi più generali, dando vita a scritture poeticamente intense, nelle quali la singolarità di una situazione paesistica oppure urbana si scioglie in una dimensione superiore senza smarrire o anche solo attenuare la propria leggibilità.
Tra i tre modelli sembra essere il terzo quello che meglio mette assieme la capacità di interessare pubblici diversi e lontani, di garantire una elevata qualità della scrittura e soprattutto di ristabilire un rapporto significativo tra l’architettura e il punto della superficie terrestre sul quale essa sorge. Tuttavia appare credibile pensare che nei prossimi anni i tre modelli si intersecheranno con una intensità sempre maggiore, nella direzione di una loro integrazione. Tale integrazione risulta facilitata sia dal predominio dell’immagine che oggi coinvolge le architetture appartenenti ai tre modelli menzionati, sia dal digitale, che in qualche modo omologa, o almeno così sembra, le opere degli architetti contemporanei, sia, ancora, dal discutibile orientamento, che si presenta oggi inarrestabile, a inserire l’architettura senza più mediazioni nei campi effimeri e molteplici dell’arte, della moda e del costume. Divenuta una delle tante materializzazioni di quella fluidità comunicativa che nell’età globale sembra essersi sostituita alle cose, esautorate dai loro stessi simulacri, l’architettura si è trasformata in una ‘virtualità linguistica’ assoluta, un lessico che cerca ansiosamente le proprie parole e le proprie regole.
Pratica progettuale
Conseguentemente alla nascita della nuova condizione dell’architettura, anche l’idea di progetto ha subito modificazioni sostanziali. Prima di affrontare il discorso sui cambiamenti che interessano la pratica progettuale occorre però fare chiarezza su alcune questioni. La prima riguarda l’infondatezza della differenza, sostenuta da alcuni teorici e critici, tra la nozione di composizione e quella di progetto. Secondo questa distinzione la composizione sarebbe un’attività astratta e accademica, limitata al solo livello della forma, laddove la progettazione avrebbe a che fare direttamente con la realtà. Tale punto di vista va decisamente rifiutato in quanto tende a ridurre fortemente la portata conoscitiva dell’operare compositivo nel momento in cui considera la progettazione stessa un mero corrispondere delle scelte architettoniche alle esigenze dettate dal programma. Inoltre, coloro che sostengono questa distinzione ritengono erroneamente che la forma non sia altro che l’aspetto finale, e del tutto esterno, di un processo, mentre non è altro che il processo stesso nella sua interezza vitale. La seconda questione riguarda il fatto che all’architettura si richiede oggi una visibilità che è intrinsecamente dannosa. Sovraesposta su quotidiani, settimanali e sulle reti televisive; coinvolta da continue polemiche con le amministrazioni e con i suoi destinatari, come è avvenuto per i tre grattacieli del Complesso CityLife a Milano (progettati rispettivamente da Arata Isozaki, Zaha Hadid e Daniel Libeskind a partire dal 2004 e la cui realizzazione dovrebbe concludersi in occasione dell’Expo del 2015) o per il Museo dell’Ara Pacis (2006) di Richard Meier a Roma; troppo sollecitata da un confronto serrato e ripetuto con altre discipline – si pensi, per es., oltre al suo inseguire, spesso in modo velleitario, gli scenari del cyberspazio, cercando di identificarsi con l’ubiquità della rete e delle telecomunicazioni, alla pressione che esercita su di essa l’immaginario scientifico con le suggestioni della fisica, delle nanotecnologie e delle biotecnologie –, l’architettura non riesce più a darsi momenti di riflessione, quegli spazi di decantazione che consentono a tutto ciò che la coinvolge di assumere tratti più comprensibili e operabili. Questa situazione caotica e ridondante fa sì che la quasi totalità degli architetti insegua l’istantaneo, cercando di trascrivere nell’architettura la grande quantità di messaggi e di eventi che caratterizzano la vita delle società nell’età della globalizzazione. In questo modo le soluzioni che si sperimentano non hanno la possibilità di essere verificate adeguatamente, ciò può avvenire infatti solo in un tempo abbastanza lungo da consentire di accertarne i limiti e le risorse. Inoltre si è diffusa da qualche anno l’idea che l’architettura possa essere ideata e realizzata senza più controllarne la genesi e lo sviluppo, dalle prime scelte alla costruzione dei manufatti. Autorizzati dalle prestazioni a volte straordinarie del computer, un numero di architetti tanto consistente da rasentare la maggioranza, si è convinto che progettare non comporta più quel paziente lavoro di costante affinamento il quale, a partire da una prima intuizione, si svolge per messe a punto successive basate su convinzioni sedimentate, anche se continuamente ridiscusse, configurandosi in tal modo come un’attività di matrice sostanzialmente artigianale. Secondo questo orientamento oggi prevalente, il progetto sembra essere il frutto di un procedere casuale e improvvisato, nel quale un ruolo importante è assegnato a combinazioni di semilavorati prelevati dai repertori digitali. Se dal punto di vista della scrittura architettonica il progetto non pretende più un controllo rigoroso delle sue fasi, proponendosi come un esercizio empirico, incidentale e in qualche misura interscambiabile nei suoi risultati, dal punto di vista organizzativo si dà invece come un prodotto industriale, regolato da fasi accuratamente cadenzate. Un’altra convinzione da confutare riguarda l’opinione per la quale un’opera decostruita – si pensi alle recenti architetture di Peter Eisenman, soprattutto alla Cidade da cultura de Galicia a Santiago de Compostela in Spagna (iniziata nel 1999 e ancora in fase di realizzazione) – sarebbe più complessa di un edificio dalle forme regolari e stabili come quelli progettati, per es., da Hans Kollhoff. In realtà sia Eisenman sia Kollhoff devono dispiegare la stessa quantità di controllo sulla forma, così come le loro visioni dell’architettura sono entrambe libere. Ciò contrasta un’altra convinzione, che identifica nelle varie forme di decostruzione, nell’archiscultura e nell’high-tech gli esempi di una libertà innovativa da contrapporre al pensiero proprio della tradizione. A questa terza questione se ne aggiunge un’altra, riguardante l’estensione crescente dell’area compresa dal termine paesaggio. In accordo con l’idea di ambiente, la forma-paesaggio ha quasi completamente conquistato le città e l’architettura: a partire dalla paesaggistica zeviana tutto è paesaggio, con il rischio elevato che si perda il senso vero dell’azione costruttiva, sostituita da un ‘informalismo debole’ totalmente privo di distinzioni scalari, di soglie linguistiche e di regole costitutive relative agli oggetti architettonici.
Tornando al progetto architettonico – un progetto oggi diviso tra una pluralità di tendenze tra le quali l’archiscultura, l’high-tech, il low-tech, il contestualismo, l’architettura ambientale, l’architettura delle città, la decostruzione, lo storicismo, il neorazionalismo e il neoclassicismo – c’è da riconoscere che esso non si colloca più nella prospettiva rigorosa e orientata dalla modernità lineare, inflessibile e tendenzialmente impersonale nella sua oggettività. La temporalità moderna ama concedersi oggi itinerari imprevedibili e casuali nei quali c’è un grande spazio per l’eccentricità, la divagazione, l’attraversamento e la contaminazione dei codici. Anche progettare non è più un’azione determinata da appartenenze ideologiche, dal momento che proprio le ideologie sono state quasi del tutto esautorate. Il posto che esse occupano è stato preso dai loro frammenti rifusi in montaggi liberi e spesso arbitrari dove residui dell’impegno politico si combinano in atteggiamenti volutamente contraddittori, il tutto all’interno di un realismo disincantato e spesso opportunistico. In realtà le ideologie che hanno dominato il Novecento non si sono estinte definitivamente. Una miscela di nichilismo e di relativismo, sommata al realismo appena richiamato, si presenta con tutti i caratteri di una nuova ideologia o, se si vuole, di una postideologia la quale, seppure sincretica, provvisoria e composita, appare oggi dominante; forse proprio a causa della sua natura teoricamente incerta e strutturalmente labile, estremamente versatile, adattabile a ogni situazione e capace di trasformarsi con grande velocità. Declinato pressoché universalmente l’interesse per la storia, e quindi per la memoria dei luoghi e per gli aspetti collettivi del linguaggio architettonico, prevalgono oggi tendenze progettuali che considerano l’attività dell’architetto simile a quella di chi si occupa di industrial design, di moda o di comunicazione. Con una progressione inarrestabile molti architetti si trasformano in performers, creatori di installazioni, operatori mediatici, all’interno di un equivoco diffuso che vede l’architettura identificarsi direttamente con le arti visive. Ogni necessaria distinzione tra il costruire territori, città ed edifici o produrre opere pittoriche e plastiche viene meno. In effetti molti architetti non lavorano più sul radicamento delle loro architetture nei contesti, sull’espressione degli elementi che strutturano e qualificano un punto dell’urbano, sulla stratificazione del tracciato in una pluralità a volte insondabile di segni. Accanto alla scomparsa di una ‘cultura dei luoghi’, sostituita da un’estesa preferenza per il loro contrario, i ‘non luoghi’ di Marc Augé, c’è poi da registrare un altro declino, quello dell’interiorità, vale a dire di una visione del mondo costruita sull’elaborazione da parte dell’architetto di una concezione autonoma e solida del proprio ruolo, ritenuta un valore da difendere, diffondere e affermare. Tuttavia al modello della edificazione interiore di un’idea dell’architettura, cosa che comporta anche un certo contrasto con la realtà, si preferisce quello dell’estroversione. Completamente proiettato all’esterno l’architetto, una volta che sceglie di rinunciare a un sicuro fondamento del proprio operare, rischia spesso di farsi travolgere dagli stessi processi che dovrebbe invece, a partire da un insieme coerente di acquisizioni teoriche e intenzioni formali, orientare e controllare.
Nella condizione attuale dell’architettura il progetto, il quale cerca per inciso l’effimero più che il duraturo, si confronta con una particolarità strutturale piuttosto importante, riguardante le modalità produttive relative al costruire. Il progetto si configura sempre di più come l’assemblaggio di materiali preformati. Infissi, pannelli di rivestimento, controsoffitti, pareti divisorie, non sono più componenti disegnati dall’architetto, ma elementi da lui messi insieme a partire da quanto offre un’industria sempre più capace di fornire prodotti avanzati per l’edilizia. La differenza con le tematiche prefabbricative individuate dall’architettura moderna consiste nel fatto che, mentre gli elementi disponibili oggi sono portatori di un valore formale, quelli precedenti si limitavano a proporre solo valori tecnici, in qualche modo neutrali. In altre parole, per l’architettura la produzione industriale non offre più parti ma, piuttosto, brani linguistici, portatori di contenuti che trascendono la semplice funzione costruttiva per divenire veri e propri nodi sintattici. Questa particolarità strutturale ha tra i suoi effetti la necessità da parte dell’architetto di trasferire la maggior parte del significato di un edificio in quello che si potrebbe chiamare il suo schema formale, piuttosto che nella qualità specifica delle parti che lo compongono.
Un interrogativo che può senz’altro aiutare l’architetto a comprendere le nuove condizioni della propria disciplina e ad agire in modo consapevole e utile, riguarda la natura del suo ruolo, ossia ciò che egli ‘deve fare’ sulla base della delega che la comunità gli rilascia e che impegna la sua responsabilità. Spogliato di ogni estensione non essenziale, depurato dalle tante finalità collaterali che lo accompagnano, sottratto ad amplificazioni arbitrarie, tale ruolo non può non identificarsi nel ‘migliorare l’abitare’, anche se questo miglioramento può essere, nei fatti, abbastanza limitato. Obiettivo semplice, per il cui raggiungimento occorre tuttavia seguire itinerari complessi. Accettando questo ruolo dell’architetto, se ne deducono alcune conseguenze, la prima consiste nell’essere l’architettura un’attività positiva che per sua natura non può descrivere, né tanto meno esprimere o celebrare il disagio, la sofferenza, il degrado. Per un architetto i ‘non luoghi’ devono divenire luoghi; le case saranno pensate e costruite per favorire le possibilità dei loro abitanti di essere felici; la città sarà un tessuto di spazi pubblici nei quali riconoscersi, una città sicura perché capace di farsi misurare e identificare nelle sue parti, una città bella in cui la vita possa svolgersi su un piano estetico e civile più elevato. Quando si dice città sicura e bella non si pensa solo agli esperimenti di Léon Krier e a quelli del New urbanism a lui collegato, senz’altro di grande interesse, anche se carichi di fermenti antimodernisti. È possibile disegnare e costruire città a misura d’uomo anche situandosi all’interno della tradizione moderna, opportunamente riveduta in alcuni suoi assunti teorici e nelle loro traduzioni progettuali. Ovviamente questa visione del ruolo dell’architetto, che lo considera in prima istanza al servizio della comunità e non preso esclusivamente da preoccupazioni autoreferenziali, esclude la drammatizzazione alla quale è pervenuta una certa decostruzione; non prevede l’esasperazione meccanicistica e alienante della tecnologia; limita l’invasività dei media; mette un argine alla trasposizione diretta delle altre discipline nell’architettura. Per quanto riguarda in particolare la decostruzione, c’è da dire che essa risulta di forte interesse quando agisce sui mezzi interni del linguaggio, sui nodi grammaticali e sintattici mettendone in evidenza da un lato l’aleatorietà, dall’altro il potenziale ruolo destabilizzante, soprattutto se ciò avviene in una sorta di silenzio o di assenza della forma. Lo è molto meno quando essa si traduce, specialmente nell’opera di Libeskind o Coop Himmelb(l)au, in una ‘metafora del crollo e della distruzione’, suggerendo un’idea di architettura come disciplina dall’identità precaria, intrinsecamente pericolosa, gravida di oscure ammonizioni e di allarmanti previsioni. Riprendendo il discorso dopo questo inciso, va detto che, qualora questa concezione del lavoro dell’architetto fosse accettata, si tenderà a far sì che gli spazi e gli edifici si compongano in un insieme organico e proporzionato, non invadente e figurativamente aggressivo, evitando che essi si configurino come presenze dissonanti, incongrue e sostanzialmente ostili. Una volta che si sia condivisa questa interpretazione anche il senso del progetto diventa più chiaro. Perché si possa progettare nell’intenzione di corrispondere al ruolo dell’architetto così come è stato esposto occorre, riassumendo quanto si è detto finora, possedere prima di tutto un ‘fondamento’, cioè una concezione della disciplina basata su una rigorosa costruzione interiore. C’è bisogno di saper ascoltare le memorie del paesaggio, delle città e delle architetture, nell’intenzione di comprendere la voce dei vari contesti e le ragioni dei diversi linguaggi. Infine, è necessario scegliersi un ‘tema’, vale a dire un’attenta e ispirata polarizzazione delle proprie intenzioni architettoniche. Tale tema può e deve durare tutta la vita, anche se attraverserà situazioni diverse che lo sottoporranno a torsioni e a diversioni. Se l’architetto non sceglie un proprio tema – un tema che esprima la sua unicità umana nei termini di una questione architettonica precisa, capace di farsi linguaggio – il suo lavoro non riuscirà a essere significativo e duraturo. Il fondamento, la memoria e il tema sono tre luoghi di un progetto architettonico consapevole e aperto. Essi sono aspetti essenziali di un’idea di progetto in grado di porsi in modo veramente autonomo all’interno dell’accidentata condizione dell’architettura contemporanea. È forse superfluo ricordare che questi tre elementi non agiscono separatamente, ma si ricompongono nella superiore unità della forma, un’entità misteriosa e largamente imprevedibile. Questi tre ambiti agiscono dapprima sulle relazioni contestuali, determinando quelle scelte di impianto capaci di intercettare i livelli nascenti di una parte del tessuto al fine di renderli espliciti, inscrivendoli in un nuovo ordine di valori urbani. Subito dopo, essi sovrintendono alla definizione del manufatto architettonico, a partire dall’individuazione delle soluzioni planimetriche fino alla scelta dei materiali costruttivi, scelta che si presenta difficile perché spetta ai materiali stessi rendere evidente l’edificio, non tanto come un insieme o un sistema, ma piuttosto come una società omologa a quella umana nella concretezza e nella conflittualità delle sue componenti.
Il progetto architettonico non può essere ostaggio della complessità in cui è immersa oggi la società globale e, di riflesso, l’architettura. È suo compito estrarre da tale complessità una serie di problemi semplici riferiti alle questioni essenziali dell’abitare. È errato considerare che il ‘pensiero del futuro’, il quale si ritiene non debba diventare mai un’ossessione, esista solo se si asseconda in tutto e per tutto ciò che sta oggi avvenendo, assumendo le tendenze in atto come obiettivo che il progetto deve obbligatoriamente trascrivere. Occorre, per es., ricordare che non è il digitale a influenzare direttamente l’architettura, ma sono gli esseri umani, senza dubbio cambiati dalle tecnologie informatiche, a trasferire i loro cambiamenti nel costruire, tenendo presente, però, che questi cambiamenti sono molto lenti e graduali. L’architettura ha un rapporto peculiare con il tempo. Essa vuole contrastarlo producendo opere che sanno opporsi al semplice fluire delle cose con la loro durata, anche se esse sono in grado di modificare i propri contenuti nel corso della loro esistenza. L’architettura non è destinata a farsi carico di tutto ciò con cui entra in contatto, se non di ciò che essa può comprendere e trasformare. Il progetto – una conoscenza creativa – è lo strumento di questa trasmutazione alchemica, che rende stabile e durevole, in alcuni casi fino a raggiungere una qualche forma di eternità, l’istantaneo, il casuale e il frammentario.
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