Il pubblico e il privato. Architettura e committenza a Venezia
"Libertatem ergo Romanorum felicissima Venetia conservat sine secta, sine factione, sine divisione aliqua": così scrive Lauro Quirini nel De nobilitate, rispondendo polemicamente, nel 1449, all'omonimo dialogo di Poggio Bracciolini (1). "Immo", egli continua, "nulla umquam res publica, nullum imperium, nullus urbis status concors unanimis, ut sic dixerim, sine domestica discordia tam diu stetit, quam diu inclita Venetia". Il tema della concordia e dell'unanimitas, cardine delle mitologie veneziane e topos della letteratura umanistica lagunare, è qui perfettamente espresso. Né manca una legittimazione storica per tale celebrazione dell'etica attribuita al patriziato. "Videre enim licet in nostra felicissima Veneta re publica patricios viros inclitas Romuleas animas possidentes" (2): ancor più di Firenze, Venezia ha ereditato dall'antica Roma la grandezza della sua nobiltà. È evidente l'adozione, sotto diverso segno, del concetto esposto da Leonardo Bruni nella Laudatio Florentinae urbis. Il pensiero del Quirini affonda nell'Etica aristotelica, ma non mancano, nelle sue articolazioni, echi platonici e ciceroniani. La consonantia che rende libera la città ha le sue premesse in un'armonia analoga a quella musicale. Come nella musica l'armonia è raggiunta attraverso differenti suoni, "sic ex summis et infimis mediis interiectis ordinibus ut sonis moderatam ratione civitatem consensu dissimillimorum concinnere, et quae harmonia a musicis dicitur in cantu eam esse in civitate concordiam" (3). Ogni attentato contro l'ordine stabilito rompe la concinnitas e la consonantia urbis.
Com'è noto, quanto è espresso in tale apologia dell'ordine repubblicano consenguente alla serrata del 1296-1297, costituisce un asse concettuale intorno a cui ruota - con opportuni adattamenti - l'intera mentalità patrizia, nei suoi molteplici riti di autoriconoscimento. Meno studiati ma non meno evidenti, sono i modi e i processi con cui concinnitas et consonantia urbis diventano strutture e immagini, realtà dell'organismo urbano lagunare. L'intreccio di pubblico e privato, sottinteso dal confluire delle volontà soggettive nel grande concerto postulato dal Quirini, implica infatti un'organicità capace di saldare le volontà rappresentative del singolo a quelle dello Stato: esattamente l'organicità della tessitura edilizia e della gerarchia spaziale di Venezia.
Il problema, chiaramente avvertito a partire dai primi decenni del XVI secolo, è come utilizzare i nuovi paradigmi umanistici all'interno di una consuetudo che presuppone il continuo rinvio alla perfezione e alla sacralità delle origini. Le attrezzature mentali che determinano il legame fra domus, spazio urbano, luoghi funzionali, o apparati di identificazione collettiva, mutano nella Venezia del XV e XVI secolo, secondo due direttrici, non sempre contraddittorie fra loro: attraverso un processo di assorbimento e "traduzione" delle nuove istanze; attraverso una loro adozione polemica. Il problema storico investe il significato da attribuire al crescente bisogno di autoaffermazione soggettiva, mentre per le stesse istituzioni sorge l'esigenza di una nuova emblematicità. In un certo senso, è specifico del XVI secolo l'evidenziarsi di tendenze che incrinano la postulata concinnitas, rendendo visibile una conflittualità da tempo latente all'interno del patriziato. Si potrebbe seguire tale nuovo venire alla ribalta del soggetto, analizzando i temi del monumento funebre e della domus. Sia il primo che la seconda parlano della connessione fra individuo, famiglia e Stato, in modi che si differenziano nettamente da quelli della Firenze quattrocentesca. Per quanto riguarda la domus, la tradizione veneto-bizantina e gotica trasmette, alle esperienze rinascimentali, modelli non contestati, bensì soltanto "riscritti" dalle nuove forme.
Tuttavia, riconoscere tipologie sovratemporali, nell'edilizia residenziale veneziana, è anacronistico oltre che astratto. La costanza delle organizzazioni planimetriche e delle tessiture parietali acquista piuttosto un significato allo specchio dei comportamenti famigliari, mentre l'intreccio fra una concezione residenziale ben radicata e una prassi professionale basata su un'accumulazione empirica può fornire un'ulteriore chiave interpretativa. Da un lato le famiglie, strutture fortemente individuate nel loro comportamento economico e cellule coscienti del ruolo loro assegnato all'interno della comunità oligarchica. Dall'altro, i proti, le piccole e molteplici imprese edilizie, gli scalpellini, i maestri che conservano - con occasionali adattamenti alle novità - modi di produzione e configurazione lentamente sedimentati. Di entrambe tali componenti è possibile costruire storie, ma soltanto dal loro incrocio è lecito attendere risultati di un qualche spessore (4).
È indubbio, infatti, che il dominio esercitato dalle pubbliche magistrature sui programmi edilizi - indipendentemente dai risultati raggiunti - implica una struttura dell'offerta professionale a basso tasso intellettuale e ad alta affidabilità tecnica; comunque, priva di velleità sperimentali o di autonomia. Il che spiega le difficoltà che gli architetti ricchi di scientia - da fra Giocondo a Palladio - incontrano nella Venezia dei secoli XV e XVI. Ma costruire modelli storiografici non coincide con l'imporre schemi rigidi. Il modello è lì per essere deformato e verificato di fronte a specificazioni, articolazioni, eccezioni. È quanto ci proponiamo di fare in questo saggio, anche se preliminarmente è necessario fissare parametri di lettura adeguati al contesto da analizzare. Torniamo a considerare le invarianti che caratterizzano il palazzo veneziano e in particolare la predominanza del suo elemento caratterizzante: il salone passante. In quanto cuore della casa, esso esalta la solidità della struttura famigliare. Specie tenendo conto dell'uso che viene fatto della casa a Venezia - molto meno aperta allo scambio sociale di quanto non avvenga a Roma o a Firenze - al salone è possibile attribuire il ruolo di spazio coagulante: esso enuncia la predominanza della famiglia nei confronti dei singoli. Per quanto anche a Venezia sia possibile riconoscere appartamenti configurati come tali, non è su di essi che si struttura il palazzo. Il trionfo del salone - luogo "pubblico" dell'organizzazione domestica - assume un significato particolare qualora si consideri la sua denuncia in facciata. I diaframmi, che svuotano i parametri murari in corrispondenza delle sale, rendono evidente che il confine fra il pubblico - lo spazio - e il privato l'interno della casa - è riducibile al minimo. Non era possibile ostentare più incisivamente di così il ruolo di componente fondamentale dell'organicità repubblicana assunto dal nucleo famigliare. Nello stesso tempo, quella riduzione a transenna del limite fra spazio collettivo e spazio domestico contiene un ulteriore messaggio. L'aprirsi del palazzo alla città implica una sicurezza nei confronti di quest'ultima: una fiducia, espressa in forma "monumentale". La quale non crea soltanto un ritmo narrativo formalmente continuo; essa esplicita altresì il mito della parità e l'accettazione di limiti opposti al manifestarsi del soggetto. Nel contempo, e in modo cosciente dal XV secolo in poi, all'interno dell'organismo urbano viene stabilita una gerarchia "ben temperata" di luoghi emblematici, secondo un'etica perfettamente espressa dal pensiero politico coevo.
Nel De oeconomia veneta, il medico Giovanni Caldiera riconosce nella struttura famigliare un sistema equilibrato, analogo a un aggregato sociale in miniatura, sottolineando il ruolo che ha per essa la casa. "Domus ergo ", egli scrive (5), "melioribus civitatis locis sitae solerti ingenio, maxima praeclaraque arte struantur. Primumque patentes fores habeant, ut cum introeuntes postes subierint et extranei et domestici, ipsorum praecognoscant adventum [...]. Patentia enim intrinsecus loca esse debent. Item sole luminosoque coelo coperta, ne latens introitus latentem fraudem pariat". Ma non alla casa, bensì al pubblico edificio va, per Caldiera, riservata la magnificenza. "Domus enim non pro divitiarum copiis a civibus formandae sunt, sed pro decentia Civitatis et meritis personarum [...]. Magis et enim se dignum admiratione faciat iconomus pro virtute qua prestat quam pro sumptuosa domo qua precellere curavit. Non domus sed virtus immortales homines et diis paresfacit" (6).
Esistono dunque, per Caldiera, diversi tipi di "decoro", distinti a seconda della loro "convenienza". Anche per lui vale l'analogia platonico-aristotelica della casa come città piccola: "Et quia omnia Iconomia Policie assimilatur, et domus etiam civitatis similitudinem gerit" (7). Ma, come scrive egli stesso in De politia, l'oggetto della virtù patrizia è lo Stato, e a suo fondamento è il parallelismo fra religione e valori repubblicani; la gerarchia fra dignità della domus e magnificenza del pubblico edificio ne deriva come logica conseguenza. Né tale valutazione risulta alterata nello scritto più esplicitamente oligarchico prodotto dal patriziato alla fine del XV secolo.
Nel De bene instituta re publica, Domenico Morosini indica come deterrente nei confronti degli avversari lo splendore urbano, inteso in termini quasi albertiani, riconoscendo nell'edilizia, pubblica e privata, un elemento di coesione politica. La sua considerazione per il significato civile della res aedificatoria è tale, da consigliare la remissione dell'intera materia al consiglio dei dieci e la sua gestione a una magistratura ad ornatum civitatis. E anche per Morosini è necessaria una gerarchia nei parametri del "decoro". La struttura della città trionfante da lui preconizzata deve essere unitaria, grazie all'uniforme mediocritas dell'edilizia residenziale: una mediocritas che, per l'autore, è diretto riflesso della "moderazione" della classe di governo.
"Privata vero", scrive Morosini (8), "ne una domus alterum progrediatur nec in via una ab altera referratur, sed omnes una paritate et ut ea uno ordine construantur [...] quod edibus civium letum habent prospectum et civitatem luminosam atque spatiosam reddunt". Lo scrittore si rifà a dettati platonici; l'organicità edilizia da lui descritta è una sublimazione della viva realtà urbana veneziana. La modestia e l'uniformità imposte alle residenze sono condizioni e manifestazioni di concordia civile: riecheggiano - in un ben diverso contesto - le mitiche parole di Cassiodoro. Il tema è ancora quello dell'unanimitas, messo letterariamente a punto dagli umanisti veneziani, da Bernardo Giustinian a Candiano Bollani, a Pietro Barozzi. Il primato del collettivo si installa con decisione nella coscienza del patriziato, confermando il mito armonico come condizione della libertà repubblicana: "Nulla in musicis armonia tam sibi ex omni parte respondet quam nostrae civitatis diligens administratio", scrive Marcantonio Sabellico, ricalcando il tema ciceroniano rievocato da Lauro Quirini (9).
A tali consolidate strutture dell'immaginario collettivo, si intersecano, in modo avvertibile agli inizi del XVI secolo, istanze nuove: la declinazione umanistica della continuità del tempo - su cui ha riflettuto Kantorowicz e che Alberto Tenenti ha letto in relazione alla rappresentazione della Morte e della Fama - si intreccia alle tradizionali concezioni dell'aevum e del tempus escatologico. E al suo interno si fanno strada nuovi bisogni legati al soggetto e al suo proiettarsi oltre la vita. In altre parole, il "lungo Cinquecento" veneziano vede coagularsi diverse posizioni intorno alle valenze simboliche contenute nelle nuove forme di "rappresentazione del mondo". Né potrà meravigliare che la più pubblica di esse - la res aedificatoria sia investita di motivazioni particolari. Il che è rilevabile sia nel comportamento delle magistrature che in quello dei singoli, con convergenze e divergenze da valutare caso per caso. E per questo che l'analisi aggregata può rischiare di divenire generica e pertanto improduttiva, almeno allo stadio presente della ricerca storiografica.
Per evitare i suddetti pericoli, abbiamo scelto un metodo indubbiamente arbitrario, ma non infondato. Seguiremo, cioè, l'operato dei membri di una singola famiglia - i Grimani - come figure pubbliche e come privati, sfruttando l'ampio ventaglio dei temi che essi permettono di esplorare. Si tratta, infatti, di figure implicate, con ruoli protagonisti, nelle più significative imprese architettoniche del XVI secolo veneziano - dal rinnovamento di piazza San Marco a quello dell'edilizia ecclesiastica - e dotate di una coerente politica culturale. Romanista e legato alla Santa Sede, il ramo della famiglia Grimani che considereremo vanta un doge e due cardinali - Domenico e Marino - detenendo nelle proprie mani il patriarcato di Aquileia e il vescovado di Ceneda. Un suo membro laico, Vettore, appare come provveditore delle maggiori operazioni edilizie pensate nell'ambito del rinnovamento culturale favorito dal doge Andrea Gritti. I legami dei Grimani con la famiglia Barbaro, infine, permettono di estendere l'indagine a protagonisti di punta del dibattito culturale cinquecentesco, avvertendo che il filo rosso prescelto verrà seguito in modo elastico, agganciandolo a temi complementari e di confronto. Data la significatività di molte scelte compiute dai Grimani come committenti privati, inoltre, sarà possibile scandagliare il nuovo significato annesso alla "rappresentazione del sé". Anche sotto tale aspetto, il comportamento della nostra famiglia campione verrà confrontato con quello di altri settori del patriziato e con le mentalità collettive.
La nostra storia ha un inizio ben individuato nella biografia di un patrizio ed umanista di notevole spessore: si tratta di Domenico Grimani di Antonio, nato nel 1461, cardinale nel 1493, vescovo di Ceneda e patriarca di Aquileia. Fra la strategia culturale e artistica di Domenico e quella dei suoi quattro nipoti - Vettore, Marino, Marco e Giovanni - si stabilirà, come cercheremo di dimostrare, una singolare continuità, con conseguenze non indifferenti per l'intero contesto veneziano. La vicenda che seguiremo è distinta dal tentativo di traslare nella sfera pubblica comportamenti e scelte le cui radici affondano nelle nuove affermazioni della soggettività come valore. Né la personalità culturale, né il comportamento politico e religioso di Domenico Grimani appaiono tuttavia lineari. Che egli partecipasse a un umanesimo visto come rinnovamento etico e religioso è certo. Nel 1489 circa egli aveva chiesto la mediazione del Poliziano per ottenere - in compagnia di Antonio Pizzamano - un incontro, a Firenze, con Giovanni Pico della Mirandola; nel 1498, la sua partecipazione al pensiero del Pico è confermata dall'acquisto della biblioteca dell'umanista, pagata con il ricavo desunto dalla vendita del proprio vasellame d'argento (10). Va aggiunto, per comprendere quali aspetti del conte della Mirandola interessassero il Grimani, che egli appare molto attento alla cultura ebraica. Come Pico e come il Pizzamano, egli è amico di Elia del Medigo, ma anche di Abrahàm da Balmes e di Elia Levita: non a caso, dunque, avrà parte nel processo intentato al Reuchlin. È pertanto probabile che Domenico fosse in accordo con l'irenismo pichiano e sulla pax religiosa da esso postulata, così come esistono indizi relativi al suo interesse per un'ermeneutica intessuta di motivi ermetici e cabbalistici. Comunque, il suo legame con il neoplatonismo fiorentino è assicurato da Francesco da Diacceto, che scrive a Domenico spingendolo a completare l'opera lasciata interrotta dal comune maestro Marsilio Ficino.
Una continuità con i motivi pichiani è ravvisabile nell'entusiasmo con cui il Grimani riceve a Roma, nel 1509, Erasmo da Rotterdam. L'umanista ricorderà l'incontro con toni ammirati, in una lettera del 27 marzo 1531 ad Agostino Steuco, il canonico regolare di Sant'Agostino che curerà la biblioteca Grimani, una volta trasferita a Sant'Antonio di Castello. Nel novembre 1517, lo stesso Erasmo dedicherà a Domenico Grimani la sua parafrasi dell' Epistola paolina ai Romani. Notevole è anche l'interesse di Domenico per le scienze matematiche del XIV secolo: è sua una Q,uaestio de Intermissione et Remissione Qualitatis, commento al primo libro delle Calculationes di Richard Suiseth, forse da connettere a pensieri volti a una mistica numerica (11). Ma sono anche presenti, nella cultura del Grimani, motivi rigoristici. Significativa, in tal senso, l'amicizia che lo lega a Giovan Francesco Pico, che nel 1508 dedica al cardinale il suo Liber de providentia Dei contra philosophatros; Paolo Cortese scrive inoltre nel - De cardinalatu (12) - che era intento del Grimani vagliare molte sentenze teologiche, individuando quelle erronee. Una conferma relativa al rigorismo del Grimani in materia di fede può forse essere vista nell'amicizia che lo lega al cardinale Castellesi; una figura anch'essa ambivalente, tesa fra smodate ambizioni personali e il richiamo a una mistica al limite dell'irrazionalismo. Si tratta, per inciso, del committente del palazzo iniziato in Borgo da Donato Bramante. Renovatio culturale e renovatio spirituale, dunque, sembrano connettersi nel pensiero del cardinale veneziano, amico anche del Nifo, del Sabellico, di Ermolao Barbaro.
Il ritratto di Domenico rimarrebbe incompleto, tuttavia, qualora tali indizi non fossero confrontati con il suo comportamento politico-ecclesiastico. Alleato dei della Rovere, il cardinale svolge un delicato ruolo di mediazione con Venezia nei difficili anni successivi alla disfatta di Agnadello e non nasconde le sue ambizioni personali: contrastato dal cardinale Marco Corner, ambirà alla tiara papale. La sua preziosa collezione di marmi antichi, di codici, di dipinti, di disegni, sembra, rispetto a quanto si è detto, rivestire un significato bivalente: da un lato, essa parla della passione dell'umanista; dall'altra è indice di una vocazione mondana destinata a divenire segno distintivo di un'intera strategia famigliare. Collezionismo ed esibizione di una cultura "altra": il culmine sarà raggiunto nel dono a Venezia dello statuario Grimani; il privato indirizza la cultura pubblica, se ne fa avanguardia. Ma non è questo l'aspetto più contraddittorio registrabile nel comportamento del cardinale.
Come ha riconosciuto Corrado Pin, è Paolo Sarpi, nel trattato sulle Giurisdizioni nelle terre patriarcali del Friuli, a individuare in Domenico Grimani il responsabile della "destruzione del buon governo" nella Patria del Friuli (13). Siamo nel 1518, quando il cardinale - patriarca di Aquileia dal 1497 e vescovo di Ceneda dal 1517 - rifiuta di concorrere al pagamento di un tributo, ricorrendo all'arma della scomunica nei confronti degli ecclesiastici. Sarpi individua, in un'annotazione, i moventi del cardinale: egli mirava a costituire una vera e propria signoria sui feudi ecclesiastici del Friuli, preparando "alli nèpoti un buon dominio per continuarlo in casa sua". Non si tratta di semplice nepotismo. Dal 1518, si innesta un conflitto fra la Repubblica e la potente famiglia, dati i comportamenti di Marino e Giovanni Grimani. Fra la fine del secolo e gli inizi del successivo, quel conflitto proseguirà ad opera dei fratelli Francesco ed Ermolao Barbaro: si tratta del tentativo compiuto da famiglie alleate, legate dal comune sfruttamento di ingenti benefici ecclesiastici, che si oppongono allo Stato rivendicando la sovranità su una porzione del Dominio di Terraferma. Un preciso gruppo pone dunque i propri interessi in contrasto con quelli della Repubblica, individuando nella Santa Sede un referente privilegiato. E, da parte di Domenico Grimani, esiste l'aggravante del momento scelto per dare il via al tentativo stigmatizzato dal Sarpi, quanto mai delicato per i rapporti della Serenissima con Roma.
Il che ha un preciso riflesso nel ruolo che Domenico e il nipote Marino assumono nella vicenda della fabbrica del castello di Udine: un caso, questo, relativo non a un rapporto di committenza, bensì a un ostinato tentativo di boicottaggio di un'impresa architettonica. La quale, dopo il terremoto del 1511, ha inizio nel 1517, ad opera di un singolare maestro, Giovanni Fontana e del luogotenente della Patria del Friuli, Giacomo Corner. Fra l'aprile e il maggio dello stesso anno, il Fontana scrive una lettera - si noti - non a Giacomo, bensì a Giorgio Corner, in cui vengono descritte le operazioni di rilievo compiute e il modello del nuovo palazzo (14). Si tratta di una missiva erudita, con numerosi riferimenti all'antico e termini vitruviani, frutto, forse, della conoscenza di copie di manoscritti di Francesco di Giorgio e dell'osservazione delle incisioni del Vitruvio di fra Giocondo (1511). Ma nel frammento del palazzo udinese attribuibile a Giovanni Fontana, l'antico rimane una vaga aspirazione.
Sicuro, invece, è l'intento di colpire, con una prosa paludata e di sapore antiquario, il potente patrizio, committente della cappella-mausoleo ai Santi Apostoli a Venezia, evidentemente ritenuto intendente di architettura.
Il 26 agosto 1517, comunque, Giacomo Corner risulta aver inviato un "riparto" delle spese relative al nuovo palazzo: dei 6.000 ducati preventivati, 1.200 spettano ai prelati, 1.400 ai nobili e altrettanti alle comunità. Ma nel 1518 il patriarca di Aquileia - Marino Grimani, cui nel 1517 il titolo era stato ceduto, con diritto di regresso, dal cardinale Domenico - si rifiuta di contribuire alle spese, mentre le comunità di Aquileia, San Daniele e San Vito ne imitano l'esempio (15). I1 20 ottobre 1518, il luogotenente Lazzaro Mocenigo scrive al doge Loredan e ai capi dei dieci: il patriarca ha comminato un interdetto che proibisce ai prelati di versare contributi per la fabbrica. Nel novembre, di fronte al collegio, Domenico Grimani si dichiara disposto a consegnare una somma persino maggiore di quella richiesta, purché non a titolo di contributo (16). La questione non avrà facile soluzione. Ancora nel 1550, è implicato in essa il nuovo patriarca, Giovanni Grimani, altro nipote di Domenico (17).
Per comprendere il perché dell'annosa controversia, gioverà ricordare che dal 6 giugno 1420 Udine era entrata a far parte del Dominio della Serenissima, cessando di far parte del potere temporale dei patriarchi di Aquileia. I Grimani, che mantengono nelle loro mani il titolo patriarcale per più di mezzo secolo, senza interruzioni, sembrano non tollerare lo stato di fatto. La rivendicazione del loro potere sulla Patria del Friuli giunge fino allo scontro con le magistrature veneziane. Conseguentemente, nel 1546, Marino Grimani si opporrà altezzosamente alla Signoria a proposito della giurisdizione sulla città di Ceneda (18). Ma torniamo a Domenico, che, anche dopo la cessione del titolo patriarcale, si era riservato l'amministrazione delle rendite ad esso relative.
Di certo, l'ostacolo alla realizzazione del palazzo udinese era stata concertata dal nipote insieme allo zio: lo dimostra l'orgogliosa e arrogante offerta da questi fatta nel novembre 1518.
È forse troppo azzardato leggere nel rifiuto iniziale - oltre a questioni più sostanziali - anche un'azione di disturbo nei confronti di una fabbrica seguita così da vicino dai Corner, rivali diretti dei Grimani?
Rimane, comunque, il sorprendente tentativo di Domenico, mirante a costituire - in un momento difficile per Venezia - un principato sottratto all'autorità dello Stato. Come può entrare in sintonia tale volto politico del cardinale con lo spiritualismo che sembra informare la sua cultura? L'interrogativo è forse inficiato da un pregiudizio storiografico: che debba esistere una quadratura del cerchio, nei comportamenti individuali e collettivi, è un assunto gratuito. Come emergerà con maggior decisione nel caso di Giovanni Grimani, alla spregiudicatezza del pensiero religioso si accoppia un atteggiamento principesco e neofeudale. Le aperture alle "novità" non debbono sviare: spesso queste vengono abbracciate in quanto tali - fino a quando non diventeranno troppo pericolose - come "ornamenti" di una cultura che a Venezia poteva risuonare con tonalità minacciose.
Alla luce di tali considerazioni, la residenza del cardinale Domenico a Roma e l'umanistica cornice che lo circonda acquistano un significato aggiuntivo. Anche la villa posseduta dai Grimani sulle pendici del Quirinale - descritta da un inventario inedito steso da Giovan Battista Soria e raffigurata nelle mappe cinquecentesche (19) designa un modo di vivere che sottolinea la separatezza della famiglia dal comune patriziato lagunare. Ma la divaricazione che rende contraddittoria la personalità di Domenico non intacca la qualità della sua cultura. Che si esprime in una forma particolare di mecenatismo architettonico. All'artista da lui privilegiato il fiorentino Jacopo Sansovino, emergente a Roma dopo la vittoria nel concorso per San Giovanni dei Fiorentini (1518-1519) e l'inizio di palazzo Gaddi in Banchi egli apre la via che lo condurrà ad assumere la carica, a Venezia, di proto della Procuratia de supra. Il cardinale agisce come promotore di un rinnovamento dell'immaginario pubblico: il suo atto è coerente con la donazione alla Serenissima delle proprie collezioni.
Al Sansovino, Domenico aveva a suo tempo chiesto una copia del Laocoonte; l'artista, del resto, era risultato vincitore nella gara indetta nel 1506 da Bramante e giudicata da Raffaello, avente come oggetto il marmo antico (20). Il racconto vasariano circa la presentazione del Tatti, da parte del Grimani, ad Andrea Gritti, è stato tuttavia variamente interpretato. Data la morte del Grimani nel 1523, lo stesso anno dell'ascesa al dogado del Gritti, Oliver Logan ha supposto che non Domenico, bensì Marino Grimani abbia indirizzato Jacopo al doge per il restauro delle cupole di San Marco: Vasari avrebbe mal interpretato le parole del suo informatore (2'). Tuttavia, Marino divenuto cardinale nel 1528 non sembra aver nutrito particolari simpatie per Sansovino; a questi, preferirà Antonio da Sangallo il Giovane e Giovanni da Udine, come avremo modo di notare. Né l'ipotesi del Temanza, basata su un ambiguo documento del 1577, che vorrebbe Jacopo presente a Venezia dal 1523 al 1525 circa, sembra del tutto plausibile: in tale periodo non risultano registrati lavori importanti alle cupole marciane. Nulla esclude, tuttavia, una presentazione epistolare, con conseguenze determinanti dopo il 1527. E molto più significativo che un documento del 21 luglio 1530 attesti che Domenico Grimani aveva incaricato Sansovino di "perficere" il "modellum sepulchri" del padre, il doge Antonio, da porre nella facciata della chiesa veneziana di Sant'Antonio di Castello (22).
Si tratta va sottolineato del primo incarico ottenuto dall'artista fiorentino da parte di un committente veneziano. Sansovino, comunque, aveva goduto di altre amicizie patrizie durante i suoi anni romani, a credere a quanto scrive Vasari a proposito delle sue relazioni con Marcantonio Giustiniani. In realtà, una lettera di Lorenzo Lotto dell'agosto 1527 elenca, fra gli impegni dell'amico scultore, l'esecuzione di una "sepoltura" del cardinal Grimani; ma di tale opera non è fatta menzione in altri documenti e rimane giustificato il dubbio che il pittore intendesse riferirsi all'opera relativa ad Antonio Grimani. La quale ha una storia assai complessa.
La vicenda del sepulchrum del defunto doge Antonio è strettamente legata alla biografia di quest'ultimo. Si tratta, infatti, del capitano da mar processato ed esiliato in conseguenza della sconfitta dello Zonchio (1499) : la sua posizione era divenuta ancor più compromessa dopo la sua fuga a Roma - nel pieno della guerra cambraica dove ripara presso il figlio, il cardinale Domenico. Ed è proprio in conseguenza del ruolo mediatore che questi, insieme ad altri membri della famiglia, svolgeranno presso il pontefice, che Antonio verrà riammesso a Venezia, divenendo prima procuratore e, dal 6 luglio 1521, doge. La riabilitazione non avrebbe potuto essere più completa. Ma non sembra bastare ai suoi figli, che tenteranno di riscattare con dichiarazioni private l'onta subita allo Zonchio. Il fratello di Domenico Grimani, Pietro, dà inizio alla vicenda, disponendo, nel suo testamento del 16 novembre 1516, la realizzazione di un'"archa terrena" dedicata al padre, nella chiesa di Sant'Antonio di Castello, di fronte a quella di Vettor Pisani. La scelta è eloquente. Vettor Pisani, l'eroe della guerra di Chioggia, aveva - come Antonio Grimani subìto una sconfitta militare, era stato condannato, era stato successivamente riabilitato. Le "arche" dei due capitani da mar avrebbero sottolineato, fronteggiandosi nella cappella maggiore, i loro destini paralleli. Inoltre, lo stesso Pietro ordina la costruzione, sulla facciata della chiesa, di un monumento "honorificum". Di fronte al proprio ritratto, egli vuole quello del padre "in armis sicut poni consuevurunt imagines aliorum capitaneorum generalium maritimarum".
Indubbiamente, la consacrazione di una facciata ecclesiastica alla memoria di un privato costituisce una miscela di sacro e profano che affonda le sue radici nella salda unione di religione e di spirito civico cara alla tradizione veneziana. Forse, solo a Venezia - in una città che riconosce la propria "unicità" in miti che vedono il divino intervenire nella sua fondazione era possibile lo sviluppo incontrastato di tale fenomeno, che prende corpo, nel XV secolo, nel monumento Tron sulla facciata della chiesa di Sant'Elena e, nel secolo successivo, in quella di Santa Maria Formosa (monumento a Vincenzo Cappello), di Sant'Antonio di Castello, di San Giuliano (monumento al medico e astrologo Tommaso Rangone), con conseguenze nelle chiese di età barocca di Santa Maria del Giglio e di San Moisè. Il privato viene indicato come eroe pubblico, ostentando i servigi resi alla Repubblica; le cornici architettoniche usate come fondali divengono semplici pretesti, ma anche manifestazioni delle possibilità economiche dei committenti. Il fine di Pietro Grimani, tuttavia, è ancora più ambizioso. Il monumento a se stesso e al padre - non ancora doge è pensato sulla fronte della chiesa più significativa in merito al traffico portuale, data la sua posizione sulla "punta" di Sant'Antonio: il programma celebrativo non avrebbe potuto essere meglio articolato. Ed è certo coerente ad esso, che Domenico Grimani lasci un consistente settore della propria biblioteca al convento di Sant'Antonio di Castello. Il cenobio diviene così una sorta di memorial Grimani, con un ulteriore impasto di pubblico e privato: la biblioteca verrà dichiarata "publicae commoditati". Del resto, già Pietro Grimani aveva compensato, nelle sue volontà testamentarie, l'orgoglio privato con un'iniziativa di pubblica carità: egli aveva disposto, oltre alla costruzione del "thumulum onorificum", la realizzazione, presso la chiesa, di trenta case per marinai poveri.
Ma la vicenda che porterà alla tardiva realizzazione della facciata dedicata a ricordare le assai contestabili glorie di Antonio Grimani è tutt'altro che lineare, come s'è avvertito.
Dopo la morte di Pietro Grimani, i fratelli Vincenzo e Girolamo affidano l'incarico a Tullio Lombardo: siamo nel 15 gennaio 1518. Il terzo dei figli di Antonio, il cardinale Domenico, confermando nel proprio testamento del 16 agosto 1523 la disposizione relativa al monumento - il doge era morto il 7 maggio dello stesso anno - incarica dell'attuazione Stefano Illigio. Ed è dalla dichiarazione del medesimo Illigio, resa il 21 luglio 1530, che apprendiamo dell'incarico conferito a suo tempo dal cardinale a Jacopo Sansovino. Poiché nel documento si parla di "modelum sepulchri" da completare ("ad perficiendum opus"), è possibile che Domenico avesse, poco prima del 1523, incaricato il Tatti di intervenire su un'opera iniziata da Tullio Lombardo. Certo è che Vincenzo Grimani cercherà subito di infirmare il testamento del cardinale, mentre ancora molto dopo la morte dello stesso Vincenzo i suoi eredi si troveranno a dover fronteggiare l'azione di Vettor Grimani. Questi difende la scelta compiuta dallo zio Domenico; il monumento dà luogo a un'affaire che vede schierati l'uno contro l'altro i vari membri della famiglia. Gli intenti di Vettore divengono espliciti nel 1542. Nell'aprile di tale anno egli ottiene, insieme al fratello Marino, il diritto di utilizzare, a scopi celebrativi, la facciata dell'erigenda chiesa di San Francesco della Vigna; il 9 giugno dello stesso 1542, è suo anche il diritto di utilizzare la fronte interna, per la realizzazione di tre tombe di famiglia. Il progetto di Vettor Grimani è chiaro: egli tenta di trasferire i finanziamenti, fissati dai lasciti testamentari di Pietro e Domenico, dalla chiesa di Sant'Antonio di Castello a quella degli Osservanti. Evidentemente, le ambizioni autocelebrative sono aumentate, e principalmente hanno subìto un salto qualitativo. Per afferrarne la portata, dovremo, più oltre, analizzare il significato che nel contesto veneziano assume la nuova chiesa dei Francescani.
Per ora, ci limiteremo a seguire gli esiti della lite relativa al monumento a Pietro e Antonio Grimani. A sostegno dei propri intenti, Vettore usufruisce di una bolla di Paolo III (7 gennaio 1542). Ma nel 1544, dopo eventi contraddittori, Vincenzo di Antonio e Marino Grimani si accordano per la sistemazione del monumento sulla facciata della chiesa della Vigna: Marino assegna all'impresa 3.500 ducati. L'accordo rimarrà privo di esiti. Probabilmente grazie alle reazioni dei padri di Sant'Antonio di Castello, si verifica una brusca inversione di rotta: il 29 giugno 1548, Vettore e Vincenzo Grimani promettono 370 ducati al tagliapietra Francesco Quattrin per la realizzazione della nuova facciata di Sant'Antonio di Castello, su progetto di Jacopo Sansovino. Nella competizione scatenatasi fra le due chiese, quella degli Osservanti sembra risultare perdente. In realtà, i programmi di Vettor Grimani - come vedremo - si concentreranno su di essa malgrado il contratto del 1548. Inoltre, la vicenda iniziata nel 1516 si conclude trentadue anni dopo, in modo assai diverso da quello previsto dagli eredi di Pietro Grimani: il progetto di Tullio Lombardo viene del tutto accantonato, risultando vincente la volontà del cardinale Domenico.
La facciata di Sansovino, dopo la distruzione del cenobio di Castello in età napoleonica, è ricordata fra l'altro in un'incisione di Luca Carlevariis: a due livelli, con coppie di semicolonne poste a scandire le campate e con un grande occhio circolare incastrato fra le due trabeazioni, il suo trionfalismo è affidato a una composizione in definitiva elementare. La lunetta sopra il portale è raffigurata in un rilievo del Grevenbroch: ma sulla sinistra della Vergine non appare la figura di Antonio Grimani. Il che è sorprendente. Dopo una contesa tanto accanita, l'unico punto su cui, almeno all'origine, sembra esistere il totale accordo - santo che porta il suo stesso nome - non viene rispettato.
Il tutto è difficilmente comprensibile prescindendo dai costumi mentali del patriziato veneziano. La realizzazione oltremodo dilazionata nel tempo di edifici, facciate o monumenti previsti da lasciti testamentari è quanto mai comune a Venezia: si pensi, ad esempio, alle vicende relative alle cappelle Zen in San Marco ed Emiliani a San Michele in Isola. Anche i tentativi di distorcere le volontà originarie non sono infrequenti. Ma nel caso in esame vi è qualcosa di più: le ambizioni di Vettore e Marino Grimani travalicano i limiti tacitamente stabiliti. Rimandando l'analisi dei loro intenti per San Francesco della Vigna, può per ora essere ipotizzato che la mancata realizzazione del ritratto di Antonio risponda a ragioni di opportunità. La celebrazione di un doge nella sua figura di capitano sconfitto è paradossale, anche se è proprio in tali vesti che il doge verrà dipinto nell'incompiuta Fede di Tiziano. Il completo riscatto dell'onore famigliare trova - a quanto sembra - insuperabili impedimenti.
La lunga digressione aveva avuto come origine la politica culturale preconizzata da Domenico Grimani per la Serenissima, a partire dalle proprie predilezioni personali. L'umanesimo e le tendenze filo-romaniste di Domenico, subito assunte come insegne distintive da parte dei suoi nipoti, vengono proposte come elementi fondanti del rinnovamento culturale della Repubblica. In parziale contrasto con i valori propugnati dall'umanesimo veneziano nel XV secolo, tali tendenze contengono, potenzialmente, elementi capaci di incrinare l'unanimitas patrizia. Proveremo a dimostrarlo analizzando il primo progetto noto di Jacopo Sansovino, appena approdato nelle lagune dopo il Sacco di Roma, certo ricordando consigli in precedenza ricevuti dal cardinale e godendo dell'amicizia di Marcantonio Giustinian e, forse, dei favori del doge Gritti.
Siamo alla fine del 1527. Un'ulteriore testimonianza di Lorenzo Lotto, vicende relative a compravendite di aree e immobili, un disegno del museo Correr, permettono di stabilire che il primo committente del Tatti a Venezia è proprio Vettor Grimani: il procuratore di San Marco, che abbiamo colto come protagonista nella contesa relativa ai finanziamenti derivanti dal testamento di Pietro Grimani. Si tratta di un grande palazzo da edificare sul Canal Grande, a San Samuele, sulle iniziate strutture della quattrocentesca Ca' del Duca. Di certo, l'incarico ha il valore di un rilancio, da parte di Vettore, delle indicazioni date dallo zio cardinale, offrendo alla Serenissima un esempio di "vera architettura" (23). Si consideri, infatti, il clima architettonico lagunare fra la morte di Mauro Codussi (1504) e il 1527: condizionato dalle tragiche vicende seguite dalla disfatta di Agnadello, esso appare - nei confronti del "centro" romano - quello di una distante "periferia". Opere pubbliche come le Procuratie vecchie - iniziate, si noti, su stimolo di Antonio Grimani in cerca di benemerenze dopo la sua riammissione a Venezia - il fondaco dei Tedeschi o il rifacimento di Rialto dopo l'incendio del 1514, oscillano fra l'arcaismo e l'empiria, mentre il palazzo dei Camerlenghi, ancora in costruzione nel 1525, a cinque anni di distanza dalla morte di Raffaello e a undici anni da quella di Bramante, esibisce un pastiche teso a raggiungere valenze rappresentative. Da parte sua, l'edilizia privata rimane attestata su formule desunte dai compromessi architettonici tardo-quattrocenteschi. Il che non comporta un giudizio di valore, bensì cerca di descrivere un costume del tutto sordo alle nuove interpretazioni che della res aedilitia vengono contemporaneamente offerte nel centro culturale destinato a risultare vincente.
Il progetto chiesto da Vettor Grimani a Sansovino volge decisamente le spalle a tutto ciò: se realizzato, esso avrebbe costituito un'opera di assoluta rottura. L'organismo prefigurato nel foglio del Correr è reso altamente originale da due scelte fondamentali: la rotazione degli assi dei due corpi di fabbrica principali; i calcolati effetti di trasparenza e di allontanamento del fondale prospettico, ottenuti mediante la successione di due cortili diaframmati da un portico a colonne. Si tratta di raffinati artifici compositivi, entrambi profondamente radicati nella cultura architettonica della Roma roveresca e leonina.
La rotazione dei volumi risponde alle caratteristiche del sito, così come la successione dei cortili, che tiene conto del lotto fortemente allungato. La complessa organizzazione che regola la successione degli appartamenti, l'accesso - tramite baldacchino avanzato - dal Canal Grande, lo sviluppo delle scale a doppie rampe, l'assoluta regolarità dell'invenzione, costituiscono proposte di grande significato per l'intera architettura residenziale del primo Cinquecento. Rigore geometrico e "sprezzature" - per usare il termine di Baldassarre Castiglione - si integrano fra loro: si veda la compresenza, nel vestibolo, di simmetria e asimmetria, e il dispositivo che permette l'apparire all'osservatore della "magica" enfilade dei cortili. Le difficoltà poste dall'area vengono così superate con eccezionale sapienza progettuale. La soluzione a corpi ruotati ricorda exempla antichi - il tempio di Romolo sulla via Sacra - ma anche "invenzioni" moderne, come l'innesto del cortile delle Statue nell'esedra finale del Belvedere Vaticano di Bramante.
Anche gli effetti di trasparenza ottenuti con i portici posti in successione ha un modello: la dispositio dei cortili rinvia direttamente a quella che lo stesso Sansovino aveva realizzato in palazzo Gaddi a Roma. Jacopo cita se stesso, variando un modello sperimentato con successo.
Al proposito, può essere interessante notare che Lorenzo Lotto, in una lettera del 1527, scrive che l'artista vive in quel momento, a Venezia, in casa di Giovanni Gaddi (24). Il Tatti sfrutterà ancora, con virtuosismo, il tema dei diaframmi visivi e delle trasparenze; in diversi modi, esso caratterizzerà gli organismi della Zecca veneziana e di villa Garzoni a Pontecasale.
Ma proviamo ad immaginare l'effetto che il progetto avrebbe generato a Venezia. Sia dal punto di vista delle abitudini residenziali, che da quello figurativo, esso contiene vere e proprie provocazioni nei confronti dei costumi patrizi. Viene tranquillamente ignorato il modello a sala e atrio passanti; la fronte sul Canal Grande acquista tonalità trionfali, a causa dell'impaginato con baldacchino emergente e bugnato agli angoli; la struttura con cortili "alla romana" si integra a un inedito sviluppo del corpo scale.
Nel clima architettonico incerto della Venezia degli anni '20, in cui soltanto poche opere di Tullio Lombardo parlano una lingua "latina" - e per giunta semplificata la realizzazione del palazzo di Vettor Grimani avrebbe costituito un atto polemico. I più avanzati risultati delle ricerche maturate nell'ambito della cultura romana e post-bramantesca vengono proposti da Sansovino senza alcuna concessione nei confronti della continuità urbana e della mentalità che l'aveva configurata. Per il committente, l'edificio avrebbe costituito un'esibizione scandalosa di aderenza alla raffinatezza della Roma pontificia e di rifiuto della tradizione.
Una serie di vicende famigliari rende probabilmente inattuale la realizzazione del progetto, a breve distanza di tempo dalla sua stesura. Vettor Grimani può disporre del secondo piano nobile del palazzo che ospita, al livello inferiore, il fratello Giovanni; si tratta di Ca' Grimani a Santa Maria Formosa, su cui dovremo soffermarci fra breve. Ma è anche probabile che Vettor abbia riflettuto sul significato che una sua accettazione della proposta sansoviniana avrebbe comportato per la sua figura. Anche per un membro di un clan orgoglioso della propria "modernità" e intento a sottolineare la propria distanza dal patriziato medio, i tratti innovativi di quella proposta non potevano che essere considerati eccessivi. La conferma è nei palazzi "alla romana" che Sansovino e Michele Sanmicheli realizzeranno più tardi sul Canal Grande. Voluti da committenti provenienti da famiglie papaliste, essi ostentano trionfalmente volti alternativi all'edilizia media, assumendo vesti "all'antica" che spezzano la continuità della struttura urbana. Eppure, gli organismi dei palazzi Dolfin, Corner, di Girolamo Grimani, sono frutto di un compromesso. Ciò che più si allontanava, nel progetto per Vettor Grimani, dai costumi lagunari, viene in essi attenuato: in quello, il cuore della casa è il cortile ritmato dagli ordini classici, che sostituisce il salone passante; in questi, il salone viene di nuovo adottato, convivendo con cortili ambiguamente dislocati. Ma, va sottolineato, i tre palazzi citati rimangono eccezioni nel XVI secolo veneziano. Per di più, essi vengono progettati dopo l'ingresso ufficiale della maniera all'antica nella Serenissima, sancito dall'avvio del rinnovamento di piazza San Marco.
Torniamo alla famiglia Grimani là dove l'avevamo lasciata, parzialmente unificata nel palazzo di Santa Maria Formosa. Nulla, osservando l'esterno dell'edificio, lascia presagire cosa il visitatore troverà all'interno. A parte l'ingresso, sul fondo di una calle, non si potrebbe neanche dare per certo di trovarsi al cospetto di una residenza patrizia. La grande facciata distesa sul canale costituisce un fondale neutro per un'anonima serie di finestre, interrotta da un portale a bugne piatte, inquadrato da semicolonne doriche, anch'esse bugnate. I conci dell'arco spezzano la trabeazione - secondo un modo introdotto da Giulio Romano - ma la fattura complessiva esclude la paternità sanmicheliana, talora avanzata. Né regge l'attribuzione del portale sul fondo della calle di ingresso a Bartolomeo Ammannati (25). Unico elemento che - pur nella sua povertà - può far riflettere, è l'evidenziazione delle due campate della facciata sul rio mediante cantonali, che rinvia a modelli di derivazione romana. Simile impasto di elementi romaneggianti e tradizionali è nel vasto cortile, da segnalare, comunque, come cuore dei vani che si allineano intorno ad esso, sfruttando strutture preesistenti. In particolare, i due portici - dorico e ionico, conclusi da due fasce di attico e cornice - sembrano concepiti come frasi autonome, incastrate, senza relazioni proporzionali che le connettano, in un contesto casualmente configurato. Alla modestia dell'esterno, però, contrasta violentemente la ricchezza e l'originalità degli interni, in particolare quelli voluti dal patriarca di Aquileia, Giovanni Grimani, residente nel primo piano nobile. Al piano superiore, come si è detto, è Vettore, in un appartamento servito da scala indipendente: il che richiama, malgrado la disorganicità della distribuzione funzionale, l'apparato progettato dal Tatti per il palazzo sul Canal Grande.
Fatto sta, che l'appartamento di Giovanni Grimani si configura come una vera e propria collezione di spazi architettonici e di cicli decorativi, di una qualità preziosa ed eccentrica, culminante nello "studio delle antichità" e nella sala dedicata al nonno del committente, il doge Antonio. La sequenza dei vani, sistemati da Giovanni in tempi successivi, si collega alla configurazione del cortile grazie ad un'unica opzione di gusto: alla realizzazione il patriarca chiama prima artisti come Giovanni da Udine e Francesco Salviati, e successivamente Federico Zuccari, insieme ad architetti di maniera eccentrica. Un esterno dimesso ed interni tesi a stupire - con la loro "modernità" e la loro opulenza - il visitatore: difficile non rievocare, al proposito, le prescrizioni dettate al proprio architetto, nel secolo precedente, da Francesco Sforza per la Ca' del Duca sul Canal Grande. È persino possibile che alcuni elementi siano stati realizzati da Sansovino e da Palladio, ma immersi nel contesto di un'operazione continua e plurale, tesa a mostrare - protetta dallo sguardo del volgo e come inattesa sequenza di eventi - la personalità di Giovanni Grimani. Il che permette una motivazione, che specificheremo più volte. Malgrado l'affiatamento fra i due fratelli, le loro personalità differiscono notevolmente: per Vettore, la cura primaria è per gli edifici dello Stato; Giovanni si concentra su scenari autocelebrativi. Entrambi privilegiano artisti tosco-romani, seguendo le indicazioni dello zio Domenico; ma per il patriarca di Aquileia - cui il cardinale aveva trasmesso il vescovado di Ceneda, lasciandogli poi la propria collezione di monete antiche - l'intento più evidente è l'ostentazione di un gusto manierato ancor più che erudito, sprezzante nei confronti delle consuetudini locali. Giovanni è un tipico prelato pretridentino che interpreta il suo mandato come fonte di rendite e come indicatore di status. Il suo stesso curialismo - perfettamente espresso dagli artisti via via scelti è da lui utilizzato per ostentare un'orgogliosa separatezza dal coro patrizio e, nello stesso tempo, per attribuirsi ruoli e modi principeschi. Spregiudicato nel suo comportamento politico, egli dà seguito agli atteggiamenti neofeudali che erano stati del cardinale Domenico: come il fratello Marino, del resto.
Giovanni e Marino, inoltre, sembrano ereditare dal cardinale Domenico anche le tendenze spirituali volte a una riforma religiosa di natura evangelica. Ma mentre il secondo si attesta su posizioni di mediazione, il primo abbraccia le nuove idee con notevole superficialità, e probabilmente grazie a un connaturato snobismo culturale. Eletto patriarca di Aquileia alla morte di Marino, nel 1546, egli si vede sbarrare la via al cardinalato - oggetto ultimo delle sue ambizioni - già nel 1546-1547, a causa di accuse di eresia. La sua intensa attività di committente, fino alla morte che lo coglie nel 1593, in età avanzatissima - era nato intorno al 1500 - appare come compensazione di ambizioni frustrate.
La singolarità di Giovanni Grimani è del resto perfettamente rappresentata dal suo appartamento nel palazzo di Santa Maria Formosa. Come rilevano criticamente sia Andrea Gritti che il nunzio Girolamo Aleandro - il primo nel 1533, il secondo l'anno successivo - tre sole famiglie veneziane, i Corner, i Grimani e i Pisani, "vogliono abbracciare tutto l'ecclesiastico del loro Dominio" (26).
Tuttavia, la sistematicità con cui il curialismo e il romanismo vengono trasfigurati in scelte architettoniche da Giovanni Grimani costituisce un unicum, come è eccezionale, a Venezia, l'operazione da lui guidata nella propria residenza.
Su di un altro versante, come s'è detto, si pone l'operato del fratello Vettore. Per afferrare in pieno le vicende che vedono implicato Vettor Grimani, è necessario fermare l'attenzione su un fallito tentativo di controllo dell'assetto urbano, effettuato durante il dogado di Andrea Gritti. Nel settembre 1535, il senato affronta il tema della ristrutturazione di Venezia, lamentando le "molte parte brutte et occupate che denigrano il splendor della ditta città". Viene pertanto proposta una nuova magistratura, il cui compito è la cura "del ornare et comodar la città aggiongendo et renovando quelle cose che saranno al proposito, examinando et investigando quelli loci che la occupano et deturpano" (27). La legge del 2 settembre 1535 sembra voler fornire alla città una magistratura oscillante fra la "commissione d'ornato" e quella che nella Roma pontificia è l'ufficio dei magistri viarum. È comunque significativo che il problema della ristrutturazione di intere porzioni urbane venga posto a partire da criteri qualitativi: si tratta di un tema su cui aveva riflettuto Domenico Morosini. Ma è forse più significativo che la nuova magistratura verrà affossata: essa non risulta aver mai funzionato, come nel settembre 1554 viene reso noto, a causa del rifiuto di "uno di quelli che all'ora fu eletto".
La nuova istituzione toccava delicati equilibri fra poteri pubblici e proprietà private, e per giunta con criteri ambigui, fondati sul soggettivo riconoscimento delle "parti brutte" della città. Probabilmente, si era sospettato che dietro le motivazioni estetiche si celassero ragioni ben diverse. La risposta, comunque, sembra analoga a quella che il senato riserva a un'ulteriore e ben più sostanziale riforma sostenuta dal doge Gritti: il riordino legislativo, silenziosamente affossato, secondo la vicenda acutamente ricostruita da Cozzi (28). In entrambi i casi, si registrano reazioni avverse a mutazioni della consuetudo: all'introduzione di apparati normativi sospetti di dirigismo o comportanti una specializzazione dei magistrati.
Una spia in tal senso è costituita dalla scelta, compiuta nel 1554, di unificare la funzione dei provveditori sopra la fabbrica del ponte di Rialto con quella della commissione "per l'ornamento et commodo" della città: nel gennaio 1551, la prima delle due cariche era stata affidata a Vettor Grimani, Antonio Cappello e Tommaso Contarini (29).
Anche se non è il caso di dare un eccessivo peso all'insuccesso del provvedimento del 1535, rimane singolare che ancora una volta un rinnovamento incidente sul tema del diritto venga reso inoperante. Una non casuale resistenza funge da cartina al tornasole per l'identificazione di tendenze fra loro in conflitto: lo spazio di tempo intercorso fra il 1535 e il 1554 è parlante, come lo è la tardiva ripresa dell'idea originaria in occasione del delicato problema realtino.
Eppure, intorno al 1531-1536 decisioni di notevole portata sembrano dar corpo in siti esemplari - allo spirito della legge del 1535. Si tratta di opere religiose o pubbliche tali da permettere di stabilire una relazione con il fallito provvedimento. In tutte, l'architetto prescelto è Jacopo Sansovino, eletto nel 1529 proto della Procuratia de supra; nella maggior parte di esse ha ruoli rilevanti Vettor Grimani. Si noti, intanto, che già l'affidamento al Tatti della carica suddetta ha un significato, da inquadrare all'interno della politica culturale stimolata dal Gritti. Per la prima volta - e parallelamente all'elezione del Willaert a maestro di cappella - è proto, a Venezia, un architectus e non un empirico; la scelta implica una volontà di uscire dalla consuetudine, per entrare in civile competizione con Roma. Una "periferia" architettonica, in sostanza, ambisce a configurarsi come "centro", e in modo deliberato. Gli incarichi affidati al Tatti vanno dal progetto per la Scuola Grande della Misericordia a quelli per San Francesco della Vigna, per la Libreria, la Loggetta, la Zecca, fino alla ristrutturazione della chiesa di San Geminiano e alle opere di restauro e di "arredo" in San Marco e nel palazzo Ducale. La costante presenza di Vettor Grimani nelle opere di responsabilità dei procuratori de supra è ben spiegabile. Vettore è esperto di architettura: un inventario steso dopo la sua morte documenta l'esistenza, nella sua casa, di due modelli per la chiesa di San Francesco della Vigna e di un modello per il palazzo di San Samuele. Insieme ad Antonio Cappello, pertanto, egli appare il gestore della renovatio architettonica veneziana stimolata dal Gritti.
Non meraviglierà, quindi, che Vettor Grimani e Antonio Cappello risultino in diverso modo implicati nell'operazione relativa alla chiesa di San Francesco della Vigna (30). Abbiamo esplorato altrove il complesso intrecciarsi di motivazioni religiose, filosofiche, politiche e finanziarie che si coagulano intorno alla costruzione di tale edificio. Basterà ricordare che fra i protagonisti sono Francesco Zorzi, Andrea Gritti, Pietro Contarini "filosofo", mentre fra gli implicati sono Tiziano, Sebastiano Serlio, Fortunio Spira. Singolare la coincidenza delle date e dei personaggi. I primi passi relativi alla nuova chiesa sono pressoché contemporanei al varo della fallita legge del 1535, mentre di lì a poco il rinnovamento di piazza San Marco vedrà la compresenza del medesimo doge come promotore, del medesimo architetto, dei medesimi patrizi come provveditori.
Per quanto riguarda Vettor Grimani - che avevamo colto nel suo legame con Sansovino, sia in conseguenza delle volontà dello zio Domenico, sia come committente dell'irrealizzato palazzo sul Canal Grande la sua presenza nelle vicende di San Francesco della Vigna è caratterizzata da un ruolo particolare. Insieme al fratello Giovanni, egli acquista la cappella posta sulla sinistra dell'ingresso e, come si ricorderà, nel 1542 egli acquista il diritto di edificare le facciate esterna e interna della chiesa, dando origine alla contesa con il cenobio di Sant'Antonio di Castello. La presenza del Grimani e del Cappello nella fabbrica degli Osservanti assume inoltre un particolare significato, ricordando l'importanza che essa riveste sia dal punto di vista spirituale - grazie all'intervento speculativo dell'autore del De Harmonia mundi, Francesco Zorzi - sia da quello politico. Poco dopo la sua fondazione, esso diviene una sorta di pantheon dedicato al doge Gritti e alla sua cerchia. Indubbiamente quello che si verifica in questo caso, fra Vettor Grimani e Jacopo Sansovino, non è un rapporto di committenza: l'artista era stato scelto dallo stesso doge e dalla Signoria, in concorrenza con un altro architetto, per ora sconosciuto (31).
Ma è significativo che il patrizio veneziano appaia, nell'arco della sua vita, in continua relazione con l'artista: come committente diretto nel caso del palazzo a San Samuele, come cointeressato all'impresa nel caso di San Francesco della Vigna, come procuratore de supra e provveditore alle Fabbriche nei casi della Libreria Marciana, della Loggetta, di San Geminiano, delle Fabbriche nuove di Rialto.
Vettor Grimani riveste, all'interno della cerchia grittiana, un ruolo particolare: quello di promotore di una nuova immagine della città, espressione di una complessa e articolata strategia di modernizzazione. Contemporaneamente, la direzione impressa a tale disegno segue fedelmente le tracce del progetto culturale indicato dallo zio cardinale. La cui cultura pichiana, nel caso specifico, ha attinenze certo non fortuite con le radici ermetiche e cabbalistiche del pensiero di Francesco Zorzi, autore, nel 1535, del noto "memoriale" steso per giustificare le scelte relative alla chiesa degli Osservanti. Sulla quale si depositano speranze religiose, culturali, interessi collettivi e privati - la casa del Gritti sorge di fronte alla chiesa - ottenendo una singolare risposta architettonica.
La fabbrica sansoviniana ostenta un'ascetica simplicitas, radicata nella cultura architettonica fiorentina del tardo Quattrocento e memore dei risultati raggiunti dal Cronaca nella chiesa di San Francesco al Monte. Il che è significativo sia per quanto riguarda la committenza francescana, che per quanto concerne l'atteggiamento dell'artista. Alla perfetta disponibilità della prima ad abbandonare schemi e apparati formali consolidati, corrisponde, nel Tatti, una singolare flessibilità linguistica. Abbandonando a sua volta edonismi formali e modi "all'antica", questi si rivela attento al "carattere" delle opere a lui affidate, in omaggio al principio della convenientia. La maggiore chiesa fondata nel primo Cinquecento a Venezia assume pertanto un dimesso volto toscano.
Per più versi, la vicenda relativa alla chiesa di San Francesco della Vigna anticipa, non soltanto cronologicamente, il varo del più clamoroso episodio di rinnovamento urbano della Venezia cinquecentesca. Le opere affidate a Sansovino nella platea marciana - e segnatamente la Libreria -aprono una storia di lungo periodo, la cui portata per l'immagine complessiva della città è eccezionale. Di nuovo appaiono implicati, all'inizio dell'operazione, Vettor Grimani e Antonio Cappello: il filo rosso scelto come asse portante della nostra analisi si snoda allacciando le più eloquenti modificazioni urbane del XVI secolo.
La decisione relativa alla costruzione in Piazza di un edificio dedicato alla biblioteca donata alla Repubblica dal cardinal Bessarione era stata tutt'altro che pacifica (32). All'atto di donazione, del 14 maggio 1468, e all'inventario redatto nel 1474, era seguito un lungo e intermittente dibattito circa la collocazione delle cinquantasette casse ammassate, dal 1485, in un piccolo vano del palazzo Ducale. Eppure, il dono conteneva un valore simbolico trasparente. Sottraendo a Roma il proprio patrimonio librario, ricco di codici greci e latini, e ponendolo sotto la protezione della Serenissima, il Bessarione aveva investito quest'ultima di un'eredità culturale e di un compito che implicavano una vera e propria translatio ideale. Ma non sembra che, per più di sessanta anni, il messaggio sia stato recepito da Venezia. Decisioni deludenti e contraddittorie si susseguono dal 1490 in poi, mentre la consultazione dei codici risulta tutt'altro che facilitata; né la situazione muta sostanzialmente nel primo decennio del secolo successivo. Soltanto nel 1515 si inizia concretamente a parlare di un nuovo edificio. Perorano la causa il capitano generale Bartolomeo l'Alviano e Zorzi Emo, con evidenti motivazioni politiche: la delibera relativa richiama gli esempi dell'antichità, secondo un topos scontato; al fondo, è la volontà di dimostrare le capacità di ripresa della Serenissima dopo Agnadello e il trattato di Blois. Significativa è la scelta del sito. È prescritta la sistemazione in Piazza, "in foro ipso apud novam fabricam": si tratta, conferma il Sanudo, di un settore delle Procuratie vecchie, da poco iniziate.
Con la delibera del 1515 i Grimani tornano in primo piano. Antonio Grimani, da poco riammesso a Venezia, aveva promosso la ricostruzione delle Procuratie: non meraviglia dunque trovare il suo nome fra i proponenti l'erezione della Libreria nicena in un settore dell'edificio da lui patrocinato, né che, ventuno anni dopo all'incirca, fra i provveditori alla nuova fabbrica sansoviniana spicchi il suo pronipote, Vettore. Del resto, è ancora Vettore, insieme a Pietro Bembo - eletto nel 1530 pubblico storiografo della Repubblica e bibliotecario - a riproporre energicamente, nel 1532, la questione della Libreria. Il sito, a quanto pare, è ancora quello stabilito nel 1515, ma anche questa volta non si dà effetto alla proposta. L'attenzione si sposta sul tratto fiancheggiante la chiesa di San Geminiano: il 14 luglio 1536 si dà incarico a Jacopo Sansovino di apprestare un modello, su tre piani, di nuove case destinate ai procuratori. La decisione appare come un diversivo rispetto al problema della Libreria e non è affatto sicuro che si intendesse lasciare l'architetto libero nel suo linguaggio. Tuttavia, il documento del 1536 rivela l'intento di completare il rinnovamento dell'invaso urbano iniziato dopo il 1514. Ma in esso - cosa da sottolineare per quanto discuteremo fra breve - non si fa cenno a mutamenti degli allineamenti esistenti.
Che la discussione sul significato e il sito da attribuire alla Libreria sia nel frattempo proseguita, lo dimostra il documento del 6 marzo 1537, che suggella una scelta clamorosa: la biblioteca andrà costruita, su progetto sansoviniano, di fronte al palazzo Ducale, "ubi erant appotheca panaterie"; nel luogo, pertanto, più emblematico di piazza San Marco.
Era evidentemente prevalsa una linea innovativa. Evidenziando in modo trionfale la Libreria, l'accesso alla città dal Molo veniva ad essere segnato da due propilei: da un lato, il luogo della sapienza salomonica, del governo e della giustizia; dall'altro, quello del sapere umanistico. Il che implica un mutamento nella considerazione dell'umanesimo a Venezia. Da occupazione privata di gruppi non organizzati, quale esso era stato nel secolo precedente, quell'umanesimo veniva ora elevato - con la fabbrica più "all'antica" della città - a patrimonio pubblico, con esplicite allusioni a una rinascita lagunare come nuova Atene e nuova Roma, dopo le passate umiliazioni e la catastrofe subita nel 1527 dalla città eterna.
Opera pubblica eccezionale, dunque, la Libreria, con una committenza ugualmente eccezionale: tutto fa pensare a un preciso programma teso alla celebrazione della dignità procuratoria. Va quindi indagata la cultura specifica della committenza: la capacità di legare precisi messaggi a precisi ambiti linguistici. Né è pacifico che il patriziato cui quei messaggi erano diretti possedesse a sua volta i codici necessari alla loro lettura o decifrazione. Da troppo tempo si costruiscono castelli di carta ipotetici sui "significati" di opere rinascimentali, attribuendo ai committenti intenti indimostrabili e capacità di penetrazione nei lessici architettonici altamente improbabili. Si pone pertanto un problema di metodo. Per evitare ogni astrazione, ci atterremo alle indicazioni che provengono dal testo più direttamente "parlante": l'opera stessa. La quale è connessa alla Loggetta e alla Zecca, che, insieme ad essa, danno nuova connotazione a piazza San Marco: l'intero invaso è coinvolto nella renovatio concepita in età grittiana.
Si profilano, pertanto, due interrogativi. Innanzi tutto, è realmente possibile pensare - come è stato proposto (33) - a un'operazione di trasformazione della Piazza interamente prevista sin dal 1537, di cui la Libreria non sarebbe che il nucleo iniziale? E a prescindere da tale ipotesi, Libreria, Loggetta e Zecca, iniziate quasi contemporaneamente, seguono, almeno loro, un disegno unitario? Dal modo in cui si risponde a tali quesiti sono deducibili ipotesi assai diverse sugli intenti della committenza pubblica veneziana, relativamente al nuovo assetto del "cuore" della Repubblica. Stando alle parole di Francesco Sansovino, il figlio di Jacopo, al primo interrogativo potrebbe essere data una risposta affermativa. Già nel 1556, Francesco scrive, in Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia, che la Libreria avrebbe dovuto proseguire fino a "quel canto, ove è hora la Becaria"; dal capo opposto - egli sostiene - essa era destinata a cingere l'intera Piazza, fino alla torre dell'Orologio (34). Soltanto la facciata della chiesa di San Geminiano avrebbe interrotto la continua sequenza sansoviniana. Il che è ripetuto nella Venetia città nobilissima del 1581, né viene smentito dalle successive edizioni di tale opera (35).
La configurazione unitaria di un invaso di tale ampiezza e pregnanza simbolica contiene valenze estranee alla mentalità veneziana. È la stessa concezione lagunare del tempo ad essere compromessa da una tale perentorietà, propria piuttosto alle volontà neoimperiali di papa della Rovere - il Belvedere vaticano - e della "scala grande" di Bramante. La continuità della storia veneziana, resa palpabile dall'allacciarsi dei suoi diversi tempi - i monumenti romani, bizantini, gotici, umanistici sarebbe stata spezzata con una violenza estranea, fra l'altro, anche al linguaggio sansoviniano. All'et-et, che caratterizza la spazialità veneziana, si sarebbe sostituito un aut-aut. È credibile che le volontà innovative del doge e/o dei procuratori intendessero spingersi tanto in là?
Wolfgang Lotz ha dedotto, dalle parole di Francesco Sansovino, l'intento di trasformare la Piazza in un grande foro latino (36). Si sarebbe così realizzata, nella platea marciana, un'idea paragonabile a quella proposta nel 1514 da fra Giocondo per Rialto, e allora rifiutata. Ma la parte del 6 marzo 1537, con cui si decide l'edificazione della Libreria, sembra sconfessare le parole di Francesco Sansovino. Come abbiamo rilevato, si prescrive che essa andrà costruita "ubi erant appotheca panaterie" (37) e quest'ultime sono ben leggibili nella mappa del de' Barbari, oltre che nella veduta della Piazzetta attribuita a Lazzaro Bastiani (1487 c.). Con fronte a poca distanza dal campanile, esse si estendevano verso il Bacino fronteggiando il palazzo Ducale. Inoltre, sarebbe stata inconcepibile, nel 1537, la distruzione delle Procuratie vecchie, proseguite, dal 1529 in poi, sotto la guida dello stesso Sansovino; le campate sul lato ovest, verso San Geminiano, vengono terminate nel 1538.
La Piazza, da parte sua, dopo le trasformazioni medievali, la sistemazione delle colonne sul Molo, la costruzione delle originarie Procuratie vecchie e della Torre delle Ore, alludeva già a un antico foro. Colonne ed arco costituivano le "porte" trionfali che dall'acqua introducevano alle Mercerie. La forma della Piazza, specie dopo la collocazione dei Cavalli sulla facciata della chiesa, evocava inoltre un ulteriore modello di notevole significato per la Serenissima, quello del circo di Costantinopoli. Ammettendo che realmente si sia pensato a una riconfigurazione quale quella descritta da Francesco Sansovino, bisognerebbe anche ammettere che essa avrebbe dovuto incidere profondamente sulla struttura preesistente. Il lato della Libreria verso il Campanile, infatti, si ritrae rispetto al filo medievale della Piazza: l'ala ospitante, fino alla fine del XVI secolo, gli uffici della Procuratia e l'ospizio Orseolo era pressoché allineata con la fronte settentrionale del campanile stesso, come dimostra, fra l'altro, la veduta del de' Barbari. Com'è noto, l'allineamento con la testata della Libreria sarà ottenuto soltanto con la realizzazione delle Procuratie nuove, iniziate da Scamozzi. Ed è ciò che accade nel corso delle discussioni ad esse relative che rivela quanto la scelta, alla fine del secolo, non fosse affatto scontata.
Il dibattito avviene in senato, nell'agosto 1596, sedici anni dopo la decisione di proseguire la Libreria fino al Molo e di dare il via alla nuova ala delle Procuratie (38). Le posizioni sono sostanzialmente tre, di cui due radicali e frontalmente opposte. Al gruppo capeggiato da Jacopo Foscarini, favorevole al completamento della fabbrica scamozziana così come essa era stata iniziata, si contrappone il gruppo sostenuto da Andrea Dolfin, Antonio Querini e Leonardo Donà. Una linea "romanista" è dunque combattuta dai "giovani", che pretendono - liquidando il progetto di Scamozzi - il rispetto dell'antico invaso, con Procuratie simili a quelle antistanti. All'enfasi delle fabbriche scamozziane il secondo gruppo preferisce l'unità formale della Piazza, nella sua forma medievale e con un volto anacronistico, ma rispettoso della tradizione. I difensori della specificità e dell'autonomia della Serenissima non avrebbero potuto esprimersi più chiaramente: una linea politica viene da loro tradotta in scelte relative all'immagine del cuore urbano. La terza posizione - difesa, fra gli altri, dal doge Marino Grimani - è di mediazione. Le Procuratie nuove avrebbero dovuto essere terminate fino al lato di fondo della Piazza - viene accettato il nuovo allineamento a filo della Libreria - ma a due soli piani; l'ala sulla sinistra di San Geminiano avrebbe dovuto assumere, per rispettare la simmetria, il medesimo aspetto dell'ala sulla destra, rispettando quindi il modello delle Procuratie vecchie.
La vittoria dei "romanisti" dà il via libera al completamento delle Procuratie scamozziane; la cui ermetica unitarietà nasconde conflitti la cui origine travalica decisamente le ragioni dell'architettura.
Per quanto riguarda il tema da cui siamo partiti, il dibattito del 1596 prova che, quarantanove anni dopo l'inizio della Libreria, la forma complessiva della Piazza poteva ancora essere messa in discussione. Il progetto del 1537 non sembra aver comportato decisioni vincolanti al riguardo. L'aspetto del nodo formato dalla Libreria e dai vecchi uffici delle Procuratie, formante una L adiacente al Campanile e alla Loggetta, è, nello stato anteriore al 1580, riconoscibile nel fondo dell'Adultera di Bonifacio de' Pitati, conservato presso la Fondazione Cini. Ma le decisioni veneziane non seguono, specie per imprese così determinanti, iter lineari e rigidi. Facciamo un passo indietro, e prendiamo in considerazione il programma con cui i procuratori di San Marco avrebbero dato inizio, nel gennaio 1581, alle nuove fabbriche, di cui, nel maggio, è eletto provveditore Marcantonio Barbaro; il documento sblocca una situazione di stallo, che, dal 1556, aveva impedito il complemento della Libreria. In esso, le Procuratie nuove vengono previste in continuità formale con l'edificio sansoviniano. Ma non basta. Si riconosce che non si potrebbe fare cosa migliore di proseguire la Libreria stessa "a drittura per l'hospidaleto", fino a giungere, "in capo di piazza per dove si va a San Moisè, siccome si vede che con molta prudentia, et giuditio e con ottimo consiglio è stato così dessignato dalli savi predecessori di Sue Signorie Eccellentissime [...]" (39).
L'ultima frase è sorprendente. Essa conferma che effettivamente era stata avanzata una proposta per la ristrutturazione complessiva dello spazio marciano, almeno per quanto riguarda il lato occupato dall'Ospedale. Come accordare tale dato con l'inesistenza di decisioni scritte al riguardo - almeno allo stato presente della documentazione -, con quanto si è sopra osservato circa i tempi di realizzazione delle Procuratie vecchie e con il dibattito dell'agosto 1596? Quanto è affermato nel documento del gennaio 1581 sembra infatti confermare, almeno parzialmente, le parole di Francesco Sansovino, su cui avevamo espresso ragionati dubbi.
La soluzione del puzzle non è difficile, avendo presenti le consuetudini che caratterizzano i grandi processi di trasformazione urbana a Venezia. Le vicende relative al ponte realtino sono tipiche al riguardo, anche per il numero di anni e di tentativi che si accumulano dal 1501 circa al 1587 (40). Nessuna opera pubblica che implichi un mutamento sostanziale della forma o della struttura cittadina è varata senza estenuanti discussioni protratte spesso di decennio in decennio, con decisioni destinate ad essere presto rimesse sul tappeto, con svolte improvvise, ripensamenti, interruzioni dei lavori e infiniti pareri tecnici pro e contro, che riflettono puntualmente le opinioni che spaccano provveditori e magistrature. Gli effetti di una tale prassi - replicata, per quanto loro riguarda, dagli organismi decisionali delle Scuole Grandi - si armonizzano assai poco con le ambizioni totalizzanti racchiuse nel concetto rinascimentale di "progetto". Ma è necessario esaminare l'altra faccia della medaglia. Si potrebbe azzardare un'ipotesi relativa alla mentalità collettiva: sembra infatti esistere uno specifico tempo veneziano, teso a dilatare il più possibile lo spazio della discussione, a rinviare il momento delle decisioni, quasi temendo la loro irrevocabilità. Abbiamo richiamato il caso di Rialto, ma risultati simili si ottengono analizzando altre vicende: vedi quelle relative al piano di Cristoforo Sabbadino, al varo - sfociato nella costruzione dell'ospedale di San Lazzaro dei Mendicanti - di una nuova politica nei confronti della povertà, alla riforma carceraria.
Non si tratta soltanto di processi decisionali condizionati dalle diverse posizioni che convivono in seno al senato, alle procuratie, alle altre magistrature. È lo shock dell'innovazione che viene in tal modo scongiurato. Nel momento in cui il nuovo appare, esso è stato in qualche modo già assimilato; comunque, ne risulta smorzato l'effetto traumatico.
Con un'ulteriore conseguenza. In quell'apparente non decidere nulla definitivamente, in quel lasciare in sospeso cantieri e operazioni, si afferma un principio, sottinteso e forse non del tutto cosciente: quello di una progettazione morbida e continua, elastica, aperta. Ci si potrà chiedere quanto tale modo di procedere fosse conseguente alle attrezzature mentali che si affermano nell'Europa del XVI secolo, e ci si potrà soffermare sui limiti che esso poneva all'efficienza della cosa pubblica. Ma è indubbio che la flessibilità che ne consegue era organica alle strutture fondamentali della mentalità patrizia, organica ai dispositivi che rendevano possibile l'"impossibilità" di Venezia.
Sulla scorta di tali considerazioni, il problema da cui siamo partiti è tutt'altro che insolubile. Non bisognerà, anzitutto, postulare l'esistenza di progetti definiti, disegnati, per l'intera Piazza, in particolare all'inizio dei lavori. Inequivocabile è la prescrizione relativa alla Libreria, il cui perimetro è inizialmente fissato, va ribadito, in corrispondenza di quello dell'antica Panetteria. Né la sua costruzione si rivela pacifica, dato che per poter realizzare l'arcata corrispondente all'ingresso in Zecca è necessaria una specifica delibera (41). Presa nel 1554, questa, tuttavia, non sarà utile a sbloccare la stasi che aveva inceppato il cantiere. È invece probabile che, da parte di alcuni procuratori - e, fra essi, di Vettor Grimani? - sia maturata l'idea di proseguire le forme della Libreria fino a San Geminiano, una volta apprezzata, al vero, l'opera di Sansovino. Pur concepita indiscutibilmente come "oggetto", essa ha d'altronde una struttura modulare, interpretabile come estendibile all'infinito. Che l'idea sia nata dopo la realizzazione di un settore della Libreria - forse agli inizi degli anni '50 - è dimostrato dalle qualità stesse dell'edificio: ricco di elementi narrativi destinati a divenire monotoni in un'edizione ampliata, esso non è concepito per reggere la grande dimensione.
È dimostrato inoltre che il progetto approvato nel 1537 non contemplava l'estensione attuale. La testata verso il Bacino a filo della Zecca è frutto di una modifica in corso d'opera, che allunga l'organismo originariamente pensato a diciassette arcate. Cercheremo di verificare tali ipotesi. Per ora, gli indizi a disposizione permettono di supporre che le parole di Francesco Sansovino non facciano che enfatizzare lasciando intravedere arbitrariamente un progetto di omogeneizzazione della Piazza fino alla torre dell'Orologio - opinioni e discussioni tutt'altro che chiuse - come dimostra il dibattito del 1596 - anche se registrate, come sembra dimostrare la parte del 1581. Né va sottovalutato il valore, ai fini del rafforzamento del mito urbano, del grande progetto annunciato in un libro apologetico, come la Venetia sansoviniana, indipendentemente dalle possibilità della sua realizzazione (ma si noti che il libro esce mentre si va decidendo la nuova ristrutturazione della Piazza).
Abbiamo così risposto negativamente al nostro primo interrogativo; e implicitamente abbiamo offerto analoga risposta al secondo, relativo all'estensione della Libreria, in direzione del Bacino, nel progetto del 1537. Su tale ultimo tema si è sviluppata una polemica, originata da una lontana intuizione di chi scrive. L'ipotesi di un originario progetto sansoviniano a diciassette arcate, vale a dire con quattro arcate in meno rispetto alla realizzazione, è stata contestata da Deborah Howard prima e più recentemente da Hirthe. La prima, in particolare, ha dato come probabile il coordinamento, da parte di Sansovino, degli organismi della Zecca e della Libreria (42). Gli argomenti a favore di un progetto a diciassette arcate sono molti. La testimonianza di Vincenzo Scamozzi, anzitutto, che rileva il cantiere fermo alla sedicesima arcata, portandolo a compimento a partire dal 1581: nella sua Idea del 1615, Vincenzo biasima l'accostamento incongruo della facciata della Zecca alla testata della Libreria, scrivendo che la soluzione era stata realizzata senza la sua approvazione (43). Va anche rilevato che la diciassettesima arcata corrisponde all'entrata in Zecca, e che, interrompendo in tal punto la Libreria, essa risulta allineata con la facciata dell'antistante palazzo Ducale. Inoltre, l'organismo interno diventerebbe perfettamente simmetrico rispetto all'Antisala della Marciana: il vano quadrato viene infatti a trovarsi al centro dell'edificio, fra la biblioteca e il corpo destinato agli uffici delle Procuratie, di identiche lunghezze. Fra parentesi, si sarebbe ottenuta, con ciò, una più equilibrata misura per il corpo di fabbrica, privo di un esplicito asse di simmetria. Infine, è la prova decisiva, già invocata, contro l'ipotesi di un progetto esteso all'intera piazza. Il documento che prescrive per l'edificio il sedime dell'antica Panetteria, ne determina, implicitamente, un limite a filo del palazzo Ducale.
Contro l'ipotesi, la Howard ha invocato le parole di Francesco Sansovino: ma l'estensione fino a "quel canto ove è hora la Becaria", sembra corrispondere esattamente alla diciassettesima arcata. Più decisiva potrebbe essere la decisione presa nel 1565, che prescrive come limite l'allineamento con la Zecca. Ma bisognerebbe chiedersi il perché di una scelta che contraddice quella iniziale e che viene compiuta così in ritardo. Tanto più, che essa, a quanto risulta dai documenti, deve essere difesa e argomentata, mentre un testo del 1596 su cui avremo fra poco occasione di soffermarci, ricorda proposte per "metter la zecca in isola" (44). Per dare coerenza alle testimonianze storiche, sembra necessario accogliere un'intuizione di John McAndrew, che ha supposto una variazione di programma (45): qualcosa di simile a quanto accadrà per la risistemazione della piazza.
Tralasciando un'osservazione assai poco decisiva di Hirthe (46), proveremo a sostanziare l'ipotesi di McAndrew, analizzando l'organismo della Zecca e la storia della sua realizzazione. La quale inizia nel 1536, un anno prima della decisione finale relativa alla Libreria; essa non dipende, come quest'ultima, dai procuratori, bensì da provveditori specifici (47). Sansovino imposta un organismo sapiente, basato su due nuclei divisi da un percorso trasversale, tangente due rampe di scale disposte a farfalla; eco, queste ultime, dell'inedito corpo scale progettato nove anni prima per il palazzo di Vettor Grimani. Il corridoio separa il corpo rivolto verso il Bacino da quello disposto intorno a un cortile rettangolare, aprendosi esattamente sulla diciassettesima arcata della Libreria: il portale a telamoni viene realizzato da Danese Cattaneo. Ne esce un organismo singolare, con ingresso e uscita sul rio disposti sui fianchi dell'edificio, le cui parti si attestano su un percorso di servizio che lo taglia trasversalmente. La facciata sul Bacino risulta così uniforme, priva di portali d'accesso. È assai probabile che il Tatti abbia desunto l'idea planimetrica dal bramantesco palazzo Caprini a Roma, cui si era rifatto anche Raffaello nel suo primo progetto per palazzo Alberini in Banchi (48). Ma il punto, per quanto riguarda il nostro problema, non è qui. Si noti, piuttosto, che fino al 1539 il filo previsto per la fronte della Zecca è arretrato rispetto a quello attuale. Soltanto in tale data viene deciso l'avanzamento, al fine di ottenere lo spazio necessario per le nuove botteghe al piano terra e una più vasta superficie al piano superiore. In tale occasione non viene citata, fra le giustificazioni date all'operazione, la necessità di provvedere a un coordinamento con la Libreria. Le botteghe della Zecca - gestite dalle Procuratiem - sono invece a filo di cinque botteghe realizzate dal Tatti, nel 1531, sopra il ponte a fianco, ripetendone il semplice disegno ad archi bugnati (49): queste ultime saranno sostituite, nel XIX secolo, dal loggiato ancora esistente.
Da tutto ciò scaturisce una constatazione. A circa tre anni dall'inizio del cantiere della Zecca, quest'ultima non risulta pensata in relazione alla Libreria: qualora questa fosse stata ideata sin dal 1537 con ventuno arcate, essa avrebbe oltrepassato la Zecca protendendosi verso il Bacino. Che i due cantieri abbiano avuto sviluppi autonomi è confermato dalla loro storia successiva. Dal 1554 si sviluppa un contenzioso fra i provveditori alla Zecca e i procuratori de supra, a proposito delle nove botteghe incorporate nella Zecca stessa. Sansovino si schiera con i procuratori, che risulteranno vincenti nel 1558. Nello stesso anno, tuttavia, i dieci autorizzano l'aggiunta di un terzo piano alla Zecca. Non è affatto certo che autore dell'addizione sia stato Jacopo. È certo però che essa altera la gerarchia inizialmente stabilita fra i due edifici, dando a quello affacciato sull'acqua un ruolo preponderante. Viene prescritto, nella stessa occasione, l'allargamento di un balcone della Zecca verso la Piazzetta (50), poco giustificabile qualora la Libreria, già nel 1558, fosse destinata ad allungarsi fino all'attuale testata. L'8 maggio 1554, infine, i provveditori alla Zecca permettono "di continuar la fazada [della Libreria] sopra la piazza di San Marco, con la qual venivano ad intaccar la cale che va in cecca quanto apprende tutto il sottoportego di essa fabrica" (51). Alla data, vale a dire, viene concessa la realizzazione della diciassettesima arcata, da considerarsi l'ultima, secondo la nostra ipotesi. È infatti al filo di essa, ricordiamo, che termina la Panetteria. Va inoltre rilevato che nel 1582, quando si studierà il proseguimento della Libreria oltre la sedicesima arcata, verranno compiuti accurati sondaggi sull'area non occupata originariamente dalla Panetteria, per verificare la fattibilità della porzione di edificio da realizzare su terreni non assestati (52).
Soltanto nell'ottobre 1563, e non senza discussioni, appare l'idea di avanzare la Libreria "sino al canton della Cecha" (53); ma si dibatte a lungo ove collocare le Beccherie poste fra i due edifici. Il collegio, nel 1565, decide per Santa Maria in Broglio e soltanto nel 1580 si rimuove la fabbrica che ostacola il completamento dell'opera sansoviniana. Una serie di decisioni successive, non sempre coerenti, e a più voci, guida dunque i cantieri. La scelta che si profila intorno al 1563 può essere letta come variazione fondamentale rispetto a quella del 1537. Cosa può averla motivata, oltre al bisogno di creare più ampi spazi per gli uffici delle Procuratie, sulla sinistra dell'Antisala? È forse lecita un'ipotesi, da collegare alla disputa conclusasi nel 1558 e al permesso di innalzare di un piano la Zecca. Giungendo fino al filo di quest'ultima, infatti, la Libreria vede compensata la minor altezza cui essa è ora obbligata, evitando di apparire come oggetto secondario nello scenario della nuova Piazzetta, specie se vista dal Bacino marciano.
Da tale complessa ricostruzione storica si ottiene, anzitutto, la conferma di un comportamento costante della committenza pubblica veneziana. È estranea alla mentalità patrizia la cristallizzazione delle decisioni, specie per i grandi cantieri cui si annettono messaggi istituzionali. La grande dimensione, in altre parole, sembra affrontabile per Venezia soltanto per oggetti e via via che essi impongono scelte urgenti, mantenendo il più possibile aperto il loro esito. Il che contrasta solo in parte con la cultura visiva dell'architetto. S'è già riconosciuto in Sansovino un artista poco attrezzato a sostenere la sfida delle dilatate dimensioni. Non a caso, proprio su questo tema Giuliano da Sangallo, suo maestro, aveva fallito di fronte ai nuovi metodi progettuali di Bramante. Tuttavia, pensare per oggetti - mantenere, vale a dire, una concezione paratattica dello spazio - non esclude risultati finali a grande scala. Questi ultimi vanno pertanto analizzati come testi in cui conflitti, atti mancati, succedersi di scelte e incoerenze lasciano tracce concrete da riconoscere, senza lasciarsi condizionare da pregiudizi che postulino unità e linearità anacronisti che. Un testo come piazza San Marco, in altre parole, costituisce un'occasione storiografica emisimmetrica a quella che, ad esempio, viene offerta dallo stato attuale del Belvedere bramantesco. Le pesanti alterazioni che rendono quasi irriconoscibile, in quest'ultimo, il progetto originario, possono essere interpretate come una vendetta del tempo sulle ambizioni di Giulio II e del suo architetto. Nel rinnovamento cinquecentesco dello spazio marciano, al contrario, tale esito è scongiurato: la variabile temporale viene assorbita nel lungo e tortuoso processo a più voci che ad esso dà vita.
Ne emerge un elemento determinante della mentalità patrizia. Specie per quanto riguarda le opere pubbliche e rappresentative, essa esclude un rapporto di semplice committenza: il significato e le grandi scelte non possono essere deferite ai progettisti. Nel comportamento delle magistrature veneziane è implicita un'opzione per l'incertezza, come apertura al "caso" e come strumento di "prudenza".
La Libreria sansoviniana, alla luce di tali osservazioni, appare un oggetto ambiguo, oscillante fra le condizioni di un organismo compiuto - un animal albertiano - e di una fabbrica "aperta". È forse ammissibile che l'architetto abbia intuito le intime articolazioni della mentalità che guida la sua committenza?
Comunque, la lettura dell'edificio induce a nuove considerazioni. Nella struttura a logge sovrapposte, con arcate fra semicolonne, è stato letto un riferimento al teatro di Marcello e alla loggia delle Benedizioni iniziata sotto Pio II, alla sommità di una scalinata degradante verso piazza San Pietro (54). Si potrebbe aggiungere, come possibile modello, il Tabularium, anche per le sue originarie funzioni, analoghe a quelle della Libreria. Ma una lettura ravvicinata permette di cogliere ulteriori citazioni. L'angolo formato da semicolonne associate a un pilastro rinvia alla basilica Aemilia, citata esplicitamente nei capitelli dorici, con ovuli nell'echino e rosette sottostanti (cf. il Codice Vat. Barb. 4424 di Giuliano da Sangallo, c. 26). Le campate superiori, inoltre, mostrano serliane con tratti laterali contratti, secondo un modello già usato da Sansovino nel progetto per la facciata della Scuola Grande della Misericordia: vedi il foglio D18 del Museo Civico di Vicenza (55). Per tale particolare è stata riconosciuta una fonte precisa. Si tratta del donatelliano tabernacolo della Mercanzia, all'esterno di Orsanmichele a Firenze. Per quanto una serliana contratta appaia anche nell'arco antico di Aquino, così come lo disegna Giuliano da Sangallo, è molto probabile che Jacopo abbia inteso introdurre una quasi impercettibile notazione autobiografica, sia nella Misericordia che nella Libreria (56). A fronte di una simile dichiarazione di fiorentinità, sono i particolari eruditi: il dorico con metope e triglifi - il primo ad apparire a Venezia -; le basi delle colonne ioniche minori, con toro inferiore sostituito da due astragali; l'artificio angolare, adottato per ottenere una semimetopa completa.
Com'è noto, a tale ultimo particolare Francesco Sansovino dedica una trattazione particolareggiata. Il figlio di Jacopo sostiene che il padre, una volta giunto con la costruzione all'angolo verso il campanile, aveva posto il problema della semimetopa angolare agli architetti e ai vitruviani della penisola (57). La sfida - sempre secondo Francesco - avrebbe visto vincitore lo stesso Sansovino. In effetti, il pilastro dorico in questione risulta ampliato, rispetto alle semicolonne adiacenti, in modo che da esso possano aggettare due lesene a 90° fra loro. L'artificio permette di ottenere, nel fregio, lo spazio corrispondente a due semimetope complete, piegate a libro. La necessità di distinguere pilastro e lesene provoca però problemi suppletivi. Trattati in modo astratto gli aggetti posti accanto alle semicolonne, quello angolare accoglie - per omogeneità - base e capitello: in tal modo, il pilastro diviene asimmetrico. È anche dubbio che un rigoroso vitruvianesimo richiedesse una semimetopa completa all'estremità della trabeazione. Né la vicenda della gara è confermata da altri documenti, a meno di una lettera di Claudio Tolomei a Francesco Sansovino, tutt'altro che riferibile ad essa con sicurezza (58). Ma come per il racconto circa il prolungamento della Libreria intorno all'intera Piazza, conta qui quanto vuole essere comunicato al pubblico. La metafora contenuta nelle parole di Francesco è trasparente: Sansovino, con la sua Libreria, mostra che la "vera architettura" è ora privilegio non più di Roma, ma della Serenissima. Con il suo edificio, in sostanza, viene evidenziata una translatio ideale, enunciata dall'erudizione linguistica, dal vitruvianesimo del fregio dorico e delle basi ioniche, dalle elegantiae contenute nella dosata intersezione di narrazione scultorea e di evidenza tettonica. I capitelli ionici, a ricca decorazione, seguono un modello già studiato da Giuliano da Sangallo, mentre l'alto fregio finale, con finestre entro targhe intervallate da rilievi con putti e ghirlande, assume un doppio significato. Esso cita, palesemente, il fregio peruzzesco della Farnesina Chigi, che Jacopo aveva già interpretato, nei suoi anni romani, nel primo cortile di palazzo Gaddi; ma, data la similitudine delle parti a bassorilievo con un marmo antico della collezione Grimani, esso costituisce anche un ammiccante e celato omaggio a uno dei procuratori chiamati a dirigere l'opera, Vettor Grimani (59).
L'analisi della Libreria potrebbe continuare, osservando che le colonnine ioniche binate e scanalate, insieme alla balaustra finale, ai balconi, ai rilievi scultorei, introducono valenze tipiche del raffinato edonismo che caratterizza parte dell'architettura sansoviniana. Ed è assai dubbio che, con tale fusione di membrature e frammentismo scultoreo, il Tatti intendesse rendere omaggio - come troppo spesso è stato scritto - a un generico genius loci. Persino la decorazione della volta del portico, a cornici tonde e ovali concatenate, ha riferimenti nella cultura antiquaria, sviluppando un tema che Giuliano da Sangallo - ricordando decorazioni del Colosseo - aveva usato nel portico della villa medicea di Poggio a Caiano. Acquista allora significato particolare un'ulteriore affermazione di Francesco Sansovino. Nel Secretario, questi ricorda il giudizio del padre a proposito del palazzo Ducale, letto positivamente attraverso parametri antropomorfico-strutturali del tutto antitetici a quelli poi espressi da Palladio (60). Il passo sembra confermare la lettura sopra avanzata, relativa alla complementarietà allegorica della Libreria e del Palazzo. Ed è evidente che Francesco non si riferisce a problemi linguistici, privilegiando piuttosto le valenze emblematiche. Tutto fa pensare, comunque, che i procuratori abbiano assicurato al loro architetto una notevole autonomia. La scelta della committenza pubblica, in questo caso, era già tutta contenuta nell'incarico dato a quell'architetto. Ciò che si vuole, di fronte al palazzo Ducale, è un oggetto compiutamente "all'antica", scontando a priori il rischio che esso possa far apparire impietosamente anacronistico l'antistante edificio archiacuto.
Il che avverrà puntualmente. Nelle relazioni stese dopo l'incendio del 1577, sia Palladio che Cristoforo Sorte giudicheranno "contro natura" il palazzo Ducale. Al contrario, ancora nel 1591, i procuratori di San Marco giudicheranno la Libreria costruita "secondo la raggion vera dell'architettura", e in un singolare volume del 1596 - i Discorsi morali del medico bresciano Fabio Glissenti, amico di Federico Contarini viene riportato, come pettegolezzo rivelatore, l'opinione di alcuni patrizi, sicuramente vicini al gruppo dei "vecchi": "altri", scrive Glissenti, "dicevano doversi fabricare la facciata del palagio del gran Consiglio, simile all'architettura contrapposta delle fabbriche nuove [la Libreria] ". E si noti che in un passo precedente era stato citato il giudizio di "chi biasima l'antica architettura della Chiesa di San Marco" (61).
Sarebbe difficile sostenere che i procuratori, il doge e il senato intendessero introdurre un oggetto blasfemo all'interno della platea marciana. Ma è altrettanto dubbio che, nell'approvare il progetto della Libreria, essi non si rendessero conto che in tal modo veniva sancito un inequivocabile segno di rinnovamento, coerente con gli altri provenienti dall'ambiente del doge Andrea Gritti. Tanto più, che quel segno veniva confermato dalla nuova Loggetta ai piedi del Campanile. La quale, concepita come struttura trionfale in miniatura, sulla scorta di exempla come il progetto sangallesco del 1505 per la loggia dei suonatori papali (U283 Ar.) o il cosiddetto tegurio bramantesco di San Pietro, è totalmente svincolata dalla Libreria, sia prospetticamente che dimensionalmente. Appoggiata quasi casualmente al Campanile, essa - come ha osservato Deborah Howard - è piuttosto collegata visivamente al portico Foscari, di cui costituisce il fondale obbligato. Il programma che guida il suo apparato scultoreo è, non a caso, un vero e proprio speculum delle virtù e della potenza della Serenissima: i patrizi e i dignitari stranieri erano invitati a confrontarsi con tale narrazione per immagini del mito di Venezia, alla loro uscita dal palazzo Ducale. In qualche modo, la Loggetta traduce in termini umanistici le celebrazioni cittadine depositate, nel corso del Medioevo, in opere come la fontana grande di Perugia o il campanile di Santa Maria del Fiore a Firenze (62).
Sia pure per oggetti finiti, l'operazione compiuta con la supervisione di Vettor Grimani e Antonio Cappello - di nuovo presenti accanto a Sansovino nel 1557, per la ristrutturazione di San Geminiano - segue un implicito programma concettuale. Bipolarità fra sapienza di governo e litterae, si è detto, commentando la scelta del sito per la Libreria. Ma l'attenzione che Sansovino dedica alla "pulizia" del linguaggio architettonico ha forse altri correlati. Le basi dell'ordine ionico minore, la soluzione erudita del "cantonale", le colonne aggettanti, il fregio pulvinato e la policromia della Loggetta, la struttura "teatrale" e il fregio finale della Libreria, hanno un forte sapore programmatico. L'eloquenza del rigore sintattico è persino maggiore di quella allegorica che si insinua, in modo equilibrato, nelle maglie della struttura architettonica. Difficile non evocare, al proposito, una figura che abbiamo incontrato fra i promotori più decisi della fabbrica della Libreria, accanto a Vettor Grimani. Si tratta di Pietro Bembo, il cui interesse per il cantiere rimarrà costante, come sappiamo da una lettera dello stesso Sansovino. La lingua letteraria basata su norme chiare e certe, auspicata dal Bembo, sembra avere un correlato nel vitruvianesimo ostentato dall'architetto. Ai fini del nostro discorso, poco importa che quel vitruvianesimo fosse soltanto di parata, o che la stessa soluzione del pilastro angolare fosse molto discutibile, in relazione alle norme fissate nel De Architectura. Il carattere di assoluta novità che l'edificio sansoviniano riveste per Venezia emette messaggi evidenti rivolti alla collettività, date le sue funzioni ufficiali. Non si tratta soltanto dell'annuncio che l'eredità della Roma "communis patria", fiaccata dal Sacco, viene ora raccolta dalla Serenissima.
Edward Muir ha dimostrato che una delle preoccupazioni del doge Gritti era stata la riforma della prassi di governo secondo costumi più aristocratici e umanistici, con l'eliminazione o l'isolamento di consuetudini popolaresche considerate volgari, come il macello rituale dei maiali sulla Piazzetta o spettacoli carnevaleschi ruzantiani o di contenuto osceno. L'aristocratizzazione della vita cerimoniale veneziana - malgrado le resistenze incontrate - è un segno dell'alleanza fra umanesimo e rituale di governo perseguito nell'età del Gritti (63).
Il latino forbito della Libreria e della Loggetta entra in consonanza con tale tentativo di scindere nettamente il nobile dal volgare. Alla pulizia linguistica di Sansovino corrispondono operazioni di pulizia urbana: vedi lo sgombero delle botteghe nella zona del Molo o le censure che colpiscono gli spettacoli carnevaleschi. Stiamo toccando un punto nodale della strategia grittiana. L'opzione per il "nuovo", espressa con l'accettazione delle raffinate evocazioni sansoviniane, coincide con un messaggio lanciato alla mentalità patrizia: come ha dimostrato Dominique Laporte per la Francia di Francesco I, nella metafora del "pulito" si annodano una sacralizzazione dell'auctoritas e un progetto teso a una più rigorosa autoidentificazione dei ceti emergenti (64). L'operazione, in cui tanta parte è svolta da Vettor Grimani, sembra guidata da un disegno politico-culturale cui l'ars rhetorica dell'architetto è chiamata a fornire un'opportuna amplificatio. Il che è confermato da un'ulteriore circostanza storica.
Due fonti cinquecentesche concordano nell'indicare che la ristrutturazione del cuore urbano della Serenissima avrebbe dovuto estendersi di fronte al Bacino marciano, al di là del ponte della Paglia (65). La biografia grittiana stesa dal Barbarigo e una vita anonima di Jacopo Sansovino, edita nel 1540, rendono infatti noto che l'artista fiorentino era stato incaricato dal doge, intorno al 1537-1538, diprogettare nell'area citata una residenza ducale. Veniva così ripresa un'idea - a suo tempo respinta - avanzata nel settembre 1483 da Nicolò Trevisan, savio di Terraferma: oltre il rio di Palazzo, aveva affermato il Trevisan, era necessario costruire un edificio dedicato unicamente alla vita privata dei dogi, lasciando nell'edificio gotico le sole funzioni pubbliche. Il Barbarigo, da parte sua, avverte che l'impresa era stata presa, sotto il Gritti, in seria considerazione: erano stati presi accordi con i proprietari delle aree ed era stato fissato il modello architettonico. Nelle sue parole, inoltre, è presente un giudizio negativo sull'esistente palazzo Ducale. Come s'è osservato, il progetto della Libreria provoca riflessi culturali di notevole portata.
Indubbiamente, l'idea è connessa al ruolo decisionale che Andrea Gritti annette - sollevando molteplici critiche - al dogado. Una residenza ducale affacciata sul Bacino non poteva che magnificare quel ruolo, rendendolo analogo, almeno esteriormente, a quello di un monarca. Nella qual cosa è anche una valenza non trascurabile di "modernizzazione": un'opera sansoviniana in quel sito avrebbe fatto da pendant alla Zecca, rendendo ancor più anacronistico il Palazzo. Non meraviglia che la proposta sia stata lasciata cadere dopo la scomparsa del Gritti, così come non meraviglia che essa sia stata avanzata per la terza ed ultima volta - sempre senza successo ai tempi del doge Nicolò da Ponte. Un medesimo tema architettonico, in tre diverse situazioni storiche, sembra sottendere un mutamento istituzionale poco gradito.
Ma lo stesso Andrea Gritti parla una lingua del tutto differente là dove agisce come semplice privato. Iniziata nel 1525, con un primo corpo edilizio, la casa avita, che il doge fa ristrutturare di fronte alla chiesa di San Francesco della Vigna, viene ampliata a partire dal 1535, con la realizzazione di un secondo blocco, prospiciente il rio. Le due unità residenziali - in seguito molto trasformate hanno piante simili e tradizionali, con atrii e sale passanti (66). Connesse da una corte, in esse è evidente il reimpiego di elementi preesistenti - la quadrifora interna verso il rio - mentre le elementari finestre e il loro tradizionale impaginato fanno del complesso un'opera senza tempo, volutamente modesta. Dalla condizione di decima del 1537, apprendiamo che una delle due case è affittata al "reverendo monsignor Pietro Bembo et paga de fitto ogni anno ducati 125" (67); per testamento, il Gritti lascerà gli immobili alle proprie nipoti. Di certo, il suo comportamento privato è carico di valenze ignote al suo comportamento come committente pubblico. In quest'ultimo dominano volontà rappresentative: l'architettura è investita di compiti retorici finalizzati a un riconoscibile disegno politico. Come semplice patrizio, il doge ostenta invece una significativa mediocrità: il silenzio delle forma implica l'accettazione della parità su cui si fonda il mito della libertà veneziana.
Non si tratta di una contraddizione. Anzi, tale doppio comportamento costituisce una chiave per comprendere in che modo i ruoli privati e pubblici vengono interpretati nel XVI secolo. E che esista una continuità al proposito lo mostra un'ulteriore residenza privata, voluta da un altro doge, Leonardo Donà, a partire dal 1610. Anch'essa è sita in una periferia urbana - sulle Fondamenta nuove, che il Donà aveva contribuito a realizzare (68) -; anch'essa mostra una planimetria tradizionale e un aspetto anonimo. Leonardo non ricorre né a Scamozzi né ad altri architetti: l'autore è il modesto proto dei procuratori de citra, Francesco di Pietro.
Andrea Gritti e Leonardo Donà: le loro personalità non sono affatto simili; come uomini pubblici, le loro idee e le loro azioni sono quanto mai distanti. Ma le loro rispettive case differiscono di poco. Soltanto le serliane del palazzo sulle Fondamenta nuove, poste a sostituire le quadrifore di Ca' Gritti, mostrano che è passato un lasso di tempo: ma, senza appoggi documentari, nessuno potrebbe datare plausibilmente le sue fabbriche. Né quanto stiamo osservando è smentito dal palazzo che un terzo doge - Nicolò da Ponte - possiede a Venezia, in campo San Maurizio. Eretto prima della elezione al dogado (1578), con due piani nobili più attico, esso rientra in canoni stratificati: è stata notata la sua somiglianza con il vicino palazzo Terzi e con palazzo Cappello a Sant'Antonio (69).
Dai palazzi del Gritti e del Donà, piuttosto, emergono intenti che connettono - tagliando trasversalmente "vecchi" e "giovani" - coloro che con le loro scelte residenziali compiono un esplicito atto di omaggio al mito della modestia originaria. Come ha evidenziato Ennio Concina, si tratta del medesimo intento che, intorno al 1541, muove Leonardo Moro nell'affidare a Jacopo Sansovino un'impresa edilizia - sempre in zona avita e periferica - ancor meno retorica e ancor più riservata di quelle intraprese dai due dogi (70). E lo stesso Concina non manca di far notare la contrapposizione che oppone tali comportamenti a quelli, sfacciatamente "magnificenti", che danno origine a palazzi come quelli dei Corner, o di Girolamo Grimani.
Al contrario, per Andrea Gritti la magnificenza sembra costituire un privilegio riservato agli edifici pubblici, emergenti da un tessuto omogeneo nel suo mediocre decoro: quanto avevano scritto Giovanni Caldiera e Domenico Morosini si conferma come norma ideale introiettata dalla maggioranza del patriziato. Che, poi, la nuova residenza dogale nel bacino riassumesse in sé sia il carattere di un edificio di Stato, che quello destinato a tramandare la memoria del suo promotore, è pacifico. In esso, ruolo pubblico e ambizione soggettiva sembrano mescolarsi segretamente.
Su ciò è necessario riflettere. Più volte, nella nostra narrazione abbiamo incontrato scelte elaborate nell'ambito privato - nell'accezione che il termine ammette nel XVI secolo - che chiedono tuttavia di essere legittimate dallo Stato, tendendo a divenire, talvolta, scelte pubbliche. La politica artistica di Domenico e Vettor Grimani è esplicita al proposito. Il fenomeno non è da sottovalutare, dato che ha connotati specificamente veneziani: l'intricarsi dei ruoli all'interno di un medesimo soggetto vede quasi sempre come referente ultimo lo Stato. Né ciò viene contraddetto dai più arroganti ecclesiastici o dal più decisionista dei dogi. Tale atteggiamento collettivo ha una sua storia, che tenteremo di delineare nel seguito della trattazione.
La flessibilità riconosciuta nelle scelte ora esaminate ha un corrispettivo nella gerarchia delle forme in cui si esprime il pubblico "decoro". La "grande forma", è riservata a piazza San Marco: al sito, in perenne "rifondazione", delle istituzioni collettive. Rimane il problema di quale possa essere la forma più propria per i luoghi dell'utilitas e della caritas. Il tema è agevolmente affrontabile, dato che, come procuratore, Vettor Grimani si trova a sovraintendere ad altre due fabbriche sansoviniane: le Fabbriche nuove di Rialto e la Ca' di Dio. Il medesimo architetto che aveva ostentato tutta la sua erudizione negli edifici "anticamente moderni" in Piazza, ripiega, nel 1545, sull'assoluto silenzio delle forme, nella casa di ricovero gestita dalla procuratia de supra. Non si tratta soltanto di modestia dovuta a scarsità dei fondi: l'anonimato scelto per l'edificio assistenziale ha un correlato in quello che rende storicamente inquietante Ca' Moro. E ancor più problematico è il modo in cui Sansovino affronta, nel 1554-1556, il tema delle Fabbriche nuove.
Donatella Calabi e Paolo Morachiello hanno sapientemente messo in luce le ragioni che guidano, dopo l'incendio del 1514, la ricostruzione del mercato realtino (71). Il ridisegno delle fabbriche pubbliche, che un empirico come Scarpagnino riesce a realizzare partendo dalle antiche tracce, risponde a esigenze economiche, a bisogni di unità ed equilibrio, a un "ragionevole" controllo di meccanismi finanziari, a una "prudente" razionalizzazione. La semplificazione del linguaggio consegue alla voluta uniformità del complesso, e il rinnovamento rispetta la consuetudo grazie, anche, alle scarse velleità culturali del proto. Il progetto, a forma di foro greco, presentato da fra Giocondo, costituiva al contrario un'intrusione troppo chiusa nella propria logica antiquaria. La proposta di un'insula aulica e spietatamente "logica" non era dotata di convenientia nei confronti del tema. Essa era inoltre prematura, si potrebbe aggiungere. Ma quanto accade a Rialto, dopo la decisione (1550) di sostituire con una fabbrica stabile le botteghe lignee poste nell'area della Pescheria vecchia, spiega ancor più la forma mentis che guida il "decoro" urbano nella massima zona speculativa della città. Il consiglio dei dieci, in data 12 settembre 1554, dichiara che l'operazione è necessaria per "honor della Repubblica" e per "beneficio" del canale. Un'ottica congruente a quella che aveva ispirato la legge del 1535 investe un edificio destinato a rendere alla Signoria una congrua rendita annua. Infatti, è del 27 settembre 1554 la decisione del senato, già ricordata, di unificare in una sola magistratura esecutiva i compiti della ricostruzione realtina, affidati a Vettor Grimani, Antonio Cappello e Tommaso Contarini. Due dei coordinatori della renovatio marciana, dunque, operano anche nel "secondo cuore" di Venezia. Si tratta di una spia che conferma la complementarietà dei due siti. La zona commerciale, nel suo tratto rivolto verso la massima via d'acqua, dovrà avere - conseguentemente a quanto si stava realizzando a San Marco - un volto "moderno". Tanto più, che il progetto viene affidato al medesimo architetto.
Realizzate in due tappe successive, con una planimetria ricca di accorgimenti visivi, di sapienti innesti al tessuto urbano e di attenzione per la morfologia del Canal Grande, le Fabbriche nuove sono configurate con un linguaggio in cui a stento è riconoscibile il medesimo autore della Libreria. Sansovino non rinuncia al repertorio vitruviano, ma lo traduce, con semplificazioni e solecismi, in "volgare". Non si tratta, come nelle case Moro o nella Ca' di Dio, di un venir meno della lingua, di un silenzio. Piuttosto, l'architetto tenta di individuare la forma opportuna per un edificio utilitario. Il latino è declinato con inflessioni plebee.
Al di là del risultato raggiunto, risulta confermato che Sansovino è disponibile a mutamenti di sintassi a seconda del "carattere" degli edifici. Si osservi un solo particolare: sia nel cortile della Zecca che nelle Fabbriche nuove, i triglifi dell'ordine dorico sono ridotti a pannelli appiattiti, sigle di un adeguamento del linguaggio "alto" alla destinazione funzionale delle due fabbriche. I medesimi triglifi, in villa Garzoni a Pontecasale, parlano invece della qualità rustica della vita agricola. Difficile, specie per quanto riguarda le Fabbriche nuove di Rialto, che uno sfruttamento così paradossale delle possibilità del linguaggio architettonico sia stato concepito al di fuori di un serrato colloquio con la committenza, la quale appare altrettanto flessibile del suo architetto. Anche a proposito di decoro pubblico è opportuna una scala di valori; anche nel controllare il rispetto di quest'ultima, la "bene ordinata Repubblica" manifesta la propria sapienza.
Se è corretta la nostra interpretazione circa il messaggio rivolto alle istituzioni dal cardinale Domenico Grimani, va concluso che il nipote Vettore è stato un suo perfetto interprete. In un certo senso, persino aver lasciato cadere il progetto sansoviniano per il proprio palazzo è coerente con la risignificazione collettiva che Vettore persegue con la nuova res aedificatoria. Diversa sarà l'opera del fratello Giovanni. Ma prima di esaminare i rapporti di committenza che rendono storicamente emblematiche le loro scelte può essere interessante delineare le relazioni intessute dagli altri fratelli Grimani con il mondo dell'architettura.
Giovanni da Udine
Sia l'attività di Marco che quella di Marino Grimani appaiono, in relazione agli orientamenti di Vettore e Giovanni, meno consistenti ma non meno significative. Patriarca di Aquileia dal 1529 al 1533 per "recesso" di Marino, eletto cardinale nel 1528, Marco Grimani compie, nei riguardi della propria sepoltura, una scelta contrastante con le ambizioni mondane di buona parte dei suoi famigliari. Per testamento, egli chiede di essere sepolto in un chiostro di Sant'Antonio di Castello - da lui considerato, evidentemente, cenobio di famiglia - insistendo nel proibire monumenti in suo onore: "perché né a me né ad altri si conviene seppellire l'ossa de peccatori et massime le mie in luoghi simili, né voglio gli sia altare né si ne facci, a ciò non si celebrasse in alcun tempo dove riposassero l'ossa d'un peccatore" (72). Almeno in tale occasione, Marco mostra uno spirito evangelico, forse di lontana matrice erasmiana. Egli comunque entra a far parte della nostra storia non come committente, ma come erudito. È infatti Sebastiano Serlio a rivelare, nel Terzo Libro di Architettura, edito nel 1540, che il patriarca gli aveva trasmesso disegni di una piramide al ritorno da un viaggio in oriente (73). Serlio precisa che lo stesso Grimani "in persona propria la misurò, e vi salì sopra e ancho vi andò dentro", aggiungendo che nella collezione del patriarca erano anche il disegno di una sfinge e quello di un monumento presso Gerusalemme.
La passione archeologica di Marco è confermata da un ulteriore passo del Serlio, questa volta tratto dal Libro ottavo. Sebastiano ricorda che il patriarca gli aveva parlato diffusamente e in modo particolareggiato di "vestigia" di una città della Dacia, da lui stesso rilevata. L'artista aggiunge di aver ricevuto in regalo una copia di quel rilievo e, in un passo isolato del medesimo libro, chiama Marco "buon Patriarca uomo curiosissimo" (74).
Il Grimani risulta così a contatto di un teorico e cultore di antichità di primo piano nella Venezia del primo Cinquecento, ed è colto in un'attività archeologica, costante nel tempo, applicata ai più vari e originali contesti. Uno dei tratti distintivi della famiglia - quello caratterizzato dalla passione antiquaria e dal collezionismo erudito - viene confermato dalle rivelazioni serliane. Tuttavia, sembra di poter cogliere, in Marco Grimani, un atteggiamento più riservato rispetto a quello dei fratelli. Distante dall'ostentazione e dagli aspetti mondani che rendono eccentriche le scelte di Giovanni, egli si mantiene lontano dalla vicenda relativa a Sant'Antonio di Castello, che vede Vettore e Marino implicati.
Per quanto riguarda quest'ultimo, i suoi contatti con il mondo dell'architettura non sono del tutto definiti. Grande collezionista, di medaglie in particolare, Marino Grimani sembra avere un gusto personale relativamente alla pittura, ma non appare che marginalmente partecipe delle imprese di Vettore. Tuttavia, un disegno degli Uffizi - l'U798 Av. - apre un inatteso spiraglio sul problema. Si tratta di uno schizzo di Antonio da Sangallo il Giovane, tracciato sul verso di un foglio relativo a San Pietro in Vaticano: sul margine inferiore di uno schizzo di portale, Antonio scrive di sua mano "cardinale Grimano p. Padova". Il foglio, dato il suo recto, è databile alla fine degli anni '30 del XVI secolo; pertanto, il cardinale di cui alla didascalia non può che essere Marino. Il progetto non è molto impegnativo.
Tracciato a mano libera, esso prevede un partito centrale ad arco inquadrato da semicolonne doriche, con fregio a triglifi e metope; il timpano triangolare è coronato da uno stemma. Difficile stabilire la destinazione del disegno, comunque incompleto.
È stato supposto che esso si riferisca a un progetto di unificazione delle case che Marino Grimani, possiede a Padova, affiancate sul Prato della Valle (75). In particolare, potrebbe trattarsi di un portale relativo al giardino e alle aree scoperte poste sul retro degli edifici residenziali. È piuttosto interessante che il cardinale abbia preferito a Sansovino - all'epoca emergente a Venezia - il suo antico rivale Antonio il Giovane (76). Il fatto, tuttavia, non va neanche enfatizzato, date le frequentazioni curiali di Marino e il ruolo ufficiale che il Sangallo aveva assunto in tale ambiente.
È infatti come legato di papa Paolo III che Marino - come ha riconosciuto Bruno Adorni (77) - opera a Piacenza, iniziando un processo di rinnovamento urbano che prelude all'insediamento di Pier Luigi Farnese. A Venezia, invece, il suo ruolo è secondario; anche nella questione del monumento ad Antonio Grimani egli non fa che affiancare Vettore. In comune con lo zio Domenico egli ha invece le ambizioni neofeudali che abbiamo avuto occasione di ricordare. Nel 1546, alla sua morte, il trasferimento della carica di patriarca di Aquileia al fratello Giovanni suggella, anche metaforicamente, un tratto di politica famigliare che avrà riflessi nella vicenda che stiamo costruendo.
D'altra parte, gli interessi di Marino, per lo più residente a Roma, si rivolgono alle terre del patriarcato, e l'architetto da lui sostenuto è qui l'ex collaboratore di Raffaello, Giovanni da Udine. Al Ricamatori egli chiede disegni per una cappella nel duomo di Aquileia e, nel 1531, un progetto per il campanile di San Michele a San Daniele del Friuli. Giovanni da Udine è attivo anche nelle sfortunate vicende del coro del duomo di Udine, patrocinate da Marino; da parte sua, Giovanni Grimani, che aveva già sperimentato l'abilità dell'artista come decoratore, solleciterà allo stesso i disegni del campanile nel 1555-1556. È noto, infine, che nel 1 552 Giovanni da Udine aveva fornito disegni per il duomo di Ceneda.
La relazione dei fratelli Grimani con Sansovino, Serlio, Giovanni da Udine, Antonio il Giovane, documenta una comune opzione per i protagonisti e gli eredi del grande dibattito romano del primo decennio del secolo. Con una chiara distinzione dei ruoli: al Serlio vengono riconosciute competenze teoriche e antiquarie, Sangallo viene interpellato estemporaneamente, al Ricamatori sono affidati progetti prevalentemente in terra friulana, evitando così conflitti che avrebbero potuto coinvolgere la figura "ufficiale" del Sansovino. Tale equilibrata politica culturale non è destinata a durare a lungo. Dopo il 1554, un nuovo protagonista si affaccia sulla scena, attirando l'attenzione del circolo vicino a Daniele Barbaro. L'ormai maturo Andrea Palladio orienterà ben presto le scelte del patriarca di Aquileia.
Torna così alla ribalta il quarto nipote di Domenico Grimani, Giovanni, che avevamo lasciato intento a trasformare in scrigno patriarcale la propria residenza veneziana.
È dopo la morte di Vettore (1558), che Giovanni concentra i suoi interessi sulla chiesa che aveva visto operante il fratello: San Francesco della Vigna. I suoi interventi conseguono alla scelta di fare dell'edificio francescano una sorta di pendant spirituale dello scenario mondano in via di completamento nel palazzo di Santa Maria Formosa. In entrambi i casi, domina un'orgogliosa istanza di rappresentarsi in prima persona. Giovanni trasferisce anzitutto la salma di Vettore in Sant'Antonio di Castello, per trasformare la cappella sita nella chiesa in un mausoleo personale. Non esistono elementi che permettano di pensare a risentimenti postumi di Giovanni: fra i due fratelli non sembrano essere esistiti dissidi, tanto che Vettore appare spesso interessarsi di affari, anche ecclesiastici, per conto di Giovanni. È soltanto per l'ambizione di rappresentare fastosamente se stesso, dunque, che il patriarca di Aquileia si assicura un ruolo protagonista nella chiesa di San Francesco della Vigna.
È molto probabile che tale voglia di rappresentatività sia connessa alle prospettive che Giovanni Grimani si era dato in quegli anni. L'obbiettivo è sempre la porpora cardinalizia. Ma per ottenerla era necessario chiarire definitivamente la propria posizione: Pio IV aveva parlato all'ambasciatore Antonio da Mula delle difficoltà che si opponevano alla promozione di Giovanni al cardinalato, a causa delle antiche accuse di eresia. Nell'estate del 1560, quindi, il patriarca si reca spontaneamente a Roma. Qui lo attendono, alla fine dello stesso anno, nuove accuse; seguono prima la sua fuga a Venezia, poi la sentenza di proscioglimento, pronunciata a Trento il 17 settembre 1563.
Come ha riconosciuto Peter J. Laven, dietro la "persecuzione" di Giovanni Grimani si celano complessi interessi politici (78). Fatto sta, che anche dopo il 1563 egli non riuscirà ad ottenere il cappello cardinalizio. Inoltre, la vicenda conferma il carattere mondano delle idee religiose di Giovanni, rivelandone vieppiù le mire tutt'altro che spirituali. Allo sfarzo della vita privata e al sostanziale disinteresse per la cura del suo patriarcato, il Grimani unisce - come lo zio Domenico - ambizioni di potere che lo pongono in contrasto con la Signoria. Dal 1576, anch'egli ricorrerà al pontefice rivendicando diritti feudali su San Vito al Tagliamento. Ancora in linea con l'atteggiamento del cardinale Domenico è la donazione allo Stato - comunicata al doge il 7 gennaio 1587 - della sua preziosa collezione di antichità. Si tratta dei pezzi sistemati da Vincenzo Scamozzi nell'Antisala della Libreria Marciana; di nuovo, dietro un atto di omaggio alla patria è l'intento di elevare a bene pubblico un indirizzo culturale coltivato in privato.
La decorazione della cappella Grimani in San Francesco della Vigna si intreccia alle vicende ricordate. Fino alla morte (1561), vi lavora Battista Franco, che dipinge i riquadri della volta, fissando altresì alcuni temi relativi agli affreschi parietali. Nella seconda metà del 1563, per l'esecuzione di questi ultimi Giovanni chiama da Roma Federico Zuccari, che esegue con tonalità michelangiolesche, temperate da spunti raffaelleschi e veronesiani, l'Adorazione dei Magi, la conversione della Maddalena, la Resurrezione di Lazzaro. Anche al di là dei temi iconografici - che dopo l'assoluzione del 1563 si prestano ad interpretazioni allusive alla vicenda del committente - è evidente la magniloquenza celebrativa dell'intera cappella. La decorazione plastica della volta a botte, gli affreschi ivi contenuti, quelli depositati sulle pareti, esaltano la figura di Giovanni Grimani. Per la sua "eroica" magnificenza e per il gusto romanizzante dell'insieme, il vano costituisce una squillante eccezione rispetto alla simplicitas che domina le ulteriori cappelle. Considerando la somiglianza di molte figure dipinte - specie quella del re prono, nell'Adorazione - con il ritratto di Giovanni Grimani dipinto da Tintoretto, diviene ancor più esplicito il legame fra l'esaltazione della "virtù Grimana" e la Fede. I risvolti che coinvolgono l'esito del processo al patriarca sono del resto evidenziati anche nel progetto palladiano per la facciata interna della chiesa, su cui ci soffermeremo fra breve. L'intento, dal 1563 in poi, sembra quello di introdurre, nella chiesa francescana, un polo complementare a quello presbiteriale. Al pantheon grittiano, con epicentro nella zona dell'altar maggiore, si contrappone la celebrazione di casa Grimani nella zona dell'ingresso.
Non va sottovalutato il messaggio culturale lanciato dal patriarca di Aquileia: il committente riunisce artisti rappresentativi di correnti michelangioliste o antichizzanti, esplicitamente connesse con l'ambiente romano. Di nuovo, è forte l'analogia con scelte che avevano caratterizzato la politica artistica di Domenico Grimani. Con una clamorosa differenza, tuttavia. L'architetto privilegiato dallo zio cardinale, Jacopo Sansovino, viene allontanato dal cantiere; i progetti per le facciate interna ed esterna vengono affidati a Palladio, emergente, in quegli anni, come portatore di un "modo nuovo", alternativo a quello del Tatti, anche per il suo rigorismo privo di concessioni a venezianismi o a gusti locali. È evidente l'umiliazione che la scelta comporta per l'anziano Sansovino, com'è evidente l'ambizione di Giovanni Grimani a porsi come protagonista e fautore di una svolta culturale.
Che Giovanni sia giunto a Palladio con la mediazione di Daniele Barbaro - da lui stesso indicato, nel 1550, come suo successore al patriarcato di Aquileia - è molto probabile. Anche Battista Franco era stato introdotto dal patriarca eletto nella chiesa di San Francesco della Vigna: molto prima dell'allocazione al pittore della decorazione della cappella Grimani, Daniele Barbaro aveva affidato allo stesso il Battesimo di Cristo, come pala d'altare per la cappella di famiglia. Inoltre - a confermare il ruolo di guida assunto dal Barbaro per le scelte relative alla chiesa - va considerato che il 4 gennaio 1561 il prelato viene eletto "defensor et conservator omnium privilegiorum Seraphici Ordinis et Religionis Sancti Francisci de Observantia". Si consideri, ora, il legame particolare stabilito dal Barbaro con Palladio, a partire dalla collaborazione per la stesura e l'illustrazione del commento al De Architectura di Vitruvio, edito a Venezia nel 1556 (79).
Daniele Barbaro aveva riconosciuto Palladio, nei suoi commentari del 1556, come l'incarnazione dell'architetto nuovo, capace di introdurre una inedita scientia nelle lagune; egli aveva per di più guidato Andrea della Gondola nei suoi primi passi ufficiali a Venezia. I quali non erano stati fortunati, visti gli esiti negativi dei concorsi per proto dell'ufficio del sale del 1554 e per la scala d'oro in palazzo Ducale dell'anno successivo. Ma nel 1559 era stata offerta all'architetto un'occasione di enorme prestigio. Garanti Daniele Barbaro e il fratello di questi, Marcantonio, a Palladio era stata affidata la costruzione della nuova facciata della chiesa patriarcale: San Pietro di Castello. Per comprendere il significato della facciata di San Francesco della Vigna, dovremo aprire una digressione: ciò che accade fra il 1559 e il 1560 nella chiesa patriarcale gioca un ruolo forse fondamentale per le successive scelte di Giovanni Grimani.
Il committente della nuova facciata di San Pietro di Castello, Vincenzo Diedo, membro di una famiglia nettamente "papista", era stato eletto patriarca nel gennaio 1556. Come il suo predecessore Contarini, anch'egli passava direttamente dallo stato laicale alla prestigiosa carica ecclesiastica, grazie a una linea di condotta senatoriale ormai consolidata. Si noti una coincidenza: nel gennaio 1556 viene pubblicata la prima edizione del Vitruvio del Barbaro; l'incarico dato a Palladio - poco più di due anni dopo - implica la piena accettazione, da parte del Diedo, dell'"usanza nuova" caldeggiata dal patriarca eletto di Aquileia. L'amicizia che lega Barbaro al Diedo ha sicuramente, al suo fondo, una motivazione politica. Del resto, la decisione di valorizzare la decentrata chiesa patriarcale non poteva non significare una presa di posizione filo-romanista. La quale, con l'incarico dato all'architetto più compiutamente "all'antica" esistente in quel momento nell'Italia settentrionale, sarebbe stata resa concretamente e clamorosamente visibile. Dopo il varo dell'impresa marciana di Sansovino ma con un linguaggio assai più "imperiale" - la facciata di San Pietro di Castello avrebbe enunciato un primato linguistico che gli antipapisti avrebbero certo considerato con sospetto. Forse non è casuale che il Diedo venga violentemente attaccato, con accuse infamanti relative al suo comportamento nei confronti dello Stato, proprio nel luglio 1559. L'accusatore è Giovanni di Bernardo Donà, zio del futuro doge e leader dei "giovani", Leonardo (80). Né può essere esclusa una relazione fra tale episodio e le vicende relative alla facciata della cattedrale; la somma di 1.910 ducati promessa agli esecutori di quest'ultima coincide curiosamente con i 2.000 ducati che il Donà rivendica allo Stato come tasse evase dal patriarca in modo fraudolento.
È probabile che gli antiromanisti sarebbero comunque stati ostili a un'opera che metteva in primo piano una chiesa emblematica della presenza a Venezia della Santa Sede. Di converso, la sua marginalità doveva essere tollerata sempre meno, nella seconda metà del XVI secolo, da parte del potere ecclesiastico. Alla fine della relazione relativa alla visita apostolica del 26 maggio 1581, è caldeggiato il trasferimento della cattedrale "in comodiorem urbis partem" (81). Ma la morte del Diedo, nel 1560, blocca l'iniziativa. Com'è noto, sarà il patriarca Lorenzo Priuli, nel 1594, ad affidare a Francesco Smeraldi i lavori per la facciata attualmente visibile. Ed è un documento del 9 marzo 1593 (m.v.) a dimostrare che i lavori del 1559-1560 erano stati minimi: alla data, un terzo della facciata della cattedrale è ancora occupata da case di proprietà patriarcale; le stesse visibili nella mappa del de' Barbari (82). Si profilano due interrogativi. La lastra architettonica realizzata dallo Smeraldi è fedele alle dimensioni del progetto palladiano del 1559? E fino a che punto esso ne rispetta le linee?
Per rispondere al primo quesito gioverà notare che il corpo della chiesa rimane quello raffigurato dal de' Barbari, confinante a sud con il palazzo Patriarcale. Inoltre, la traccia di un arco a sesto acuto, nella muratura interna della quattrocentesca cappella Lando, permette di stabilire che nel corso della ricostruzione seicentesca viene rispettata la larghezza dell'organismo medievale. La ricostruzione delle case patriarcali, a filo del lato settentrionale della chiesa, permette - come previsto nell'Istrumento del 1593 - "di accomodare piazza spaciosa per quanto s'intende la facciata". Una volta data risposta affermativa al primo quesito, sarà necessario - per affrontare il secondo - tentare una ricostruzione del progetto di Palladio, a partire dal contratto del 1559. Il quale, finora noto soltanto dalla trascrizione (da copia) dell'abate Magrini (1845), ha ricevuto interpretazioni per lo più gratuite. A parte alcune intuizioni di Roberto Pane, le ipotesi avanzate provocano, anche a causa di letture incomplete del documento, notevoli confusioni (83). L'analisi del contratto originale, al contrario, lascia pochi dubbi sull'invenzione palladiana. Esso infatti precisa che la facciata in pietra d'Istria, "grossa piè mezo in circa" e con convenienti ammorsature, è articolata da sei semicolonne corinzie, di 3 piedi e 1/4 di diametro all'imoscapo e di 2 piedi e dieci once al sommoscapo. "Le due che vano sopra li cantoni", è prescritto, "vengono nel fianco alquanto più di mezza colonna".
Ad esse, sono aggiunti tre "pilastri quadri per banda" sporgenti 1/4 di piede; per le porte e le finestre non vengono date misure (superflue, del resto, dato che il documento fa riferimento a perduti disegni di Palladio). Tenendo conto delle attuali dimensioni - 91 piedi circa (= 31,64 m) di larghezza; 24,20 m di altezza, fino al vertice del timpano - è possibile ricostruire un progetto con tratto intermedio a ordine gigante, ampio 44 piedi e campata centrale allargata (5 diametri). Alle estremità, il contratto prevede ad ogni evidenza due colonne intersecate, secondo la soluzione usata da Palladio sia nel portico di palazzo Chiericati a Vicenza, che nel progetto G.G. per la facciata di San Petronio a Bologna.
Non poco significativo, tale incastro, dati i suoi precedenti in ambito romano. Esso è presente nel quattrocentesco cortile di palazzo Venezia, nel cortile raffaellesco di palazzo Branconio, nel cortile del palazzetto Regis Leroy ai Baullari.
Per i due tratti laterali - di 23 piedi l'uno - è possibile interpolare, alla soluzione realizzata da Smeraldi, quella palladiana di San Giorgio Maggiore. Si ottengono così i tre "pilastri quadri" del documento del 1559; il che presuppone un portale semplificato e privo delle lesene oggi in sito. Inoltre, è assai improbabile che i due semifrontoni aggettanti, che nella facciata attuale risolvono la soluzione di continuità fra il settore mediano e le ali, siano frutto della modesta cultura del Fracao. Essi citano quelli dei Mercati Traianei a Roma: e in modo raffinato, dato il loro inserimento nel diverso contesto. Si ottiene così uno schema analogo a quello delle altre chiese palladiane a Venezia, riconosciuto da Wittkower come frutto di un'intersezione virtuale di due facciate, corrispondenti ai diversi ordini; la trabeazione minore - a rilievo nelle ali, appiattita fra le semicolonne - denuncia la complessa operazione mentale compiuta. Poiché non esistono prove di un intento del Diedo di ristrutturare la cattedrale, la lastra palladiana - come, poi, a San Francesco della Vigna - è una "macchina" autonoma, che auspica un diverso organismo spaziale dietro di sé. Il suo modello di riferimento, comunque, è ben noto. Si tratta della facciata ad ordini intersecati introdotta da Bramante a Roccaverano, reinterpretata da Peruzzi nella Sagra di Carpi (1515 c.) e da Antonio da Sangallo il Giovane, una prima volta in Sant'Egidio in Cellere, una seconda volta in un progetto del 1519 per San Marcello al Corso a Roma (U869 A). La nuova fronte della chiesa patriarcale veneziana avrebbe pertanto sintetizzato, in modo originale, antico e moderno, con connotazioni esplicitamente romane. All'eroismo dell'ordine gigante, si sarebbe integrato un rigorismo concettuale affatto estraneo al gusto lagunare.
Possiamo così rispondere al nostro secondo quesito. L'opera realizzata da Francesco Smeraldi non è che un'interpretazione poco brillante dei disegni palladiani, con interpolazioni tese ad accentuarne la trionfalità.
Per quanto riguarda Vincenzo Diedo, è evidente il suo totale affidamento a Palladio. Ma è anche evidente che dietro il coraggio nell'accettare un programma formale così polemico nei confronti della tradizione figurativa veneziana, è, oltre alla volontà di aderire alla svolta auspicata dal Barbaro, quella di esibire la particolarità della propria cultura, del proprio rango, delle proprie posizioni politiche. Quella facciata e il suo romanismo erano troppo espliciti. Che l'impresa si sia arenata dopo la morte del Diedo non può meravigliare.
La digressione non è giustificata soltanto dalla necessità di far chiarezza sul primo progetto palladiano a Venezia di grande rilievo. Come s'è detto, i garanti dell'architetto per San Pietro di Castello sono Daniele e Marcantonio Barbaro. Nel 1559, Andrea ha modo di intervenire nel refettorio di San Giorgio Maggiore e nel 1560 inizia la realizzazione del nuovo convento della Carità: un legame sempre più tenace viene a stabilirsi fra l'architetto, gli ambienti ecclesiastici e quelli "romanisti". Ma raggruppare questi ultimi in modo indifferenziato rischia di offuscare e ridurre la complessità della cultura veneziana del Cinquecento. Molti erano i modi in cui l'architettura di Palladio poteva essere letta: come riflesso di una ratio universale avversa agli idiomi locali; come emblema di arrogante "diversità" in seno all'oligarchia veneziana; come dichiarazione di principio, tendente a riconoscere in Roma una fonte primaria, con conseguenze in tema di autonomia religiosa e politica. Per un preciso gruppo, Palladio sembra essere l'incarnazione dell'unità fra il Vero e il Bello, nella suprema sintesi dello scire per causas. In altri termini, un architetto che pensa, programma e realizza, con un'autonomia conquistata mediante scientia. Tutto fa pensare che per Daniele Barbaro - ma anche per Marcantonio o per Jacopo Contarini - l'architettura sia metafora di buon governo. Con fini evidenti: la radicale revisione, in senso scientista, delle strutture mentali dell'oligarchia di governo e delle istituzioni della Serenissima.
Un filo rosso sembra connettere tale gruppo con quello che aveva agito intorno ad Andrea Gritti, distinguendosene per una maggiore radicalità di intenti e per maggiore chiarezza teorica. Lo stesso fatto che Daniele Barbaro si sia impegnato direttamente nell'attualizzazione della maggiore enciclopedia tecnica dell'antichità allora reperibile - il De Architectura di Vitruvio - ha un significato. E non può essere casuale che nel suo commento egli non manchi di rivolgere precise critiche all'uso veneziano delle immagini e delle tecniche - in tema di edilizia residenziale, di celebrazione patrizia, di equilibri idrogeografici - alludendo a ipotesi innovative in tema di cantieristica e di architettura militare. Posizioni oligarchiche, strategie di alleanza nei confronti della Santa Sede, introduzioni di novità e modernizzazioni: tale insieme di proposte si coagulano all'interno del gruppo "romanista", divenendo spesso provocazioni per i "giovani". Ma esso non costituisce un programma unitario che per i più illuminati e colti di quel gruppo. Non sono identificabili tout court con il severo pensiero del Barbaro gli intenti di molti dei patrizi che ne condividono alcune istanze di fondo.
Torniamo alla mancata impresa di Vincenzo Diedo. Dopo aver ricostruito il progetto palladiano per San Pietro di Castello, apparirà evidente che la sua affinità con la facciata di San Francesco della Vigna, di San Giorgio Maggiore, del Redentore, ha un senso preciso. Le variazioni che caratterizzano le quattro opere sono proprie di una concezione sperimentale della ricerca architettonica. Il ragionamento palladiano si snoda nel tempo, prescindendo olimpicamente dalle occasioni e dai temi. L'alto livello di astrazione, il rigore linguistico, le valenze stranianti di quella stessa lingua, "altra" rispetto al contesto veneziano, costituiscono distaccate dichiarazioni di autonomia. Soltanto la marginale collocazione delle opere di Palladio - in silenziose periferie, allontanate a formare un orizzonte sul bordo lagunare, o accuratamente introverse - evita un conflitto troppo acuto con l'organica ed empirica continuità della forma urbis.
Ma cosa può aver significato per Giovanni Grimani affidare ad Andrea di Pietro della Gondola la facciata di una chiesa trasformata in macchina celebrativa? L'amicizia con il Barbaro e la vicinanza ad alcune sue tendenze politiche e forse religiose non spiega molto. Può invece dire qualcosa il fatto che ciò che il patriarca di Venezia non aveva potuto realizzare viene al contrario realizzato dal patriarca di Aquileia.
Non si tratta, beninteso, di rivalità, ma di comunanza di fini. L'affinità delle due facciate gioca un ruolo al proposito. L'ipotesi, in definitiva, è che, sia nel caso del Diedo che in quello del Grimani, alle valutazioni generali sulle forme "all'antica" sia sovrapposto l'intento di una "rappresentazione di sé" mediata dalla norvitas architettonica: un tale uso delle forme è esattamente all'opposto di quello preconizzato da Daniele Barbaro. Proviamo ad analizzare, per articolare l'ipotesi, quanto Palladio realizza o progetta per incarico di Giovanni Grimani.
Che tale incarico dati intorno al 1564 è reso plausibile sia dalla biografia del committente che dalla testimonianza del Vasari. Prima della sua assoluzione (fine del 1563) è difficile che il Grimani abbia pensato a una simile impresa, mentre è credibile che essa sia leggibile sullo sfondo di quell'evento. Vasari mostra - nella seconda edizione delle Vite - di conoscere il progetto per la facciata, dichiarando che "è già murato da piè tutto l'imbasamento" (84). Nel programma del committente, comunque, le fronti esterna e interna sono strettamente collegate: circa quest'ultima, rimasta irrealizzata, una spia è offerta da due soluzioni alternative fra loro, tracciate da Palladio nel disegno D17 del Museo Civico di Vicenza. In entrambe, in una struttura ad arco trionfale vengono sistemati tre monumenti funebri, sovrastati dalla figura della Fede. Il legame fra tale ultimo elemento e l'Adorazione dipinta da Zuccari nell'adiacente cappella Grimani è esplicito; per quanto riguarda i monumenti, è pensabile a un loro riferimento allo stesso Giovanni Grimani, allo zio Domenico e a Marino, ricordando le volontà di Marco e il trasferimento della salma di Vettore in Sant'Antonio di Castello. Si rifletta, ora, sul monumentalismo di tale apparato. L'arco trionfale, elevato su alto basamento, è arricchito da semi-colonne scanalate, cui corrispondono aggetti della trabeazione a fregio pulvinato. Ai pannelli a bassorilievo dell'attico fanno da contrappunto i festoni che congiungono i capitelli, mentre per il portale vero e proprio è prevista un'indipendente struttura a baldacchino.
Qualora fosse stata realizzata, tale "macchina" architettonica avrebbe costituito una nota violentemente polemica nei confronti dell'ascetico invaso sansoviniano. La retorica celebrativa, anzi, sarebbe risaltata con maggiore vistosità, al confronto con la semplicità programmatica dell'interno. È probabile che lo stesso Giovanni Grimani abbia avvertito l'eccesso di una simile esaltazione famigliare. Sicuramente lo avrà avvertito Daniele Barbaro, che nel suo Vitruvio esprime posizioni avverse alla celebrazione dei privati negli interni ecclesiastici, affini a quelle a suo tempo espresse da Felix Faber, o a quelle che avevano ispirato al vescovo di Verona, Giovanni Matteo Giberti, le sue Constitutiones. Per le facciate interne trasformate in monumenti famigliari, vale quanto già rilevato per le facciate esterne dedicate alla memoria di privati. Lo stesso Palladio - secondo l'attribuzione di Howard Burns (85) - dà il progetto per il monumento Mocenigo nella chiesa San Giovanni e Paolo, mentre il monumento da Lezze, attribuito sia a Sansovino che al Vittoria, occupa, nella sua sistemazione seicentesca, la fronte interna della chiesa del Gesù.
È probabile che un'attenta riflessione abbia spinto Giovanni Grimani a privilegiare la realizzazione della facciata esterna, priva di figurazioni direttamente riferibili alla propria persona o alla propria famiglia. E come suo costume, Palladio progetta una fronte astratta, che contiene, nel suo programma formale, qualcosa di affine al progetto per la facciata interna. La lastra palladiana, infatti, interamente in pietra d'Istria, si sovrappone alla muratura predisposta da Sansovino a formare una fronte ben diversa. I rilievi compiuti nel corso dei restauri del 1905-1906 hanno accertato, alla sommità della muratura interna, la presenza di un occhio rotondo tamponato; la trabeazione sommitale dell'apparato palladiano si aggancia ad esso con una pietra di ammorsatura. Del resto, Andrea della Gondola prescinde totalmente dall'organismo interno. Le dimensioni dello zoccolo basamentale e degli ordini minori non tengono alcun conto né della quota delle cappelle, né delle finestre sui lati.
Va ribadita la profonda affinità che lega tale opera palladiana al progetto per San Pietro di Castello. Di questo, principalmente, viene ripresa la struttura a ordini intersecati; ma risulta abbandonato l'artificio delle colonne giganti compenetrate. Anche la soluzione dei semitimpani, ispirati a quelli dei Mercati Traianei, torna, nella facciata di San Francesco della Vigna, a concludere la sequenza formata dagli ordini minori.
Dal punto di vista del committente, la severa macchina palladiana è certo motivo di orgoglio. È per merito di un privato - e sia pure con la carica di patriarca di Aquileia - che la città accoglie un'opera ispirata a una maniera di difficile assimilazione. In tal senso, essa come tutte le opere patrocinate dai Grimani - parla di una "diversità" culturale che suona come tacita sfida. Ma ciò non influenza minimamente le scelte dell'architetto. Elemento centrale della riflessione palladiana è l'interrelazione fra gli ordini. Semicolonne giganti e ordini minori poggiano, in San Francesco della Vigna, sul medesimo alto basamento; la trabeazione più bassa - appiattita fra gli intercolumni laterali - riemerge nella campata centrale, a formare il baldacchino di ingresso e la base della finestra termale. Palladio ottiene così una stretta integrazione di membrature. Le semicolonne dell'ingresso sono le stesse che sorreggono i semifrontoni; alle estremità, l'ultima semicolonna è associata a pilastro, così da permettere, sul lato, l'aggregazione di una seconda parasta, raggiungendo lo spessore voluto.
Sulla base di un medesimo modello concettuale, viene quindi rivista l'articolazione degli elementi usati per San Pietro di Castello. Ma non definitivamente, dato che nella facciata della sua successiva chiesa veneziana, San Giorgio Maggiore, Palladio torna a differenziare l'ordine gigante, isolandolo di nuovo tramite un basamento, laddove le lesene minori - come nella chiesa patriarcale - poggiano sulla fascia inferiore. È probabile che l'architetto non fosse soddisfatto del risultato ottenuto con il portale della chiesa francescana: essa taglia il podio con un effetto di affossamento dovuto alle semicolonne minori sopraelevate. La soluzione è antica. Essa è tratta dall'arco dei Sergi a Pola - ordini di altezze diverse su basamento comune - e da altri monumenti su cui Palladio aveva riflettuto sin dalla giovinezza (disegno R.I.B.A. XVII, 23). Tuttavia, essa poteva apparire arcaica, inducendo a tentare altre soluzioni. E al termine delle sue sperimentazioni è la facciata del Redentore, in cui la scalinata adottata per il trittico centrale risolve il tema problematico impostato nelle chiese precedenti.
Palladio, in sostanza, assume le diverse esperienze come momenti di una ricerca indipendente, seguendo un ragionamento tutto interno al suo laboratorio disciplinare. A Giovanni Grimani non rimane che tempestare di scritte la trabeazione sommitale e le targhe di San Francesco della Vigna, per rendere eloquente l'astratto gioco formale del suo architetto. Da esse - come abbiamo altrove dimostrato - esce un esplicito omaggio al concilio tridentino, alla vita contemplativa, alla parola evangelica, laddove l'aquila inserita sul frontale parla di rinnovamento interiore. Difficile non riconoscere in tutto ciò una serie di messaggi allusivi alla biografia del committente e in particolare alla soluzione della propria vicenda giudiziaria: si ricordi, fra l'altro, la difesa della vita contemplativa preconizzata dal Grimani nella finzione letteraria di Paolo Paruta (86). In altre parole, assistiamo a un muto scontro. Su una superficie aniconica si stampano frasi troppo parlanti.
Quanto abbiamo accennato relativamente a Giovanni Grimani come committente risulta confermato. Ciò che Vettore riserva alla pubblica magnificenza Giovanni lo rovescia sulla propria persona. Tuttavia, egli assume un atteggiamento prudente. Il patriarca di Aquileia allestisce la scena dedicata alla propria memoria sulla facciata di una chiesa periferica.
Sul rapporto di committenza che lega Palladio a Giovanni Grimani, ma anche ai fratelli Barbaro, ad Alvise Mocenigo, a Domenico Bollani, ai benedettini o ai monaci lateranensi, si possono fare ulteriori osservazioni. Nessuno dei patrizi che appoggiano l'architetto a Venezia si serve della sua opera per rappresentare se stesso o la propria famiglia con edifici residenziali. Il che pone Palladio in una situazione diversa da quella assunta da Sansovino o dal Sanmicheli. Malgrado ciò che ancora viene talvolta scritto, Andrea della Gondola non ricopre nessuna carica ufficiale nelle lagune. Né dopo lo sfortunato concorso del 1554, sembra ambire ad esse (87). È invece significativo che amici e committenti tendano a favorirne l'opera per istituzioni religiose, escludendolo dall'edilizia strettamente privata. La figura di Palladio è utilizzata a Venezia in modo totalmente alternativo rispetto agli intenti dell'aristocrazia vicentina nella città berica. I disegni palladiani pubblicati nei Quattro Libri per palazzi patrizi a Venezia sembrano - a conferma di quanto sopra - riprogettazioni dimostrative sui siti occupati da Ca' Corner e da Ca' Grimani sul Canal Grande. Ed ugualmente dimostrativi, più che realistiche proposte, vanno considerati i suoi disegni per il ponte realtino (88). Non si tratta, per le tendenze della committenza palladiana, soltanto di "romanismo" e di legami, personali o di gruppo, con la Santa Sede e i circoli ecclesiastici. Va preso in considerazione anche un elemento della maniera di Palladio sicuramente apprezzato da patrizi profondamente interessati al valore civile delle nuove scienze. La mathesis qualitativa che emerge dal suo rigoroso controllo delle trasgressioni, infatti, era probabilmente leggibile come riflesso di griglie mentali fondate sul calcolo. Ma tale valenza, valida per Daniele Barbaro o per Jacopo Contarini, non sembra interessare granché committenti come il doge Mocenigo o Giovanni Grimani.
È probabile che le "calcolabili armonie" palladiane fossero lette, più genericamente, come metafore allusive a più valori contemporaneamente, con una predominante, relativa alla costruttività dell'architettura: al coordinamento di più volontà secondo un progetto. Formulata in tal modo, l'architettura stessa acquista il significato aristotelico di ars politica.
Sarà Scamozzi, fra la fine del secolo e i primi decenni del secolo successivo, ad ereditare, almeno in parte, il ruolo ideale che quel circolo di committenti eruditi aveva attribuito all'architetto del Redentore: ma si tratterà di un ruolo destinato ad esaurirsi, parallelamente all'offuscarsi delle tensioni che domineranno gli anni preludenti all'Interdetto.
Riconsideriamo i ruoli che i tre maggiori protagonisti della nostra narrazione Sansovino, Palladio, Scamozzi - vengono ad assumere nei confronti dell'imago complessiva di Venezia. Nel concedere al Tatti ampia libertà linguistica, i procuratori sembrano attribuire ai suoi oggetti in Piazza il valore di un rituale di rifondazione. È un simile rituale che il ridisegno scamozziano dell'invaso interpreta con enfasi; ma sotto quell'enfasi è palpabile un'ormai labile connessione fra segni e significati. Il "nuovo" palladiano sembra invece accolto a dispetto delle sue potenzialità estranianti. Evocatore di misure ignote al tempo e allo spazio lagunari, esso allude ad "armonie" cui Venezia rinuncerà di aderire totalmente. Con una successione di scelte non coordinate né sempre coscienti, ma ugualmente simboliche, le sue architetture vengono allontanate dal contesto urbano, o - come nel caso del convento della Carità - lasciate essere come puri interni.
Isolate in zone periferiche e disposte su un lontano orizzonte a formare un magico "bordo" lagunare, le opere veneziane di Palladio assumono pertanto l'aspetto di congegni abilmente disinnescati. Sorte nel pieno di un dibattito che metteva in gioco l'identità della Serenissima, la loro dislocazione e i rapporti di committenza che ne hanno permesso l'esistenza parlano un linguaggio che si interseca a quello dell'architettura. Dalle loro posizioni periferiche, esse enunciano - con "parole straniere" - il limite che la memoria veneziana dell'origine incontra nella sua ostinata volontà di resistenza. Così che, attraverso la loro ermetica affermazione di inattualità, l'intera gamma di conflitti che agita il patriziato cinquecentesco assume un volto, destinato a divenire, più tardi, oggetto di fraintendimento. Quando i Capricci di Canaletto assembleranno artificiosamente quelle parole straniere nel cuore di Venezia, l'identità della città lagunare si sarà dissolta, insieme alle ragioni prime che ne avevano costituito l'essenza.
1. Lauro Quirini, De nobilitate contra Poggium Florentinum (1449 circa), edito in Tre trattati di Lauro Quirini sulla nobiltà, a cura di Konrad Krautter - Paul O. Kristeller - Helmut ob, in Lauro Quirini umanista, a cura di Vittore Branca, Firenze 1977, pp. 88-89 (pp. 19-102).
2. Ibid., p. 87.
3. Id., De republica (dedicato a Francesco Foscari), a cura di Carlo Seno - Giorgio Ravegnani, ibid., p. 152 (pp. 103-161). Cf. il De republica di Cicerone, II, 69. Sul pensiero politico dell'umanesimo veneziano, è fondamentale Margareth L. King, Venetian Humanism in an Age of Patrician Dominante, Princeton (N J.) 1986 (trad. it. Umanesimo e patriziato a Venezia nel quattrocento, I-II, Roma 1989); su Lauro Quirini, v. ibid., alle pp. 118-132.
4. Soltanto di recente sono stati compiuti tentativi coerenti con tale programma storiografico, che richiederebbe tuttavia ulteriori ricerche sistematiche. Cf. Ennio Concina, Venezia nell'età moderna, Venezia 1989; Hellmut Lorenz, Überlegungen zum venezianischen Palastbau der Renaissance, "Zeitschrift für Kunstgeschichte", 43, 1980, pp. 33-53; Paolo Maretto, La casa veneziana nella storia della città dalle origini all'ottocento, Venezia 1986; Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino 1985; André Wirobisz, L'attività edilizia nel XIV e XV secolo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 307-343.
5. Giovanni Caldiera, De oeconomia veneta libri duo, dedicati a Tommaso Gradenigo (Oxford, Bodleian Library, cod. Laud. Misc. 717, c. 90), citato in M. L. King, Venetian Humanism, p. 103 n. 33.
6. Oxford, Bodleian Library, cod. Laud. Misc. 717, c. 91, cf. M. L. King, Venetian Humanism, p. 103 n. 34. Cf., sul tema, M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 3 ss.
7. Oxford, Bodleian Library, cod. Laud. Misc. 717, c. 89v, cf. M. L. King, Venetian Humanism, p. 105 n. 38.
8. Domenico Morosini, De bene instituta re publica, a cura di Claudio Finzi, Milano 1969, pp. 98-99.
9. Marcantonio Sabellico, De venetis magistratibus liber unus (dedicato al doge Agostino Barbarigo), in Id., Opera, Venetiis 1502, c. 94v (cc. 94v-104v).
10. Su Domenico Grimani cf., principalmente, Tiara et purpura veneta, Roma 1750, pp. 80-84; Pio Paschini, Domenico Grimani cardinale di San Marco, Roma 1943; Marylin Perry, Domenico Grimani's Legacy of Ancient Art to Venice, "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", 41, 1978, pp. 215-244; Delio Cantimori, Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino 1975, pp. 64-68; Pearl Kibre, Cardinal Domenico Grimani "Quaestio de Intermissione et Remissione Qualitatis": A Commentary on the Tractate of that Title by Richard Suiseth (Calculator), in Didascaliae. Studies in Honor of Anselm M. Albareda, a cura di Sesto Prete, New York 1961, pp. 149-203; Giorgio Padoan, Ruzante e le "merdolagie" di Domenico Grimani ("Prima Oratione", 36-37), in Id., Momenti del Rinascimento Veneto, Padova 1978, pp. 227-238; Pier Cesare Ioly Zorattini, Gli ebrei a Venezia, Padova e Verona, in AA.VV, Storia della Cultura Veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 564-565 e 567-568 (pp. 537-576); Antonio Foscari - Manfredo Tafuri, L'armonia e i conflitti. La chiesa di San Francesco della Vigna nella Venezia del '500, Torino 1983, passim; Corrado Pin, Un'opera nuova sarpiana: il trattato "Giurisdizione nelle terre patriarcali del Friuli", in Atti del Convegno di Studi Fra Paolo Sarpi dei Servi di Maria, Venezia 28-29-30 ottobre 1983, a cura di Pacifico Branchesi - Corrado Pin, Venezia 1986, pp. 241-260. Per la rivalità fra Domenico Grimani e Marco Corner, cf. Robert Finlay, Politics in Renaissance Venice, London 1980, pp. 153 ss. (trad. it. La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982).
11. Cf. P. Kibre, Cardinal Domenico Grimani.
12. Paolo Cortese, De cardinalatu, Castel Cortesiano 1510, p. CCXLII.
13. C. Pin, Un'opera nuova sarpiana, pp. 251 ss.
14. La lettera dell'architetto è in Udine, Archivio di Stato, Notarile, b. 5545, cc. 15v-16r. Sul castello di Udine cf. Antonio Battistella, Il castello di Udine, Udine 1929; Tito Miotti, Castelli del Friuli, II, Udine 1977, pp. 357-383. Su Giovanni Fontana, cf. Giuseppe Fiocco, L'architetto del castello di Udine, "Ce fastu?", 20, 1944, pp. 194-203; Andrea Guerra, Indagini su Tullio Lombardo architetto, tesi di laurea, Dipartimento di Storia dell'Architettura dell'IUAV, a. a. 1985-1986.
15. Cf. Udine, Biblioteca Comunale, Fondo principale, b. 927/1, cc. 184v e ss. Cf. anche Pio Paschini, Il cardinale Domenico Grimani nei suoi rapporti con il Friuli, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 35-36, 1939-1940, pp. 69-99.
16. Ibid., pp. 89-90.
17. Udine, Biblioteca Comunale, Fondo principale, b. 927/1 e b. 869/5, c. 10r-v; A.S.V., Luogotenenza alla Patria del Friuli, b. 280, fasc. 23, c. 14v.
18. Cf. Fulgenzio Micanzio, Vita del padre Paolo (1552-1623), in Paolo Sardi, Istoria del Concilio Tridentino, a cura di Corrado Vivanti, II, Torino 1974, p. 1376 n. 1. Cf. anche Pio Paschini, Il cardinale Marino Grimani nella diocesi di Concordia, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 37, 1941, pp. 71-88.
19. L'inventario firmato da Giovanni Battista Soria è a RoMA, Archivio del convento di San Marcello al Corso. Sulla distrutta villa Grimani cf. David R. Coffin, The Villa in the Life of Renaissance Rome, Princeton (N.J.) 1979, pp. 193-195.
20. Cf. John Shearman, Raphael, Rome and the Codex Escurialensis, "Master Drawings", 15, 1977, pp. 107-146 (trad. it. in Id., Finzione e illusione. Raffaello, Pontormo, Correggio, Milano 1983, pp. 43-76).
21. Oliver Logan, Culture and Society in Venice 1470-1790. The Renaissance and its Heritage, London 1972 (trad. it. Venezia. Cultura e società 1470-1790, Roma 1980), p. 256.
22. Sull'intera vicenda del sepulchrum dedicato al doge Antonio Grimani e della facciata di Sant'Antonio di Castello, cf. Antonio Foscari - Manfredo Tafuri, Sebastiano da Lugano, i Grimani e Jacopo Sansovino. Artisti e committenti nella chiesa di Sant'Antonio di Castello, "Arte Veneta", 36, 1982, pp. 100-123. Per l'intreccio con la storia di San Francesco della Vigna, si veda, Idd., L'armonia e i conflitti, pp. 135-137 e 196-204 (appendice documentaria, docc. 5-8). Sulle facciate veneziane di chiese utilizzate come cornici a monumenti privati, cf. Jan Bialostocki, Die Kirchenfassade als Ruhmesdenkmal des Stifters. Ein Besonderheit der Baukunst Venedigs, "Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte", 20, 1983, pp. 3-16.
23. Il disegno è conservato in Venezia, Museo Correr, Collezione disegni, cl. III, c. 6038r. Per l'attribuzione, con discussione delle ipotesi precedenti e la bibliografia relativa, vedi Antonio Foscari - Manfredo Tafuri, Un progetto irrealizzato di Jacopo Sansovino: il palazzo di Vettor Grimani sul Canal Grande, "Bollettino dei Civici Musei Veneziani", n. ser., 36, nr. 1/4, 1981, pp. 71-78. Per una sua lettura, con riferimenti al dibattito architettonico romano del primo Cinquecento, cf. Manfredo Tafuri, Aggiunte al progetto sansoviniano per il palazzo di Vettor Grimani, "Arte Veneta", 41, 1987, pp. 41-50.
24. Lorenzo Lotto, Libri di spese diverse (1538-1556), a cura di Pietro Zampetti, Venezia-Roma 1969, p. 284.
25. L'ipotesi è stata avanzata nel saggio di Marina Stefani Mantovanelli, Giovanni Grimani Patriarca di Aquileia e il suo palazzo di Venezia, "Quaderni Utinensi", 3/4, 1984, pp. 34-54. Sul palazzo a Santa Maria Formosa, cf. anche Rodolfo Gallo, Michele Sanmicheli a Venezia, in AA.VV., Michele Sanmicheli. Studi raccolti dall'Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere, Verona 1960, pp. 125-129, 143-148, 157-158; E. Bassi, Palazzi di Venezia, pp. 228-235; Marylin Perry, A Renaissance Showplace of Art: The Palazzo Grimani at Santa Maria Formosa, "Apollo", 113, nr. 230, 1981, pp. 215-221; M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 15-17. Al palazzo, alle collezioni Grimani, ai problemi del suo restauro, è stato dedicato, nel settembre 1984, un seminario di studi presso il Dipartimento di Storia dell'Architettura dell'IUAV. Gli atti sono in pubblicazione. Non può essere escluso che i portici dorico e ionico del cortile, così come l'idea di unificare con bugnato piatto le campate estreme all'esterno, risalgano a consulenze sansoviniane. Un modello, per la lunga facciata, potrebbe essere stato offerto dalla fronte di palazzo Salviati-Adimari a Roma, recentemente riconosciuto - per il piano inferiore - come opera di Giulio Romano. Comunque, l'eventuale apporto del Tatti - denunciato dalla soluzione anticheggiante data alle murature sovrastanti gli architravi dorici del cortile va considerato estemporaneo e parziale. Cf., per la soluzione di cui sopra, Mario Piana, Tecniche edificatorie cinquecentesche: tradizione e novità in laguna, in D'une ville à l'autre: structures matérielles et organisation de l'espace dans les villes européennes (XIIIe-XVIe siècle), a cura di Jean-Claude Maire-Vigueur, Roma 1989, pp. 637-639 e fig. 4 (pp. 631-639). Di certo, lavorano nel palazzo di Santa Maria Formosa altri architetti, oltre Sansovino. Per alcune singolari soluzioni, è stato proposto il nome di Giovanni Battista Bertani. Anche per quanto riguarda l'architettura, la mentalità del committente è quella del collezionista. Il che ha un curioso parallelo, in età barocca, nella vicenda di palazzo Spada a Roma, sulla quale cf. Lionello Neppi, Palazzo Spada, Roma 1975. Sull'iconografia del committente, cf. Rodolfo Pallucchini, Un nuovo ritratto di Jacopo Tintoretto, "Arte Veneta", 37, 1983, pp. 184-186. Per una bibliografia su Giovanni Grimani vedi alla n. 78. Sul gusto di Giovanni Grimani e, in generale, sulle relazioni fra pittura e committenza a Venezia, cf. Michel Hochmann, Peintres et commanditaires à Venise (1540-1628), Roma 1992.
26. Cf. Marino Sanuto, I diarii, LVIII, a cura di Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi - Marco Allegri, Venezia 1903, p. 465 (per il giudizio di Andrea Gritti); Nunziature di Venezia, I, a cura di Franco Gaeta, Roma 1958, p. 301 (per la frase di Girolamo Aleandro). Sui gruppi "papisti" e sulla loro cultura, cf. Brian Pullan, The Occupations and Investments of the Venetian Nobility, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1974, pp. 379-400; Gaetano Cozzi, Politica, cultura e religione, in Cultura e società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di Vittore Branca - Carlo Ossola, Firenze 1984, pp. 21-42; M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 169 ss. e passim.
27. A.S.V., Senato Terra, reg. 28, p. 66, trascritto in Gian Giorgio Zorzi, Le chiese e i ponti di Andrea Palladio, Vicenza 1967, p. 247.
28. Cf. Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 217 ss.
29. A.S.V., Senato Terra, reg. 39, c. 187v, trascritto in G. G. Zorzi, Le chiese, pp. 247-248, doc. 4. Per una completa disamina delle vicende realtine, e in particolare di quelle cui si accenna nel testo, cf. Donatella Calabi - Paolo Morachiello, Rialto: le fabbriche e il ponte, Torino 1987. Sulla politica culturale del Gritti cf. "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984.
30. Per il ruolo di Vettor Grimani cf. il testo più avanti. Antonio Cappello risulta invece "Procurator Casier della chiesa". A.S.V., San Francesco della Vigna, b. 2, parte II, c. 51r-v. Sulla figura del Cappello, cf. Francomario Colasanti, Cappello, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 748-751.
31. A.S.V., Senato Terra, f. 20, trascritto in A. Foscari - M. Tafuri, L'armonia e i conflitti, p. 206 (doc. 10). A tale libro si rimanda per l'intera vicenda relativa alla chiesa di San Francesco della Vigna, al palazzo di Andrea Gritti e alla formazione del campo fra i due edifici, al ruolo svolto da Francesco Zorzi. Sull'opera di Jacopo Sansovino a Venezia, cf. Deborah Howard, Jacopo Sansovino. Architecture and Patronage in the Renaissance Venice, New Haven-London 1974, e Manfredo Tafuri, Giulio Romano e Jacopo Sansovino, in Giulio Romano, Atti del Convegno dell'Accademia Nazionale Virgiliana (Mantova 1989), Mantova 1991, pp. 75 ss. Cf. anche, per l'inserimento dell'opera sansoviniana nel contesto dell'architettura veneziana del XVI secolo, il saggio di Wolfgang Wolters in Norbert Huse - Wolfgang Wolters, Venedig. Die Kunst der Renaissance, München 1986 (trad. it. Venezia. L'arte del Rinascimento, Venezia 1990), pp. 45 ss.
32. Sulla storia della Libreria Marciana e sulle vicende che conducono alla sua realizzazione, cf. Marino Zorzi, La Libreria di San Marco, Milano 1982, con ricca bibliografia e appendice di documenti. L'opera sansoviniana per la Libreria è stata analizzata, principalmente, in Maria Luxoro, La Biblioteca di San Marco nella sua storia, Firenze 1954; Wolfgang Lotz, The Roman Legacy in Sansovino's Venetian Buildings, "Journal of the Society of Architectural Historians", 22, nr. 1, 1963, pp. 3-12 (trad. it. in Id., Saggi sull'architettura italiana del Rinascimento, Milano 1989, pp. 79-87); Id., La trasformazione sansoviniana di Piazza San Marco e l'urbanistica del Cinquecento, "Bollettino del Centro A. Palladio", 7, pt. II, 1966, pp. 114-122; Nicola Ivanoff, La Libreria Marciana: arte e iconologia, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 6, 1968, pp. 33-72; Manfredo Tafuri, Jacopo Sansovino, Padova 1969, pp. 44 ss.; Giovanni Battista Stefinlongo, La Libreria di San Marco, in AA.VV., Piazza San Marco. L'architettura, la storia, le funzioni, Venezia 1970, pp. 161-172; Deborah Howard, Two Notes on Jacopo Sansovino, "Architectura", 2, 1974, pp. 132 ss. (pp. 132-146); Ead., Jacopo Sansovino, pp. 10-28; Harmen Thies, Zum Cantonale der Markusbibliothek des Jacopo Sansovino in Venedig, "Architectura", 12, 1982, pp. 164-183; Paul Auberson, Tipologia architettonica e particolari: un angolo nel Sansovino e nel Palladio, "Bollettino d'Arte", ser. VI, 68, nr. 20, 1983, pp. 62-68 (con osservazioni inconsistenti); Thomas Hirthe, Il "foro all'antica di Venezia". La trasformazione di Piazza San Marco nel Cinquecento, Venezia 1986 (Centro tedesco di Studi Veneziani, quaderno 35); Id., Die Libreria des Jacopo Sansovino. Studien zur Architektur und Ausstattung eines öffentlichen Gebäudes in Venedig, "Münchner Jahrbuch der Bildenden Kunst ", 37, 1986, pp. 131-176. Cf. anche il saggio di Bruce Boucher, Il Sansovino e i Procuratori di San Marco, "Ateneo Veneto", n. ser., 24, nr. 1/2, 1986, pp. 59-74, che chiarisce le relazioni fra Sansovino, Antonio Cappello e la famiglia Grimani, anche per quanto riguarda il restauro del tesoro di San Marco, gli arazzi per il coro marciano, i Giganti e la Scala d'Oro. Cf. inoltre Donatella Calabi, Le due piazze di San Marco e di Rialto: fra eredità medievale e volontà di rinnovo, in città venete a confronto. Venezia, Padova, Vicenza, a cura di Umberto Curi - Luca Romano, Venezia 1991, pp. 31-44.
33. W. Lotz, La trasformazione sansoviniana, e D. Howard, Jacopo Sansovino, p. 15. Vedi anche Antonio Foscari, Il cantiere delle "Procuratie vecchie" e Jacopo Sansovino, "Ricerche di Storia dell'Arte", 19, 1983, pp. 135-152.
34. Anselmo Guisconi (Francesco Sansovino), Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia, Venetia 1556, p. 12.
35. Francesco Sansovino, Della Venetia città nobilissima et singolare, Venetia 1581, c. 112v.
36. W. Lotz, La trasformazione sansoviniana. Cf. anche T. Hirthe, Il "foro all'antica di Venezia".
37. Il documento è trascritto in D. Howard, Jacopo Sansovino, p. 163 n. 34.
38. Per i dibattiti relativi alla sistemazione tardocinquecentesca della Piazza e della Piazzetta, e per i documenti relativi ai lavori scamozziani, cf. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 252-271, e la bibliografia ivi annotata. Vedi inoltre Wladimir Timofiewitsch, Ein Beitrag zur Baugeschichte der "Procuratie Nuove", "Arte Veneta", 18, 1964, pp. 147-151.
39. A.S.V., Senato Terra, reg. 135, cc. 24v-25r, trascritto in Pietro Selvatico, Sulla architettura e sulla scultura in Venezia dal Medio Evo sino ai nostri giorni, Venezia 1847, pp. 345-346.
40. Cf. D. Calabi - P. Morachiello, Rialto.
41. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Comuni, fasc. 62, c. 88 (8 maggio 1554).
42. D. Howard, Two Notes, pp. 144-146; T. Hirthe, Il "foro all'antica di Venezia", pp. 15-16.
43. Vincenzo Scamozzi, L'Idea dell'Architettura Universale, Venezia 1615, parte II, libro VI, p. 171.
44. Fabio Glissenti, Discorsi morali dell'eccellente Fabio Glissenti contra il dispiacer del morire, Venetia 1596, Dialogo secondo, c. 59.
45. John McAndrew, recensione, "The Art Bulletin", 54, nr. 2, 1972, pp. 212-214.
46. Cf. T. Hirthe, Il "foro all'antica di Venezia", p. 15, che invoca la testimonianza di una sorprendente Vita di Sansovino, pubblicata nel Supplemento delle Croniche di Jacopo Filippo da Bergamo, Venezia 1540, c. 337v (in realtà, c. 389v). Ma il passo relativo alla Libreria, contrariamente a quanto afferma Hirthe, non è utilizzabile ai fini della nostra discussione. In esso è scritto soltanto che l'edificio, a due piani, dovrà contenere - oltre alla biblioteca nicena - gli uffici delle tre Procuratie: che potevano essere ottimamente distribuite nei vani sulla sinistra dell'Antisala. È valida, al proposito, l'osservazione di Stefinlongo. Convalidando l'ipotesi di un progetto originario a diciassette arcate, egli nota come, dall'Antisala alla testata verso il Bacino, si sarebbero susseguiti vani modulati su un ritmo alternato di 1-3-1-3-1 arcate. Cf. G. B. Stefinlongo, La Libreria di San Marco, pp. 169-170.
47. Sulla Zecca cf., principalmente, Vincenzo Lazari, Scrittura di Jacopo Sansovino e parti del consiglio de' Dieci riguardanti la rifabbrica della Zecca di Venezia, Venezia 1850; Federico Berchet, Contributo alla storia dell'edificio della veneta Zecca, prima della sua destinazione a sede della Biblioteca Nazionale Marciana, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 69, pt. II, 1909-1910, pp. 339-386; Rodolfo Gallo, Contributi su Jacopo Sansovino, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 1, 1957, pp. 89-90 (documenti sull'addizione del terzo piano); Giorgia Scattolin, La Zecca, in AA.VV., Piazza San Marco. L'architettura, la storia, le funzioni, Venezia 1970, pp. 151-158; D. Howard, Jacopo Sansovino, pp. 38-47.
48. Al proposito, cf. Manfredo Tafuri, Palazzo Dolfin a San Salvador: un'opera ibrida di Jacopo Sansovino, in AA.VV., Venezia e la Roma dei Papi, Milano 1987, pp. 143-170. L'ipotesi relativa all'originaria planimetria di palazzo Caprini a Roma è nel saggio di Arnaldo Bruschi, Edifici privati di Bramante a Roma. Palazzo Castellesi e Palazzo Caprini, "Palladio", n. ser., 2, nr. 4, 1989, pp. 5-44.
49. La decisione circa le cinque botteghe sul ponte accanto alla Zecca è presa dai procuratori il 6 luglio 1531: A.S.V., Procuratia de supra, Atti, reg. 124, c. 112. Deborah Howard, che ha segnalato per prima tale documento, ha identificato nel padiglioncino in pietra d'Istria ora esistente le botteghe sansoviniane (cf. D. Howard, Two Notes, pp. 132-136 e Ead., Jacopo Sansovino, pp. 35-36). Ma è stato provato che l'edificio, neoclassico, corrisponde alla "terrazza pigmea" di cui parla il Pinali nella sua Relazione del 1814. La smentita definitiva dell'ipotesi è data dal progetto di Lorenzo Santi per la "serra e belvedere sul ponte della Zecca". Cf. Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento, Roma 1977, pp. 128-129 n. 92, e Id., Venezia nell'età del Canova, Venezia 1978, p. 186, scheda 263. Le botteghe sansoviniane, demolite per far luogo all'edificio del Santi, sono visibili in diversi documenti grafici (vedi, ad esempio, l'incisione di Giacomo Franco, Venezia, Museo Correr, inv. P.D. 2414). Ad archi bugnati, essi erano simili a quelle della Zecca. L'avanzamento di quest'ultimo edificio, deciso nel 1539, viene probabilmente proposto dall'architetto, oltre che per le ragioni funzionali da lui dichiarate, per ottenere un allineamento in precedenza non previsto: il disegno del piano terreno della Zecca ne scaturisce di conseguenza.
50. Il consiglio dei dieci raccomanda - approvando, il 13 luglio 1558, il progetto di ampliamento della Zecca - di "slargar i balconi che sono sul canton verso le colonne et far il sborador". Il che fa presupporre che alla data fosse ancora incerta l'idea di avanzare la Libreria verso il Molo. Cf. G. Scattolin, La Zecca, p. 157. A rigore, tuttavia, i balconi in questione avrebbero potuto aprirsi nella stretta calle fra i due edifici. Il fianco della Zecca, ancora scoperto, è visibile nel quadro del Pozzoserrato raffigurante l'incendio del palazzo Ducale (1577 c.).
51. Cf. n. 41.
52. A.S.V., Procuratia de supra, reg. 136, c. 34v.
53. Cf. D. Howard, Two Notes, p. 141.
54. Cristoph L. Frommel, Francesco del Borgo: Architekt Pius II. und Paulus II I. Der Petersplatz und weitere rdmische Bauten Pius II. Piccolomini, "Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte", 20, 1983, p. 152 (pp. 107-154).
55 Cf. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, p. 146 n. 51, con tutti i rimandi bibliografici relativi alla polemica sul disegno D18 del Museo Civico di Vicenza. Cf. inoltre Lionello Puppi, Palladio. Corpus dei disegni al Museo Civico di Vicenza, Milano 1989, scheda 49 a p. 112.
56. Per il disegno sangallesco, v. il Taccuino senese, c. 25v: cf. Il taccuino senese di Giuliano da Sangallo, a cura di Ludovico Zdekauer, Siena 1902, tav. XXVI. L'intera architettura sansoviniana a Venezia è cosparsa di citazioni toscaneggianti. I modelli della Badia Fiesolana e di San Salvatore al Monte echeggiano in San Francesco della Vigna, il frontone della Scuola della Misericordia è palesemente albertiano, gli angoli a muratura viva in San Martino e in San Giuliano rinviano di nuovo alla Badia Fiesolana. La facciata medievale di quest'ultima, inoltre, sembra "tradotta" in linguaggio rinascimentale nella fronte della perduta chiesa di Santo Spirito in Isola. La planimetria di villa Garzoni, infine, sembra tener conto di quella progettata da Giuliano da Sangallo a Fiesole. Cf. Giuseppe Marchini, Aggiunte a Giuliano da Sangallo, "Commentari", 1, nr. 1, 1950, pp. 34-38. Sulle radici fiorentine della scultura sansoviniana, cf. Bruce Boucher, Jacopo Sansovino e la scultura veneziana del Manierismo, in Cultura e società nel Rinascimento, a cura di Vittore Branca - Carlo Ossola, Firenze 1984, pp. 335-350; Id., The Sculpture of Jacopo Sansovino, I-II, New Haven and London 1991; e le preziose annotazioni contenute in Charles Davis, Jacopo Sansovino and the Italian Plaquette, in Italian Plaquettes, a cura di Alison Luchs, Washington 1989 (Studies in the History of Art, 22), pp. 265-289. In tali memorie formali è forse da vedere uno strumento di autoidentificazione dell'artista, che tuttavia non mostra eccessive nostalgie per la patria fiorentina.
57. Cf. F. Sansovino, Della Venetia, cc. 112r-113r. Al proposito, cf. Vincenzo Fontana, "Arte" e "Isperienza" nei Trattati d'Architettura veneziani del Cinquecento, "Architectura", 8, 1978, pp. 51-52 n. 4 (pp. 49-72).
58. In una lettera non datata, ma anteriore al 1548, Tolomei risponde a interrogativi relativi a problemi vitruviani postigli da Francesco Sansovino, dichiarando di avere difficoltà al proposito, per essersi "già quattro anni disviato da tali studi". Dionigi Atanagi, De le lettere di tredici huomini illustri, Venetia 1554, pp. 396-397. Cf. Pier Nicola Pagliara, Vitruvio da testo a canone, in Memorie dell'antico nell'arte italiana, III, Dalla tradizione all'archeologia, a cura di Salvatore Settis, Torino 1986, p. 73 e n. 34.
59. Non è pertanto accettabile quanto scritto da Foscari circa la scelta di motivi anticheggianti già "acclimatati" nell'arte veneziana, che, secondo l'autore, avrebbe guidato la configurazione della Libreria. Tra l'altro, Foscari non considera la dirompente novità, per Venezia, insita nell'uso sansoviniano degli ordini. Ugualmente da respingere sono le ipotesi dello stesso autore circa il "cantonale" della Libreria, smentita, oltre che dalla data incisa in un sottarco, da un documento del 1539 a suo tempo segnalato da Deborah Howard (Jacopo Sansovino, p. 164 n. 60). Cf. Antonio Foscari, Festoni e putti nella decorazione della Libreria di San Marco, "Arte Veneta", 38, 1984, pp. 23-30; Id., Altre schede veneziane su Jacopo Sansovino, "Notizie da Palazzo Albani", 12, nr. 1/2, 1982, pp. 139-145 (pp. 135-152).
60. Francesco Sansovino, Del Secretario, VII, Dedica al Cavalier Leoni aretino, Venezia 1591, cc. 215-218v.
61. F. Glissenti, Discorsi morali, Dialogo secondo, c. 59.
62. Cf. al proposito, Chiara Frugoni, Una lontana città. Sentimenti e immagini del Medioevo, Torino 1983, pp. 180 ss.
63. Cf. Edward Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton 1981 (trad. it. Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984); Id., Manifestazioni e cerimonie nella Venezia di Andrea Gritti, in "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, pp. 59-77. Si veda inoltre la delibera del maggior consiglio dell'11 giugno 1531, con cui si provvede a "tener la Piazza nostra verso le colone libera et expeditta da ogni impedimento", con la rimozione di botteghe provvisorie, eccettuati "li tempi della Sensa". Cf. D. Howard, Jacopo Sansovino, p. 162 n. 23.
64. Cf. Dominique Laporte, Storia della merda, Milano 1979.
65. Sulle proposte di nuova residenza ducale e sul loro significato politico, cf. Manfredo Tafuri, Il disegno di Chatsworth (per il palazzo Ducale di Venezia?) e un progetto perduto di Jacopo Sansovino, in Andrea Palladio: nuovi contributi, a cura di André Chastel - Renato Cevese, Milano 1990, pp. 100-111; con la bibliografia precedente nelle note.
66. Cf. A. Foscari-M. Tafuri, L'armonia e i conflitti, pp. 24-29.
67. A.S.V., Savi alle Decime, red. 1537, cond. 35, San Marco, condizione di Andrea Gritti.
68. Cf. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 284-286.
69. Cf. E. Bassi, Palazzi di Venezia, pp. 252-254.
70. E. Concina, Venezia nell'età moderna, pp. 107-110. Cf. anche Manfredo Tafuri, Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti, Torino 1992, pp. 338-346.
71. D. Calabi - P. Morachiello, Rialto, pp. 142-159. Cf. anche M. Tafuri, Giulio Romano e Jacopo Sansovino.
72. A.S.V., Sant'Antonio di Castello, T. X. c. 133r. Cf. A. Foscari - M. Tafuri, Sebastiano da Lugano, p. 120.
73. Sebastiano Serlio, Il Terzo libro, Venetia 1540, p. 94. Cf. Alberto Jelmini, Sebastiano Serlio. Il trattato di architettura, Locarno 1986, pp. 50-52.
74. Sebastiano Serlio, Libro VIII delle fortificazioni; München, Bayerische Staatsbibliothek, Cod. Icon. 190, c. ir.
75. Lionello Puppi, Un viaggio per il Veneto di Antonio da Sangallo e di Michele Sanmicheli, in Antonio da Sangallo il Giovane, a cura di Gianfranco Spagnesi, Roma 1986, pp. 101-107. Sul gusto di Marino, cf. inoltre Pio Paschini, Il mecenatismo artistico del cardinale Marino Grimani, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, II, Roma 1958, pp. 79-88.
76. Sulle relazioni fra i due architetti, in particolare nei cantieri romani di San Giovanni dei Fiorentini e di San Marcello al Corso, cf. Manfredo Tafuri, Antonio da Sangallo il Giovane e Jacopo Sansovino: un conflitto professionale nella Roma medicea, in Antonio da Sangallo il Giovane, a cura di Gianfranco Spagnesi, Roma 1986, pp. 79-99; Id., Ricerca del Rinascimento, pp. 159 ss.
77. Bruno Adorni, L'architettura farnesiana a Piacenza 1545-1600, Parma 1982, pp. 25 ss.
78. Peter J. Laven, The "Causa Grimani" and Its Political Overtones, "Journal of Religious History", 4, 1966-1967, pp. 184-205. Sulla figura di Giovanni Grimani, cf. inoltre Giuseppe De Leva, Giovanni Grimani Patriarca d'Aquileia, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", ser. V, 7, 1880-1881, pp. 407-454; Luigi Carcereri, Giovanni Grimani Patriarca d'Aquileia accusato d'eresia, Roma 1907; Pio Paschini, Il mecenatismo artistico del Patriarca Giovanni Grimani, in AA.VV., Studi in onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni, III, Milano 1956-1957, pp. 851-862. Cf. inoltre William R. Rearick, Battista Franco and the Grimani Chapel, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 2, 1959, pp. 107-139; A. Foscari - M. Tafuri, L'armonia e i conflitti, pp. 131 ss. In tali ultimi testi è la documentazione relativa alle opere commissionate dal Grimani in San Francesco della Vigna. Un documento inedito, segnalatomi gentilmente da Ennio Concina, parla di lavori sansoviniani nella cappella Grimani intorno al 1559.
79. Sul Vitruvio di Daniele Barbaro, cf. i saggi di Manfredo Tafuri e di Manuela Morresi premessi a Vitruvio, I dieci Libri dell'Architettura, tradotti e commentati da Daniele Barbaro, 1567, Milano 1987.
80. Cf. Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, p. 29, e Paul F. Grendler, The "Tre Savii sopra Eresia" 1547-1605: a Prosopographical Study, "Studi Veneziani", n. ser., 3, 1979, p. 320 n. 55 (pp. 283-340).
81. Venezia, Archivio Segreto della Curia Patriarcale, Visitationes Apostolicae Anno MDLXXXI, c. 16r (26 maggio 1581).
82. Venezia, Archivio della Curia Patriarcale, Liber Instrumentorum Capitulorum Ecclesiarum R 1590-1599, cc. 43r e 44r-v (g marzo 1593).
83. Il contratto del 1559 è stato pubblicato, con molte inesattezze, in Antonio Magrini, Memorie intorno la vita e le opere di Andrea Palladio, Padova 1845, pp. XVII-XIX, e non è stato più riletto. Esso è conservato a Venezia, Archivio della Curia Patriarcale, Liber Instrumentorum Cur. Patr. V, fasc. 5, cc. 128r-v e 129r-v (7-9 gennaio 1558 m. v. = 1559). Sul perduto progetto palladiano, cf. Lionello Puppi, Andrea Palladio, I-II, Milano 1973: II, pp. 321-323, con la bibliografia precedente. L'unico testo in cui sia formulata un'ipotesi plausibile, a tutt'oggi, è il volume di Roberto Pane, Palladio, Torino 1961, pp. 289-290. Cf. per altri tentativi di ricostruzione, Antonio Foscari, "Accordo" per la facciata della chiesa di San Pietro di Castello in Venezia, in AA.VV., Contributi su Andrea Palladio nel quarto centenario della morte (1580-1980), Venezia 1982, pp. 57-78; Christian A. Isermeyer, La concezione degli edifici sacri palladiani, "Bollettino del Centro A. Palladio", 22, 1980, pp. 259-268. Per il grafico di ricostruzione qui proposto, eleborato sulla base di una rigorosa lettura del contratto originario e sotto la guida del sottoscritto, cf. Pierangela Sabbadin, San Pietro di Castello: Andrea Palladio e Francesco Smeraldi, tesi di laurea, Dipartimento di Storia dell'Architettura dell'IUAV, a.a. 1987-1988.
84. Giorgio Vasari Le vite [...], a cura di Gaetano Milanesi, VII, Firenze 1881, pp. 529-530. Sulla facciata palladiana di San Francesco della Vigna e sul disegno D17 del Museo Civico di Vicenza, cf. A. Foscari - M. Tafuri, L'armonia e i conflitti, pp. 146 ss.
85. Howard Burns, Le opere minori del Palladio, "Bollettino del Centro A. Palladio", 21, 1979, pp. 23-24.
86. Cf. Paolo Paruta, Della perfettione della vita politica, Venetia 1579, cap. II.
87. Un'acuta e convincente ipotesi circa il significato autopromozionale della dedica palladiana del terzo e del quarto Libro ad Emanuele Filiberto di Savoia è stata avanzata nel saggio di Gaetano Cozzi, La politica culturale della Repubblica di Venezia nell'età di Giovan Battista Benedetti, in Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del Cinquecento, Atti del convegno Internazionale su G. B. Benedetti e il suo tempo, Venezia 1987, pp. 22-24 (pp. 9-27). La celebrazione del principe, nella speranza di essere assunto come architetto di Stato, implica, nell'ipotesi del Cozzi, una critica al tradizionalismo prevalente nella classe dirigente veneziana.
88. Cf. D. Calabi - P. Morachiello, Rialto, pp. 219 ss.