Il rapporto tra mente e cervello
La questione della relazione tra mente e cervello si presenta, fin dalle origini della cultura occidentale, come centrale nell’analisi del soggetto umano. Sul tema si sono sviluppate nel tempo diverse teorie, alcune delle quali si ripropongono nel dibattito attuale. Negli ultimi decenni, infatti, lo sviluppo delle neuroscienze e le avanzate conquiste nella ricerca computazionale stanno proponendo ulteriori nuovi contributi allo studio della relazione mente-cervello, ma gli aspetti soggettivi dell’attività psichica mantengono la questione aperta a diverse prospettive scientifiche e filosofiche.
Da un punto di vista lessicale i termini cervello e mente sono considerati quasi sinonimi. Eppure, se il significato del primo è immediatamente individuabile nell’organo fisico posto nella cavità cranica, la parola mente manca di un correlato oggettivo univoco e si riferisce all’insieme delle attività cognitive di ogni essere vivente che sia dotato di coscienza, pensiero, linguaggio. A rendere complessa la definizione della mente ha contribuito per millenni la parziale sovrapposizione di questa con il concetto di anima, intesa come entità immortale ed esclusiva dell’individuo umano. Solo in epoca moderna, e nel contesto della ricerca scientifica, la concezione del mentale si è svincolata da una visione animistica e la ricerca sulle facoltà del pensiero umano si è sviluppata in una sostanziale continuità con quella sul mondo biologico. Le riflessioni sulle conquiste della genetica e della biologia evoluzionistica sollecitano a cercare soluzioni che integrino la mente nei processi naturali, accogliendo il rapporto tra cultura e natura. Eppure nel dibattito sulla questione mente-cervello resta irrisolto un problema epistemologico di fondo che trae origine dalla divisione tra due storiche tendenze del pensiero filosofico, quella unitaria e quella dualistica: la prima negatrice di nette distinzioni fra corpo e anima (o mente), ammettendo quindi la possibilità di ricondurre tutte le attività umane alle strutture fisiologiche dell’organismo; la seconda impegnata a distinguere e contrapporre corpo e anima (o spirito o mente) come due realtà ontologicamente diverse e separabili.
Teorie della mente
Ci limiteremo a segnalare come tra il 19° e il 20° sec. la tradizionale distinzione tra approccio unitario e approccio dicotomico abbia assunto nuove caratteristiche.
Il fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud sviluppò intorno agli anni Novanta del 19° sec. una teoria della mente fondata sulla ricerca neurofisiologica da lui condotta e descritta in un saggio sulla psicologia scientifica del 1895 dal titolo Entwurf einer Psychologie (trad. it. in Opere 1892-1899, 2° vol., 1968). Successivamente superò la concezione rigorosamente fisica del riduzionismo unitario, sostenendo che una localizzazione anatomica dell’esperienza cosciente o la descrizione del meccanismo di attivazione di determinate serie di neuroni, con i metodi di indagine allora possibili, non erano in grado di spiegare le complessità delle dinamiche psichiche. D’altro canto, l’approccio psicoanalitico è intrinsecamente unitario, in quanto considera la mente come un’entità dinamica intimamente connessa e fondata sui processi corporei. Nel pensiero freudiano l’Io è, originariamente, un Io corporeo e il concetto di pulsione e la teoria della sessualità presentano implicazioni biologicamente determinate che sono innate e spingono all’azione.
Come era prevedibile, tuttavia, in un’epoca di entusiasmo scientifico il diffondersi delle intuizioni freudiane sulle caratteristiche del funzionamento della mente e, soprattutto, la teoria dell’inconscio sollevarono difese e opposizioni nel mondo scientifico ed emersero così nuove tendenze che tornavano implicitamente a proporre la dicotomia cartesiana tra res cogitans e res extensa, concentrandosi su quest’ultima con un approccio unitario riduzionistico.
Si ricorda, tra l’altro, che nel 19° sec. vi era la tendenza a ricondurre tutti i termini e le asserzioni che fanno riferimento a condizioni dello stato mentale ad asserzioni che sono deducibili dall’osservazione del comportamento. Gli psicologi statunitensi John B. Watson e Burrhus F. Skinner hanno il merito di aver scoperto la prevedibilità e la controllabilità dei comportamenti umani attraverso la gestione degli stimoli antecedenti e di quelli conseguenti dell’ambiente esterno, che l’organismo riceve prima di attuare un comportamento o dopo che il comportamento è stato posto in essere. Il comportamentismo esprime la forma di funzionalismo più diffusa e implica il rifiuto più netto della psicologia introspettiva e del soggettivismo. La mente, secondo i comportamentisti, si conosce solo attraverso la descrizione del comportamento della persona.
Negli anni Sessanta e Settanta del 20° sec. la teoria del funzionalismo, sviluppata da Hilary Putnam e Jerry A. Fodor, sosteneva la realizzabilità multipla degli eventi mentali per la quale uno stesso evento può realizzarsi in stati neurocerebrali diversi. Ciò comporterebbe che tale realizzazione possa compiersi in stati e luoghi che presentano caratteristiche fisiche e chimiche completamente diverse da quelle neurofisiologiche. Ne seguirebbe che gli stati mentali sarebbero come un software che può essere utilizzato in hardware differenti. In termini funzionalistici gli stati mentali vengono visti come una mediazione causale tra input sensoriali e comportamenti di un individuo. Il funzionalismo sostiene che la possibilità di spiegare i comportamenti in relazione a stati interni è legata esclusivamente a elementi fisici.
Nello stesso periodo il cognitivismo si concentrò sulle modalità con le quali un’informazione viene recepita attraverso i sistemi senso-percettivi e quindi elaborata e immagazzinata al fine di renderla disponibile per un’ulteriore utilizzazione. Secondo tale tipo di approccio nel cervello sono presenti tre diversi livelli: il primo e il secondo sono rigorosamente legati a processi neurochimici, il terzo farebbe riferimento alla psicologia del senso comune, che si basa sulla spiegazione delle condotte di altre persone cui vengono attribuite le nostre stesse credenze. La psicologia cognitiva è una scienza multidisciplinare, che si avvale dei metodi, degli apparati teorici e dei dati empirici di numerose altre discipline, tra le quali: la psicologia, la linguistica, le neuroscienze, le scienze sociali e della comunicazione, la biologia, l’intelligenza artificiale e l’informatica, la matematica, la filosofia e la fisica. Il cognitivismo è anch’esso una forma di funzionalismo e sostituisce il comportamentismo, individuando e localizzando alcuni centri specifici del funzionamento della mente e descrivendone i sistemi neurofisiologici che sono competenti sui modelli operativi della relazione corpo-cervello-mente.
Dagli anni Ottanta del 20° sec. le teorie della mente hanno proposto nuovi vertici osservativi. Il filosofo statunitense John R. Searle ha rovesciato l’ottica funzionalista e sottolineato la presenza di un legame tra gli aspetti intrinsecamente semantici del linguaggio e l’intenzionalità degli atti linguistici (The rediscovery of the mind, 1992; trad. it. 1994).
Egli sostiene che stati fisici e stati mentali sono esattamente coincidenti e che la differenza tra i due stati è solamente di carattere epistemico e riconducibile a livelli diversi di descrizione. Si parla dunque di sistemi neuronali e di sinapsi in un contesto biologico e di stati mentali in contesti psicologici o culturali. La dicotomia tra mentale e biologico sarebbe superabile attraverso una visione di complementarità tra stati mentali e stati fisici per la quale i primi sono emergenti rispetto ai secondi. La coscienza viene a dipendere causalmente dagli stati neurofisiologici senza però ridursi nel suo essere ontologico allo stato fisico. Secondo Searle le esperienze che un individuo realizza in prima persona possono essere considerate epistemologicamente soggettive, ma sono allo stesso tempo anche oggettive in quanto esistenti, operanti, comunicabili e valutabili. Una particolare considerazione è dovuta al ‘darwinismo neurale’ di Gerald M. Edelman, che sostiene una teoria adeguata a spiegare la mente così come si manifesta negli esseri umani; le basi di tale teoria sono nella realtà biologica, negli aspetti evolutivi e funzionali del sistema nervoso e nella vita mentale dell’individuo. L’elemento che caratterizza la vita è la memoria, indispensabile per conoscere e apportare cambiamenti nell’organismo funzionali a superare le sfide dell’ambiente. L’esperienza e l’apprendimento vanno di pari passo con il mutamento organico ed evolutivo e sono essenziali per l’adattamento.
Edelman ha messo a punto una teoria biologica della mente da lui denominata darwinismo neurale o teoria della selezione dei gruppi neuronici (TSGN), proposta per la prima volta nel 1987. Edelman ha iniziato la sua ricerca muovendosi dall’osservazione delle molteplici variazioni dovute ai processi epigenetici riscontrabili nel sistema nervoso e, in particolare, nelle fini ramificazioni neuronali. Il gruppo neuronale è il nucleo centrale della TSGN. Esso è costituito da centinaia o migliaia di neuroni fortemente interconnessi tra loro. Su tale variabilità agisce la selezione che ha tre diversi momenti: sviluppo, esperienza e rientro. Mappe di gruppi neuronali si organizzano sulla base degli stimoli provenienti dal mondo esterno per dare luogo a repertori secondari. Questa struttura di mappe è alla base del funzionamento della memoria, la quale va intesa come processo di ricategorizzazione dell’esperienza. Ne consegue che il sistema nervoso può essere definito come un sistema di riconoscimento che ha il compito di classificare e categorizzare l’intera esperienza sensoriale, per costruire gradualmente nella mente un modello adeguato del mondo circostante. Le esperienze hanno la capacità di allertare gran parte del cervello, in particolare quelle aree interessate alla categorizzazione e alla reazione all’evento. Si pone pertanto la possibilità che con l’esperienza una nuova classe di eventi divenga progressivamente capace di attivare dei sistemi di valore.
La TSGN riguarda l’organizzazione iniziale dell’anatomia del cervello durante la fase di sviluppo. La successiva selezione di schemi di risposta nel corso dell’esperienza costituisce il fenomeno del rientro, cioè il processo di scambio di segnali fra mappe che dà origine a funzioni specifiche del comportamento. Edelman sostiene che è proprio di ogni individuo andare incontro nell’arco della vita a una selezione continua di cellule o di gruppi di neuroni che fanno parte di una mappa o di altre presenti nel cervello. Ne consegue che le funzioni cerebrali si formano secondo un processo interattivo e selettivo continuo che dà luogo a uno schema di gruppi neuronici di ulteriore complessità.
In base a ciò Edelman sostiene che ogni percezione è un atto creativo. Il cervello ha inoltre la caratteristica di poter creare esso stesso mappe di nuove mappe e quindi dare luogo a una segnalazione rientrante capace di modificare e affinare l’esperienza stessa. Di notevole interesse appare il modello della gruppalità che è presente nel funzionamento delle reti neurali. Le gruppalità, infatti, hanno la possibilità di realizzarsi attraverso strutturazioni di sistemi e di sottosistemi che portano in sé stessi un principio ordinatore specifico di ogni singola funzione. Nel corso di tale ulteriore organizzazione le reti che si costituiscono in gruppi neuronali vanno incontro a momenti di ulteriore sviluppo in estensione oppure di riduzione, in rapporto, quest’ultima, al fenomeno di amputazione di ‘rami secchi’. Esistono valori innati e indispensabili per costruire un mondo che è personale e composto di significati e di riferimenti.
La coscienza di ordine superiore libera l’individuo dalla schiavitù del qui e ora e gli consente di riflettere e analizzare i propri sentimenti, di attingere alla cultura e alla storia e di raggiungere un nuovo ordine evolutivo e una nuova struttura mentale.
Secondo Edelman le scene della coscienza primaria per diventare consapevoli vengono ulteriormente sottoposte al processo di ricategorizzazione che consente la memorizzazione. Esisterebbero due tipi di memoria: una primaria che, attraverso una ‘autoelevazione semantica’, darebbe luogo a una memoria secondaria di natura superiore.
Lo psicobiologo italiano Alberto Oliverio, nel trattare le basi biologiche della memoria, sostiene che quella a breve termine sarebbe il risultato di un processo di assemblamento funzionale temporaneo di cellule nervose che stabiliscono connessioni reciproche. Qualora il processo si protragga a lungo darebbe luogo alla produzione di nuove e stabili connessioni sina-ptiche tra neuroni. Nel caso del potenziamento a lungo termine dell’attività elettrica sinaptica si determina, infatti, una modifica strutturale dei neuroni conseguente ad alterazioni enzimatiche e proteiche che a loro volta trasformano la struttura neuronale di base (il citoscheletro) e stimolano la formazione di connessioni sinaptiche. «Le variazioni delle caratteristiche del circuito nervoso permettono così di registrare l’informazione all’interno di reti neurali. […] Secondo questa teoria, la mente dipende dall’esistenza di reti in grado di autoorganizzarsi […]. Da questi cambiamenti della rete neurale deriva l’apprendimento» (Oliverio 2004, p. 231). Il ricordare non implica una semplice fotografia, la memoria viene influenzata in primo luogo dall’emozione, la quale determina importanti modificazioni somatiche che hanno il ruolo di consolidare le esperienze.
Natura dell’emozione
Un notevole contributo alla conoscenza del rapporto tra mente e cervello viene dallo studio di pazienti che hanno subito lesioni fisiche cerebrali.
Il neurologo portoghese Antonio R. Damasio riferisce su un caso clinico, noto nella letteratura neurologica, che ha fornito l’occasione per alcune importanti considerazioni fisiopatologiche (The Descartes’ error: emotion, reason, and the human brain, 1994; trad. it. 1995). Si tratta di Phineas P. Gage che, nel 1848, era caposquadra di una impresa di costruzioni e mentre lavorava alla costruzione di una ferrovia fu incidentalmente colpito da una sbarra di ferro che attraversò la scatola cranica per fuoriuscire dall’altra parte. Il rapporto tra lesioni cerebrali e menomazione dell’esperienza emozionale emerse chiaramente dalla relazione neurologica che consentì di individuare con precisione la zona della lesione cerebrale. L’apparente esiguità dei sintomi neurologici, tra i quali era compresa anche la perdita della vista dall’occhio sinistro, si confrontò con un clamoroso cambiamento della personalità. Non vi era più alcun rispetto delle convenzioni sociali, le decisioni erano prese indipendentemente dal proprio interesse, non vi era preoccupazione per il futuro, non un sistema di valori; ma l’attenzione, il linguaggio, la memoria e l’intelligenza erano apparentemente integri. Era presente una lesione delle cortecce prefrontali mentre era conservata l’integrità delle regioni cerebrali deputate al linguaggio e alla funzione motoria (la corteccia motoria e premotoria e l’area di Broca); intatte apparivano anche le cortecce sulla faccia laterale del lobo frontale.
Damasio riferisce inoltre su un caso di meningioma a rapida evoluzione localizzato nell’area mediana del cervello, al di sopra delle cavità nasali e del tetto dell’orbita. Dopo la rimozione chirurgica il paziente presentò un clamoroso cambiamento di personalità: non era più affidabile, si impegnava di meno nelle sue azioni, si imbarcava in operazioni finanziarie rischiose e non era più in grado di decidere o di svolgere un programma. Era compromesso il suo libero arbitrio ed era sopraggiunta la mania del collezionismo. Attraverso tecniche diagnostiche strumentali si evidenziò che erano stati lesi entrambi i lobi frontali e non era più operante larga parte delle cortecce frontali sul lato destro. Il paziente era in condizione di sapere ma non di sentire.
Damasio nega la dicotomia emozione-ragione: la ragione è guidata dalla valutazione emotiva delle conseguenze dell’azione, l’emozione ha la proprietà di influenzare i processi decisionali. La vita mentale si realizzerebbe attraverso il meccanismo dell’utilizzazione di informazioni derivanti dalle strutture nervose preposte all’elaborazione delle risposte affettivo-emotive e allo stesso tempo in relazione con i contenuti della memoria, che riemergono nel momento dell’esperienza.
Per descrivere il legame esistente tra mentale e somatico, Damasio introduce il concetto di ‘marcatore somatico’. Tipica, per es., la risposta cardiovascolare a un evento emotivamente coinvolgente con la comparsa di tachicardia, elevazione dei valori pressori e sintomi disfunzionali riferibili anche ad altri apparati.
Inoltre, Damasio sostiene che nel corso di un’emozione sono presenti attivazioni intercorrenti tra diverse regioni cerebrali sia attraverso la via ematica sia attraverso quella neurale (The feeling of what happens. Body and emotion in the making of consciousness, 1999; trad. it. Emozione e coscienza, 2000). Lo studio del caso Gage ha permesso a Damasio di individuare nell’area della corteccia frontale la funzione di mediare gli aspetti emotivi e cognitivi del comportamento. Ulteriori ricerche confermano che la coloritura emotiva propria di una decisione allo stato nascente si pone in relazione con le memorie emotive relative a pregresse esperienze.
Il neurobiologo francese Joseph LeDoux si è attivamente interessato ai rapporti tra struttura cerebrale ed eventi emozionali: l’emozione «può essere definita come il processo attraverso cui il cervello determina o computa il valore di uno stimolo» (2002; trad. it. 2002, p. 286). Può anche essere ritenuta come uno stato mentale accompagnato a variazioni fisiologiche dell’organismo conseguenti ad attivazione del sistema nervoso autonomo, che dà luogo a manifestazioni somatiche tipiche di ogni stato emozionale. Quando i sistemi neurali agiscono in un animale dotato di consapevolezza, si producono sentimenti emotivi coscienti quale, per es., la paura. Le emozioni sono occasionali, non possono essere comandate, sono sempre in rapporto a stimoli esterni e non è possibile esercitare alcun controllo diretto sulla risposte emotive. Inoltre, una volta che sono state provate, divengono il movente di comportamenti futuri per dettare le soluzioni operative al ripresentarsi di emozioni della stessa classe di appartenenza.
Più attento alla struttura dell’emozione lo psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco che, nel saggio sulla bi-logica dell’inconscio (The unconscious as infinite sets. An essay in bi-logic, 1975; trad. it. 1981), sostiene che questa è per sua natura un fenomeno psicofisico. Nelle sue componenti sono presenti due diversi insiemi di fenomeni: sensazione-sentimento e pensiero. La componente sensazione-sentimento comprende a sua volta due tipi di fenomeni, quelli che spingono all’azione e quelli sperimentati come stato corporeo. Matte Blanco sostiene la grande importanza che assume la relazione tra emozione e pensiero, ritenendo che non possa esistere un pensiero che non abbia un legame con l’esperienza emotiva. Anzi, questa precede il pensiero e ne è ‘madre’.
A questo proposito Oliverio (2004) sostiene ancora che alcuni aspetti delle emozioni abbiano un carattere innato. Mentre le strutture corticali del cervello sono prevalentemente implicate nelle attività cognitive, le strutture sottocorticali sarebbero responsabili di comportamenti istintuali connotati da vari contenuti emotivi, in particolare il sistema limbico sarebbe coinvolto in quelle emozioni che fanno parte del sistema genetico. Secondo altri l’amigdala sarebbe coinvolta nella paura e lo stimolo ansiogeno verrebbe convogliato verso il talamo, registrato poi nella corteccia sensoriale e quindi diretto verso l’ippocampo per essere memorizzato. Un’esperienza emotiva duratura di paura ha sempre una retroazione sul corpo. Il corpo è essenziale per un’esperienza emotiva perché fornisce le sensazioni che danno all’emozione il suo sapore immediato.
LeDoux sostiene che «quando siamo alle prese con un’emozione, vuol dire che sta accadendo qualcosa di importante, forse una minaccia alla nostra vita, e molte risorse cerebrali sono chiamate a occuparsi del problema. Le emozioni sono turbini di attività che mirano tutte allo stesso obiettivo» (The emotional brain. The mysterious underpinnings of emotional life, 1996; trad. it. 1998, p. 309). L’esperienza clinica e chirurgica ha dimostrato, per es., quanto la stimolazione di determinate zone del cervello, in occasione di interventi chirurgici, dia luogo sia a espressioni facciali sia a sentimenti di tristezza, scoppi di pianto immotivato e stato di grande melanconia.
Coscienza ed esperienza di sé
Il problema della coscienza non è univoco. Le neuroscienze al momento attuale non sono in grado di fornire dati sui meccanismi interni del cervello tali da poter spiegare il funzionamento della coscienza e come essa abbia la qualità di emergere dall’attività bioelettrica dei neuroni. Ciò che è possibile attendersi dalla ricerca è l’individuazione nelle strutture del cervello dei correlati neurofisiologici di ciascuna esperienza mentale. Nella consapevolezza che non potrà mai trattarsi di un’equivalenza che abbia il valore di una simmetria funzionale tra struttura neuronale e pensiero.
La Mind science foundation di Sant’Antonio (California) ha sponsorizzato un vivace dibattito, svoltosi presso l’Oxford University nel 2006, su quali siano i migliori correlati della coscienza. Questo dibattito (Koch, Greenfield 2007) dimostra che ogni percetto cosciente è associato a una specifica coalizione di neuroni che hanno un comportamento altrettanto specifico. La coalizione dipende dalla presenza di circuiti di attivazione nel tronco cerebrale e nel talamo. Questi gruppi neuronali specifici sarebbero i mediatori o gli artefici di distinte esperienze coscienti. I neuroni sono parte integrante di vaste reti e solo in quel contesto possono generare la coscienza.
Allo stesso tempo il contributo di altri ricercatori (Parnia 2007) ha messo in evidenza che la coscienza e la mente, in condizione di sospensione della circolazione cerebrale che si determina durante l’arresto cardiaco, continuano a funzionare, mentre si riscontra che l’attività elettrica del cervello è cessata. L’anestesia rinforza l’inibizione sinaptica e riduce l’eccitazione, gli anestetici alterano la proprietà emergente del cervello.
È stato dimostrato che un’enorme popolazione di neuroni tra il talamo e la corteccia scarica transitoriamente e coordinatamente, stabilendo una complementarità di azione tra loro. Tale lavoro di concerto alimenterebbe la coscienza. Reti di neuroni ad ampio raggio si disfano e si riformano in condizioni di coalizione esclusiva per ogni istante di attività. La possibilità di ulteriori avanzamenti della ricerca è legata alla disponibilità di apparecchiature capaci di produrre un’immagine del cervello attraverso la risonanza magnetica funzionale (brain imaging) a tempi brevissimi di risposta, tali da rendere sempre più rispondente l’immagine rilevata all’evento mentale che è in corso di attuazione, fino a trovare la perfetta corrispondenza tra loro.
Tuttavia, al momento attuale la ricerca non ha raggiunto la dimostrazione di come si abbinino simultaneamente fenomeni cerebrali a esperienze soggettive: le associazioni neuronali non creano la coscienza ma sono solo un indice dei gradi di coscienza. Le neuroscienze cercano di comprendere la modalità con cui il cervello condiziona e plasma la mente e in tal senso la posizione filosofica della relazione mente-cervello si confronta con quella neuroscientifica fondata su dati dimostrabili di realtà.
La struttura dell’emozione porta in sé stessa una componente somatica interattivamente e inestricabilmente congiunta con contenuti psichici non definibili e molte volte privi di un comune senso logico. Essa è caratterizzata dalla copresenza e dalla simultaneità di azione di queste due componenti fondamentali.
Memoria
In questi ultimi anni i neuroscienziati e gli psicoanalisti hanno dimostrato interesse per lo studio interdisciplinare della memoria in quanto elemento indispensabile per l’organizzazione strutturale della coscienza e dell’inconscio.
LeDoux (2002) sostiene che le esperienze lasciano il loro segno nel cervello attraverso il registro della memoria, la quale è un prodotto dell’attività sina-ptica presente e operante nei circuiti neuronali.
Per la maggior parte delle persone la memoria è la capacità di ricordare coscientemente e di richiamare alla mente ciò che è accaduto nei giorni, nelle settimane o negli anni precedenti. Tale memoria viene definita memoria esplicita o dichiarativa. Tutti i meccanismi dell’esperienza sono da ricondurre a un processo di selezione interna realizzato nella mente mediante una continua costruzione e decostruzione di sinapsi legate al succedersi di esperienze e di condizionamenti provenienti da eventi esterni.
La sinapsogenesi è un fenomeno presente tutta la vita che si estingue solo con la morte. Subito dopo la loro nascita i neuroni cominciano a separarsi, seguendo il loro destino di andare a far parte del rombencefalo, del mesencefalo, del proencefalo e di varie parti del tubo neurale. Questo processo di ordinamento viene assicurato da un particolare tipo di geni (detti omeotici) che controllano e assicurano lo sviluppo dell’ordinamento neuronale.
L’apprendimento è un processo che consiste nel richiamare nella mente quanto, attraverso l’esperienza e la memoria, è transitato nel sistema neuronale. La teoria del neodarwinismo considera parte integrante della coscienza il processo di adattamento sinaptico all’esperienza in rapporto a eventi di sottrazione e di utilizzo di nuove reti neuronali. Il biochimico Eric R. Kandel (2005; trad. it. 2007) sottolinea l’importanza della plasticità neuronale in rapporto al processo di ramificazione degli assoni e di formazione di nuove sinapsi nel corso sia dello sviluppo sia delle fasi successive di apprendimento. La plasticità sinaptica neuronale è presente lungo l’intero percorso delle vie neuronali fino alle implicazioni molecolari presenti nel funzionamento della memoria. La maggior parte delle strutture cerebrali è in grado di apprendere dall’esperienza, l’apprendimento è infatti una qualità propria delle sinapsi e partecipa alle qualità modali di funzionamento dei circuiti neuronali.
Secondo gli psicologi innatisti tutte le capacità umane sono presenti nel cervello, che è fortemente interconnesso, ma restano in attesa di essere selezionate in rapporto alle esperienze di crescita e agli stimoli che vengono dal mondo esterno.
Attaccamento, apprendimento e sviluppo sono aspetti della stessa realtà: i geni, l’ambiente, la selezione e l’istruzione contribuiscono alla strutturazione del cervello e alla formazione del Sé che emerge dal prodotto delle connessioni sinaptiche. Se la plasticità neuronale perinatale con il tempo si arresta, le sinapsi non cessano di modificarsi.
I circuiti cerebrali acquisiscono la loro funzione sulla base dell’attività neurale suscitata dall’ambiente. Altrettanto accade per la memoria la quale, in rapporto alle fasi dello sviluppo, assumerà le caratteristiche di memoria implicita, cioè relativa a esperienze precoci di vita mentale e di relazione con sé stessa e con l’ambiente, immagazzinate in epoca precedente alla comparsa della coscienza. Tale memoria ha sede nell’ippocampo e nelle regioni perippocampali ed è in connessione con i centri corticali olfattivi. I sistemi che funzionano in modalità implicita contribuiscono potentemente ai tratti più caratteristici della persona. La corteccia prefrontale consente un modulo di processamento specializzato per l’uso del linguaggio, e l’emergenza dell’istanza cognitiva è alla base di una radicale alterazione della struttura del cervello. È infatti lo strutturarsi del linguaggio che conferisce al cervello le sue peculiari proprietà. Il linguaggio, secondo LeDoux (2002), ‘impreziosisce’ la memoria di lavoro e rende unica la coscienza umana. La nostra consapevolezza cosciente dipenderebbe dalla nostra interpretazione linguistica delle personali esperienze di vita. È noto che il consolidamento del processo di memorizzazione avviene durante il sonno, e soprattutto in questa fase ha luogo la lenta interposizione delle informazioni delle reti neuronali in sede corticale. È stato sperimentalmente dimostrato che nell’ippocampo dei ratti durante il sonno avviene una ripetizione del pattern neurale, come se gli animali stessero sognando i luoghi che avevano esplorato in una fase cosciente, facendo pertanto riferimento a situazioni che nel sogno sono precluse alla coscienza.
Un aspetto importante della memoria riguarda la modulazione dei ricordi da parte dell’emozione. In questo ambito le strutture del sistema limbico giocano un ruolo critico: esistono numerose connessioni tra nuclei sottocorticali e corteccia che consentono a questa un doppio ruolo nei processi comportamentali. Da un lato la corteccia svolge complesse astrazioni in quanto sede di un’elevata attività mentale, dall’altro riceve informazioni dai recettori sensoriali e dai nuclei del sistema limbico e del prosencefalo che sono addetti al controllo degli stati interni e delle emozioni.
La memoria non ha un’unica sede cerebrale ma si situa in diversi nuclei e aree sottocorticali che sono tra loro interagenti. La possibile localizzazione di alcune funzioni non implica che esse dipendano da un’unica regione o che esse rispondano a un rigido determinismo. Si può infatti sostenere che molte delle nostre attività cognitive non si basano su semplici procedure di tipo logico-deduttivo, ma anche e soprattutto su forme di apprendimento tacito in cui possono interferire le implicazioni del corpo, delle emozioni e di altri fattori.
Malattia sinaptica
La psichiatria del 21° sec. (Hyman 2000) si pone numerosi problemi circa la complessità del cervello e la sua interazione con il mondo esterno, ossia quale ne sia la struttura, quale sia l’evoluzione di un processo fisiopatologico che dà luogo a sintomi clinici e inabilità, quale rapporto esista tra psicoterapia e cambiamento dell’assetto neuronale nella considerazione che, dal momento in cui in una terapia si propone una esperienza di apprendimento, questa implichi dei cambiamenti nelle connessioni sinaptiche. Si è potuto dimostrare che anche la psicoterapia, in associazione o meno con i farmaci, produce dei cambiamenti strutturali a livello neuronale. Gli stati mentali sono spiegabili facendo riferimento a complessi pattern di elaborazione delle informazioni che sono in parte presenti all’interno di determinati circuiti neuronali e in parte nell’interconnessione tra circuiti diversi. Le modificazioni delle connessioni sinaptiche e non delle molecole sono alla base della malattia mentale. Circuiti cerebrali ed esperienze psicologiche non sono cose distinte ma due modi diversi di descrivere la medesima cosa. Talvolta la psicoterapia agisce laddove la farmacoterapia fallisce.
La questione fondamentale non è se la malattia mentale abbia effettivamente un’origine neurale in natura, ma piuttosto conoscere la natura del cambiamento neurale che è presente nei pazienti con problemi psichiatrici.
Gli stati mentali non sono costituiti da molecole isolate o da combinazioni di esse, ma è il pattern di trasmissione all’interno dei circuiti più che le singole molecole a definire tali stati. La psichiatria biologistica dà importanza allo stato dei circuiti neuronali, in quanto esisterebbero dei farmaci ‘intelligenti’ che dalla via orale si dirigerebbero verso i circuiti difettosi. I farmaci avrebbero la capacità di normalizzare in modo selettivo le proprietà chimiche dei circuiti interessati. La psicofarmacoterapia ha certamente compiuto grandi progressi negli ultimi cinquant’anni e molti sono i farmaci oggi disponibili. Il vero problema consiste nel saper dare i farmaci adatti in relazione alle condizioni neuronali che si accompagnano a un determinato fenomeno. LeDoux conclude dicendo che «un’importante sfida per il campo delle neuroscienze è rappresentata dalla scoperta di come manipolare il cervello in modo che pazienti con disturbi mentali possano, da soli o con l’aiuto di un terapeuta, cercare di ripristinare la coesione sinaptica del Sé» (2002, p. 428), anche se il termine manipolazione non può non suscitare alcune perplessità.
Neuroscienze e psicoanalisi
Le acquisizioni recenti delle neuroscienze richiamano nuove attenzioni sull’originaria proposta scientifica di Freud che, nella sua attività di ricercatore e di clinico, si rivolge allo studio della mente partendo da un’attenta e rigorosa osservazione del malato. Freud propone un metodo scientifico, derivato dalla ricerca istologica e anatomo-clinica, per indagare sulla struttura del sistema nervoso e porre interrogativi e proposte nuove sul modello di funzionamento della mente. La psicoanalisi nasce infatti dalla neurologia e ha la finalità di prendersi cura della persona e del disagio mentale che quella persona porta con sé. Allo stesso tempo è una disciplina scientifica fondata sulla premessa dell’esistenza nella mente umana di un mondo inconscio il quale ha una propria logica e che è possibile indagare partendo dall’osservazione psicologica e clinica. Fin dall’inizio del proprio percorso di ricerca, Freud era convinto che nelle varie forme di nevrosi e di isteria non fosse possibile localizzare il disturbo in una sede specifica del cervello. In Entwurf einer Psychologie aspirava a «rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili, al fine di renderli chiari e incontestabili» (1895; trad. it. 1968, p. 201). Allo stesso tempo avanzava l’ipotesi che i disturbi della persona facessero riferimento a schemi funzionali ricorrenti in grado di assumere un significato patologico specifico. L’apparato mentale appare a Freud come un sistema di relazioni funzionali che deve trovare in qualche modo una propria struttura nei tessuti cerebrali. È del 1926 la nota affermazione: «Data l’intima connessione che vi è fra ciò che distinguiamo in fisico e psichico, dobbiamo ammettere che verrà un giorno in cui […] si apriranno nuove vie conducenti dalla biologia somatica e dalla chimica fisiologica alla fenomenologia delle nevrosi […] l’abisso che separa il corporeo dallo psichico continua a sussistere per la nostra esperienza e per i nostri sforzi pratici» (Hemmung, Symptom und Angst; trad. it. in Opere 1924-1929, 10° vol., 1978, p. 398). Traccia così il disegno futuro della psicoanalisi, nel convincimento della necessità di aprire un dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze.
Al momento attuale tale dialogo può passare attraverso il confronto e/o la sovrapposizione tra loro di modelli dinamici specifici fondati sull’interazione delle singole parti, prescindendo dall’individuazione di sedi specificamente deputate. Il funzionamento mentale può essere studiato nell’interazione per gruppi di vari sistemi funzionali tra loro organizzati nei tessuti del cervello. Quando si usa in fisiologia l’espressione funzione di un organo si tende a limitare il campo all’aspetto funzionale specifico di quel determinato organo, ma è anche necessario considerare quanto tale singolo aspetto si integri con altri dello stesso tipo e quindi come la funzione di quel dato organo tenda a superare i limiti stessi che le vengono attribuiti per comprendere anche qualità funzionali che sono in comune con altri organi. Per es., la funzione emodinamica del cuore si integra con la funzione respiratoria negli scambi gassosi che sono propri dell’alveolo polmonare e sono contemporaneamente condizionati dal fattore circolatorio che garantisce il flusso di sangue nel polmone. Allo stesso tempo possiamo considerare l’influenza della psiche, che a livello conscio o inconscio esercita il controllo di quella funzione. Si può concludere che i sistemi neuronali assumono una specificità di funzione in quanto sono integrati con altri sistemi. L’attività psichica appare necessariamente integrata con tutti i sistemi che garantiscono la vita. Questa concezione sistemica ripropone il concetto di mente, definito da Searle come proprietà emergente, non soltanto in quanto emergente dal sistema neurale ma anche da un più ampio sistema biologico che coinvolge numerosi altri sistemi tra loro interagenti. La psicoanalisi offre una chiave di lettura che è utilizzabile per molti eventi vitali nei quali è riscontrabile l’interazione circolare di molteplici causalità.
Freud ha sempre fondato le origini del mentale nel somatico. Basti ricordare quanto ha scritto nelle sue opere sulla natura degli istinti, l’Io corporeo, l’organizzazione della sessualità, le perversioni, le afasie, l’isteria, l’ipocondria. Particolare interesse hanno destato nella cultura psicoanalitica i rapporti esistenti tra memoria e modelli biologici della mente.
Lo psicoanalista statunitense Arnold H. Modell considera del tutto coerente la teoria della memoria formulata da Edelman, secondo la quale questa non è isomorfa all’esperienza ma consiste in una ricostruzione dinamica legata al contesto e stabilita per mezzo di categorie. Tale teoria appare confrontabile con il concetto freudiano di Nachträglichkeit, per il quale «la ripetizione di categorie affettive dolorose è una modalità cognitiva essenziale. In questo processo l’apparato motorio del paziente [...] evoca le risposte affettive del terapeuta per trovare una ‘corrispondenza’ percettiva, allo scopo di costituire una categoria affettiva» (A.H. Modell, Other times, other realities. Toward a theory of psychoanalytic treatment, 1990; trad. it. Per una teoria del trattamento psicoanalitico, 1994, p. 70).
D’altra parte già il modello edelmaniano della mente fa riferimento all’inconscio freudiano e certamente offre molte aperture a un dialogo con la psicoanalisi, per es. quando si sostiene che «esistono meccanismi inconsci che interrompono e interferiscono con il corso dei pensieri, che noi consideriamo invece chiari e manifesti» (G.M. Edelman, Bright air, brilliant fire. On the matter of the mind, 1992; trad. it. Sulla materia della mente, 1993, p. 227).
Ma l’inconscio cui si riferiscono i neuroscienziati è di natura diversa da quello freudiano, che è presente e strutturato fin dai primi momenti dell’ordinamento mentale con caratteristiche proprie dell’inconscio stesso e secondo leggi definite che non fanno riferimento a strutture neuronali. Fenomeni di natura diversa, opposta e associata possono essere compresi sotto questo termine. Nella visione neuropsicologica della memoria un’impronta sensoriale creata da un avvenimento esterno può fissare nel cervello una traccia (memoria) priva di ricordi (inconscio cognitivo), e allo stesso tempo un ricordo può rimanere inconscio non quando è dimenticato, bensì quando l’individuo non riesce a recuperarlo e a gestirlo (inconscio psicoanalitico). In altre parole, l’inconscio cognitivo non sa di sapere, mentre l’inconscio freudiano cerca di non sapere. Facile potrebbe apparire la possibile confusione dei due termini tra loro.
Secondo il modello psicoanalitico i processi mentali di cui il soggetto non è consapevole possono essere tali perché rimossi dalla coscienza oppure perché riferibili a epoche dello sviluppo mentale nelle quali non era ancora raggiunta la capacità rappresentazionale della mente. Conseguentemente, tali contenuti non potevano essere oggetto di rimozione ma piuttosto rimanevano inevitabilmente relegati come memorie arcaiche che non sono reperibili dalla coscienza anche se presenti nella mente. I lattanti che ricevono cure adeguate dalla madre o da un’altra persona costituiscono con questa un legame di attaccamento, che talvolta considera anche oggetti sostitutivi come il prototipo di tutti i successivi legami.
Mentre in passato la psicoanalisi poneva una netta distinzione tra istinti, passioni, eros e affetti, da un lato, e logos, scienza, religione e verità assoluta, dall’altro, oggi, più genericamente, riassume tale distinzione in termini di emozione e pensiero, tenendo conto dei livelli arcaici di funzionamento della mente, caratterizzati da una larga presenza di affetti ed emozioni, che, come tali, vengono ritenuti la cerniera tra il somatico e lo psichico. L’attività neuronale è considerata indispensabile per la formazione delle idee.
Fenomeni psicosomatici
Una considerazione a parte merita la visione attuale delle manifestazioni psicosomatiche.
Il termine psicosomatica è certamente un’espressione ambigua invalsa nella cultura psicologica e medica. È stato usato per definire una realtà teorico-clinica che fa riferimento al problema mente-cervello. Se gli orientamenti epistemologici si spingono verso la considerazione dell’unità indistinguibile dell’essere sé, il termine, al contrario, ne sottolinea la scissione e appare sempre appropriato limitarne l’uso. Infatti, l’edizione del 2000 del Diagnostic and statistical manual of mental disorders IV per indicare complessivamente questo genere di manifestazioni usa l’espressione somatoform disorders.
Da un punto di vista psicodinamico la psicoanalisi, seguendo il pensiero di Freud, pone una distinzione originaria tra due diverse direttrici con le quali interpretare il disagio psicosomatico.
La prima fa riferimento al meccanismo della conversione somatica, per il quale i sintomi somatici sarebbero l’espressione simbolica di un conflitto psichico vietato alla coscienza ma rimosso e convertito (non si sa bene come) in sintomo fisico.
La seconda direttrice fa riferimento alla nevrosi attuale per la quale i sintomi somatici non assumono alcun valore espressivo. Tali sintomi, al contrario, sono indicativi di una risposta automatica a un segnale d’allarme legato a uno stato di impotenza biologica e psichica che fa riferimento a un’epoca iniziale di sviluppo psichico del lattante, dal quale non è stata ancora raggiunta la capacità di astrazione e di simbolizzazione. Tale condizione di incapacità resta abitualmente presente nella mente ma rimossa dalla coscienza per tutto l’arco della vita e si riattualizza nella circostanza di dover fronteggiare nuove esperienze, vissute analogamente a quelle sofferenze precoci che la mente infantile non è stata in grado di elaborare. Questa seconda condizione di sofferenza si manifesta attraverso l’uso di modalità somatiche legate alla memoria neuronale. Gli ulteriori sviluppi dell’osservazione psicoanalitica e i recenti contributi che vengono dalle neuroscienze tendono sempre più a confermare l’attuale validità della seconda direttrice di riferimento.
Clinicamente possiamo oggi considerare ogni disagio come un’alterazione intrinseca del rapporto tra emozione e pensiero e ritenere che il problema psicosomatico propriamente detto sia correlabile a una patologia degli affetti e a una impossibilità di articolazione di questi con il pensiero. Ne segue che il disagio psicosomatico non è pensabile dalla persona che ne è affetta ma si concretizza come il precipitato di più fattori tra loro interagenti, esterni e interni, biologici, psicologici e intersoggettivi. Questi fattori si costituiscono in un’esperienza di sofferenza vissuta dalla persona e genericamente riferita a organi o sistemi funzionali di per sé indenni. Tale esperienza porta in sé quelle tracce di sofferenze precoci che sono rimaste più o meno nascoste (aree lacunari) in un livello di strutturazione della mente nel quale non è distinguibile il somatico dallo psichico e dall’intersoggettivo. La possibilità di individuare tali aree di sofferenza primaria è resa clinicamente possibile attraverso l’uso di metodologie di intervista che studiano le proprietà linguistiche delle espressioni verbali utilizzate dal paziente nell’enunciazione del proprio disagio.
Questa realtà clinica relativa a una sofferenza della relazione mente-cervello rimanda a modalità arcaiche di funzionamento della mente proprie dei primi mesi di vita. Il neonato, confrontandosi con le sollecitazioni che provengono dal mondo esterno, può essere spinto a ritrovare nella propria mente le tracce mnemoniche delle passate esperienze somatiche e riattualizzare pertanto i percorsi mentali che si sono costituiti in rapporto a situazioni di soddisfacimento e di insoddisfazione, di pieno e di vuoto, di caldo e di freddo ecc., attraverso cui rievocare e portare alla mente il contenuto dell’esperienza stessa e in qualche modo ritrovare il percorso di un’esperienza compensativa.
A tal proposito alcune prospettive di interpretazione possono giungere dalle recenti acquisizioni nel campo delle neuroscienze. Si è messo in evidenza che il cervello umano è dotato di un sistema di neuroni specchio (Rizzolatti, Sinigaglia 2006), localizzato nelle regioni parieto-motorie del cervello, nell’area di Broca e in larga parte della corteccia premotoria e del lobo parietale inferiore. A opera di tale sistema l’osservazione di un’azione prodotta da un altro induce nel cervello dell’osservatore l’attivazione dello stesso circuito nervoso deputato a controllarne l’esecuzione e quindi si produce l’automatica simulazione (denominata simulazione incarnata) della stessa azione nel cervello di colui che sta osservando l’evento, come accade, per es., nel cervello del bambino che sta osservando la madre. Tutto ciò avviene grazie alla presenza di reti neuronali che si costituiscono nel corso della relazione con il mondo esterno (madre o altri oggetti).
Il rapporto di transfert che il paziente può stabilire con il proprio analista, nel corso di un’esperienza psicoterapeutica, induce nel paziente stesso un cambiamento che è conseguente all’esperienza emozionale realizzatasi tra i due protagonisti. Infatti tale relazione, come sopra riferito, porta con sé una componente di pensiero, di tipo prevalentemente inconscio, che si intreccia con le risposte neuroendocrine, specifiche di quella esperienza emozionale. Il rispecchiamento (operato anche dai neuroni specchio) di tali contenuti dalla mente del terapeuta nella mente del paziente induce in quest’ultimo un’esperienza trasformativa sul piano mentale, che si accompagna, nel corso del rapporto terapeutico, a una trasformazione dell’assetto neuronale. Allo stesso tempo la somministrazione di un farmaco, se condotta tenendo presente il ruolo della relazione medico-paziente, oltre a determinare modificazioni della neurochimica sinaptica, offre un sostegno al paziente sul piano dell’esperienza del disagio, grazie a un cambiamento dell’esperienza di autopercepirsi nel proprio corpo e di essere sé.
La difficoltà che il pensiero occidentale ha avuto nel concettualizzare il corpo trova riscontro nell’impossibilità che ognuno ha di afferrare la propria immagine corporea. La percezione del proprio corpo è sempre mediata dall’immagine che gli altri hanno del corpo altrui. Anche l’immagine del corpo riflessa nello specchio non è mai fedele, perché non è sovrapponibile, essendo simmetrica. È lo sguardo dell’altro che dà forma alla propria immagine corporea, che si costruisce e si decostruisce nel continuo rapporto che l’Io ha con il mondo esterno. Appare evidente quanto sia ambiguo il senso comune che fa percepire il corpo come un’entità immutabile e autoreferenziale, mentre esso è inafferrabile. È un costrutto simbolico che nasce dal rapporto conflittuale del soggetto con la cultura e la storia del suo tempo. Una riprova della difficoltà che il soggetto ha a immaginare il proprio corpo si ha nel momento in cui esso è malato, perché è proprio attraverso la malattia che si prende maggiormente coscienza del corpo e lo si percepisce come qualcosa di estraneo e ostile.
La prospettiva psicoterapeutica è quella di «far dialogare senza sforzo alcuno il concetto neurologico di ‘marcatori somatici’ di Antonio R. Damasio […] con quello psicoanalitico […] di ‘fantasie difensive precoci’ di Eugenio Gaddini […] [cioè] forme rudimentali del pensiero come registrazioni mnestiche di cambiamenti di stati corporei» (Argentieri 2001, p. 148). Infine, per quanto si riferisce al problema del rapporto tra cervello e mondo interno, lo psicoanalista Mark Solms e il neuropsicologo Oliver Turnbull, in un loro contributo (2002; trad. it. 2004), così concludono: «Prima di poter controllare le teorie, dobbiamo stabilire i correlati neurologici dei concetti metapsicologici che sono a fondamento delle teorie psicoanalitiche» e, si potrebbe aggiungere, di tutte le teorie che affrontano il problema mente-cervello, cioè di rendere oggettivabile ciò che fa parte di una esperienza soggettiva legata al proprio mondo interno.
Il problema della relazione mente-cervello non è risolto né è risolvibile al momento attuale. Appare necessariamente legato ai percorsi evolutivi della specie e dell’individuo, confrontati con le continue nuove acquisizioni delle neuroscienze e con lo sviluppo della tecnica psicoanalitica, che tende ad applicare i fondamenti della propria teoria al trattamento e alla prevenzione del disagio mentale, considerato alla luce dell’interazione esistente tra i tre sistemi fondamentali dell’essere sé che sono appunto biologici, psicologici e intersoggettivi.
In questa rinuncia a una descrizione definitiva e completa del problema, resta valida la riflessione di Pietro Calissano che considera «le attività mentali come proprietà emergenti […] che pur essendo il frutto esclusivo dell’attività dei neuroni, non ne sono una semplice e diretta espressione funzionale. […] Le conoscenze che si vanno […] acquisendo sulle proprietà dei singoli neuroni prospettano una complessità funzionale tale da rendere ancora più impredicibili funzioni globali come quelle mentali» (2007, p. 374).
La formulazione di proprietà emergente dal cervello resta un concetto che al momento non può rispondere ai quesiti che la teoria freudiana ha lasciato aperti sulla natura dei processi mentali e sulle caratteristiche degli aspetti inconsci, poiché mentre l’esistenza dell’inconscio freudiano come proprietà fondamentale della mente è innegabile, al tempo stesso non può trovare una validazione da parte della ricerca scientifica. Il termine emergente porta in sé un’attribuzione di indefinitezza che ben si addice al ‘problema mente-cervello’.
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