Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sul finire degli anni Quaranta, applicando le regole dettate dal "bon sens" ad argomenti contemporanei, Augier introduce sulle scene francesi il dramma di attualità di argomento sociale. La rappresentazione dei pericoli che minacciano la solidità dell’istituzione familiare appassionano a tal punto il pubblico da indurre anche Ponsard ad abbandonare i prediletti temi classici e ad affrontare la rappresentazione della vita borghese contemporanea.
Tra comédie de mœurs e pièce à thèse
La rappresentazione della vita borghese contemporanea riscuote grandissimo successo presso il pubblico. Si tratta principalmente delle insidie dell’istituto familiare (L’aventurière, 1848) come l’adulterio (Gabrielle, 1849; L’honneur et l’argent, 1853; La bourse, 1856). Una sintesi più ardita di diversi modelli drammaturgici è tentata da Alexandre Dumas figlio nel ridurre per il teatro il proprio fortunato romanzo La signora delle camelie (1848). Attingendo a piene mani al sentimentalismo dei mélo – in netta ripresa dopo la crisi del dramma romantico – e alla tradizione del vaudeville – come risulta chiaramente dall’introduzione nel testo di brevi canzoni – il giovane Dumas compone un’opera che adatta alle regole della pièce bien faite quel particolare tipo di dramma romantico che si ispira ad Antony. Composta intorno al 1849, la pièce viene bloccata dalla censura e solo nel 1852 è rappresentata con successo al Théâtre du Vaudeville. Nel volgere di pochi anni la drammaturgia francese si arricchisce così di quel repertorio di commedie di costume di impronta realistica che invano Balzac aveva cercato di promuovere (Vautrin, 1840; La marâtre, 1848; Le faiseur, rappresentato postumo nel 1851 in forma rielaborata da Dennery e col titolo Mercadet).
Come risulta chiaramente dalla prefazione a Le fils naturel (1858), la rappresentazione del reale è per Dumas indissolubilmente legata a una preoccupazione moralistica tipicamente borghese. L’impegno didattico sotteso alla produzione drammaturgica di Dumas trasforma la semplice comédie de mœurs in pièce a thèse: attraverso l’inserimento nell’intreccio del cosiddetto raisonneur, personaggio portavoce delle tesi dell’autore, l’opera è chiamata a dare risposte "educative" ai più scottanti problemi di attualità. Fin dai titoli dei suoi lavori (Le père prodigue, 1859; L’ami des femmes, 1864; Les idées de M.me Aubray, 1867; La femme de Claude, 1873) emerge chiaramente l’interesse di Dumas per la tematica familiare e per la nuova posizione sociale della donna, interesse che, come dimostra il confronto tra La dame aux camélias e Le demi-monde (1855), si orienta verso una salvaguardia dei valori della famiglia.
Nel mutato clima del teatro francese, sempre più aperto alla rappresentazione "realistica" della vita, anche illustri romanzieri si cimentano nella scrittura teatrale ottenendo però modesti consensi: Le château des cœurs (1863) e Le candidat (1873) di Flaubert passano quasi sotto silenzio, una maggior fortuna tocca invece al Daudet di La lutte pour la vie (1889), L’obstacle (1890) e soprattutto L’Arlésienne (1872) musicata da Bizet.
Esattamente come accade per le pièces di Scribe e Sardou, il teatro di Dumas e i lavori composti da Augier nella seconda metà del secolo (Les effrontés, 1861; Le fils de Giboyer, 1862; M.me Caverlet, 1876) fanno scuola in tutto il mondo a partire dalla stessa Francia dove anche il mélo imbocca la strada della messa in scena di vicende contemporanee (Pierre Decourcelle, L’as de trèfle, 1883 e Gigolette, 1893).
Nei Paesi di lingua inglese la scelta di una drammaturgia realistica in alternativa al romanticismo anticipata da Dion Boucicault (London Assurance, 1841), è sostenuta con convinzione da Robertson (Caste, 1867) e Jones (The Silver King, 1882; The Case of Ribellious Susan, 1894; Saints and Sinners, 1882; Michael and his Lost Angel, 1896).
Emigrato negli Stati Uniti, Boucicault introduce le tendenze realistiche anche nel teatro nordamericano attraverso una serie di mélo a sfondo sociale (The Poor of New York, 1857; Jessie Brown: or the Relief of Luknow, 1858). Forte del precedente della riduzione teatrale di Uncle Tom’s Cabin, Boucicault giunge pure a toccare nei suoi drammi il problema razziale (The Octoroon or Life in Louisiana, 1859). Negli ultimi decenni del secolo l’esempio di Robertson è seguito in Inghilterra da Arthur Wing Pinero che, abbinando all’adattamento di commedie francesi la produzione di testi originali, fornisce ai teatri londinesi drammi di impegno sociale quali The Profilgate (1889).
In Italia Paolo Ferrari, dopo le biografie teatrali degli esordi (Goldoni e le sue sedici commedie nuove, 1851; La satira e Parini, 1856), sotto l’influsso di Augier e Dumas figlio tenta la strada delle pièce di "attualità" (Il duello, 1868; Il ridicolo, 1872; Le due dame, 1877). È però La morte civile di Giacometti (1861), melodramma "realistico" sul problema del divorzio, a dare l’avvio alla migliore drammaturgia borghese italiana che si snoda con percorso coerente lungo tutta la seconda metà del secolo. Da I mariti di Torelli (1867) a Come le foglie di Giacosa (1900), passando per Tristi amori dello stesso Giacosa (1887) e La moglie ideale di Marco Praga (1890), il teatro italiano del secondo Ottocento racconta l’ascesa e la crisi incipiente della borghesia nello stato unitario che si è da poco formato. Un curioso progetto di "imborghesimento" della tragedia in versi è perseguito da Pietro Cossa che sviluppa soggetti classici coniugando il romanticismo al realismo (Nerone, 1872; Cola di Rienzo, 1874; Messalina, 1876; I Borgia, 1878).
Paolo Giacometti
Corrado si mette da parte
La morte civile
Scena ultima - Rosalia, Palmieri, i suddetti.
ROSALIA: Che volete, Emma?
PALMIERI: Corrado?...
EMMA (a Palmieri): Ah, dimmi se è vero ciò che mi ha fatto credere il povero Corrado. Mia madre non è morta nel darmi alla luce? (a Rosalia) Parlate anche voi, toglietemi la spina dal cuore - siete voi... sei tu mia madre?
ROSALIA (con terrore e sorpresa) Ah!
PALMIERI: Che?... voi le diceste?
CORRADO: Tranquillatevi; le ho detto ancora che un nodo legittimo vi unisce a Rosalia.
PALMIERI: Come?
CORRADO: Perdonatemi se le ho svelato il segreto... ma potevo, dovevo farlo nel momento solenne in cui l’ostacolo che si opponeva alla pubblicazione del vostro matrimonio sparisce per sempre.
ROSALIA (spaventata): Sparisce?...
PALMIERI: Corrado, che avete voi fatto?
CORRADO: Ho riflettuto su ciò che vidi ed udii...
PALMIERI: Ah! temo di comprendere...
CORRADO: Su via dunque, o fanciulla, temete ancora che io vi abbia ingannata? (la prende per mano) Venite, che io vi unisca alla madre vostra, che vi veda abbracciate!... (serrandola fra le braccia della madre)
EMMA: Ah, il mio sogno!
ROSALIA (sempre spaventata): Oh! figlia!... (vedendo Corrado che sta per cadere) Corrado?...
EMMA (vedendolo infatti a cadere sulla sedia): Egli sviene...
PALMIERI (con una mano sul polso, l’altra sulla fronte di Corrado): Egli muore!
ROSALIA: Muore?
EMMA: Aspettate; questo medaglione contiene un liquore salutare, egli ne ha bevuto qualche goccia, momenti or sono... proviamo a dargliene ancora...
PALMIERI (vedendo il medaglione aperto, lo afferra e dopo di averlo aspirato): Veleno? si è avvelenato!
ROSALIA: Mio Dio!
EMMA: Avvelenato!
ROSALIA: Presto dunque un rimedio...
PALMIERI: Ah! non ve n’è alcuno! - è tardi.
CORRADO (ripetendo macchinalmente le parole): E’ tardi! (con vaneggiamento, o sogno febbrile) Povera donna! nobile uomo! magnanimi cuori!... meritavano un po’ di bene, un premio... e l’ottengono da me...
ROSALIA (fra sé, costernata): Ah! la mia confessione lo ha reso suicida!
PALMIERI (Muore per noi!)
CORRADO (c. s.): Dite che vengono a prendermi?... Ah! il delatore... Vile!... Stolti! il cadavere civile perde il moto... ho terminato di ucciderlo io... Ah! la mia Ada... la mia Ada!...
ROSALIA: Chiama sua figlia... (ad Emma) Egli ha creduto che tu lo fossi... Ah! se lo credesse anche adesso!... accostati a lui - chiamalo padre, perché muoia in pace!
EMMA: Oh sì! (si accosta a Corrado, e ponendogli la mano sulla fronte, gli dice con grande affetto) Padre, padre mio, guarda la tua Ada.
CORRADO (trasognato): Ada?... (si alza e la stringe convulsivamente fra le braccia, ma guardando Rosalia e Palmieri, torna in sé e dice) Non, no, Emma!... (fa cenno a Palmieri di accostarsi e così pure Rosalia, pone fra loro Emma, e dopo di averli strettamente aggruppati, stende le sue mani sui loro capi - poi cade e spira - Rosalia ed Emma mandano un grido di dolore e si curvano sul corpo di Corrado)
PALMIERI (rimasto in piedi ed allargando le braccia, coll’accento doloroso e solenne dell’uomo che pensa all’umanità): Legislatori, guardate!
Paolo Giacometti, Teatro, a cura di E. Buonaccorsi, Genova, Costa e Nolan, 1983
Nei paesi di lingua tedesca un analogo innesto di elementi "realistici" sul tronco della tragedia produce frutti di ben altro sapore. Già Büchner aveva fatto esplodere la forma tragica canonica scegliendo come protagonista del proprio Woyzeck un "proletario". L’attrito che si crea in quest’opera tra la scabra prosa con cui si esprime il personaggio e la profondità del suo dramma, sviluppa uno stridente contrasto "linguistico" amplificato dallo stato frammentario del testo. Gli accenti antiidealistici del teatro büchneriano risuonano anche nelle tragedie di Hebbel. A prescindere dall’argomento che svolge, il dramma secondo Hebbel deve riflettere il processo storico diventando specchio della propria epoca. L’analisi del rapporto tra l’"eroe" condannato allo scacco esistenziale e l’ambiente in cui egli si muove si approfondisce da Judith (1841) a Genoveva (1843) e culmina nella tragedia borghese Maria Magdalena (1844) in cui Hebbel, denunciando la crudeltà dell’etica dell’onore, mette in scena il potere vincolante del reale sulle azioni umane. Venandosi di "poeticità" in Otto Ludwig (Der Erbförster, 1850) o appoggiandosi all’abilità tecnica in Gustav Freytag ( Die Journalisten, 1852), a metà del secolo il realismo conquista anche le scene tedesche.
Con Das vierte Gebot (1877) dell’austriaco Anzengruber l’adesione al reale è spinta quasi alle soglie del naturalismo.
Dopo che Ibsen ha liquidato i miti romantici col proprio Peer Gynt (1867) anche gli autori norvegesi si aprono al realismo.
Suggestionato dagli esempi francesi, Bjørnson compone i drammi Il redattore (1874) e Un fallimento (1875) cui fa seguito Il nuovo sistema (1878), nel quale lo scrittore si ripropone di riformare la società conformista del proprio paese. In Svezia la rappresentazione realistica di ambienti contemporanei risale agli anni Quaranta (Blanche, Il medico, 1845; Jolin, Il maniscalco Smith, 1847 e I bambini dell’orfanotrofio, 1849).
Nel corso del XIX secolo il realismo penetra nella drammaturgia russa attraverso la satira sociale di Gogol’( L’ispettore generale, 1836; Il matrimonio, 1842), si sviluppa nelle opere di Suchovo-Kobylin (trilogia Kartiny prosedsego: Le nozze di Krecinskij, 1855, Un affare giudiziario e La morte di Tarelkin, 1869) e Turgenev (Il parassita, 1848; Una colazione dal Maresciallo della nobiltà, 1849; Un mese in campagna, 1850) e giunge a piena maturità nei lavori di Ostrovskij (Non ti sedere sulla slitta altrui, 1853; Povertà non è vizio, 1854; L’uragano, 1860; Anche il più saggio ci casca, 1868; La foresta, 1871; Lupi e pecore, 1873) e Lev Tolstoj (La potenza delle tenebre, 1886; I frutti dell’istruzione, 1886-1889; Il cadavere vivente, 1900).
Da un confronto con le coeve esperienze europee appare chiaramente che, adattandosi alla spiritualità ortodossa, il realismo russo tende a caricarsi di una tensione metafisico-religiosa sconosciuta alla drammaturgia borghese occidentale: la stigmatizzazione dei vizi della società scivola insensibilmente nell’interrogazione sul senso del peccato.
Zola e il Théâtre Libre ovvero il naturalismo a teatro
Sul finire degli anni Sessanta uno spettatore parigino d’eccezione, Émile Zola, dimostra una particolare insofferenza verso la scena francese contemporanea. Negli articoli che pubblica su "La tribune", "La cloche" e "L’avenir national" Zola prende le distanze non solo dai convenzionalismi del teatro commerciale, ma anche dalla drammaturgia più impegnata socialmente. Nel 1881 egli raccoglie gli scritti occasionali, frutto della sua consumata esperienza di critico militante, nei due volumi Il naturalismo a teatro e I nostri autori drammatici. Come risulta dal saggio dedicato a Dumas figlio, le critiche che Zola muove alle pièces à thèse riguardano essenzialmente i loro intenti pedagogico-dimostrativi.
Coerentemente alla poetica sostenuta nel Romanzo sperimentale (1880), Zola richiede anche alla drammaturgia una rappresentazione oggettiva e scientifica del reale: lo scrittore deve rigettare ogni regola "precostituita" e deve limitarsi a portare sulla scena una semplice tranche de vie. Richiamandosi ai modelli di Diderot e Mercier, Zola invoca la nascita di un nuovo dramma per il teatro francese.
La critica mossa dai drammaturghi naturalisti all’accettazione delle convenzioni che regolano la scrittura teatrale si ribalta a ben guardare nell’assunzione di nuove convenzioni: prima fra tutte quella della quarta parete codificata da Jullien (Le théâtre vivant, 1892). Poiché l’attore deve recitare "come se" l’arco di proscenio fosse chiuso da una quarta parete, trasparente per il pubblico ma opaca per l’interprete, il drammaturgo deve "strutturare" il proprio testo nel rispetto di questo "principio".
D’altronde è lo stesso Jullien a definire il dramma naturalista “una tranche de vie messa in scena con arte”.
La sera del 30 marzo 1887, presso il teatrino del Cercle Gaulois ribattezzato Théâtre Libre, inizia ufficialmente l’avventura "registica" di Antoine, convinto sostenitore delle tesi di Zola. Le modeste dimensioni della sala, che può contenere al massimo 342 spettatori, paiono ideali per la recitazione "naturale" richiesta dal nuovo dramma. Alla fine degli anni Ottanta la drammaturgia naturalistica può così contare a Parigi non solo su di un illustre teorico, ma anche su di un teatro d’"avanguardia" che si pone esplicitamente come "alternativa" ai circuiti di produzione e distribuzione ufficiali; la sola cosa che manca è un drammaturgo capace di creare il nuovo repertorio. Dopo I corvi (1882) e La parigina (1885), che avevano diviso il pubblico per la loro spietata rappresentazione dell’egoismo e dell’avidità della classe borghese, Henry Becque non aveva portato ulteriori contributi al teatro naturalista. Decisamente mediocre è la produzione drammaturgica originale di Zola (Les héritiers Rabourdin, 1874; Le bouton de rose, 1878) che, come scrittore teatrale, riscuote maggiori consensi adattando alle scene alcune delle sue opere narrative (Therèse Raquin, 1873; L’Assommoir, 1879 in collaborazione con Busnach). Complessivamente l’importanza dello Zola drammaturgo a confronto dello Zola romanziere è comunque minima.
Lo stesso si può dire per i Goncourt, che avevano precorso il naturalismo con i drammi realistici Henriette Maréchal (1863) e La patrie en danger (1867) e per Maupassant, autore della commedia Musotte (1891, in collaborazione con Armand).
I veri capolavori del naturalismo fatti conoscere dal Théâtre Libre provengono dall’estero e sono Spettri (1881) di Ibsen e Signorina Giulia (1888) di Strindberg, messi in scena da Antoine rispettivamente nel 1890 e nel 1893.
Henrik Ibsen e Joan August Strindberg
La reazione negativa dei critici alla pubblicazione di Peer Gynt (1867) imprime un nuovo corso alla produzione drammaturgica di Ibsen. In una lettera a Bjørnson del 1867 egli dichiara di voler diventare un semplice "fotografo" della realtà per smascherare le ipocrisie della società borghese. Dopo un’opera di transizione come Le colonne della società (1875), nel volgere di circa trent’anni Ibsen dà alle stampe e – solo a prezzo di grosse difficoltà per problemi di censura – alle scene i capolavori del teatro borghese europeo: Casa di bambola (1879), Spettri (1881), Un nemico del popolo (1882), L’anatra selvatica (1884), Casa Rosmer (1886), Hedda Gabler (1890), Il costruttore Solness (1892), Il piccolo Eyolf (1894) e John Gabriel Borkman (1896). Le difficoltà tecniche poste dalla necessità di rappresentare i conflitti interiori dell’uomo moderno esigono l’elaborazione di nuove forme di scrittura teatrale. Dopo avere sperimentato con Peer Gynt la messa in scena della disintegrazione della personalità, nei lavori successivi Ibsen mette a punto una costruzione drammaturgica che fa leva sull’attualizzazione della memoria per rappresentare la stratificazione interiore della coscienza e il lento sprofondare dei personaggi in se stessi. La raffinata costruzione degli intrecci e dei dialoghi, appresa alla scuola francese, permette al drammaturgo di dare una struttura alla fluidità e all’ineffabilità delle situazioni che egli porta sulla scena: dietro l’apparente naturalezza delle tragi-commedie ibseniane si cela la sostanziale artificiosità del congegno che regola il loro funzionamento.
Henrik Ibsen
Rabbia verso Clemens Petersen
Lettera a Bjørnstjerne Bjørnson
Roma, 9 dicembre 1867
Un’ora fa ho letto nel Faedrelandet l’articolo di Petersen.
Se mi trovassi a Copenhagen e qualcuno mi fosse tanto vicino quanto Clemens Petersen a te, lo picchierei a sangue, prima di permettergli un crimine così tendenzioso contro la verità e la ragione. La menzogna si nasconde nell’articolo di Clemens Petersen. Non in ciò che dice ma in ciò che tace. E qui molte cose sono state taciute a bella posta. Puoi fargli tranquillamente leggere questa lettera; sono sicuro che egli ha un’opinione profondamente seria delle cose per cui vale la pena vivere in questo mondo, e sono quindi certo che questo articolo finirà per bruciargli l’anima come fuoco. Il silenzio può essere una menzogna tanto quanto una cosa detta, e Clemens Petersen ha una grossa responsabilità: Iddio gli ha dato un compito molto importante.
Non credermi pazzo, cieco e vanitoso! Puoi credermi, quando dico che nelle ore di riposo rifletto, scandaglio ed analizzo nelle mie stesse viscere proprio le cose che mi fanno più male. Il mio libro è poesia; e se non lo è deve diventarlo. Nel nostro paese, in Norvegia, il concetto di poesia dovrà adattarsi a questo libro. Non c’è niente di fisso nel campo dei concetti: gli Scandinavi del nostro secolo non sono i Greci! Egli dice che il "Passeggero ignoto" rappresenta il concetto di "paura"! Una simile spiegazione non mi verrebbe in mente neanche se fossi sul patibolo e potessi con essa salvarmi la vita; non ci ho mai pensato. Ho schizzato la scena a "capriccio". E non è forse Peer Gynt una personalità a sé stante, individuale? So che è così. Forse non lo è anche la madre? (...)
Tuttavia sono felice del torto che mi è stato fatto. C’è dentro un aiuto, una grazia di Dio: sento infatti le mie forze crescere in proporzione con la rabbia. Se ci sarà guerra, guerra sia! Se non sono un poeta, non ho niente da perdere. Proverò a fare il fotografo. Fisserò i miei contemporanei di lassù uno per uno, come ho fatto con i "parolai". Non avrò rispetto neppure dell’embrione nel seno della madre, non risparmierò il pensiero o gli umori nascosti dietro alle parole di nessuna anima umana che meriti di non essere passata sotto silenzio.
Henrik Ibsen, Lettera a Bjørnstjerne Bjørnson in "Quaderni del Teatro Stabile di Torino", Milano, Mursia
Teatralizzando le patologie borghesi in drammi come Il padre (1887), I creditori (1888) e Signorina Giulia (1888), anche Strindberg si trova a dover risolvere problemi tecnici analoghi a quelli incontrati da Ibsen.
Proprio nella prefazione-manifesto alla "tragedia naturalistica" Signorina Giulia, Strindberg denuncia l’impossibilità di dare forma artistica all’uomo moderno attraverso il tradizionale sistema dei caratteri teatrali e del dialogo convenzionale. In pieno XIX secolo l’individualità scaturisce infatti dalla semplice giustapposizione di elementi eterogenei e gli uomini si pongono in relazione reciproca attraverso dialoghi asimmetrici e casuali.
August Strindberg
Introduzione dell’autore
La signorina Julie
La tragica sorte della signorina Julie, ho cercato di giustificarla mediante un certo numero di circostanze: i congeniti istinti della madre; l’errato indirizzo educativo dato dal padre alla fanciulla; il suo stesso temperamento; la suggestione del fidanzato esercitata sul suo cervello debole e degenerato; e infine, ma più particolarmente, l’atmosfera festiva della notte di san Giovanni; l’assenza del padre; il disturbo mestruale della ragazza; la consuetudine con gli animali; l’eccitazione della danza; l’ombra della notte; il forte potere afrodisiaco del profumo dei fiori; e finalmente il caso che sospinge i due amanti in una stanza remota. Senza poi contare l’intraprendenza del maschio.
Pertanto, il mio procedimento non è stato unicamente fisiologico, ma neanche fanaticamente psicologico. Non ho, in modo semplicistico, fatto gravitare sulla fanciulla l’eredità materna; non ho addossato la colpa del fatto unicamente al disturbo mestruale o, esclusivamente, alla congenita "immoralità". Non mi sono limitato a predicar la morale cristiana, e questa funzione, in mancanza di un sacerdote, l’ho affidata ad una cuoca.
Ci tengo a vantarmi di questa molteplicità di concause, come una circostanza che risponde alle condizioni del nostro tempo. Ché se altri lo avessero fatto prima di me, allora potrei vantarmi di non trovarmi solo con i miei paradossi; perché è così che di solito sono chiamate tutte le scoperte.
Quanto alle figure dei personaggi, dirò che le ho disegnate piuttosto come prive di "carattere" per i motivi che espongo subito. La parola carattere, con l’andar del tempo, ha assunto un valore molteplice. In origine stette a significare i lineamenti fondamentali e predominanti nel complesso dell’anima umana; e fu scambiata col temperamento. Con l’andar del tempo è diventata un’espressione del medio ceto per indicare gli automi. Cosicché una persona, la quale, una volta tanto, fosse restata aderente alla sua natura, o si fosse adattata a certe funzioni nella vita, e che - per dirla in breve - avesse cessato di svilupparsi, venne chiamata persona di carattere. Mentre colui che avesse continuato a svilupparsi, da esperto navigatore, sulla fiumana della vita; colui che non veleggiasse con le scotte fisse, e cedesse alla spinta dei venti, per poi orzare di nuovo; venne chiamato una persona priva di carattere. In senso dispregiativo, beninteso, perché una tal persona, riusciva un po’ difficile capirla, catalogarla e classificarla. Questo concetto, decisamente borghese, dell’immobilità dell’anima, venne portato sulla scena, dove ha sempre predominato una mentalità borghese.
Una persona di carattere era un signore già nato e sputato a cui, invariabilmente, non restava che comparir sulla scena, in funzione di ubriaco, beone e pezzente. Perché lo si potesse riconoscere, bastava affibbiargli un difetto fisico, come un piede deforme, una gamba di legno o un naso spugnoso. Oppure il personaggio doveva ripetere una frase insulsa, come, ad esempio: "Era una sciccheria!" "Barkis lo farà volentieri", o altra frase del genere. Questo modo semplicistico di vedere l’umanità, lo vediamo ancora in onore presso il grande Molière. Arpagone è soltanto un avaro; ma perché non avrebbe potuto essere, allo stesso tempo, un finanziere eccellente? un ottimo padre di famiglia? un avveduto assessore comunale? Il peggio è che il "difetto" di Arpagone è soprattutto vantaggioso per la figlia e per il genero, suoi legittimi eredi; quindi costoro non dovrebbero criticarlo, anche se, per sposarsi, son costretti ad aspettar qualche tempo. Se non che io non credo che i personaggi di un dramma debbano essere semplici; penso anzi che quei giudizi sommari, espressi dagli autori (questo è uno stupido; quello è un brutale; quell’altro è un geloso; quell’altro ancora è un tirchio; eccetera) debbano essere rigettati dai naturalisti. Costoro sanno bene quanto sia ricco e vario il complesso dell’anima, e capiscono che il "vizio" ha anche un altro aspetto. Il quale rassomiglia non poco alla virtù.
Le persone dei miei drammi, essendo gente moderna, hanno anche un carattere moderno; e poiché si trovano a vivere in un’epoca di transizione, la quale, se non altro, è più frettolosamente isterica della precedente, io ho dovuto rappresentarle più ondeggianti e frammentarie, impastate di vecchio e di nuovo. Né mi pare cosa inverosimile che le idee moderne, mediante i giornali e la conversazione, siano andate infiltrandosi nello strato sociale in cui può vivere un servitore.
Le mie anime (caratteri) sono conglomerati di stadi di cultura passati e presenti: sono squarci di libri e di giornali, frammenti di esseri umani, brandelli di vestiti domenicali diventati sudici stracci. Proprio come son costituite le anime che le persone del dramma possiedono. E quando dispongono le cose in modo che il più debole faccia sue, e ripeta, le parole del più forte, come pure quando dispongo che le anime prendano le "idee" l’una dall’altra, non faccio che la genesi di quelle anime.
La signorina Julie è un carattere moderno; ma con ciò non si vuol dire che la mezza-femmina, odiatrice del sesso forte, non sia esistita in ogni tempo. Si vuol dire che soltanto adesso si è rivelata, si è fatta innanzi e s’è messa a far chiasso. La mezza-femmina è un tipo che se fino ad ora si vendeva per denaro, oggi si fa innanzi ed è pronta a vendersi per il potere, per le onorificenze, le distinzioni ed i diplomi accademici. E ciò è un indizio di degenerazione. Non è una specie sana, e quindi non può durare; ma, purtroppo, si riproduce insieme con la sua miseria. Intanto gli uomini degeneri, benché incoscientemente, sembrano preferire questa specie; ed è perciò che essa si moltiplica e genera un sesso dubbio che soffre della vita. Però decade, fortunatamente, o perché si sente in disarmonia con la realtà, o per l’inevitabile prorompere degli istinti repressi. O anche per la delusione di non poter mai riuscire ad essere un uomo. Questo tipo è veramente tragico, in quanto ci offre lo spettacolo di una lotta disperata contro la natura. E’ tragico vedere in qual modo, nel nostro tempo, un’eredità del romanticismo venga sperperata dal naturalismo. Il quale può ben porre, come suo unico fine, la felicità a cui solo le razze sane e forti giungono.
Se non che la signorina Julie è anche una rappresentante dell’antica nobiltà militare che ormai cede il passo alla nuova nobiltà dei nervi e del cervello; è una vittima della disarmonia prodottasi in seno a una famiglia a causa della "colpa" di una madre. La signorina Julie è una vittima degli errori di un’epoca, delle varie circostanze, della sua congenita debolezza... Tutte cose che, nel loro insieme, equivalgono all’antico fato; ossia alla legge dell’universo, secondo gli antichi. Il naturalista ha scacciato Dio dall’universo, e, con ciò, ha eliminato la colpa; se non che le conseguenze di un’azione, ossia la pena, la prigione, o soltanto la paura di essa, il naturalista non potrà cancellare, per il semplice motivo che esse permangono; sia che egli le assolva oppure no. E ciò spiega perché i mortali che, ingiustamente, hanno subito un danno, non sono altrettanto indulgenti come quelli che, non avendolo subito - e perciò, essendo estranei al fatto - ben possono essere indulgenti, contro un equo compenso. Anche se il padre, per forza maggiore, desistesse dall’infliggere un castigo, è su se stessa che la figlia dovrebbe prender vendetta. Ed è così che essa fa, per quel senso dell’onore, innato o acquisito, che le classi più elevate ricevono in eredità. Ma da chi? Dalla barbarie, dall’antica patria ariana, dalla cavalleria medioevale? Tutte bellissime cose, ma certo non vantaggiose per la sopravvivenza della specie. E’ lo harakiri a cui è tenuta la persona nobile; è l’intima coscienza del giapponese, che gli impone di squarciarsi il ventre quando un altro lo ha offeso. La quale usanza si vede perpetua nel duello, che è, per l’appunto, un privilegio dei nobili. Il che spiega come Jean, il servitore, posso vivere, mentre la signorina Julie non può vivere senza l’onore. (...)
Quanto alla forma dialogica, mi sono alquanto allontanato da quella tradizionale, in quanto, delle persone del mio dramma, non ne ho fatti altrettanti catecumeni piantati lì a formular delle domande insulse nel solo intento di provocare repliche argute.
Ho inoltre evitato la simmetria matematica del dialogo costruito alla francese, ed ho lasciato che i cervelli funzionassero a capriccio, come accade nella realtà. Infatti non v’è mai alcuna disputa che esaurisca bene a fondo un argomento; viceversa si dà spesso il caso che un cervello riceva da un altro cervello l’appiglio cui agganciarsi. E’ per questo che anche il dialogo procede a caso, accumulando, sin dalle prime scene, un materiale che, in seguito, viene elaborato, ripreso, sviluppato e arricchito, come il tema di una composizione musicale.
August Strindberg, Tutto il teatro. 1899-1901, a cura di A. Bisicchia, Milano, Mursia, 1985
Personaggi, battute e situazioni teatrali devono dunque plasmarsi su questa realtà lacerata.
Otto Brahm e la Freie Bühne
Grazie ai saggi di Michael Conrad e Heinrich Hart le idee di Zola diventano patrimonio comune degli intellettuali tedeschi già dalla metà degli anni Ottanta e nel 1889, sul modello del Théâtre Libre di Antoine, Otto Brahm fonda a Berlino la Freie Bühne. La prima opera a essere rappresentata da Brahm è Prima dell’alba di Hauptmann (1889). Come accadrà anche in Die Familie Selicke di Schlaf e Holz (1890), il dramma di Hauptmann risente di forti influenze del naturalismo francese. Abbandonato il modello di Zola, in Einsame Menschen (1891) Hauptmann si cimenta con tematiche ibseniane. È però con I tessitori (1892) che egli arriva a dare un contributo originale all’evoluzione del teatro naturalista. Montando in successione una serie di quadri che raccontano le varie fasi della rivolta dei tessitori slesiani del 1844, Hauptmann crea infatti un dramma epico la cui vera protagonista è la folla. Portata alle sue estreme conseguenze, la teoria naturalista del dramma pare dover distruggere il dramma stesso. Sin dal 1879 Edmond de Goncourt aveva infatti predetto che il romanzo avrebbe presto finito col soppiantare il testo teatrale nella rappresentazione artistica della vita contemporanea.
Drammaturgia verista italiana
Di diversa opinione sembra invece essere Federico De Roberto; nella prefazione a Processi verbali (1890) egli sostiene che solo il dramma, privo com’è della mediazione soggettiva di un narratore, può garantire una rappresentazione oggettiva del reale. Passando dalla teoria alla pratica, la drammaturgia verista italiana imbocca però la via del mélo . Prima ancora che Targioni-Tozzetti e Menasci intervengano per farne un libretto a uso di Mascagni, già la riduzione teatrale della Cavalleria rusticana curata dallo stesso Verga (1884) è infatti un melodramma a sfondo folklorico. Fatta eccezione per Carlo Bertolazzi (El nost Milan , 1893-1895), il teatro dialettale che fiorisce in Italia nella seconda metà del secolo non va molto oltre al bozzettismo di maniera (Bersezio, Le miserie d’monsù Travet, 1863; Gallina, La famegia del santolo, 1892; Di Giacomo, ’O voto, 1889; Scarpetta, Miseria e nobiltà, 1888, e ’Nu turco napolitano, 1888). L’esperienza più avanzata nella drammaturgia italiana del secondo Ottocento resta dunque quella della scuola "borghese" di Praga e Giacosa.
La stessa situazione si ripresenta in Spagna dove, accanto alle opere di ispirazione ibseniana di José Echegaray y Eizaguirre (El hijo de Don Juan, 1892; El loco Dios, 1900), trionfano i drammi di Angel Guimerá (Terra baixa, 1896) e José Felíu y Codina (La Dolores, 1892) nei quali il realismo si fonde alla pittoresca rappresentazione di forti contrasti passionali.
George Bernard Shaw
In Inghilterra l’influenza di Zola è inferiore a quella esercitata da Ibsen, fatto conoscere al pubblico grazie alla mediazione del critico-traduttore William Archer e del drammaturgo irlandese George Bernard Shaw, autore del saggio The Quintessence of Ibsenism (1891).
Nel 1891 Spettri è la prima opera a essere rappresentata dall’Independent Theatre di Grein, sala sperimentale che ricalca i modelli continentali di Antoine e Brahm. Gli influssi ibseniani sono evidenti nell’evoluzione della drammaturgia di Pinero (The second Mrs. Tanqueray, 1893) e nei primi lavori di Shaw (Widower’s Houses, 1892; Philanderer, 1893; Mrs. Warren’s Profession, 1893-1894; Candida, 1894-1895). Fin dai suoi esordi Shaw dimostra chiaramente di attribuire al teatro una precisa funzione ideologica; egli intende infatti avvalersi della scena per presentare le proprie idee sulle storture dell’ordine sociale, tanto che talvolta le sue commedie tendono a trasformarsi in "comizi". Grazie alla sua notevole verve comica, Shaw non ha però mai smesso di divertire e interessare il pubblico per tutto l’arco della sua lunga carriera che si protrae fin nel cuore del Novecento – In Good King Charles’s Golden Days è del 1939.
Una tarda derivazione essenzialmente francese della poetica naturalista della tranche de vie è rappresentata dal cosiddetto teatro del grand guignol dal nome che Max Maurey diede al Théâtre Salon quando ne divenne direttore nel 1899. Il vero inventore del grand-guignol è però Oscar Méténier che con Lui! (1897) coniò il prototipo del nuovo genere. L’interesse clinico di Zola per la rappresentazione di situazioni sordide e al limite del patologico viene portato nel grand-guignol alle sue estreme conseguenze. Nascono così drammi che, senza alcuna preoccupazione estetica, intrecciano delitti e torture, sadismo e follia.