Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel primo dopoguerra alcuni artisti di Monaco, influenzati dalle esperienze del gruppo romano di Valori plastici, tentano il recupero di modelli figurativi tradizionali, all’insegna di un “richiamo all’ordine” che assume sembianze molto diverse da quelle tipiche della contemporanea Nuova oggettività. Alcuni di essi sono ancora poco noti ma meritano grande attenzione: è per indicare la poetica che si esprime nella loro opera che il critico e artista Franz Roh parla per la prima volta di realismo magico.
La realtà ambigua
Nella Germania del primo dopoguerra, come del resto nell’intera Europa, gran parte degli artisti tenta la ricostruzione di un nuovo mondo fatto di solidità e certezze, un mondo sgretolatosi, che non esiste più. All’arte si chiede una descrizione impersonale e fotografica, non più la trasfigurazione o l’interpretazione dei fatti, ma una loro oggettiva registrazione. Il termine utilizzato per designare questa nuova tendenza in Germania è quello di Neue Sachlichkeit, Nuova oggettività. L’etichetta viene coniata nel 1923 dal critico Gustav Hartlaub, direttore della Kunsthalle di Mannheim, per descrivere la nuova inclinazione al reale in opposizione ai furori espressionistico-visionari che avevano alimentato il decennio precedente la guerra.
La definizione incontra un’enorme fortuna critica, sorte che non toccherà invece all’espressione realismo magico, coniata da Franz Roh. Questo studioso tedesco, artista a sua volta, pubblica nel 1925 a Lipsia, un testo divenuto di capitale importanza per gli studi sulla pittura tedesca degli anni Venti; il libro s’intitola Postespressionismo. Realismo magico. Problemi della nuova pittura europea (1925) e indaga analiticamente la pittura tedesca del terzo decennio. In esso Roh parla indifferentemente di postespressionismo o di realismo magico per designare il ritorno a una figurazione realistica. Il saggio si diffonde esclusivamente nella cerchia dei critici, poiché l’espressione che Roh propone risulta ben più specialistica e restrittiva di quella di Hartlaub: un’opera, infatti, può essere “oggettiva” o “realista” che dir si voglia, ma non per questo deve apparire necessariamente “magica”. Il termine di Hartlaub invece, più vago e indeterminato, calza a pennello alle varie correnti, anche a quella dei cosiddetti “veristi” che promuovono in questi anni un’arte politicamente impegnata e calata nel sociale.
Con realismo magico Roh non intende definire una corrente artistica omogenea, ma piuttosto determinare un clima di congelante sospensione, ravvisabile in numerose opere del periodo. L’espressione vede fronteggiarsi due termini eludibili a vicenda: il realismo, che ha a che fare con l’universo tangibile, e il magico, che invece solitamente ha poco da spartire con il prosaico. Proprio in questa impasse si esplica il concetto formulato da Roh: la magia, per il critico, scaturisce inaspettatamente dal quotidiano trito e ritrito, dalle cose di tutti i giorni, che grazie alla loro resa pittorica iper-reale sfociano paradossalmente in una sfera sur-reale. È evidente quindi che questo nuovo realismo si allontana anni luce da quello corrente; la realtà rappresentata su queste tele non è quella esistente nel mondo, ma una seconda realtà costruita su basi più solide. Spiega Roh nel suo testo: “Con la parola magico in opposizione a mistico si vuole indicare che il mistero non si inserisce nel mondo rappresentato, ma che si nasconde e palpita dietro di esso”. Dunque, il fascino arcano che erompe improvvisamente dagli angoli più reconditi del reale assume le sembianze di una rivelazione del freudiano unheimlich, l’inquietante, capace di destare nell’osservatore paura e meraviglia. Per svelare la parte invisibile (perché celata) dell’esistente, la nuova maniera pittorica si trincera in una rigorosa ricerca di oggettività che possa permettere la successiva epifania del reale. Le fonti visive cui si rifà questa tendenza sono Henri Rousseau e la scuola romana di Valori plastici – non va dimenticato che Mario Broglio nel 1921 presenta a Berlino la mostra Das Junge Italien, che riscuote enorme successo facendo conoscere gli ultimi risvolti dell’arte italiana anche a quegli artisti che non avevano alle spalle il “viaggio in Italia”. È indubbio infatti che Valori plastici svolga un ruolo importante per gli sviluppi della pittura tedesca postespressionista, come dimostra il fatto che Franz Roh inserisce nel suo testo alcune riproduzioni di Carrà e de Chirico. Realismo magico, dunque, come frutto di una ricerca che aveva preso l’avvio in Italia. È infatti appena un anno dopo l’esposizione Das junge Italien che Roh conia il termine, utilizzandolo per la prima volta in occasione di una mostra di Heinrich Maria Davringhausen tenutasi a Monaco.
Gli artisti
Se l’espressionismo predilige temi religiosi o ultraterreni, questi sono ora del tutto scomparsi per dare spazio a un nuovo mondo fatto di cose semplici e quotidiane, ma investito di una forza nuova che risiede nella loro immobilità, nel loro contenimento. In questo elogio e trionfo della concretezza fa la sua apparizione il concetto di magico; se è vero, infatti, che questo mondo cristallino sembra a un primo sguardo saldamente fedele alla realtà, a ben guardare non è così, o meglio lo è solo in apparenza. L’enigma c’è, e si cela oltre il primo strato superficiale: nelle pupille immobili di uno sguardo vuoto, tra i raggi di una luce innaturale che cade di sbieco su stanze vuote e squadrate, in oggetti di tutti i giorni sinistramente illuminati. Si veda Natura morta (1923) di Georg Schrimpf dove gli oggetti si sono ormai innalzati verso un mondo superiore, che non ha nulla da spartire con quello concreto e tangibile. Le cose sono come imprigionate all’interno di teche di cristallo in cui non v’è traccia di pulviscolo atmosferico e vibrano intensamente come puri corpi plastici.
Di Carlo Mense è invece Il pittore Heinrich Maria Davringhausen(1922), in cui la posa a tre quarti e le fughe prospettiche ricordano le opere dei maestri rinascimentali italiani. Mense però, contrariamente a quelli, usa una scrittura algida e tagliente, a tratti inquietante. L’atmosfera “magica” è rafforzata dall’uso che il pittore fa della luce: del tutto innaturale, quasi si trattasse di un fascio luminoso artificiale sparato in pieno volto sul soggetto, che in tal modo assomiglia più a un manichino che a un uomo in carne e ossa.
Compagno di strada di Mense fu Heinrich Maria Davringhausen, che con la tela L’affarista (1920-1921) rappresenta la metafora di un paese corrotto: la Germania della repubblica di Weimar. Il sentimento angosciante, provocato da una società invivibile, prende forma in un’architettura restringente verso lo sfondo e negli anonimi palazzi dechirichiani che si ergono oltre la finestra. La posizione sociale del personaggio, un uomo d’affari arricchitosi alle spalle dei meno abbienti, è definita dagli oggetti che lo circondano: una scatola di costosissimi sigari, un telefono, un calice di vino, dei gemelli d’oro. Il colore è nitido e cristallino, i contorni netti e precisi, tutto appare troppo realistico per sembrare vero.
C’è poi la figura di Christian Schad, i cui protratti viaggi in Italia lo rendono un estraneo in patria, tanto da non venire invitato alla mostra sulla Nuova oggettività, organizzata da Gustav Hartlaub nel 1925. Si veda Il conte St. Genois d’Anneaucourt (1927) dove il contorno appare fermo e deciso, il colore lucido e smaltato e la luce assume un valore mentale, perdendo ogni connotato fenomenico. L’opera rappresenta una prova insuperabile di aderenza alla realtà, proprio come se si trattasse di una fotografia (si noti, a questo proposito, anche il fatto che la scena raffigurata fuoriesce dalla tela su entrambi i lati).
In seguito ai disastri della seconda guerra mondiale l’intero decennio della repubblica di Weimar viene volutamente dimenticato, forse per esorcizzare la storia. L’arte postespressionista viene vista come espressione dell’ideologia nazista e per questo profondamente disprezzata. Soltanto alla fine degli anni Sessanta il postespressionismo tedesco viene nuovamente considerato come una corrente artistica degna di studio.