Il restauro cinematografico
Una terra di nessuno
La disciplina del restauro cinematografico è oggi un territorio dai confini incerti, frequentato da tutti e da nessuno, ancora privo di regole codificate, di metodologie condivise, di luoghi di formazione in grado di creare nuove figure capaci di agire in un ambito professionale e culturale che vive un’epoca di profonde trasformazioni.
Non bisogna dimenticare che anche il restauro delle opere figurative è un’esigenza che nasce solo in età moderna, nella seconda metà del 18° secolo. La tradizione del restauro delle arti maggiori soltanto in epoca recente ha individuato il senso del rapporto di studio, di ricerca e di conoscenza profonda dell’opera che ogni intervento restaurativo impone. Fondamentale, in questo senso, è stata la riflessione di Cesare Brandi (1906-1988), che ha avuto modo di esprimersi nei sessant’anni della sua attività all’Istituto centrale del restauro (progettato con Giulio Carlo Argan e fondato nel 1939) e attraverso una serie di pubblicazioni che costituiscono un solido punto di riferimento per quanti lavorano in questo settore.
Il cinema ha certamente caratteristiche proprie, ma non è la prima arte seriale che necessita di interventi di restauro. Molte sono le opere d’arte seriali: i libri, le stampe, le incisioni, ma anche le statue in bronzo che da un modello unico consentono di trarre vari calchi. C’è quindi da ritenere che nei prossimi decenni si faccia strada anche nel campo del restauro cinematografico un atteggiamento scientifico rigoroso e condiviso. L’impetuosa diffusione della tecnologia digitale, tra i molti rischi che può indubbiamente creare nelle sue applicazioni alla filiera del restauro cinematografico, comporterà anche un innegabile vantaggio, quello di condurre i migliori laboratori al mondo a definire degli standard che, con il tempo, potranno essere assunti dalle cineteche come protocolli condivisi. Ma prima di presentare la rivoluzione, tuttora in corso, del digitale è opportuno ripercorrere, ancorché succintamente, i modi attraverso i quali, dal dopoguerra a oggi, si è andata definendo la disciplina del restauro cinematografico.
All’inizio, negli anni Cinquanta, l’idea di restauro coincideva con le operazioni che permettevano di ripristinare la funzionalità di un film, e soprattutto dei film muti. Henri Langlois (1914-1977) ristampava, per poterli mostrare al pubblico della sua Cinémathèque française, i film di cui possedeva i soli negativi su nitrato, senza preoccuparsi del fatto che i negativi in epoca muta solitamente non avevano le didascalie, che venivano poi giuntate direttamente sulle copie positive, e non presentavano le imbibizioni e i viraggi (anch’essi effettuati sui positivi).
Con il passare degli anni ha iniziato a svilupparsi una maggiore coscienza critica nei confronti del patrimonio cinematografico e si sono intrapresi, a partire dagli anni Settanta, lavori di ricostruzione che hanno permesso di riflettere in modo più complesso sul senso del restauro applicato al cinema. I leggendari restauri del Napoléon (1927; Napoleone) di Abel Gance (nel 1979 e 2000) e di Metropolis (1927) di Fritz Lang (restauro del 1986) hanno contribuito in modo cruciale allo sviluppo di questa disciplina.
L’epoca dei ‘pionieri del restauro’ ha permesso, in maniera del tutto naturale, la nascita all’interno di varie cineteche di vere e proprie attività di restauro e la creazione di laboratori (o di strette collaborazioni con essi). I laboratori sono di due tipi: commerciali con un settore dedicato alle lavorazioni speciali (per es., le sedi di Roma, Los Angeles e Londra della Technicolor) oppure esclusivamente dedicati a lavori di restauro. Tra questi ultimi particolare attenzione meritano, in ambito europeo, l’Immagine ritrovata di Bologna e i laboratori della Cinémathèque royale de Belgique che hanno saputo trovare nuovi metodi (DesmetColor) e sviluppare pratiche che si adattassero ai molteplici formati del cinema (per es., il 28 mm) e alle varie tecniche usate in più di cento anni di storia (il Kinemacolor).
Il processo di restauro non si esaurisce nello stabilire quali siano le procedure tecniche necessarie agli interventi da effettuare, ma consente invece di conoscere meglio l’opera che si sta restaurando. Compito del restauratore è quello di ‘consegnare’ agli studiosi e ai ricercatori i film nelle loro versioni corrette. Lo studio delle colorazioni del cinema muto (a mano, pochoir, imbibizione, viraggi) ha rappresentato forse la più grande battaglia condotta dalle cineteche di tutto il mondo per dimostrare che il cinema muto in realtà non era in bianco e nero.
Il lavoro scientifico di Luciano Berriatúa effettuato sui film diretti da Friedrich Wilhelm Murnau ha consentito di poter vedere in copie complete e filologicamente corrette i film del grande maestro tedesco. Fino a pochi anni fa si credeva che Nosferatu – Eine Symphonie des Grauens (1922; Nosferatu il vampiro) fosse un film in bianco e nero; le ricerche svolte presso le cineteche dei vari Paesi hanno permesso di scoprire che il film era in realtà colorato per imbibizione e viraggi. I restauri condotti (1981, 1984 e 2006) hanno così potuto ripristinare le corrette colorazioni e il corretto montaggio (dimostrando tra l’altro che non tutte le volte la ‘versione più lunga’ è quella più corretta).
Sempre più spesso alla diffusione televisiva dei film restaurati gli aventi diritto (Canal Plus, Gaumont ecc.) affiancano anche l’uscita del film in DVD. All’inizio del nuovo secolo, la società di produzione e distribuzione francese MK2, contemporaneamente all’uscita nelle sale cinematografiche delle versioni restaurate, ha editato in DVD i film diretti da Charles Chaplin. Con l’esplosione del DVD, sono arrivate sul mercato mondiale versioni restaurate di una parte rilevante del patrimonio cinematografico, e questo ha favorito un’attenzione diffusa alla qualità dell’immagine e anche alle ricerche per ritrovare parti perdute di un’opera.
Soprattutto nel contesto americano, il crescente valore commerciale delle libraries cinematografiche ha sorretto, negli ultimi anni, importanti operazioni di restauro promosse dalle majors. Compagnie come la Sony Columbia Pictures eseguono lavorazioni estremamente complesse. Vale la pena di citare il caso del restauro di un film del 1969, Easy rider (Easy rider – Libertà e paura) diretto da Dennis Hopper. Il negativo originale era distrutto e il colore seriamente compromesso. Il restauro (del 1999), condotto in collaborazione con il direttore della fotografia del film László Kovács, ha quindi implicato l’utilizzo di vari elementi derivanti da copie positive diverse e il ricorso a tecnologie digitali (sul 25% del negativo) per ripristinare l’opera nel miglior modo possibile. Un altro significativo esempio è offerto dall’UCLA Film and television archive di Los Angeles, che collabora con le principali case di produzione di Hollywood. L’intervento di restauro del 2001 sul film The night of the hunter (1955; La morte corre sul fiume) diretto da Charles Laughton, condotto in collaborazione con la MGM, rappresenta un caso di restauro completo ed esemplare perché parallelamente al lavoro svolto sul film sono stati restaurati da Bob Gitt (figura eminente tra i restauratori americani) anche gli out-takes, che contenevano tutti i giornalieri, i tagli e gli scarti di lavorazione, per un totale di circa otto ore: un ricchissimo materiale che ci consente oggi una lettura più complessa e approfondita dell’unico film che Laughton firmò come regista.
In Europa, particolare rilievo e prestigio hanno avuto negli anni 1968, 2002 e 2008 i restauri di Lola Montès (1955), ultimo film di Max Ophuls, nonché suo primo a colori; opera barocca e innovativa, amatissima dalla Nouvelle vague, fu vittima alla sua uscita di un grave insuccesso commerciale, e divenne successivamente il sogno proibito di ogni restauratore per l’estrema complessità cromatica e tecnica delle scelte compiute da Ophuls. Grazie al lavoro della Cinémathèque française e della Fondazione Thomson è stato possibile recuperare, attraverso l’utilizzo delle tecnologie digitali, il suono stereofonico, il formato originale dello Scope magnetico nonché i sontuosi colori di questo capolavoro.
Una, due, dieci versioni
Nel campo delle arti figurative una stessa opera può avere vari tipi di qualifiche: in particolare quella di originale, di copia d’autore, di copia di bottega, di copia di altro artista, di replica d’autore, di replica di bottega, di replica fedele, di replica con varianti.
Nel campo del cinema esistono per ogni film diverse versioni e/o edizioni, spesso contraddittorie tra loro ma tutte legittime e con una loro storia interna. Il processo stesso di produzione implica l’esistenza di una moltitudine di materiali eterogenei: negativi camera, giornalieri, copie lavoro, elementi intermedi immagine e suono (controtipi e lavander), copie positive (in lingua originale, doppiate, sottotitolate ecc.), copie per i passaggi televisivi (a volte con montaggi diversi), scarti, scene censurate. Dall’analisi di tutti questi materiali e delle fonti cartacee (visti di censura, documenti di produzione, riviste di cinema e così via) è normalmente possibile stabilire l’esistenza di varie versioni di un film. Non si può quindi più parlare di originale, bensì di autenticità.
È l’autenticità che va indagata e ricercata, in quanto termine più complesso che contiene in sé il tempo dell’opera. Ogni versione è autentica perché testimonia di un’intenzione o di una situazione.
Il rispetto dell’autenticità dell’opera non può non comportare anche la valutazione della sua molteplice e stratificata storicità e obbliga a una massima attenzione verso il contesto in cui l’opera è stata tramandata, così come all’autentica lezione del suo testo, nella misura in cui esso è recuperabile.
Fino a qualche anno fa si tendeva a classificare i restauri delle possibili versioni di un film secondo la seguente divisione (definita nel volume A handbook for film archives, ed. E. Bowser, J. Kuiper, 1991): il film così come è stato ritrovato, il film come risultava alla prima presentazione pubblica, il film come era stato pensato originariamente dal regista (prima che intervenissero, per es., la censura o problemi con la produzione), il film presentato in una versione che tenga conto dell’esistenza di un pubblico moderno e del suo diverso modo di recepire lo spettacolo cinematografico oggi, il film reinterpretato da un artista contemporaneo. Nell’ultimo decennio, la deontologia legata al restauro si è sviluppata ulteriormente e si è arrivati oramai alla consapevolezza che ogni singolo film pone una serie di problematiche specifiche, più articolate di quelle proposte dalla Bowser, legate all’esistenza, all’epoca e alla sopravvivenza oggi di più versioni e/o edizioni. Questo nodo metodologico è fondamentale per comprendere il lavoro di restauro: occorre fare una netta separazione tra le versioni che sono esistite all’epoca dell’uscita del film e anche successivamente (importanza della ricerca extrafilmica) e gli elementi di queste versioni che sopravvivono ancora oggi (ricerca delle copie, censimento). La decisione di quale versione restaurare è legata in modo indissolubile a questa problematica.
Il metodo
Ricerche preliminari e diagnosi dei materiali
L’iter del restauro di un film è un’operazione che prevede diverse fasi e che si distribuisce su un arco di tempo piuttosto lungo.
La fase preliminare di ogni restauro è la verifica, presso tutti gli archivi del mondo, dell’esistenza di copie del film che si vuole restaurare (censimento). Questa ricerca viene svolta parallelamente alle ricerche di materiali cartacei (extrafilmici) che forniscano indicazioni sulla storia del film e che possano anche dare informazioni utili al lavoro di restauro (per es., il ritrovamento del visto di censura con la lista delle didascalie o del metraggio originale). Una volta censite tutte le copie del film da restaurare, su qualsiasi supporto e di qualsiasi formato, e raggruppate le informazioni provenienti dai fondi cartacei, possono cominciare le operazioni vere e proprie di restauro.
La valutazione e lo studio delle copie censite è la prima fase, in particolare quella che permette di stabilire i rapporti di parentela dei vari testimoni, la copia più antica, la più completa e così via. Grazie allo studio delle fonti extrafilmiche sarà possibile inoltre individuare a quali versioni e/o edizioni appartengono le copie ritrovate. L’esame dettagliato di una serie d’informazioni contenute fisicamente sulla pellicola permetterà invece di capire se siamo in presenza di una copia di prima generazione o di successive ristampe, il metodo con il quale è stata stampata e montata, i vari tipi di colorazioni, lo stock della pellicola, se nel corso degli anni sono stati effettuati interventi, cambiamenti, interpolazioni e così via.
Parallelamente all’analisi delle copie viene redatta una valutazione approfondita dello stato di conservazione (fisico e chimico) di ogni elemento e vengono eventualmente eseguiti dei test di stampa. Esistono problematiche uguali per ogni supporto (rotture, strappi, lacerazioni), ma anche singoli problemi legati al tipo di supporto usato e strettamente connessi alle condizioni in cui questo è stato conservato. Il tipo di pellicola e il relativo procedimento fotografico (bianco e nero o a colori, Technicolor oppure Eastmancolor ecc.) influiscono naturalmente sullo stato di conservazione. Il nitrato di cellulosa, per es., tende a restringersi, a diventare estremamente fragile e l’immagine può dissolversi anche completamente; i film su supporto di sicurezza possono essere colpiti dalla sindrome dell’aceto (vinegar syndrome), un processo di decomposizione chimica che rilascia acido acetico.
Progetto di restauro e modalità d’intervento
Completato il processo di diagnosi viene redatto un rapporto contenente l’esame dei materiali e il conseguente progetto di restauro. In questa fase si decide quale versione del film e/o edizione restaurare, e le modalità dell’intervento. La casistica è pressoché infinita: prendendo spunto dalla filologia letteraria, anche nel campo del restauro cinematografico vige il principio formulato da Michele Barbi (1867-1941) secondo il quale ogni testo ha la sua soluzione critica.
Il primo scopo di ogni intervento di restauro è quindi quello di definire quale versione e/o edizione viene restaurata. Esiste una ragione di ordine etico che impone l’onestà di rendere trasparente il lavoro di restauro e il dovere di informare lo spettatore su ciò che esattamente vedrà; questo concetto mira a rispettare il principio esposto da Brandi secondo il quale «ogni intervento di restauro non renda impossibili anzi faciliti gli eventuali interventi futuri».
Nelle altre arti ciò che conta è fondamentalmente la corretta conservazione. Per il cinema invece questa non è sufficiente: una copia positiva di un film restaurato ogni volta che sarà mostrata si danneggerà e quindi è necessario, tramite il processo di restauro, creare nuovi elementi destinati unicamente alla conservazione (controtipi, interpositivi, duplicati negativi).
La tecnica analogica (restauro fotochimico)
Stabilito l’iter, le pellicole sulle quali bisognerà operare il restauro vengono sottoposte a vari interventi. La prima fase consiste nella riparazione dei danni fisici: perforazioni rotte o asportate, giunte aperte o difettose, strappi e lacerazioni. Questo intervento può richiedere, a seconda delle condizioni fisiche delle copie e della loro lunghezza, da poche ore a mesi di lavoro. Ripristinata così la funzionalità, la pellicola viene lavata in macchine speciali (lavatrice a ultrasuoni) con solventi che non attaccano l’emulsione, al fine di asportare dal supporto e dall’emulsione la sporcizia, la polvere, l’olio dei proiettori. La copia è pronta per generare un primo elemento di conservazione tramite stampa. Il restauratore dispone di più tipi di stampatrici: a contatto e ottiche. L’avanzamento della pellicola nella stampatrice, qualunque essa sia, può essere continuo o intermittente. Nella maggioranza dei casi, quando cioè si restaurano film antichi partendo da copie in stato di conservazione critico, viene usata la stampatrice ottica sotto liquido con avanzamento intermittente (regolabile). La stampa sotto liquido permette di eliminare o ridurre gran parte dei graffi presenti sul lato supporto ed emulsione grazie all’impiego di un liquido, il percloroetilene, che ha un indice di rifrazione simile a quello della pellicola e quindi permette alla luce che la attraversa di venire rifratta in maniera corretta sulla pellicola vergine. Eventuali problemi chimici legati al-l’immagine (come, per es., l’inizio del decadimento chimico) possono venire corretti o ridotti intervenendo sullo standard di sviluppo della pellicola.
Se il restauro viene eseguito partendo da una copia positiva avremo un controtipo o un internegativo, se invece l’elemento di partenza è un negativo la stampa avrà generato un interpositivo (se il film è in bianco e nero) oppure un intermediato positivo (colore). Se il film oggetto del restauro è sonoro, la scena e la colonna sonora vengono trattate e restaurate separatamente fino alla stampa della copia positiva finale combinata.
Questa operazione verrà ripetuta con tutte le copie che vengono usate per effettuare il restauro di un film. I nuovi elementi creati (matrici) a questo punto possono venire integrati l’uno con l’altro oppure montati a seconda degli interventi previsti dal piano di restauro. Possono venire sostituite o integrate (solo in parte o completamente) le didascalie, corretti gli errori di montaggio, montate le parti mancanti provenienti da un’altra copia e così via.
Terminata l’operazione di montaggio e revisione dei nuovi elementi creati si può infine procedere alla stampa di nuovi elementi di conservazione e delle copie positive da proiezione.
La tecnica digitale
Dal 2000 a oggi si è assistito a un vertiginoso sviluppo delle tecnologie digitali applicate alla produzione e al restauro cinematografico. Rispetto agli anni Novanta alcune metodologie hanno trovato una loro standardizzazione, il costo dei macchinari si è stabilizzato e l’obsolescenza delle macchine si è fatta meno rapida. La tecnologia digitale non mira a soppiantare quella fotochimica analogica, bensì a completarla e integrarla al fine di restaurare nel migliore dei modi possibili un’opera cinematografica. L’avvento della tecnologia digitale non ha segnato la morte della pellicola cinematografica, come molti critici sostenevano, ma anzi ne ha rilanciato la produzione, poiché alla fine di qualsiasi processo di produzione o di restauro digitale si producono nuove matrici in 35 mm dalle quali stampare le copie da proiezione. Da un punto di vista del restauro cinematografico il processo di lavorazione digitale del film (digital intermediate) permette di restaurare difetti e problemi dei film impossibili da risolvere tramite il classico metodo analogico. Inoltre, rispetto al procedimento analogico (fotochimico) le tecnologie digitali consentono di registrare e duplicare le immagini senza la perdita di alcuna informazione. Nel restauro digitale di un film il workflow da seguire è il seguente: scansione, restauro digitale dell’immagine, correzione colore, film recording (ovvero il ritorno su pellicola 35 mm dai file digitali). Parallelamente al restauro digitale dell’immagine si svolge anche quello del suono.
Restauro digitale
Il film scan
Nell’ambito del restauro digitale la scansione costituisce la prima fase dell’intervento dopo che la pellicola è stata riparata e lavata.
Lo scanner è una macchina adibita all’acquisizione digitale delle immagini dei film, e costituisce l’evoluzione tecnologica del telecinema. Se il telecinema acquisisce un film in tempo reale ed elabora un’immagine elettronica, lo scanner invece genera dati con un tempo di acquisizione ed elaborazione che dipende da diversi fattori tra cui formato della sorgente, risoluzione dell’immagine, tecnologia utilizzata.
La pellicola, montata nello scanner, passa attraverso un gate e viene fatta avanzare, fotogramma per fotogramma, da una griffa, secondo un sistema chiamato pin register. Il gate è situato in corrispondenza di un LED (Light Emitting Diode), cioè una fonte luminosa che attraverso l’emissione di luce blu, verde e rossa permette la lettura dei canali RGB (Red Green Blue) dell’immagine. Tale segnale luminoso raggiunge una camera CCD (Charge Coupled Device) che digitalizza il fotogramma a seconda della risoluzione impostata (2K o 4K, ma anche 6K o 8K). Nell’ambito del restauro cinematografico l’immagine viene solitamente scansionata a risoluzione 2K (2048×1556 pixel), oppure 4K (4096×3112 pixel). Risoluzioni superiori non vengono ancora usate in fase di restauro, ma in fase di postproduzione al fine di creare effetti speciali particolarmente complessi.
La calibrazione del colore durante la scansione si basa sulla valutazione delle parti meno dense della pellicola (quelle più chiare), a partire dalla quale vengono poi attribuiti tutti gli altri valori relativi alla scala di grigio di ogni canale. Gli scanner sono dotati inoltre di sistemi a illuminazione diffusa: irradiando il fotogramma in più direzioni, la luce diffusa permette di ottenere le informazioni di colore in prossimità dei graffi dell’immagine. Questi dati formano una mappa le cui informazioni vengono combinate con quelle relative ai canali RGB, in modo tale da ottenere una riduzione notevole dei difetti in questione.
L’estensione del file dell’immagine scansionata è il dpx (acronimo di Digital Picture Exchange) che fornisce un’immagine non compressa, contenente il massimo delle informazioni relative alla scala di grigio dei tre canali RGB. Al momento della scansione, a ogni fotogramma acquisito corrisponde un file dpx e ognuno di questi è legato al successivo, in modo da conservare l’ordine di successione all’interno di una sequence.
La fase di restauro
L’operazione successiva alla scansione del film è il restauro digitale vero e proprio. Questa fase, così come la sua rispettiva analogica, ovvero la riparazione della pellicola, può durare anche parecchi mesi e richiede perizia ed esperienza da parte degli operatori.
I programmi utilizzati durante il restauro digitale – per correggere i tipici difetti della pellicola quali, per es., instabilità, sporco, spuntinature, deformazioni, instabilità della luminosità, granulosità – sono sistemi software-based che funzionano in modalità manuale, automatica e interattiva, sulla base di sofisticati algoritmi in grado di individuare e rimuovere gli elementi anomali dell’immagine impossibili da correggere con i tradizionali metodi fotochimici.
Di seguito vengono elencati i principali interventi di restauro che sono eseguiti con i programmi per il restauro digitale dell’immagine:
Rimozione di sporco e spuntinature: l’elaborazione algoritmica per l’eliminazione dei residui di sporco e delle spuntinature, ovvero il riconoscimento della particella estranea e la sua sostituzione, avviene mediante l’individuazione di una variazione temporale di luminosità all’interno dell’immagine.
Ricostruzione dell’immagine: in presenza di uno o più fotogrammi danneggiati (a causa di strappi, giunte o decadimento di emulsione e/o supporto), è possibile ricreare digitalmente l’immagine perduta. L’algoritmo per la rigenerazione dell’immagine esegue un’interpolazione basandosi sui pixel appartenenti ai fotogrammi adiacenti non compromessi dal decadimento. L’interpolazione dà origine a una nuova immagine, che si sostituisce a quella danneggiata. In alcuni casi risulta necessario intervenire manualmente attraverso uno strumento per mezzo del quale l’operatore può ‘ridisegnare’ l’immagine scegliendo egli stesso quali pixel usare per la ricostruzione (pixel che possono essere presi da qualsiasi fotogramma successivo o precedente, o addirittura da quello corrente, e che si trovano in qualsiasi coordinata del quadro).
Rimozione dei graffi: il calcolo algoritmico per l’eliminazione dei graffi si basa sull’applicazione di filtri spaziali, fondati su microinterpolazioni tra i pixel adiacenti al graffio. Il software, infatti, è in grado di riconoscere il graffio – all’interno dell’area selezionata – per via dell’interruzione nell’armonia fotografica che caratterizza un’immagine non compromessa. È dunque la differenza spaziale di luce che si estende in lunghezza a essere riconosciuta come elemento anomalo.
Grain/noise: per la riduzione della grana l’algoritmo deve eseguire un calcolo di natura ‘spaziale’ effettuando un blanding tra un grano e l’altro di ciascun singolo fotogramma, cioè a prescindere dalla relazione/comparazione tra un frame e l’altro. Al contrario, la riduzione del rumore non necessita di un calcolo spaziale, bensì temporale, e dunque si basa sul confronto tra i fotogrammi che si susseguono.
Sbalzi di luce (deflicker): il deflicker è una funzione automatica che viene applicata su quelle inquadrature che presentano delle variazioni di densità (e dunque differenze di esposizione luminosa) tra alcuni fotogrammi e altri appartenenti alla medesima scena, ovvero, fotogrammi che dovrebbero in realtà possedere la stessa intensità di luce. In seguito all’individuazione (da parte dell’operatore) di un fotogramma di riferimento (la cui luce non deve essere compromessa), il calcolo algoritmico eseguito dal deflicker si basa sull’applicazione del valore di luminosità del frame scelto a tutti gli altri fotogrammi dell’inquadratura. Talvolta risulta possibile riscontrare alcune variazioni di luminosità all’interno di un singolo fotogramma. In questi casi si è soliti ricorrere all’applicazione di un filtro che permette di omogeneizzare o comunque modificare la luminosità entro un’area del fotogramma, sulla base del fotogramma di riferimento scelto dall’operatore.
Instabilità dell’immagine: gli algoritmi per la stabilizzazione, in genere, eseguono un’analisi dello slittamento dell’immagine sulla base di alcuni punti di riferimento considerati ‘stabili’ e una conseguente applicazione di allineamento di tutti i fotogrammi coinvolti nel processo. Alcuni software individuano come riferimento la posizione dell’interlinea; altri, invece, individuano il riferimento su alcuni punti interni all’immagine.
Immagine fuori fuoco: nella tecnica digitale ancora non esiste la possibilità di mettere a fuoco un’immagine sfocata. Esiste, tuttavia, un escamotage che permette di simulare la messa a fuoco, mediante un filtro del software in grado di aumentare il contrasto laddove vi siano delle variazioni luminose, in modo tale che i bordi di ciascun oggetto appariranno più nitidi e maggiormente definiti.
Deformazione dell’immagine (dewarping): il dewarp-ing consente l’estrazione di alcuni punti d’aggancio quali riferimenti per calcolare lo spostamento anomalo e per applicare uno slittamento proporzionalmente opposto al fine di ristabilire la corretta posizione dell’immagine.
Tutti questi tools o strumenti dei software di digital restoration sono stati utilizzati per il restauro del film Le amiche (1955) di Michelangelo Antonioni, effettuato dalla Cineteca di Bologna nel 2007-08 a partire dal negativo originale camera depositato dalla casa di produzione Titanus presso l’Archivio della Cineteca di Bologna. I materiali a disposizione per il restauro erano i negativi originali suono e immagine, un controtipo positivo combinato dell’edizione francese del film e infine una copia positiva di riferimento di un collezionista.
I negativi scena originali erano in buone condizioni dal punto di vista della conservazione, ma erano stati irrimediabilmente rigati durante precedenti lavorazioni. Due rulli del film in particolare presentavano una media di una dozzina di righe continue sull’emulsione, ovvero righe che non possono essere totalmente eliminate né tramite stampa sotto liquido, né dalle capacità di correzione dei sistemi di scansione a luce diffusa. A ciò si aggiungevano i problemi tipici di qualsiasi materiale d’epoca, il restringimento, che colpisce in maniera leggera anche il triacetato di cellulosa (0,4÷0,5%), i salti e l’instabilità dovuti alle giunte e a qualche tremolio di macchina in fase di ripresa. All’esame dell’immagine è stato riscontrato poi un forte flicker (effetto di sfarfallamento). Le parti del negativo duplicate per creare gli effetti di dissolvenza presentavano inoltre notevoli differenze di luce e a volte di formato dell’immagine. Il negativo camera è stato preservato fotochimicamente e restaurato digitalmente a una risoluzione di 2K.
Le amiche è un film dagli ambienti eleganti, incentrato su figure femminili della borghesia torinese dei primi anni Cinquanta. Donne che indossano sempre l’abito giusto, che frequentano gli ambienti artistici come gli atelier di moda, e i cui volti sono levigati dalla luce. Ogni dettaglio nell’immagine è perfetto. Ingrandite sullo schermo di lavoro, le unghie di Clelia, la donna in carriera, sono lucide e senza alcuna sbavatura nella manicure alla francese. La cura nella preservazione del dettaglio è stata dunque alla base di questo restauro. Le righe sono state eliminate con un accurato lavoro manuale, una per una, fotogramma per fotogramma. La grana è stata attenuata laddove risultava evidenziata dal rumore video del passaggio al digitale, e dove permetteva di ridurre la pioggia di graffi minuti che purtroppo copriva intere aree di molti fotogrammi, e inoltre si sono nascoste le tracce dell’intervento di digital cleaning, ma senza comprometterne o appiattire il risultato finale. La correzione colore (v. oltre) ha restituito al film la sua atmosfera anni Cinquanta. L’elemento intermedio combinato francese ha permesso di integrare, senza ricrearle direttamente per interpolazione digitale, alcune microlacune di due o tre fotogrammi. Dalla ricerca di questi fotogrammi mancanti nella copia francese è emersa anche un’interessante variante. In una delle ultime scene del film, girato in un unico piano-sequenza, Clelia sta aspettando Carlo al bar della stazione. Non vedendolo arrivare, si alza ed esce a telefonare. Mentre è al telefono un uomo si avvicina alla cabina e quando Clelia termina la telefonata e si avvia verso il binario lo sconosciuto la segue cercando di abbordarla. Nella copia francese quest’ultima parte della scena è stata tagliata, per cui vediamo semplicemente Clelia uscire dalla cabina.
La correzione colore
Nel processo digitale questa fase corrisponde in qualche modo a quella che è la posa del negativo nelle lavorazioni fotochimiche. Dopo le lavorazioni di restauro digitale, le varie sequenze del film devono essere bilanciate per ottenere omogeneità e coerenza fotografica. Inoltre si possono effettuare tutte quelle correzioni che mirano a restituire i colori originali, che spesso si sono persi o hanno subito delle significative variazioni cromatiche. Questa, che è la fase centrale del digital intermediate, diventa in tal modo anche la fase centrale dell’intero processo di restauro. Permette infatti di restituire al film la giusta gradazione di luce e di riottenere infine la qualità originale dell’immagine (per fare un esempio, un film turco degli anni Settanta avrà, evidentemente, diverse caratteristiche di fotografia, grana, densità dell’immagine rispetto a un film cinese degli anni Quaranta).
Come per il restauro digitale, la correzione colore dei film avviene attraverso dei software rivolti all’elaborazione del segnale dell’immagine. L’operatore dispone di un control panel per la correzione del colore, di uno strumento per l’analisi e la lettura del segnale e di un monitor di alta qualità per la visualizzazione delle immagini. Attualmente si sta sempre di più diffondendo la correzione colore tramite proiezione digitale su grande schermo, per poter avere una perfetta simulazione di quello che sarà l’esito finale nella sala cinematografica. L’elaborazione digitale della curva colorimetrica delle immagini permette di poter intervenire completamente su ognuna di esse oppure esclusivamente su determinate aree (zone chiare, zone scure ecc.) o determinate cromie. In fase di restauro è importante poter disporre di una copia positiva d’epoca da usare come reference per la correzione colore, poiché un’arbitraria lettura o interpretazione di questa fase comprometterebbe in maniera definitiva la correttezza filologica e l’esito del restauro stesso.
Il film recording (il ritorno su pellicola)
L’ultima tappa del processo consiste nel trasferire le immagini di un film lavorato digitalmente nuovamente su pellicola negativa 35 mm. Il film recorder è un dispositivo grafico di output che permette di trasferire su pellicola 35 mm le sequenze di dpx contenenti le immagini del film restaurato, passato nell’ordine attraverso le fasi di scansione, restauro digitale e correzione colore.
Esistono principalmente tre tipi di film recorder: quelli che utilizzano una tecnologia CRT (Cathode Ray Tube), quelli che utilizzano una tecnologia LCD (Liquid Crystal Display) e infine quelli che dispongono della tecnologia laser. Tra questi tipi di dispositivi c’è differenza in termini di qualità dell’immagine, gestione dei dati e costo delle apparecchiature.
I file dpx con le immagini del film restaurato giungono al film recorder attraverso un driving software che mette in comunicazione il computer con la macchina in cui viene caricata la pellicola vergine. Sulla pellicola vengono quindi trasferite e ‘registrate’ le immagini del film, fotogramma per fotogramma.
L’utilizzo di questo software permette anche di impostare tutte le informazioni relative al formato di output del fotogramma (full frame, academy, 1,66, 1,78, 1,85 e Cinemascope) e relative alla risoluzione (2K, 4K) dell’immagine.
La pellicola internegativa o interpositiva sviluppata diventa così una nuova matrice fotochimica di conservazione dalla quale vengono poi stampate le nuove copie positive nel ciclo del normale processo analogico. Tale matrice diventa quindi il fondamentale elemento per la conservazione del film, ovvero per ciò che deve costituire, accanto alla ritrovata possibilità di fruizione, la finalità del processo di restauro.
Il trasferimento su pellicola delle informazioni di un film restaurato digitalmente rappresenta il normale completamento della lavorazione, poiché la pellicola rimane tuttora il miglior supporto per la conservazione delle immagini. Se nell’ambito della postproduzione il film recorder viene utilizzato principalmente con pellicola negativa o internegativa colore, nell’ambito del restauro si viene ad affiancare e sostituire talvolta l’utilizzo di pellicola negativa bianco e nero per lavori di diverso genere. Inoltre un negativo con emulsione bianco e nero è chimicamente più stabile di uno colore poiché nell’emulsione non sono presenti i tre strati che reagiscono ai colori; per tale ragione ai fini conservativi è preferibile utilizzare questo tipo di materiale. Questo è il motivo fondamentale per cui le principali case di produzione americane trasferiscono su una triplice matrice interpositiva bianco e nero i loro film realizzando in questo modo la separazione monocromatica dei tre colori primari per una più corretta conservazione a lungo termine.
Restauro digitale del suono
Sorgenti e acquisizione
Il suono ottico è stato lo standard cinematografico fin dagli anni Trenta. Durante il primo periodo del cinema sonoro, esistevano due sostanziali tipologie di suono ottico su pellicola: area variabile e densità variabile. La pista ad area variabile è generata dall’esposizione della pellicola a una fonte costante di luce che passa attraverso un’apertura la cui ampiezza viene modulata dal segnale audio. Nel caso della pista a densità variabile invece è l’intensità della fonte di luce a essere pilotata dal segnale audio.
La densità variabile è stata presto abbandonata, perché durante la riproduzione genera un intenso rumore di fondo e ha un basso livello di amplificazione. L’area variabile ha quindi prevalso come standard ottico grazie al migliore rapporto segnale-rumore. Nelle piste ad area variabile, aumentando la densità (quindi il contrasto) della colonna sonora, si riduce il rumore di fondo in fase di riproduzione. Più scura è la forma d’onda nel negativo, e chiara l’area circostante, più pulito è il suono. Ma se la densità utilizzata per esporre il negativo aumenta ulteriormente, l’immagine della forma d’onda s’ingrandisce e induce distorsione, principalmente sulle sibilanti della voce e sulle alte frequenze. Tali deviazioni nella densità del negativo possono essere compensate nel momento in cui viene generato un nuovo positivo. Può essere effettuata una serie di test per determinare l’ottimale densità di stampa in modo tale da ovviare alla distorsione presente nel negativo.
Casi più rari, data la difficoltà nel reperire tali fonti, in passato considerate mero materiale di lavorazione, sono l’analisi e la riparazione delle sorgenti magnetiche. L’incisione su nastro magnetico è la fase precedente alla produzione del negativo ottico. Non risente, quindi, dell’ulteriore degradazione dovuta a tale trasferimento. Più problematica risulta, invece, la conservazione e la riparazione del supporto, dato il rapido deperimento cui va incontro la sottile lamina di ossido metallico magnetizzata.
Il triacetato di cellulosa, introdotto per le pellicole ottiche e magnetiche, con il tempo degrada in modo superiore persino al precedente supporto nitrato. L’acido prodotto dalla degradazione induce un restringimento del supporto, e quindi un avvicinamento delle perforazioni, rendendone impossibile la riproduzione sui normali equipaggiamenti. Per ovviare a queste problematiche, le moderne apparecchiature per l’acquisizione delle colonne ottiche e magnetiche sono state recentemente dotate di sistemi di trazione in grado di supportare un restringimento superiore al 3%, e di regolare il posizionamento della lente di lettura della colonna ottica.
Stabilita la migliore regolazione per l’apparecchiatura di riproduzione, un convertitore analogico/digitale trasforma il segnale elettrico prodotto dalla lente di lettura in dati digitali, acquisiti dal software di restauro sotto forma di file bwf (acronimo di Broadcast Wave File) o aiff (acronimo di Audio Interchange File Format), e resi in questo modo disponibili alla realizzazione del restauro digitale.
Restauro
Le tecniche di restauro analogiche sono state disponibili fin dai tempi dell’utilizzo dei nastri magnetici per l’audio cinematografico, nella forma di tagli e giunte per interferenze impulsive come click e pop e di equalizzazione per rumori continui di sottofondo. Più sofisticati riduttori elettronici lavoravano attraverso un filtro passa alti per il rilevamento dei clicks e un filtro passa bassi per il loro mascheramento. Nessuno di questi metodi era così sofisticato da permettere una significativa riduzione del rumore senza interferire con l’originale qualità del segnale. Per quello che concerne la registrazione su nastri magnetici, le tecniche di preenfasi sviluppate dalla Dolby hanno apportato notevoli migliorie nella riduzione del livello di rumore di sottofondo durante le fasi di registrazione e quelle di duplicazione.
I moderni metodi digitali di restauro del suono permettono un grado di flessibilità incredibilmente superiore in termini di processamento del segnale e, quindi, maggiore potenzialità nella riduzione del rumore; è altrettanto vero che, se applicati in modo indiscriminato, tali metodi possono rivelarsi molto più dannosi di quelli analogici. Una delle prime applicazioni delle tecniche di processamento digitale del segnale audio fece ricorso alla deconvoluzione per migliorare una voce solista (quella di Enrico Caruso) da una vecchia registrazione. Da allora, gruppi di ricerca in tutto il mondo (a Cambridge, Le Mans, Parigi e negli Stati Uniti) hanno lavorato in quest’area, sviluppando sofisticate tecniche per il trattamento di audio degradato. Dal punto di vista commerciale, le ricerche accademiche hanno facilitato lo sviluppo delle compagnie che producono strumentazioni per il restauro sonoro, in uso in studi di registrazione, case di rimasterizzazione e compagnie di broadcast. La CEDAR (Computer Enhanced Digital Audio Restoration) Ltd. di Cambridge, fondata nel 1988 dal Dr. Peter Rayner, dal Communication group del dipartimento di Ingegneria dell’Università e dal National sound archive della British library, è probabilmente la più rinomata di queste compagnie e fornisce strumentazioni per la riduzione automatica del rumore e per la rimozione di clicks e crackles, mentre la Sonic Solution, con sede in California, ha introdotto sul mercato negli ultimi anni un sistema chiamato NoNoise. Con il diminuire dei costi dei processori e l’aumento delle loro prestazioni, oggi diversi software per l’editing audio comprendono strumenti che, equivalentemente a NoNoise, tramite analisi spettrometrica rilevano eventuali anomalie nel segnale sonoro e, mediante interpolazione di campioni, ricostruiscono la forma d’onda corrotta.
Esistono diverse tipologie di degradazione comuni alle sorgenti audio. In generale possono essere suddivise in due grandi gruppi: degradazioni localizzate e degradazioni globali. Le degradazioni localizzate sono discontinuità nella forma d’onda che affliggono pochi campioni, e comprendono clicks e crackles. Sono generate da righe, rotture e brevi lacune sulla pellicola. Le degradazioni globali affliggono invece tutto il materiale audio e includono rumore di sottofondo, fluttuazioni e alcuni tipi di distorsioni non lineari. Dipendono da disfunzioni elettriche o meccaniche nei sistemi di riproduzione e duplicazione, da saturazione e dai limiti dei supporti magnetici e ottici.
Creazione di una nuova colonna sonora
Il restauro digitale mira a ottenere una nuova colonna, priva dei problemi indotti dal trascorrere del tempo o da malfunzionamenti delle macchine utilizzate per le trascrizioni magneto-ottiche, tenendo in considerazione il mutare storico delle tecnologie di produzione e di riproduzione. A causa delle diverse metodologie di fruizione delle moderne sale di proiezione, delle differenti curve di equalizzazione dei sistemi di ascolto odierni, e considerando altresì l’abitudine all’ascolto del contemporaneo fruitore finale, risulta infatti inattuabile una riproduzione del materiale originale che abbia le stesse caratteristiche di una proiezione del passato. Al termine della fase di processamento, il materiale sonoro viene finalizzato in base al supporto e al formato finale. Nel caso di supporti digitali esistono a livello internazionale delle raccomandazioni (come, per es., la ITU-R BS.1726) che stabiliscono dei parametri per i livelli di picco e di normalizzazione dei dialoghi. Nel caso di ritorno su pellicola, i parametri sono dettati dalla tipologia del supporto stesso, e il materiale può essere codificato utilizzando tecnologie di riduzione del rumore, quale, per es., il Dolby SR (Spectral Recording), per sopperire ai limiti fisici della trascrizione ottica. A partire dal file codificato viene poi generato un nuovo negativo colonna. Le tecnologie impiegate in tale fase si differenziano tra quella a impressione ottica, utilizzata in passato e ancora in uso in molti laboratori, e quella più innovativa e avanzata che sfrutta tecnologia laser per l’incisione di tutti i formati sonori per il cinema attualmente in uso nelle sale.
Documentazione del restauro e reversibilità degli interventi
Il processo di restauro, analogico e digitale, prevede non solo fasi di riparazione e duplicazione, ma anche momenti in cui si agisce direttamente sulla pellicola modificando e/o integrando parti di essa.
Ogni intervento che viene operato deve essere dettagliatamente documentato e deve poter essere reversibile. La documentazione relativa al restauro di un film è di due tipi: un primo modo, fondamentale, consiste nell’inserire all’inizio o alla fine del film restaurato una breve spiegazione che denunci i materiali di partenza e spieghi a grandi linee il tipo di intervento eseguito. Il secondo consiste nella creazione di un dossier di restauro che testimoni l’iter delle scelte compiute e delle lavorazioni eseguite. Le grandi potenzialità che il digitale ha consegnato nelle mani dei restauratori non sono state accompagnate da un’attenzione adeguata al tema della documentazione dell’intervento, che resta ancora praticata in maniera parziale e assolutamente non soddisfacente. I trasferimenti dei film da analogico a digitale e l’espandersi delle proiezioni digitali rendono invece più che mai urgente la definizione e la condivisione di un sistema di documentazione che consegni al futuro, insieme alle opere anche le informazioni necessarie per conoscere i grandi interventi che in questi anni sono stati compiuti sul patrimonio cinematografico mondiale.
Bibliografia
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