Il restauro del libro
Per una definizione di bene librario, e anche allo scopo di porne in evidenza il significato culturale, è opportuno fare riferimento al Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al d. legisl. 22 genn. 2004 n. 42, che stabilisce il concetto di bene culturale. Qui il bene librario è inserito accanto a tutti quelli che nel comune pensare sono sempre stati considerati beni culturali, alla stregua quindi di quelli artistici, archeologici, architettonici e paesaggistici. Il Codice rappresenta, infatti, l’esito finale di un percorso che ebbe inizio in Italia già negli anni Sessanta del 20° sec. per opera della Commissione Franceschini, istituita dalla l. 26 apr. 1964 n. 310. Dopo tre anni di lavori, nel documento conclusivo del 1967 veniva proposta per la prima volta la definizione di patrimonio culturale e quindi di bene culturale, che avrebbe portato a un nuovo modo di pensare e operare la conservazione e il restauro del bene librario. L’art. 29 del Codice, intitolato Conservazione, con i suoi undici commi dà inizio alla sezione II, Misure di conservazione. I punti chiave del restauro vi sono tutti indicati: concetto di conservazione, prevenzione, manutenzione; definizione del restauro come attività in senso stretto; necessità della progettazione; formazione degli operatori. Il Codice registra dunque le trasformazioni più significative che il concetto di restauro ha subito, dall’inizio del secolo scorso, attraverso una serie di passaggi; questi hanno avvalorato l’idea che il restauro del libro, inteso come bene culturale, rientri nell’ambito dell’‘alto restauro’, che da sempre ha compreso, nell’opinione pubblica, il restauro delle forme d’arte considerate elettive per eccellenza.
È d’obbligo puntualizzare la differenza, ormai nota ai più, tra libro come bene culturale e libro come oggetto d’uso, perché solo il primo potrà essere sottoposto a restauro inteso come «intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali» (Codice, art. 29, 4° co.). Oggi sappiamo che i concetti di rarità e pregio, che fanno di un libro un bene culturale, non sono più legati all’idea della sua antichità o vetustà. La rarità è un concetto più ampio, determinato da ulteriori parametri, in certa misura anche soggettivi, che possono modificarsi nel corso del tempo. Il libro come bene culturale può essere manoscritto o a stampa: se manoscritto, acquista un immediato ed evidente valore dovuto alla sua unicità; la serialità dei libri a stampa potrebbe, invece, indurre a una loro diversa considerazione, sicché il loro intrinseco valore potrà dipendere da valutazioni non tutte strettamente obiettive, ma in parte anche soggettive. Tuttavia, una volta stabilito che un libro, in base alle considerazioni su espresse, possiede il valore di bene culturale, quest’ultimo diventa automaticamente oggetto di quella serie di attività che va sotto la denominazione di tutela. Per la definizione di tutela, ancora una volta ci viene in aiuto il Codice (art. 3, 1° co.) che dichiara «la tutela [del patrimonio culturale] consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione». La tutela, della quale fa parte la conservazione, si esplica quindi attraverso attività di tipo scientifico, quali lo studio e la ricerca, e attività propriamente tecniche, quali la prevenzione e il restauro.
La prevenzione
Nel corso degli ultimi anni, l’attenzione di tutti quelli che operano nell’ambito della conservazione dei beni librari si è focalizzata sull’attività di prevenzione, e il termine oggi comunemente usato è quello di conservazione preventiva (Bertini 2005). È lo stesso Codice a fornire una chiara e inequivocabile definizione del concetto di prevenzione: «Per prevenzione si intende il complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto» (art. 29, 2° co.).
Esistono due tipi di prevenzione, quella diretta e quella indiretta (Federici 2005). La prima comprende tutte le operazioni che si mettono in atto agendo direttamente sui libri, senza però alterarne struttura e composizione. La prevenzione indiretta, invece, comprende quel complesso di operazioni che non comporta alcun rapporto con il libro, ma viene messo in atto al fine di creare un ambiente idoneo per la conservazione (controllo di umidità e temperatura, controllo della luce, arredi adeguati, difesa dagli agenti inquinanti, formazione del personale, educazione degli utenti).
Accanto alla prevenzione si colloca la manutenzione, chiaramente definita dal Codice come l’insieme sia delle attività sia degli interventi destinati «al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue parti» (art. 29, 3° co.). Sarebbe però un errore inquadrare in questa categoria quello che per molti anni è stato definito piccolo restauro, che ha invece, come si vedrà, significati ben diversi. Per manutenzione, che, se perfettamente attuata, permette un’ottima conservazione del bene, s’intenderanno quindi le azioni che si possono compiere sul libro: operazioni che devono comunque essere eseguite da persone competenti e con adeguata preparazione.
L’importanza che si dà oggi all’attività di prevenzione è avvalorata anche dal fatto che tra i compiti istituzionali dell’ente principale deputato alla tutela del bene librario in Italia, ossia il nuovo Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario (ICPAL), nato nel 2007 dalla fusione dell’Istituto centrale di patologia del libro (ICPL) con il Centro di fotoriproduzione, legatoria e restauro degli archivi di Stato (CFLR), figura quello di promuovere ed espletare attività di conservazione preventiva, espressamente affidata a uno specifico laboratorio tecnico-scientifico. L’ex ICPL è stato poi, e non a caso, coordinatore scientifico del progetto CONBELIB (CONservazione BEni LIBrari), avallato dall’Unione Europea e denominato La mappa delle competenze per la conservazione preventiva dei beni librari su supporto tradizionale e digitale (2003-2005); tale progetto è nato ed è stato finanziato nell’ambito del programma europeo Leonardo da Vinci, che ha visto coinvolte, oltre all’Italia, Finlandia, Francia, Gran Bretagna e Spagna. Atti finali del progetto sono stati la pubblicazione del Report on preventive conservation of documents in Finland, France, Italy, Spain and the United Kingdom (2004); il Final report (2005) e la messa in rete di un Glossario, comprendente oltre 1200 termini utilizzati nell’ambito della conservazione preventiva dei beni librari e archivistici. Grazie al progetto sono stati definiti i concetti basilari della prevenzione stessa e, nello stesso tempo, sono state fornite le indicazioni necessarie per la formazione di apposite figure professionali, definendo i loro possibili percorsi formativi. Mentre le conclusioni del progetto CONBELIB forniscono un quadro d’insieme della situazione europea (soprattutto per quanto attiene alla formazione degli operatori), più nello specifico rientrano gli IFLA principles for the care and handling of library material (1998; trad. it. 2005), curati da Edward P. Adcock, nonché le indicazioni riassunte nel volume Beni librari e documentari. Raccomandazioni per la tutela (2007), curato da Ornella Foglieni per la Regione Lombardia. Quest’ultimo, risultato di un’attività scientifica iniziata nel 2004 e conclusasi nel 2006, contiene infatti, come indica il titolo, raccomandazioni e linee guida specifiche utili per la salvaguardia dei beni librari conservati nelle biblioteche. Queste Raccomandazioni costituiscono senz’altro un modello di riferimento sia per le altre Regioni sia per lo Stato. In quest’ambito l’ICPAL ha pubblicato un altro testo, I cento passi della prevenzione in biblioteca (2008) di Paola F. Munafò, Assunta Di Febo e Giulia Egidi. In breve, la prevenzione deve essere considerata un’attività necessaria ma di per sé non sufficiente a evitare l’espletamento di operazioni di restauro complesse.
Il restauro
Il restauro è oggi visto come un insieme vario e articolato di operazioni, inserito in un’attività di conservazione più ampia. Esso è diventato un momento di conoscenza del bene librario dal punto di vista sia storico sia scientifico. L’avvicinamento concettuale del restauro librario a quello delle opere d’arte e di tutti gli altri beni soggetti a tutela ha permesso al primo di compiere notevoli progressi. È necessario, tuttavia, fare alcune distinzioni preliminari.
Per prima cosa, diversamente dall’opera d’arte, per la quale non è prevista la manipolazione, il libro è destinato all’uso e alla consultazione. L’opera d’arte, inoltre, è, per sua stessa definizione, un unicum; nel campo dei libri, invece, si può dire altrettanto solo del manoscritto. Ecco uno dei motivi per cui l’attenzione di conservatori e restauratori si è a lungo concentrata sul codice, soprattutto medievale; ma, come già detto, qualsiasi libro, anche se non antico, una volta definitane, secondo parametri stabiliti, la rarità, può rientrare nella categoria del bene culturale. In tal caso potrà essere oggetto di restauro secondo principi identici a quelli applicati all’opera d’arte: rispetto dei materiali e rispetto estetico. Su questa base negli ultimi anni sono stati intrapresi restauri librari che hanno permesso nuovamente la fruizione dell’oggetto-libro, ripristinandone la funzionalità e garantendone nel contempo la conservazione duratura.
Questo modo così complesso di intendere il restauro è, in fin dei conti, un’idea tipicamente ‘italiana’: in Europa e in tutti i Paesi più impegnati nella conservazione, soprattutto quelli anglosassoni, il concetto e la pratica del restauro sono stati molto meno codificati e sono stati affrontati con maggiore pragmatismo rispetto all’Italia che, tuttavia, in questo campo, ha sempre mantenuto una posizione di guida. Nel seguito ci si avvarrà dunque di esempi di restauro solo italiani.
Quando si parla di restauro librario, prima di tutto è necessario superare concettualmente la distinzione tra restauro non invasivo (un tempo chiamato anche piccolo restauro), che non comporta lo smontaggio del volume, e restauro totale, che invece lo comporta. Entrambi sono però – a tutti gli effetti – operazioni di restauro, ossia interventi significativi sul bene librario. Qualsiasi netta divisione fra tipologie di restauro è, dunque, fuorviante non solo dal punto di vista concettuale, bensì anche da quello organizzativo e amministrativo. Spesso, infatti, nella categoria di restauro non invasivo possono essere compresi anche casi che, in realtà, sono restauri a tutti gli effetti, non di rado, anzi, più complessi dei restauri totali.
Alla base di ogni restauro vi è la progettazione, resa oggi obbligatoria dalle leggi vigenti. Per molto tempo, invece, il piccolo restauro veniva eseguito senza alcuna progettazione, nell’errata convinzione che si trattasse di un’attività di ‘servizio ordinario’. All’interno del concetto di restauro dovrà dunque figurare anche quello di un intervento non necessariamente legato all’operazione di scucitura del volume, ma che comunque possa modificarne materiali e struttura. Un esempio significativo di quanto appena detto è il restauro del cod. 28 della Biblioteca Aurelio Saffi di Forlì: un Antifonario, contenente le parti cantate della messa, manoscritto membranaceo di grande formato del primo decennio del 14° secolo. L’intervento è stato eseguito nel 2007 dall’ICPAL ed è un esempio di restauro senza smontaggio, quindi non invasivo secondo la suddetta distinzione convenzionale, che però si è rivelato molto più complesso di qualsiasi restauro totale, benché le operazioni eseguite abbiano modificato solo in minima parte l’originale nel suo complesso di struttura, materiali e testo. Il manoscritto si trovava in cattivo stato di conservazione soprattutto nella legatura, ma anche le carte membranacee presentavano alcuni danni; inoltre il codice aveva subito precedenti interventi di restauro durante i quali numerosissimi chiodi erano stati inseriti nella legatura per fermare parti aggiunte di cuoio e ferro. È stato possibile rinforzare la cucitura e prolungare i nervi spezzati, sono stati inoltre ricomposti e rinforzati i capitelli originali, conservati le assi lignee e l’originale rivestimento in cuoio, è stato sostituito soltanto il dorso con uno nuovo aggiunto a intarsio lungo il perimetro del cuoio originale. I materiali utilizzati, che costituiscono, accanto alle tecniche, uno degli elementi più importanti in un’operazione di restauro, sono stati scelti in un’ottica di conservazione delle caratteristiche preesistenti; pertanto si è optato per carte fabbricate a mano; cuoio di origine ovina, come l’originale, conciato al vegetale; adesivi a base di metilcellulosa e amido di mais modificato (Casetti Brach 2007). In conclusione, una volta presa la decisione di restaurare il codice, sia l’intervento in senso stretto sia la scelta dei materiali utilizzati sono stati fatti in modo che le varie componenti venissero modificate solo in minima parte. Un’esigenza ormai condivisa dai più è, infatti, quella di «raggiungere l’ambizioso scopo di riunire insieme più finalità: salvare dal degrado un’opera, ottenere un risultato che non disturbi il senso estetico, garantire una conservazione futura, il tutto nel rispetto delle caratteristiche dell’opera» (C. Casetti Brach, introduzione a Libri & carte, 2006, p. 11). Del resto il libro, secondo un concetto ormai totalmente acquisito, è un insieme composito costituito sì dal testo che trasmette (e per cui fondamentalmente è stato realizzato), ma anche dalle sue numerose componenti materiali e strutturali. A queste un tempo non era data la giusta importanza che, invece, oggi gli viene riconosciuta, anche a seguito di un processo storico e intellettuale avviatosi con gli studi codicologici e paleografici sorti principalmente in area franco-belga. Il libro va quindi studiato integralmente sia per il testo che trasmette sia per la sua storia (appartenenza a un fondo, committenza, destinazione; nonché, non trascurabili, i segni nel tempo), sia infine per la sua struttura e materialità (supporto, inchiostro, cucitura, legatura nel suo complesso). La consapevolezza di ciò ha modificato sostanzialmente tutta l’attività del restauro, dalla sua programmazione alla realizzazione definitiva: quest’ultima, in particolare, non è più obbligatoria, casuale e isolata. È importante sottolineare la non obbligatorietà del restauro; la decisione se effettuarlo o meno è determinata da vari fattori, tra cui il più importante è se restituire al volume la sua funzionalità oppure no, e per tale decisione non si può prescindere dal rapporto che il volume ha con il luogo in cui è conservato e le conseguenti necessità.
Le tecniche e i materiali del restauro
La diagnostica abbinata alla ricerca permette oggi di eseguire restauri più mirati. L’intuizione di Alfonso Gallo, fondatore dell’Istituto di patologia del libro nel 1938, nonché il primo a esprimere chiaramente la necessità che il libro venisse studiato come ‘entità fisica’ dal punto di vista storico e scientifico, è sempre più attuale, sicché oggi nessun restauro di rilievo può essere eseguito senza la convergenza di più discipline e di più azioni: la diagnostica, la ricerca sulle cause dei danni, lo studio dei materiali da utilizzare, la definizione delle tecniche esecutive, la progettazione, il restauro in senso stretto, la sua documentazione, la verifica dei risultati nel tempo.
Riguardo all’utilizzo dei materiali per il restauro, è ormai del tutto superato l’antico concetto che quelli aggiunti con l’intervento debbano necessariamente essere uguali a quelli originari. Poiché il restauro viene comunque considerato un’operazione necessaria per la salvaguardia del bene, di cui però implica modificazioni, l’utilizzo dei materiali dev’essere visto in un’ottica diversa, tenendo nel debito conto la struttura materiale del manufatto anche riguardo alla sua composizione chimica e fisica. Un esempio di questo concetto può essere considerato il restauro del ms. Piana 3.207 della Biblioteca malatestiana di Cesena, anch’esso eseguito presso l’ICPAL nell’ambito del progetto Salviamo un codice, ideato e voluto da «Alumina. Pagine miniate», rivista dedicata ai codici miniati. Tale progetto si propone la salvaguardia e la conservazione dei manoscritti miniati, attraverso «un intervento più o meno incisivo di manutenzione o di restauro» (V. de Buzzaccarini, Salvare un codice. Una missione di cultura, in Per giusta causa, 2008, p. 10). Nell’intervento, che aveva principalmente lo scopo di restituire unità a un codice che, a seguito di un furto, risultava sfascicolato, sono stati usati materiali diversi da quelli originali, ma più idonei al restauro e alla futura conservazione del volume. Così, per es., è stata usata carta e non pergamena per il risarcimento delle lacune delle carte membranacee, ed è stato usato cuoio di pecora e non di vitello per integrare le parti mancanti della coperta, sempre al fine di ottenere un risultato valido anche esteticamente, in base al concetto di ‘buon restauro’ già espresso. La necessità del restauro di un libro allo scopo di restituirgli le proprietà fisiche e meccaniche e la sua funzionalità non deve, infatti, alterarne – è bene ricordarlo –, se non in minima parte, l’aspetto estetico e il valore storico (Cordaro 2000, 20032).
Ovviamente un errore nella scelta dei materiali può sempre avvenire, ma un’approfondita ricerca, la crescente gamma di prodotti esistenti sul mercato e una diversa visione dell’intervento limitano oggi le probabilità che ciò accada. Uno dei criteri basilari per la scelta dei prodotti utilizzabili, ormai riconosciuto da tutti, è la reversibilità. Proprio la non reversibilità, o comunque una difficile reversibilità, è stata, infatti, la causa di danni dovuti ai restauri realizzati in passato. Capita così sempre più spesso di dover intervenire su volumi restaurati soprattutto a metà circa del secolo scorso, quando era molto diffuso l’uso di velare le carte indebolite o danneggiate da inchiostri ferrogallici utilizzando adesivi di natura organica o anche materiali non organici, come l’acetato di cellulosa applicato con presse a caldo o con solventi. La rimozione di questi interventi è particolarmente complessa, ma per fortuna oggi possibile. È ovviamente importante saper valutare i risultati affinché la rimozione dei precedenti restauri possa effettivamente ridare funzionalità e leggibilità al volume. Tale necessità è emersa molto chiaramente nel convegno Restaurare i restauri. Metodi, compatibilità, cantieri, tenutosi a Bressanone dal 24 al 27 giugno 2008, che prevedeva anche una sezione sui restauri di opere cartacee, ancora una volta nell’ottica del comune denominatore valido per ogni restauro, sia esso applicato a opere architettoniche, artistiche o librarie. L’ICPAL, in tale occasione, nel presentare alcune sue recenti attività di restauro su opere cartacee, ha evidenziato in particolare l’intervento sul ms. Ott. lat. 696, appartenente al fondo dei manoscritti della Biblioteca apostolica vaticana, che ha visto la necessità, in particolare, della rimozione della colofonia, resina naturale molto usata nell’antichità perché di agevole reperimento, ma acida e facile all’ossidazione. Un sistema articolato di operazioni, conseguente a numerose prove e a varie sperimentazioni, ha permesso di mettere a punto un metodo molto efficace per la rimozione delle antiche velature. Le altre operazioni di restauro, quali la deacidificazione e la riduzione dell’ossidazione delle carte e l’applicazione di una nuova velatura, hanno restituito al manoscritto una leggibilità che era andata completamente perduta (Botti 2008).
La carta, materiale più fragile e deperibile della pergamena, è stata spesso oggetto di studi e di ricerche. In particolare, l’attenzione dei chimici (e conseguentemente anche dei restauratori) si è focalizzata sullo studio di enzimi e di gel per la pulitura della carta e la rimozione degli adesivi (Banik, Cremonesi, de La Chapelle, Montalbano 2003). Un esempio di restauro esemplificativo di queste metodologie è quello dei cartoni di Guido Reni e del Taccuino rosso di Francesco Hayez, eseguito dall’Opificio delle pietre dure di Firenze: l’uso di questi prodotti, così come quello accorto di resine acriliche e di colle naturali, quali l’amido di mais modificato, hanno portato a risultati molto soddisfacenti.
Così il restauro effettuato nel 2008 dall’ICPAL del ms. cartaceo XIII.B.7, del 16° sec., appartenente al fondo dei manoscritti della Biblioteca nazionale di Napoli e contenente le Antichità di Pirro Logorio, ha permesso grazie a un innovativo sistema di velatura, che ha visto l’uso abbinato di resine acriliche e adesivi quali le metilcellulose, di ridare a carte molto danneggiate la loro naturale consistenza (Casetti Brach, Botti, Riccardi, Boni 2009).
In quest’ottica di interventi sempre più mirati e attenti, si può dire ormai felicemente superata l’idea che per ogni restauro sia necessario procedere a quelle che erano un tempo diventate operazioni consuetudinarie ma invasive e spesso non necessarie: lavaggio, deacidificazione, ricollatura delle carte, restauro o esecuzione di una nuova legatura. Oggi, grazie a opportune ricerche di tipo diagnostico, per altro sempre più progredite, si riescono a progettare tipi diversi di intervento, frutto della piena conoscenza dello stato di conservazione dei materiali costitutivi del libro, delle cause del loro deterioramento e anche della capacità di individuare quali siano i materiali giusti da utilizzare.
L’attenzione e l’interesse di vari studiosi, ricercatori e restauratori si sono incentrati in maniera specifica sulle tecniche di restauro dei manufatti cartacei, libri e opere grafiche su carta, il che ha permesso di mettere a punto nuove tecniche di intervento su qualsiasi tipo di carta antica o moderna. Il concetto che ogni intervento sia un caso a sé, noto anche in passato, ma non sempre tenuto nel debito conto nell’ordinaria pratica del restauro, è alla base dell’attuale diversificazione dei trattamenti e delle metodiche da applicarsi al bene da restaurare. Si può o, meglio, si deve evitare quindi ogni standardizzazione delle pratiche di restauro, scegliendo non solo le tecniche ma anche i materiali più adatti per le singole opere da restaurare. Da ogni intervento si possono così ricavare nuove conoscenze, spesso riutilizzabili nelle pratiche successive.
Uno dei problemi maggiormente sentiti nell’attività del restauro è quello delle lacune, ripetutamente affrontato in questi ultimi anni. Anche qui non si può prescindere dall’influenza esercitata dall’attività di restauro delle opere d’arte e dagli scritti pubblicati da storici dell’arte e restauratori del settore. È d’altronde ovvio che il dibattito sia partito da lì, ed è un bene che decisioni e azioni in questo campo abbiano influenzato anche il settore dei beni librari. Per lungo tempo, nel caso dei libri non ci si è posti il problema di come affrontare il restauro delle lacune, che possono riguardare tanto le carte che costituiscono il corpo del libro, siano esse cartacee o membranacee, quanto la legatura o, meglio, la coperta del volume. La specificità della natura del bene determina la scelta più opportuna sulle tecniche di intervento e sui materiali da usare: la scelta della carta per la reintegrazione della lacuna, degli adesivi più adatti, di come adeguare il colore del nuovo materiale al colore di quello che si va a restaurare. Queste scelte vanno ovviamente fatte rispettando sia l’aspetto materiale sia quello estetico del bene librario. Oggi, a differenza di quanto avveniva in passato, si tende a non distaccarsi troppo, né nella struttura né nel colore, dall’originale, senza però arrivare al falso, bensì mantenendo sempre la riconoscibilità dell’intervento. I cosiddetti risarcimenti o integrazioni dovranno essere cioè sempre riconoscibili, senza però disturbare l’aspetto estetico del bene (Lacuna, 2004, 20092). Un caso esemplificativo di quanto detto è il restauro della coperta del volume contenente l’opera di Onorato Roux, La prima regina d’Italia (1901), appartenente al fondo librario della Biblioteca storica del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze ed eseguito dall’ICPAL. L’intervento sulla coperta ha visto non solo il reintegro della pergamena (in questo caso con altra pergamena), ma anche il ritocco cromatico per adeguare il colore della nuova pergamena al colore di quella originale (Libri & carte, 2006).
La questione delle legature è una delle più delicate da affrontare nella gestione del restauro di un volume. La scelta di come restaurare (o eventualmente quella di non restaurare) la legatura, che costituisce la parte immediatamente visibile di un libro nonché quella più complessa, deve essere fatta in base a numerosi elementi e considerazioni. Oggi, grazie a una diversa idea del restauro detto conservativo – definizione che riunisce simbolicamente i due aspetti principali di quanto si sta dicendo, conservazione e restauro –, si possono eseguire interventi che permettono di ottenere risultati soddisfacenti sia sotto il profilo storico-documentario sia sotto quello estetico. Il libro per il quale sia deciso un intervento di restauro può avere un valore intrinseco, ma per lo più non costituisce una realtà isolata, bensì fa parte di un fondo, della collezione di una biblioteca: il che assegna valore documentario a tutte le parti che lo costituiscono. La legatura è una delle parti essenziali, perché spesso identificativa di un fondo e fonte di notizie storiche di primaria importanza. Affrontarne il restauro comporta spesso decisioni difficili da prendersi nel rispetto dei principi base validi per il restauro in generale. Dopo aver optato per l’intervento, il primo passo sarà quello di stabilire se restaurare o, viceversa, sostituire la legatura. Nel primo caso, il restauro dovrà essere riconoscibile e reversibile, nonché esteticamente felice; nel secondo, si dovrà scegliere la tipologia di legatura più opportuna. Non esistono quindi regole precise cui affidarsi, ma saranno l’esperienza, la sensibilità e la conoscenza di chi opera a guidarlo nelle scelte più adatte.
Un qualsiasi intervento su un libro antico o moderno può servire ad approfondire la conoscenza di tecniche e materiali e può, talvolta, essere occasione anche di scoperte, con il ritrovamento di frammenti o parti di testi che si possono celare nelle varie sezioni di una legatura, come nei piatti o nell’indorsatura. A questo proposito si può citare il caso del ms. Vitali 26 della Biblioteca Passerini-Landi di Piacenza, costituito dalle trentacinque carte ritrovate nel 19° sec. da Fabio Vitali, avvocato bibliofilo di Piacenza che, incuriosito dai fogli che si intravedevano nei piatti un po’ rovinati della coperta di un incunabolo in suo possesso, smontò la legatura e la mise in acqua. La legatura, a seguito di questa estrema operazione di smontaggio, è andata perduta, ma sono state ritrovate ben trentacinque carte, che oggi costituiscono tale manoscritto. Le carte, per la datazione assai antica (1360-1370) e per le caratteristiche grafiche, inizialmente avevano fatto supporre che fossero autografe di Giovanni Boccaccio; studi successivi hanno dimostrato che non lo sono ma che costituiscono comunque un ‘pezzo’ molto significativo nella tradizione testuale del Decameron. Questo ritrovamento rappresenta un caso estremo di scoperta, per altro ottenuto al costo di una perdita di peso senz’altro minore (Casetti Brach, Riccardi 2008).
Oggi quindi, grazie a studi e ricerche, all’introduzione di strumenti e apparecchiature sempre più innovativi per la diagnostica applicata ai beni culturali, è possibile avere una conoscenza approfondita del bene e anche ottenere significativi progressi nell’uso di materiali e prodotti, quali solventi e adesivi, in modo tale da ottenere risultati sempre più soddisfacenti in un’ottica di continuo miglioramento e superamento di antichi pregiudizi.
La progettazione
Aver reso obbligatoria la progettazione è un fatto tutto sommato recente, databile alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Da allora l’attività di progettazione di un restauro, sia pure fra varie vicissitudini, ha sempre accompagnato il lavoro degli addetti alla tutela delle raccolte librarie delle biblioteche italiane. L’obbligatorietà della progettazione non solo ha contribuito, è bene ricordarlo, a porre il restauro librario, dal punto di vista organizzativo e legislativo, sullo stesso piano di quello degli altri beni, artistici, architettonici e archeologici, ma ha anche inciso sulla formazione di coloro che operano in questo ambito.
Ogni progettazione va preceduta da una ricerca e da una descrizione di tipo storico e documentario. La necessità della progettazione, da attuarsi attraverso quella che si chiama scheda-progetto, va vista in un quadro più ampio che ha ridefinito il senso del restauro librario. Per prima cosa, la scheda prevede una parte descrittiva del bene dal punto di vista storico-bibliografico, in cui il volume viene studiato sotto ogni punto di vista, fattuale e contenutistico, inserito nel contesto della biblioteca di appartenenza. La parte della scheda più legata all’aspetto conservativo permette invece di conoscere la situazione fisica e ambientale che ha concorso allo stato di conservazione dell’opera; a questa segue infine la parte strettamente tecnica e operativa. La progettazione non va vista, bisogna sottolinearlo, come uno strumento rigido, bensì flessibile. Infatti, le ‘varianti in corso d’opera’ sono spesso fondamentali durante un lavoro di restauro, che è in realtà un vero e proprio work in progress, ossia un susseguirsi di conoscenze acquisite nel corso del processo e di decisioni consequenziali. Un esempio di ciò può essere considerato il restauro del Registro notarile di Parente di Stupio, manoscritto cartaceo della fine del 13° sec., appartenente all’Archivio notarile di La Spezia, realizzato nel 2004 presso l’ICPAL. Questo intervento ha visto la partecipazione di esperti di discipline scientifiche e umanistiche. Lo studio integrato del Registro, eseguito dal punto di vista chimico, biologico, codicologico e paleografico, ha portato alla realizzazione di un restauro che si è andato delineando nel corso stesso del complesso lavoro. La scelta del tipo d’intervento, nata dalla necessità di conservare il codice, recuperando nello stesso tempo la leggibilità di un testo che risultava molto compromessa dallo stato di conservazione in cui versava il volume, è stata determinata dal desiderio di non alterarne eccessivamente l’aspetto che, dopo tanti secoli, esso presentava. Si è così giunti a un restauro che si potrebbe definire non finito, poiché ha lasciato, sebbene consolidate e restaurate, le carte nel loro originario aspetto frammentato, senza risarcire le lacune fino alla ricomposizione del foglio, bensì chiudendole quel tanto che bastava a evitare ulteriori perdite di testo. Durante il restauro, non vincolato da una progettazione rigida e inalterabile, è stato scelto di conservare la coperta originale del volume. Quest’ultimo, infatti, dopo una cucitura fatta seguendo i fori originari e realizzandone di nuovi lì dove non erano presenti, è stato protetto da una coperta in cartoncino a lunga conservazione montata sul corpo del libro; la coperta originale, restaurata in minima parte e solo lì dove era strettamente necessario, è stata semplicemente appoggiata al libro come una ‘sovraccoperta’, senza unirla a esso tramite un legame fisso (Libri & carte, 2006).
La programmazione e la documentazione del restauro
L’idea che il restauro debba essere programmato è ormai un concetto acquisito: la non casualità di un’operazione di restauro è già un elemento di garanzia per la sua buona riuscita. Alla base della programmazione c’è ovviamente un tipo di conoscenza alla quale si può arrivare attraverso numerosi strumenti: la catalogazione dei fondi librari, le revisioni periodiche o anche i censimenti dei fondi, mirati esclusivamente al rilevamento dei dati relativi allo stato di conservazione dei libri, in modo da permettere un’organizzazione a lungo termine del lavoro e un’attenta valutazione delle necessità e delle priorità.
L’obbligatorietà applicata alla progettazione del restauro si deve estendere quindi anche alla programmazione e al coordinamento degli interventi sui beni librari, al fine di operare scelte non casuali, ma consapevoli e corrette di un intervento, in linea con quanto scrisse Michele Cordaro nel 1976: «La conservazione dei beni culturali intesa come la serie di interventi adatti ad assicurare la sussistenza fisica dei materiali che costituiscono i beni stessi e a proteggerne l’esistenza da tutti i possibili fattori di deterioramento non può non proporsi alla luce della nuova consapevolezza della globalità del patrimonio storico-artistico» (2000, 20032, p. 10). Queste parole enfatizzano la necessità di una programmazione dell’attività legata alla tutela e alla conservazione che preceda il restauro, che in ogni caso resta un atto talvolta indispensabile per il recupero del bene. Quella che oggi è chiamata conservazione programmata permette quindi di avere un piano dettagliato della situazione conservativa di un fondo librario, predisponendo così interventi preventivi al fine di evitarne altri più invasivi. Numerose biblioteche italiane hanno avviato in questi anni censimenti a tale scopo. Un progetto di revisione e censimento che può essere preso a modello è quello elaborato e attuato dalla Biblioteca corsiniana dell’Accademia nazionale dei Lincei. Il progetto, iniziato nel febbraio 2003 e conclusosi nel marzo 2004, ha avuto come oggetto il materiale librario presente nella sala Manoscritti e rari della biblioteca. Ha portato al censimento e alla descrizione dello stato di conservazione di oltre 10.000 volumi, tra opere a stampa e manoscritti, con la creazione di un software e di un data-base che permetteranno l’organizzazione del lavoro di restauro nell’avvenire, evitando così interventi occasionali.
Infine, è bene sottolineare la necessità che ogni restauro venga accompagnato da una documentazione non solo cartacea, ma anche fotografica, di tutte le fasi. Questa, ben conservata e di facile accesso, costituirà per ogni istituzione una fonte essenziale di conoscenza. Conseguenza di una tale impostazione è di stabilire protocolli generali per la costituzione dei data-base e anche di preservare questi ultimi nel futuro garantendone la rintracciabilità e l’utilizzo anche quando gli attuali software di gestione dovessero essere superati.
La formazione
L’attività del restauro nell’ambito della conservazione è l’unica a implicare il possesso di una particolare attitudine: la manualità. Questa capacità, innata o acquisita che sia, deve essere posseduta dal restauratore. Se quello del restauratore dei beni artistici non è un mestiere antico, lo è ancor meno quello di restauratore dei beni librari. La formazione in senso stretto di quest’ultimo, come anche la formazione del restauratore degli altri beni culturali, ha una data d’inizio precisa: il 1998, anno di pubblicazione del d. legisl. 20 ott. n. 368, che riordina il mondo della formazione del restauratore. Verrà poi il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 a indicare compiti e competenze dell’attività di formazione. Quella del restauratore dei beni librari è affidata allo Stato attraverso l’ICPAL, che ha il compito di istituire una Scuola di alta formazione e studio (SAF) che prevede un corso di studi quinquennale. L’insegnamento del restauro può essere anche impartito da centri regionali o da altri soggetti pubblici o privati purché accreditati presso lo Stato (Codice, art. 29, 9° e 11° co.).
La storia della formazione del restauratore accompagna in un certo senso il cambiamento che negli ultimi decenni ha riguardato il concetto di restauro del bene librario: infatti, proprio perché il restauro non è più visto come una semplice ‘riparazione’, bensì come un nuovo e complesso arcipelago di competenze, si è giunti a imporre al restauratore una preparazione professionale in cui le esperienze pratico-artigianali vengano integrate con conoscenze scientifico-umanistiche. In realtà, sebbene il termine artigianale continui a mantenere comunemente un’accezione negativa, soltanto una grande abilità manuale, affinatasi nella disciplina di un lungo esercizio e di una ricca esperienza, potrà permettere di raggiungere risultati sempre più apprezzabili in questo campo.
Conclusioni
Il cammino compiuto dal restauro del libro a partire dal secolo scorso è stato, come spesso accade, costellato da successi e insuccessi. Tuttavia, è ormai consolidata l’idea, e questo può essere annoverato tra i successi, che il restauro del libro, inteso come bene culturale, sia assimilabile, nella sua complessità, al restauro di qualsiasi altro bene, e pertanto libero dalle costrizioni che l’hanno afflitto per lunghi decenni. Come in ogni campo, anche in questo l’importante è raggiungere il giusto equilibrio fra le norme astratte e la concretezza degli interventi, fra le competenze specialistiche e l’organizzazione del lavoro, fra le conoscenze culturali di fondo e le abilità manuali.
Ciò che inoltre vale la pena di sottolineare al termine di questo breve excursus è come il concetto di tutela insieme con quello di conservazione, da un lato, e le attività tecniche di prevenzione, manutenzione, progettazione e restauro, dall’altro, si siano affermati e chiariti soprattutto tra la fine del 20° e l’inizio del 21° secolo. L’idea di restauro di un bene librario basato sulla diagnostica, sullo studio delle cause del danno e dei materiali da utilizzare congiuntamente alla documentazione degli interventi e alla verifica della loro validità nel tempo, è senza dubbio una conquista talmente recente da lasciare intuire per il futuro nuovi e importanti sviluppi.
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