Il riconoscimento dell'alterita religiosa
Al termine di una ricerca sulla comunità sikh in provincia di Cremona ebbi modo di visitare il loro tempio. È il primo in ordine di tempo a essere stato aperto in Italia. Si trova un po’ fuori Novellara, in provincia di Reggio Emilia. È un ex capannone della zona industriale che è stato ristrutturato e trasformato in luogo sacro. Inaugurato nel 2000 alla presenza dell’allora Presidente della Commissione europea, Romano Prodi, il tempio è un punto di riferimento di una vasta comunità che conta oggi, in Valle Padana, circa 20.000 persone e, in tutta Italia, oltre le 40.0001. A questo primo tempio ne sono seguiti altri quindici. La cittadina reggiana, che conta nel 2010 13.700 abitanti, ha una popolazione di origine straniera superiore alle duemila persone, pari al 15,5% del totale dei residenti. Nel 1999 gli stranieri erano appena 447. La prima comunità è quella cinese, seguita subito dopo da quella indiana, pakistana, marocchina e poi da altre piccole presenze, per un totale di una decina di paesi rappresentati nel territorio. I sikh sono più di trecento.
Nel 2009 il tribunale di Vicenza ha riconosciuto che il kirpan (il pugnaletto che un sikh devoto deve indossare assieme ad altri simboli religiosi) non è da considerare un’arma bianca. Mentre qualche mese prima ad Arzignano in provincia di Vicenza (24.000 abitanti, quasi il 20% stranieri), la capitale dell’industrioso distretto della concia delle pelli, un vigile urbano ha elevato una contravvenzione a un giovane sikh che girava in moto senza casco. Ne è nata una discussione in città e sulla stampa locale. Gli abitanti del vicentino hanno così fatto conoscenza con i sikh: hanno imparato a non considerarli degli arabi, per via del fatto che molti di loro indossano abitualmente un turbante e a riconoscerli come lavoratori seri e riservati, così com’era avvenuto, del resto, a Cremona. Qui alla fine della nostra ricerca, grazie all’intuizione di un collaboratore alla stessa2, si è organizzata una mostra fotografica dal significativo titolo InDi-visibili, un titolo che alludeva al fatto che sino ad allora ben pochi abitanti di Cremona e provincia si erano accorti che ormai nelle cascine il posto dei ‘bergamini’ (i casari addetti all’allevamento delle mucche) era stato preso ormai in prevalenza da immigrati provenienti dal Punjab, i sikh appunto. Un pezzo di cultura e di religione del sub-continente indiano si è trapiantato nella Padania. I sikh sono arrivati sovente con tutta la famiglia – grazie alle condizioni economiche previste dal contratto di bergamino: buon salario e abitazione, annessa alla stalla –, agli inizi degli anni Ottanta; oggi abbiamo già una seconda generazione che si pone domande del tipo ‘chi siamo noi?’ e pone domande a noi altrettanto intriganti ‘come ci considerate? Ancora stranieri oppure italiani a pieno titolo, anche dal punto di vista della libertà religiosa?’. Quando siamo andati a visitare il tempio di Novellara, il suo responsabile ci ha affidato, a sorpresa, a una guida che ci aveva assicurato che avrebbe saputo interloquire meglio di lui in italiano. E così è stato. Ci siamo trovati davanti a un ragazzino di seconda media – occhi neri, vivacissimi, con una bandana blu in testa, segno dell’imminente cerimonia del battesimo con l’ambrosia – che ci ha introdotto al tempio e spiegato ogni cosa. Per farci capire meglio che cosa stavamo visitando, egli ha fatto ricorso a una sequenza d’immagini del tipo: «Questa è la nostra chiesa», «Il Libro [il loro testo sacro, l’Adi Granth Sahib, che nel momento in cui entravamo era letto da un salmodiante sikh] è la nostra Bibbia», «Sulle pareti vedete i ritratti dei nostri Santi», «dopo la visita della sala principale, scenderemo al piano interrato per la Mensa comune». Per ogni espressione pronunciata dal ragazzo era come se in automatico egli traducesse concetti, simboli e termini della sua religione in concetti, simboli e termini di ‘prossimità’, facili da capire da parte di chi egli considerava naturaliter cattolico. Almeno ci si capiva, senza troppo rimarcare differenze e lontananze. Uno spontaneo mimetismo sociale ‘via religione’. Ci si può chiedere se l’esperienza concreta di questo ragazzo, tra famiglia, scuola e forse patronato in una parrocchia di Novellara, non sia già segnata dal positivo sforzo di conservare la propria identità religiosa in un ambiente diverso, influenzato visibilmente da una religione come il cattolicesimo, di cui lui sembra consapevole.
Un’integrazione riuscita? Non si può esserne sicuri. Se per il giovane italo-sikh, di cui sopra, non sembrano esserci problemi particolari, altri più grandi di questo adolescente, invece, mostrano di soffrire o il sentimento di diffidenza che si coglie negli ambienti di lavoro che essi frequentano (il sentirsi chiamare ‘talebani’ perché si porta il turbante) o il disagio profondo di dover mettere in discussione alcuni elementi non secondari del proprio credo, come emerge, ad esempio, da una delle quaranta interviste raccolte da Bertolani fra le seconde generazioni sikh in Italia (2010):
«ho frequentato scuole italiane, ho amiche italiane, so la lingua, lavoro e sono qui da tanto tempo, ma mi sento di più indiana. Anche se sono da tanti anni qua in Italia, preferisco rimanere sempre indiana… La mia identità indiana è legata alla mia religione. Molto alla religione, poi alla casa… in India. Però per me è molto importante la mia religione»3.
I sikh rappresentano una delle tante comunità religiose che provano a organizzarsi, rendendo visibili i luoghi di culto, le varie manifestazioni della loro religiosità e, di conseguenza, cominciano ad avanzare legittime pretese di riconoscimento pubblico. La diversità religiosa, legata alle migrazioni di tante donne e uomini che hanno scelto il nostro paese come ‘meta di speranza’ di vita migliore, è diventata così un ‘fatto’ sociale, per tanti aspetti inedito e imprevisto. La geografia socio-religiosa italiana sta gradualmente cambiando. L’Italia resta ancora cattolica, ma non lo è più come in passato. L’occhio non vede ancora i segni e i simboli di altre religioni; eppure essi ci sono: i sedici templi sikh, i quasi 750 luoghi di culto musulmano4, le centinaia, anche se piccole, chiese neo-pentecostali africane, asiatiche e latino-americane, i centri di meditazione buddisti e hinduisti e la prima trama di parrocchie ortodosse sono già presenti, e prima o poi saranno sempre più visibili, ‘a occhio nudo’. Secondo l’ultimo rapporto della Caritas/Migrantes5 la distribuzione della popolazione di origine straniera (7% sul totale della popolazione italiana) e della seconda generazione che comincia a formarsi (circa un milione sui cinque milioni del totale d’immigrati) in rapporto alle presunte (poiché non esistono statistiche affidabili che possano effettivamente descrivere le reali proporzioni numeriche delle diverse fedi religiose) appartenenze religiose, si configura nel modo seguente: uno su due è cristiano, gli ortodossi sarebbero quasi un milione e duecento mila; i protestanti circa 140.000 – in gran parte affiliati alle chiese africane, latinoamericane o asiatiche della tendenza pentecostale e carismatica, mentre i cattolici sarebbero oltre le 700.000 unità – prevalentemente provenienti dalle Filippine o dall’area Tamil dello Sri Lanka o dai paesi latinoamericani; un terzo è musulmano (1.250.000 persone circa, dato tutto da verificare perché tende a sovrapporre la provenienza geografica all’appartenenza automatica all’islam, ciò che non è sempre vero, come, ad esempio, nel caso di persone provenienti dall’Egitto o dalla Giordania o dall’Iraq); meno di un decimo è di religione hindu, sikh o buddista (circa 150.000 persone); infine, meno di cinquantamila apparterrebbero alle religioni tradizionali africane o asiatiche.
Un ultimo dato può essere illuminante per comprendere come la diversità religiosa non costituisca nelle relazioni micro-sociali una difficoltà insuperabile: dal 1995 al 2007, i matrimoni misti sono stati complessivamente 222.251 e, solo nel 2008, se ne sono registrati ben 23.650 su i circa 240.000 matrimoni celebrati nello stesso anno (il 9,8%).
È come se le diverse comunità di cui sopra provassero a cucire sulla tela socio-religiosa del nostro paese nuove figure del divino e dei molti modi di riconoscerlo, adorarlo e pregarlo. Qual è il rapporto allora che gli italiani, in grande maggioranza, culturalmente legati al cattolicesimo, intrattengono con tale diversità religiosa che i flussi migratori hanno prodotto?
Finché le religioni degli altri sono rimaste per così dire fuori del nostro perimetro territoriale e sociale, a esse si è guardato con un misto di attenzione, curiosità, con lo spirito aperto al dialogo e al confronto. Quando esse sono diventate ‘vicine di casa’, iniziando a prendere forma in carne e ossa, le aperture si sono alternate alle chiusure. Qualche uomo della Chiesa cattolica ha cominciato a dire che era meglio avere immigrati dai paesi dell’Est piuttosto che quelli a maggioranza musulmana (‘perché questi ultimi non s’integrano facilmente’), dando forma autorevole a un modo di pensare e di sentire diffuso: le religioni degli altri possono mettere in crisi la nostra identità culturale che si rappresenta radicata nel cristianesimo e, in particolare, nel cattolicesimo6.
Il riconoscimento delle diverse presenze religiose non è ancora avvenuto appieno. Dal 2001 in poi, in particolare, tale processo ha conosciuto una battuta di arresto. Non solo perché alcuni attori politici hanno cercato di accreditarsi come i difensori della tradizione (cattolica) e di conseguenza come l’antemurale ideologico nei confronti dello straniero che si porta appresso, entrando ‘a casa nostra’, costumi e religioni straniere, se non minacciose dell’identità culturale degli italiani, ma anche perché i risultati elettorali a loro favorevoli hanno rappresentato una conferma di quanto tali umori e sentimenti siano diffusi. A Novellara, in un comune che in tutti questi anni ha moltiplicato gli sforzi per favorire l’incontro fra cittadini di diverse fedi religiose, alle elezioni comunali del 2009 si è registrato un primo indicativo successo della Lega Nord (10% di voti). La Lega da allora ha condotto le sue campagne nazional-religiose, come altrove, anche in Emilia-Romagna, venendo premiata con l’avanzata alle elezioni regionali del 2010 (con il 13,7% con un incremento del 163% rispetto alle precedenti).
È utile ricordare nell’economia del discorso che ci accingiamo a fare, che una delle ultime campagne della Lega Nord ha riguardato il crocefisso, a valle della decisione presa dalla Corte europea ai primi di novembre del 2009. A Novellara, così come in tutti i comuni del Nord dove la Lega è molto più forte e presente nel territorio, sono apparsi i banchetti per la raccolta di firme di protesta per chiedere che le croci non fossero rimosse dalle aule scolastiche oppure alcuni sindaci hanno distribuito gratis nelle piazze piccoli crocefissi oppure, ancora, altri hanno votato nei consigli comunali ordini del giorno per stabilire il principio dell’inamovibilità della croce dalle aule consiliari e così via.
Tutto ciò che sinora è stato detto, può essere preso come una microstoria che illustra bene come e quanto sia cambiata profondamente l’Italia nel respiro cortissimo della sua vita nazionale. Per comprendere la sua nuova geografia socio-religiosa, in particolare, occorre dotarsi di altre bussole rispetto a quelle che abitualmente usavamo per leggere i processi di cambiamento culturale e religioso, che avvenivano prevalentemente dentro il cattolicesimo italiano.
Ciò che intendiamo mostrare è non solo l’ampiezza del mutamento, ma anche la complessità sociale che esso produce nei comportamenti e nelle rappresentazioni sociali degli italiani che ancora, almeno a parole, si dicono cattolici. L’inedito pluralismo religioso che prende forma e corpo sociale, con tutte le sue alterità nelle credenze, nei rituali, nelle molte lingue sacre, nei costumi e negli abiti del cuore sembra provocare quattro effetti sociali inattesi nella società dei cristiani d’Italia, di cui i cattolici detengono, per ragioni storiche, il pacchetto di maggioranza: il ripensamento sul mito di fondazione dell’identità nazionale; la polarizzazione ‘fra’ cristiani rispetto al modo con cui porsi di fronte alle differenze religiose e, infine, se e fino a che punto riconoscerle; la tentazione di ridurre le differenze religiose a differenze etniche, arrivando a classificare quelle ‘buone’ e tollerabili rispetto a quelle marcate ‘dal sospetto’ da tenere sotto sorveglianza, cedendo alla tentazione di trattarle come un problema d’ordine pubblico; la fissazione, attraverso lo schermo religioso, di un nuovo nemico della civiltà cristiana, europea, occidentale, l’islam, ritornando così a un’inattesa riedizione di una nuova Guerra fredda, i cui segnali sono sempre più chiari in vari Stati dell’Unione europea, così come in Italia.
Dopo aver richiamato brevemente come sino agli inizi degli anni Ottanta, l’alterità religiosa era un ‘affare’ di alta teologia e di grandi iniziative ecumeniche e interreligiose, con le migrazioni di popolamento che l’Italia ha conosciuto negli ultimi trenta anni il singolare pluralismo degli italiani7 si è venuto misurando con un’oggettiva diversità socio-religiosa, cui essi non sono avvezzi e che li trova in larga parte impreparati, almeno a breve. Le nuove generazioni probabilmente avranno imparato a riconoscersi sin dai banchi di scuola, nei luoghi di divertimento e nei consumi giovanili come diversi, ma allo stesso tempo italiani. L’essere cattolico non sarà più un ‘dato-per-scontato’ nell’orizzonte di senso di molti italiani. Allo stesso modo chi si professerà rispettivamente musulmano, sikh, buddista, hindū, ortodosso, cristiano pentecostale o evangelico e così via avrà anch’egli probabilmente appreso l’arte difficile del credere – se vorrà credere ancora – nel relativo8.
L’argomentazione, che da un punto di vista di metodo, desideriamo sostenere, dunque, è la seguente: il riconoscimento della diversità religiosa costituisce un indicatore, in senso sociologico, che può misurare sia l’aumento di complessità religiosa del nostro paese sia il passaggio, non privo di conflitti (del resto, inevitabili) a una società non più ‘ispirata’ dal solo cristianesimo e, nello specifico storico italiano, dal cattolicesimo. Una società aperta e plurale è la sfida che sta di fronte ai cristiani nell’Italia dell’avvenire.
Nella storia religiosa della società italiana si può fissare una data cerniera nel processo di riconoscimento dell’alterità religiosa. Convenzionalmente è l’anno di promulgazione da parte dei Padri conciliari del Vaticano II del documento Nostra Aetate, il 28 ottobre 1965. Si tratta di un breve testo, che condensa le linee teologiche del dialogo interreligioso che la Chiesa cattolica aveva già o in parte messo in pratica o intendeva presentare come la nuova bussola per orientarsi all’incontro con le altre religioni non cristiane. Nel preambolo si legge:
«Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, e anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino. I vari popoli costituiscono, infatti, una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce».
Com’è accaduto con altri documenti conciliari – tutte le volte in cui il contesto sociale ha recepito, interpretato e dato vita a buone pratiche di applicazione del loro contenuto – anche nel caso di Nostra Aetate gli effetti inattesi sono stati molti. È avvenuto così anche per i documenti sulla liturgia che nella vita concreta delle comunità cristiane, parrocchiali o associative, sono diventati la grammatica generativa d’innovazioni che non solo non erano state previste dalla maggior parte dei Padri conciliari, ma hanno finito anche per alimentare conflitti ermeneutici, prima, e veri e propri conflitti laceranti, poi, fra una parte del clero e dei laici, da un lato, e le autorità ecclesiastiche dall’altro. Segno che le attese di rinnovamento erano molte e che la volontà di riforma da parte della Gerarchia cattolica non appariva in piena sintonia con le aspettative diffuse.
Inaugurando nel 1937 presso la casa editrice di Parigi, Les Éditions du Cérf, la collana Unam Sanctam, con il suo primo importante lavoro di teologia dell’ecumenismo, Chréthiens désunis. Principes d’un oecuménisme catholique (riedita nel 1964 e, da ultimo, nel 2003), Yves Congar affrontava il problema dell’ecumenismo in maniera del tutto originale e, per molti aspetti, profetico. È nota la tesi: Congar non guardava alla riunificazione delle Chiese come a un semplice ritorno alla ‘casa madre’ di tutti i cristiani non cattolici, ma come, al contrario, ‘un investimento di un nuovo capitale simbolico di cattolicità’ da parte della Chiesa stessa.
Tale investimento doveva contare su almeno tre fondamentali risorse di senso: il ‘riconoscimento delle differenze’, con un apprezzamento sincero dei valori sviluppati e conservati, in primis, dalle altre Chiese cristiane e, in seconda battuta, da altre grandi religioni mondiali come l’ebraismo e l’islam; tutto ciò presupponeva – una sorta di conditio sine qua non dal punto di vista sia teologico sia ecclesiologico – una ‘riforma della Chiesa cattolica’ nella direzione della collegialità e dell’apertura alla cultura moderna (come, ad esempio, in tema di libertà religiosa); il che significava, infine, essere capaci di rinnovare – e non solo di aggiornare – il «sistema» (come amava dire Congar) – cioè l’organizzazione istituzionale, la sua logica di funzionamento, il modo con cui una grande organizzazione religiosa ‘pensa se stessa’ – in modo tale da porre la Chiesa in permanente ‘stato di missione’, una missione non più di conquista, ma di dialogo con le culture altre e con il mondo moderno, con le altre Chiese cristiane e, infine, con le altre grandi religioni mondiali non cristiane.
Solo così, scriveva Congar nel suo Diario del Concilio9, la Chiesa sarebbe tornata alle ‘fonti’, «[…] ad avere Cristo come suo punto centrale […] biblico, liturgico, pasquale, comunitario, ecumenico e missionario»10. Anche se in una notazione datata 24 agosto 1961, il padre domenicano si lasciava andare sconsolatamente alla seguente considerazione a proposito dei testi preparatori della Commissione teologica conciliare, quando costatava che per molti: «La fonte non è la Parola di Dio: è la Chiesa stessa, anzi la Chiesa ridotta al papa: è molto grave»11.
A rileggere le pagine del Diario di Congar si possono ricavare utili spunti di riflessione, anche per un sociologo non addetto ai lavori del teologo, per comprendere come il lucido intelletto del domenicano francese avesse intuito, nel tempo intenso da lui vissuto, quali fossero i maggiori problemi che un’istituzione come la Chiesa cattolica aveva di fronte a sé. Per uno come Congar, che ha avuto il privilegio di conoscere da vicino ben otto papi (da Pio X a Giovanni Paolo II, che lo consacrerà cardinale nel 1994), le parole appena ricordate non devono meravigliare. Conosceva molto bene la legge tendenziale di caduta nell’inerzia di ogni grande istituzione religiosa: il cambiamento è visto sempre in tal caso come una sfida rischiosa, una strada che, quando s’imbocca, non si sa dove porti12. Si può leggere a tal proposito il passaggio che segue e che riferisce del colloquio avvenuto fra papa Giovanni XXIII e padre Roger Schutz di Taizé: «i personaggi importanti della Curia si sono ben presto resi conto che con Giovanni XXIII e il suo progetto di Concilio si rischiava di andare incontro a una strana avventura e che era dunque necessario predisporre degli sbarramenti, riprendere più possibile il controllo e limitare i danni»13.
Quest’ultimo passaggio è ciò che con altre parole abbiamo cercato di dire poco sopra: l’apertura verso le ‘altre religioni’ ha costituito per il variegato mondo dei gruppi spontanei, i movimenti, le associazioni meno istituzionali e le organizzazioni non governate direttamente né dai vescovi né dal clero (una sorta di nuova rete di Ong cattoliche) una sfida accolta subito con entusiasmo (a volte con l’ingenua convinzione secondo cui più ci si mostrava aperti, più facile sarebbe stato il dialogo e l’intesa etica con le religioni degli altri). Del resto, il documento conciliare in questione, pur prudente in molti passaggi, conteneva aperture degne di rilievo, che vale la pena ricordare sommariamente per misurare come nell’azione collettiva dei cattolici si sia passati facilmente dalle buone intenzioni alle buone pratiche.
I due interlocutori privilegiati di Nostra Aetate erano soprattutto l’ebraismo e l’islam. Dopo aver fugacemente fatto cenno sia all’induismo sia al buddismo, nei cui confronti si esprimeva rispetto e attenzione, un primo paragrafo più ampio era dedicato alla religione dei musulmani. Vale la pena riportare i passi salienti, poiché, nel clima culturale che stiamo vivendo, almeno dall’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2011, le parole che qui di seguito abbiamo riportato potrebbero suonare strane anche a una parte di quegli italiani che si sentono cattolici e che sono attivamente impegnati nella vita della Chiesa.
«La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno. Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà».
Molto più incisive le parole rivolte agli ebrei:
«La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili».
Era l’incipit di una stagione di movimento. In varie direzioni: incontri di vertice e lavorio di base, grandi gesti di apertura e riconciliazione, nonché creazione di reti associative, a volte non istituzionali, che si specializzavano proprio nell’arte del dialogo fra persone di diversa fede religiosa. In primis ebrei e musulmani. Tra il 1965 e il 1980 la stagione del movimento ha prodotto importanti risultati. Per ragioni di spazio ci limiteremo a ricordarne solo alcuni. Certo la scelta potrà apparire arbitraria, ma gli esempi che stiamo per fornire sono indicativi per intuire il clima culturale che per un relativo lungo arco di anni è stato vissuto dai cattolici italiani, almeno per quanto riguarda il segmento di quelli militanti e attivi nella vita associativa religiosa. Il primo riguarda la linea di dialogo che si sviluppa, su impulso del concilio Vaticano II, fra cristiani ed ebrei, il secondo concerne il capitolo islam. Sul primo fronte vanno ricordate le prime iniziative prese dall’Aec (Amicizia ebraico-cristiana), che in Italia aveva cominciato a muovere i primi passi a Firenze nel 1950 e che, grazie alla creatività profetica di Giorgio La Pira, ricevette un impulso decisivo che porterà ben presto alla diffusione in altre città italiane di questo primo cenacolo d’intellettuali cattolici ed ebraici: Roma nel 1982, Torino nel 1986, Napoli nel 1987 – dove troviamo assieme al rabbino Cesare Eliseo, Bruno Forte e il pastore Antonio Squitieri – e poi Venezia e Ferrara, dove, grazie alla presenza di un’attiva comunità ebraica era stato aperto il circolo SeFer (Studi, Fatti e Ricerche sulle relazioni ebraico-cristiane). Nel 1964, dunque, un anno prima del documento Nostra Aetate, il sindaco La Pira organizzerà un convegno per ricordare la figura di Jules Isaac (1877-1963), l’animatore – il primo nell’Europa del secondo dopoguerra – dell’Amitiés judéo-chrétiennes verso cui Giovanni XXIII riservò attenzione e interesse al punto tale da coinvolgerlo nella preparazione del documento conciliare di cui stiamo parlando. È bene ricordare come il motivo di tormento per Isaac era precisamente il paradosso delle origini cristiane dell’antisemitismo e come esso potesse essere superato recuperando la memoria dei profondi intrecci fra la figura di Gesù e la storia dei figli di Israele. È questo il tema del saggio che scriverà nel 1948, Jésus et Israël14. Dovrà passare molto tempo ancora, perché un papa – Giovanni Paolo II – arrivi a chiedere pubblicamente perdono, in una solenne cerimonia nel marzo 2000 (tra l’altro anche per le crociate e l’inquisizione) per l’antigiudaismo alimentato da una certa tradizione teologica ed esegetica cattolica. Il raccordo fra le diverse iniziative che prendono forma nell’ambito del dialogo ebraico-cristiano sarà svolto dapprima e con continuità nel tempo dal 1965 dal Servizio internazionale di documentazione ebraico-cristiana e poi dalla congregazione religiosa delle Suore di Sion camaldolesi. Camaldoli diverrà così dagli anni Ottanta del secolo appena trascorso un punto di riferimento costante per tutti i gruppi di base di cattolici ed ebrei interessati a ricostruire (e purificare, secondo un motivo ricorrente nella predicazione di Giovanni Paolo II) la memoria che lega le due tradizioni religiose. Dal primo colloquio svoltosi ai primi di dicembre del 1980 – e proseguito puntualmente ogni anno – si sono incontrate persone di fede cattolica ed ebraica (ma non solo, in qualche occasione sono state invitate anche personalità del mondo musulmano), che, pur partecipando a titolo personale – come persone di buona volontà –, in realtà erano e sono animatori di reti associative che hanno contribuito a elevare la conoscenza della religione ebraica in tutti quei gruppi parrocchiali cattolici che, per così dire, hanno cominciato a scoprire il piacere della lettura – non solo spirituale, ma storico-critica – della Bibbia15. Così come altri hanno fondato riviste che svolgono ancor oggi un ruolo importante nel panorama culturale religioso in Italia, come «Qol» creata da Brunetto Salvarani nel 1985 o associazioni laiche di cultura biblica dove sistematicamente si pratica il dialogo fra ebrei e cristiani, come «Biblia», nata a Firenze nel 1985 o «Bibbia Aperta», fondata a Padova nel 1987. Il secondo fronte di dialogo che Nostra Aetate favorisce è con il mondo musulmano. In tale ambito va ricordata la funzione svolta dal Pisai (Pontificio di studi arabi e islamici). Fondato a Tunisi nella seconda metà degli anni Venti, viene aperto a Roma nel 1964 sotto il pontificato di Paolo VI. La decisione è collegata alla creazione del Pontificio consiglio per i non-cristiani, un’istituzione nata proprio per rispondere alle esigenze espresse dal documento conciliare. Questa dicitura sarà cambiata più avanti negli anni, diventando il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Paolo VI – come ricorda Justo Lacunza Balda, che è stato Rettore dell’Istituto – desiderava promuovere i rapporti con il mondo musulmano e il Pisai diventò così il punto di riferimento istituzionale16. Nel dialogo islamo-cristiano il Pisai è stato l’attore principale ‘dentro’ la Chiesa cattolica (nel far conoscere e riconoscere al mondo del clero e del laicato cattolico non solo la necessità, ma i modi per confrontarsi con il mondo musulmano) e ‘fuori’ (nei confronti di un’opinione pubblica più vasta, rendendola partecipe dei problemi e dei progressi che il dialogo produceva e, più nello specifico, formando una generazione di laici aperti e interessati all’islam e alla cultura arabo-musulmana). Alcune diocesi hanno inviato i loro sacerdoti per seguire i corsi al Pisai e questi sono diventati poi delegati vescovili per il dialogo con le comunità musulmane locali. L’impatto di tale sforzo educativo è stato rilevante, particolarmente in alcune diocesi (Milano, Torino, Padova, Venezia, Napoli, Palermo). Alcuni docenti del Pisai sono stati nel periodo più intenso di apertura dell’opinione pubblica italiana, fra il 1980 e la fine degli anni Novanta, interlocutori privilegiati e ascoltati sia in ambiente ecclesiale sia nelle associazioni laiche o in convegni organizzati da Comuni e altre enti territoriali sia, infine, in ambiente scolastico, favorendo l’elaborazione di progetti educativi per la conoscenza dell’islam e del mondo arabo. C’è un nesso, allora, fra il lento e silenzioso lavoro compiuto da organi della Santa Sede, istituzioni pontificie (oltre al Pisai va menzionata l’Università Gregoriana che è stata sia nelle sue attività formative curriculari sia nell’organizzazione di eventi di particolate significato, anche fuori delle sue severe mura un luogo d’incontri di studiosi di diverse fedi) e lavoro di base condotto dalle associazioni ecumeniche e di amicizia con il mondo ebraico, è la svolta impressa alla politica alta del dialogo, inaugurata dapprima da Paolo VI, con gesti selettivi e misurati, poi proseguita con l’impeto proprio del carisma che caratterizzava la sua persona da Giovanni Paolo II. Tutto ciò ha trovato espressione soprattutto nelle Giornate della Preghiera di Assisi dal 1986, che non pochi malumori e dubbi hanno sollevato in una parte del mondo cattolico. Non si può non ricordare, in tal senso, il gesto di riconciliazione che papa Wojtyla offrì il 12 dicembre 2001 (a pochi mesi dall’attentato delle Torri Gemelle e in piena guerra dell’Afghanistan) ai musulmani: di digiunare con loro in occasione dell’ultimo giorno del sawm nel mese di Ramadhan. Un gesto che, com’è accaduto spesso, nel mondo cattolico italiano aveva immediatamente ispirato un gruppo di volenterosi a inaugurare spontaneamente un’iniziativa di preghiera che da allora si ripete ogni anno: la Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico.
Se abbandoniamo il livello istituzionale e accademico, la realtà di cristiani in dialogo con le altre religioni è varia e composita. Essa si è venuta estendendo come una rete, che spesso ha valicato i confini delle parrocchie e delle diocesi, che ha permesso di annodare fili solidi con le Chiese valdesi e metodiste, che, infine, ha funzionato, da un punto di vista più in generale e al di fuori del perimetro strettamente religioso, anche come ammortizzatore e mediatore di conflitti sociali. Tutte le volte che in questi anni il progetto di apertura e costruzione di una moschea è diventato oggetto di polemos politico, che, in alcuni casi, coinvolgeva anche cattolici praticanti, la rete stessa delle associazioni di base cattolica e protestante ha svolto un ruolo importante in difesa della libertà religiosa degli ‘altri’ e per rasserenare gli animi.
Accanto a un’organizzazione come la Caritas che si è venuta specializzando, fra l’altro, nel campo dell’accoglienza degli immigrati e che nell’accogliere ha favorito la scoperta da parte di tanti volontari, in particolare di giovani cattolici, della pluralità delle fedi religiose che ogni singola persona immigrata portava con sé, vanno ricordati per l’impegno continuo nella direzione del dialogo da un lato la Comunità di Sant’Egidio (nata a Roma nel 1968) e dall’altro il programma lanciato da Chiara Lubich nel 1992 nel movimento dei Focolari per favorire l’incontro, in particolare, fra cristiani e musulmani.
La mediazione che la Caritas ha svolto anche dal punto di vista del riconoscimento della diversità religiosa, della difesa del diritto ad avere luoghi di culto da parte di diverse comunità religiose costituite da immigrati non necessariamente cattolici, si è spinta sino al punto di concedere spazi di preghiera in ambienti parrocchiali ai primi giovani immigrati di fede musulmana, che oltre a un tetto dove dormire, trovavano anche un angolo delle canoniche, dove poter pregare. Assieme alle iniziative pubbliche prese dalla Comunità di Sant’Egidio e alle molte altre assunte dal movimento dei Focolari dal 1992 in poi si è venuto a creare un vero e proprio patrimonio di buone pratiche di dialogo e d’incontro con le religioni degli altri. Allo stesso modo può essere ricordato il ruolo svolto da altri soggetti di matrice cattolica, come le Acli, ad esempio, che, spesso in collaborazione con enti locali, hanno anch’esse svolto una funzione importante: trasformare un affare religioso, com’è il dialogo, in un impegno civile più ampio, facendolo diventare spesso un punto all’ordine del giorno delle piccole agende politiche dei comuni (si pensi ai tanti Festival dei popoli o della cittadinanza sponsorizzati da questa storica associazione).
Non è del resto casuale che in alcuni casi i comuni, anche di grandi dimensioni, abbiano poi finito per gestire in proprio festival che hanno messo al centro il tema delle religioni e del dialogo interreligioso (si pensi al Festival spiritualità di Torino, al Tavolo del dialogo interreligioso del comune di Roma, al Festival del racconto di Carpi, ai Cantieri del dialogo di Verona, ai meeting Nessuno escluso di Novellara e agli incontri Vicino/Lontano di Pordenone). Inoltre esistono luoghi e centri di aggregazione vitali, dove si fa esperienza e memoria dell’incontro con l’alterità religiosa, creando iniziative in cui attivamente persone di diversa fede religiosa lavorano per un progetto comune: da quello editoriale (come nel caso della rivista «Confronti», che vede fianco a fianco cooperare protestanti, cattolici, ebrei e musulmani), alle molte iniziative che nascono all’interno delle prime associazioni di giovani le cui famiglie sono di origine immigrata17, per passare all’opera di riconoscimento delle differenze religiose promossa da Pax Christi, tramite il suo periodico «Mosaico di Pace» e per finire con l’attività svolta soprattutto in ambito educativo da Cem-Mondialità dei Saveriani di Brescia, a cui va il merito di aver fatto conoscere agli insegnanti italiani il primo manuale interreligioso prodotto a Bradford per tutti gli ordini di scuole.
L’alterità religiosa non è più, dunque, percepita come se fosse ‘altrove’. È invece un’esperienza di vita quotidiana che milioni d’italiani compiono nei diversi luoghi che essi frequentano e dove essi vivono. Le subculture che, anche dal punto di vista politico, hanno modellato la società italiana del secondo dopoguerra, in particolare quella cattolica, da un lato, e quella di matrice socialista e comunista, dall’altro, hanno costituito sino a pochi decenni fa il ‘basso continuo’ di un atteggiamento diffuso di apertura nei confronti di tante donne e uomini, arrivati nel nostro paese, come immigrati, con una disponibilità fattiva non solo all’accoglienza, ma anche al riconoscimento operoso delle differenze culturali e religiose degli immigrati stessi. Soprattutto dopo il 1989, con la caduta del muro di Berlino interno al nostro sistema politico, le due subculture hanno conosciuto una lenta trasformazione. Più incisiva nel mondo della militanza di sinistra, anche in quella parte della sinistra che ha cercato di conciliare l’appartenenza religiosa alla Chiesa cattolica o alle Chiese evangeliche (valdese-metodista) con un impegno politico nei partiti della sinistra. Molto meno in ambiente cattolico, dove alla sparizione dalla scena politica della Democrazia cristiana, la rete del volontariato e l’impegno delle associazioni, in parte istituzionali della Chiesa cattolica, hanno continuato a mobilitare energie a favore dei processi d’inserimento e di riconoscimento della diversità religiosa degli immigrati e dei loro figli. Anche in quest’ambito, almeno stando alle ultime rilevazioni della Federazione italiana volontariato18 si registrano due fenomeni: un lento calo dei gruppi d’ispirazione cattolica (nel 1993 essi erano più del 40% sul totale delle organizzazioni di volontariato sociale, nel 2001 sono scesi al 22%), accompagnato da un processo di frammentazione senza identità chiara e distinta dei gruppi.
L’alterità religiosa e il suo riconoscimento mettono alla prova lo spirito di solidarietà dei cristiani d’Italia.
1 B. Bertolani, Capitale sociale e intermediazione etnica: il caso degli indiani punjabi inseriti in agricoltura in provincia di Reggio Emilia, «Sociologia del lavoro», 91, 2003, pp. 92-102; Id., Gli indiani in Emilia: tra reti di relazioni e specializzazione del mercato del lavoro, in I sikh. Storia e immigrazione, a cura di D. Denti, M. Ferrari, F. Perocco, Milano 2005, pp. 163-176; B. Bertolani, Una pluralità di traiettorie religiose fra i giovani sikh in Italia, «Mondi migranti», 2, 2010, a cura di E. Pace, A. Ravecca.
2 InDivisibili, a cura di M. Ferrari, Cremona 2003.
3 B. Bertolani, Una pluralità di traiettorie, cit.
4 S. Allievi, Conflicts over Mosques in Europe, London 2009.
5 Caritas/Migrantes, Immigrazione. Dossier Statistico 2009. XIX Rapporto, Roma 2009.
6 F. Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Bologna 2006.
7 Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, a cura di F. Garelli, G. Guizzardi, E. Pace, Bologna 2003.
8 E. Pace, Credere nel relativo, Torino 1997.
9 Y. Congar, Diario del Concilio, Cinisello Balsamo 2005.
10 Ibidem, p. 111.
11 Ibidem.
12 J. Seguy, Les conflits du dialogue, Paris 1973.
13 Y. Congar, Diario del Concilio, cit., p. 69.
14 J. Isaac, Jésus et Israël, Paris 1953.
15 Le chiese italiane e l’ebraismo (1947-1982): raccolta di documenti, a cura di G. Cereti, L. Sestieri, Casale Monferrato 1983.
16 J. Lacunza Balda, intervista rilasciata all’autore, 15/05/2010.
17 S. Allievi, Islam italiano, Torino 2003; A. Frisina, Giovani musulmani d’Italia, Roma 2007.
18 Fivol, Le organizzazioni di volontariato in Italia alla terza rilevazione, a cura di R. Frisanco, Roma 2001; Fivol, Chi siamo: una fotografia del volontariato, a cura di R. Frisanco, Roma 2006.