Il Rinascimento. Gli ingegneri del Rinascimento: dalla tecnica alla tecnologia
Gli ingegneri del Rinascimento: dalla tecnica alla tecnologia
Nell'immagine convenzionale del Rinascimento poco spazio viene solitamente riservato ai protagonisti di quello che può essere definito il 'rinascimento delle macchine', sovrastato e oscurato da quello delle lettere e delle arti. L'unica eccezione è costituita da Leonardo da Vinci, del quale, a partire dalla riscoperta dei suoi manoscritti alla fine del XVIII sec., si sono ossessivamente esaltati i meriti di eccezionale inventore.
L'insistenza su Leonardo e, soprattutto, l'attribuzione al vinciano del merito di avere per primo avviato una riflessione di straordinaria modernità su macchine e meccanismi hanno contribuito a lasciare nell'ombra il complesso e non breve processo, segnato da tappe e da protagonisti particolarmente significativi, che durante il secolo che precede l'entrata in scena di Leonardo produsse una vera e propria rivoluzione nella cultura e nella pratica delle macchine.
Una delle conseguenze dello sforzo di riportare in piena luce questo processo è la necessità di riconsiderare il ruolo tradizionalmente assegnato a Leonardo. Da precoce iniziatore di una concezione dell'attività macchinale nuova per metodo e per ardimento degli obiettivi, egli viene infatti trasformandosi nel punto di arrivo, nell'esito più maturo e originale di un'elaborazione corale protrattasi per molti decenni. Osservato da questo angolo visuale, Leonardo non appare più come un profeta visionario e inascoltato, ma viceversa come l'uomo che più eloquentemente ha saputo dar voce e visibilità grafica alle utopiche aspettative circa le possibilità delle tecniche entusiasticamente condivise da molti artisti-ingegneri del Quattrocento.
Per capire in quale modo lo scenario venga mutando per l'artista-ingegnere, soprattutto in Italia ‒ che è l'area sulla quale fermeremo l'attenzione come teatro privilegiato di questo processo ‒ basterebbe contrastare l'immagine dell'ingegnere medievale con quella che i tecnici più qualificati vengono assumendo nella società nel corso del Quattrocento. Tranne pochissime eccezioni, l'identità degli ingegneri medievali rimane nell'anonimato, anche se molti di questi tecnici furono protagonisti di tutta una serie di straordinarie realizzazioni. Basti pensare alla costruzione delle grandi cattedrali gotiche, oppure a quei centri di produzione e di innovazione che furono le abbazie cistercensi, per non menzionare le conquiste della cosiddetta 'rivoluzione tecnica medievale' (Bloch 1959; White 1962), soprattutto in campo militare (staffa e bardatura del cavallo, trabocco) e agricolo (aratro pesante e rotazione triennale delle coltivazioni).
Viceversa, l'artista-ingegnere del maturo Quattrocento è un personaggio socialmente ben visibile e apprezzato, ricercato dai committenti più autorevoli e prestigiosi, profumatamente retribuito e spesso considerato come uno dei maggiori ornamenti delle corti. Si assiste a una vera e propria competizione per acquisire la collaborazione dei tecnici più reputati. Soprattutto nella seconda metà del Quattrocento, questi ingegneri sono contesi da pontefici, prìncipi e repubbliche della penisola, mentre si cominciano ad avvertire gli effetti dell'ingresso nella competizione dei potentati stranieri, soprattutto della monarchia francese. L'attività di questi personaggi attrasse in certi casi anche l'interesse dei sultani, in particolare di Maometto II. Molti di loro ‒ è il caso di Aristotele Fioravanti, di Francesco di Giorgio Martini, di Leonardo, del Filarete (Antonio Averulino o Averlino), di Fra' Giocondo, di Giuliano da Sangallo e di tanti altri ‒ dovranno intraprendere frequenti ed estenuanti viaggi per eseguire le commesse affidate loro dai diversi signori della penisola e dalla monarchia francese. Commesse di natura diversa: dalla progettazione e costruzione di regge e palazzi, ponti, canali navigabili, dighe, ecc., alla messa in opera di fortificazioni e di strumenti bellici, alla ideazione e realizzazione di acquedotti efficienti, alla progettazione di macchine e dispositivi per migliorare determinati cicli produttivi, arricchire la suggestione di spettacoli teatrali o feste di corte mediante 'effetti speciali', oltre naturalmente a opere di pittura, di scultura, di disegno, di architettura e di decorazione.
In un'epoca di continue guerre tra gli stati della penisola, di formazione delle principali signorie, di sviluppo delle attività commerciali e manifatturiere, ma anche di concentrazione delle popolazioni nelle città, la collaborazione di questi tecnici, con le loro molteplici competenze continuamente affinate in quel laboratorio dell'innovazione artistica e tecnica che fu la bottega rinascimentale, assunse un'importanza progressivamente crescente. Ne derivarono due conseguenze tra di loro strettamente collegate. Anzitutto, l'artista-ingegnere acquista un notevole rilievo sociale, che si configura come la rinascita degli onori tributati nell'Età classica dai grandi prìncipi agli ingegneri più reputati, come per esempio Dinocrate, protetto da Alessandro Magno, e Sosigene, celebrato da Cesare Augusto.
Questa crescita sociale stimola, a sua volta, l'artista a sottoporsi a un arduo processo di qualificazione culturale, al fine di attenuare la sua situazione di subalternità rispetto agli esponenti della cultura ufficiale, gli umanisti, vero ornamento delle corti, capaci di recitare forbite orazioni latine, di discettare sulla filosofia naturale o sulla logica di Aristotele e di decifrare gli antichi testi latini e greci. Gli effetti di questa aspirazione sono facilmente riconoscibili nello sforzo che molti di questi artisti-ingegneri compiono durante il Quattrocento per trasformarsi da operatori indotti, letterariamente 'muti', in 'autori' di testi con pretese di organicità, concepiti sui modelli classici (soprattutto il De architectura di Vitruvio), compilati con qualche ambizione di eleganza letteraria, farciti di citazioni di fonti classiche (anche se spesso approssimative o addirittura inesatte). Questi testi danno la misura del radicale processo di cambiamento che è in atto.
Quella dell'ingegnere-autore era infatti una figura assente dalla scena culturale dell'Occidente cristiano almeno dai remoti tempi di Vitruvio (I sec. a.C.) e di Erone di Alessandria (I sec. d.C.). L'ingresso di questi nuovi protagonisti nell'agone letterario è segnato, peraltro, da alcune caratteristiche che occorre sottolineare, per le loro implicazioni sull'evoluzione complessiva della cultura del Rinascimento. I loro scritti raramente raggiungono un assetto organico e una stesura accurata, mentre è frequente il caso delle opere progettate, abbozzate ma non condotte a compimento. Di fatto, nessuna delle molteplici prove letterarie nelle quali si cimentarono gli ingegneri italiani del Quattrocento ebbe diffusione attraverso la stampa, anche se va sottolineato che questi scritti circolarono moltissimo e furono largamente consultati, come peraltro attesta l'enorme quantità di copie e di derivazioni che ancora oggi si conservano nelle biblioteche e negli archivi del mondo intero.
L'impressione che questo nuovo genere letterario e i suoi nuovi autori suscitarono dipese non solo dalla novità dei temi trattati e dall'interesse che provocava, in un'epoca di venerazione per la cultura classica, la riproposta dell'illustrazione delle macchine (machinatio) del De architectura di Vitruvio, ma soprattutto dal fatto che questi scritti presentavano una nuova dimensione del concetto stesso di 'testo', costituito non più soltanto dalle descrizioni verbali ma dal fitto dialogo che queste intrattenevano con un apparato di immagini di solito straordinariamente ricco e suggestivo.
Il contributo più originale di questi nuovi autori va colto soprattutto nell'introduzione sistematica delle immagini nella trattazione architettonica e macchinale e nella loro centralità rispetto alla semplice descrizione verbale. Taccola (Mariano Daniello di Jacopo), Francesco di Giorgio e, più avanti ‒ ancora più eloquentemente ‒, Leonardo sottolineeranno energicamente l'insufficienza della semplice descrizione verbale, che deve essere necessariamente integrata da quella figurata. Solamente l'artista-ingegnere poteva dunque affrontare con competenza e con adeguata capacità illustrativa i temi dell'architettura e delle macchine e, come Leonardo proporrà, anche quelli dell'anatomia, della scienza delle acque e della geologia. Era la rivendicazione della nuova centralità culturale di un'intera categoria che si rivolgeva agli esponenti del sapere tradizionale con tono di sfida, contrapponendo la cultura dell'osservare, del fare e del riprodurre a una cultura fondata sull'eloquenza, sulla retorica e sull'ascolto. In questo senso, di un orgoglio professionale perentoriamente affermato, sono da intendere le punzecchiature di Francesco di Giorgio a coloro che scrivevano trattati di architettura e di macchine senza possedere i fondamenti del disegno, così come alcune affermazioni nelle quali Leonardo rivendica con orgoglio la propria natura di "omo sanza lettere". Queste ultime non devono essere considerate come una sorta di elogio dell'ignoranza, ma piuttosto come una dichiarazione della necessità di coniugare la lettura dei testi con l'osservazione della Natura e l'esigenza di sottolineare i vantaggi che derivano dal descrivere le opere dell'arte e della Natura non con le sole parole ma col disegno.
Torneremo più avanti sul rilievo centrale che assume negli scritti di questi nuovi tecnici la rivendicazione della funzione innovativa e divulgativa delle immagini. Mette qui conto, tuttavia, sottolineare che questi artisti, che si affacciavano come autori per la prima volta sulla scena letteraria, non facevano affidamento, per imporsi, soltanto sul disegno e sulle proprie capacità operative. Essi s'impegnarono anche in uno sforzo di assimilazione degli aspetti tecnico-scientifici del sapere classico. Un atteggiamento antiquario è chiaramente riconoscibile in tutti questi tecnici che intrapresero numerosi viaggi a Roma per cogliere, attraverso i ruderi che ne restavano, i segreti della grande civiltà romana. Questa tensione trova eloquente espressione nella ricerca di 'intermediari' che li potessero aiutare in uno sforzo di assimilazione reso arduo dall'ignoranza delle lingue classiche e dalla mancanza di un'educazione matematica (che precludeva tra l'altro l'accesso ad Archimede e a Euclide). Per tutto il Quattrocento assistiamo infatti allo stabilirsi di convergenze intenzionalmente ricercate e reciprocamente interessate tra i nuovi tecnici e gli umanisti più raffinati: Filippo Brunelleschi e Paolo dal Pozzo Toscanelli; Taccola e Mariano Sozzini; Francesco di Giorgio e l'Ubaldini; Leonardo, da un lato, e Luca Pacioli e Giorgio Valla, dall'altro.
L'artista-ingegnere chiede aiuto agli umanisti per riuscire ad assimilare la cultura classica, in particolare le fonti tecnico-scientifiche. Non si tratta tuttavia di un atteggiamento puramente passivo e subalterno; egli è infatti in grado di offrire a sua volta all'umanista il contributo fondamentale della propria esperienza per decifrare i passi nei quali sono descritte macchine, dispositivi meccanici e strutture architettoniche. Inoltre, eoli può tradurre il significato di un'esposizione verbale in un'immagine chiara, passaggio spesso fondamentale per la restituzione della piena intelligenza a testi classici come il De architectura di Vitruvio, nel quale sono descritti edifici e macchine dei quali non sono pervenute le immagini.
Quello della collaborazione tra artisti-ingegneri e umanisti è un carattere distintivo della cultura del Quattrocento sul quale non si è insistito abbastanza. Se il tentativo di decifrare il De architectura di Vitruvio, nel quale si impegnarono molti e autorevoli umanisti, li spinse a ricercare la collaborazione degli artisti-ingegneri, presto apparve evidente che questa collaborazione era estremamente proficua anche per l'assimilazione dei testi dell'ottica classica e medievale; se ne ha un esempio eloquente nei Commentari di un altro grande artista-ingegnere del Quattrocento, Lorenzo Ghiberti, che svolse un ruolo fondamentale nell'affermazione della prospettiva lineare, destinata a trasformare il concetto stesso di raffigurazione pittorica. Lo stesso vale per la scienza della meccanica (Archimede e la scientia de ponderibus) e per i capolavori della geometria greca (Euclide e Archimede), elementi che furono presto sentiti entrambi come fondamentali per trasformare il lavoro dei tecnici da un'attività fondata esclusivamente sulla pratica e sull'esperienza in disciplina basata su un insieme di premesse teoriche assiomaticamente definite e messe in pratica attraverso metodi rigorosi di calcolo e di misurazione.
La trasformazione della figura e del ruolo dei tecnici cui abbiamo accennato avvenne attraverso un processo lungo e non sempre lineare. Il teatro principale di questo processo fu certamente l'Italia tra fine Trecento e inizio Cinquecento, anche se non mancano figure significative da questo punto di vista nella Francia e nella Germania meridionale dello stesso periodo. Sta di fatto che la figura dell'artista-ingegnere-autore, che combina molteplici competenze (militari, meccaniche, idrauliche, architettoniche, artistiche, ecc.) quale venne definendosi nel secondo Quattrocento e che avrà una diffusione così larga e significativa nelle corti europee per tutto il Cinquecento, corrisponde a una nuova categoria di intellettuali che scrivono eleganti trattati sontuosamente illustrati e quasi sempre insieme teorici e operativi, i quali anche quando non sono italiani (ma spessissimo lo furono) evidenziano tuttavia lo straordinario successo in tutta Europa del processo di ridefinizione dello stile professionale e delle competenze dei tecnici che si verificò in Italia durante il XV secolo.
Di questo processo si presentano qui alcuni dei protagonisti e degli episodi più rilevanti tra i moltissimi che caratterizzano da questo punto di vista lo scenario del Quattrocento. L'articolazione del testo in tre parti, corrispondenti ad altrettanti personaggi significativi (Brunelleschi, gli ingegneri di Siena e Leonardo), permette di cogliere alcune tappe fondamentali dell'evoluzione del processo di emancipazione dell'artista-ingegnere dal ruolo culturalmente subalterno recitato in precedenza.
La vicenda brunelleschiana marca emblematicamente l'inizio del distacco dalle funzioni tradizionali del tecnico semplice operatore, privo di ambizioni letterarie e spesso anonimo. Il suo contrastato ma straordinario successo aprì la via all'affermazione sociale e alla definizione di una nuova identità professionale degli artisti-ingegneri delle generazioni successive.
Le figure dei tecnici senesi (il Taccola e, soprattutto, Francesco di Giorgio Martini) mostrano, d'altra parte, i primi risultati dello sforzo di trasformazione dell'artista da semplice operatore in 'autore' (quale Brunelleschi non fu e non cercò di essere). Questi artisti-ingegneri hanno ormai compreso l'enorme potenzialità interpretativa e divulgativa del disegno e fanno un uso maturo e consapevole di questo strumento allo scopo di arricchire l'espressività dimostrativa dei loro testi. Assistiamo alla nascita di un genere letterario nuovo o 'rinnovato' sui remotissimi modelli classici, tra i quali si impone per influenza quello di Vitruvio.
Leonardo, infine, mostra verso quali esiti straordinari portava questo processo; non più semplice autore, l'artista-ingegnere non si accontenta di operare con efficacia, ma utilizza gli strumenti dei quali dispone o quelli nuovi che sta faticosamente assimilando (il disegno, la capacità di osservazione, la maestrìa meccanica, la competenza geometrica) per interpretare la Natura, per carpirne i segreti e, imitandone le procedure, per piegarla a vantaggio dell'uomo. Nella carica utopica che anima tante pagine e tanti disegni vinciani, l'artista-ingegnere finisce per diventare il vero 'filosofo', l'unico tra i dotti in grado di svelare i reconditi e necessari meccanismi dei quali si serve la Natura.
A nessun altro meglio che a Brunelleschi (1377-1446) si attaglia il detto "di lui parlano soltanto le opere che ha lasciato". Dei suoi scritti ‒ se mai ne compilò ‒ non resta neppure una riga, anche se alcuni sonetti attestano una sua certa verve letteraria. Né peraltro sono pervenuti suoi disegni autografi, anche se numerosi dovette realizzarne in relazione alle molteplici e ambiziose iniziative costruttive delle quali fu protagonista.
Tuttavia le opere restano, anche se in alcuni casi pongono interrogativi che attendono risposte definitive. È il caso delle testimonianze (soprattutto riferite dal primo biografo, Antonio di Tuccio Manetti) relative alla sua maestrìa come orologiaio, per la quale non si è in grado di individuare riscontri documentari diretti. È nota e documentata viceversa la sua attività di orefice, campo nel quale aveva concorrenti straordinari, come Donatello (1386 ca.-1466) e Lorenzo Ghiberti (1378-1455) ‒ con quest'ultimo entrò per la prima volta in competizione per la realizzazione delle formelle delle porte del Battistero ‒, così come è convergente e documentata la tradizione che gli attribuisce un esperimento risultato fondamentale per l'introduzione della prospettiva lineare nella pittura.
Della sua attività di ingegnere militare restano numerose testimonianze e soprattutto alcune opere concrete (in particolare, le fortificazioni di Vico Pisano). In questo campo egli registrò anche uno smacco significativo dal quale impariamo tuttavia che tra le varie specialità tecniche nelle quali si cimentò va annoverata pure l'idraulica. Nel 1428 Firenze era impegnata in una guerra contro Lucca. Le truppe fiorentine assediavano da tempo la città nemica senza però riuscire a costringerla alla resa. Brunelleschi venne incaricato di mettere in atto il progetto di deviare le acque del fiume Serchio per allagare Lucca; l'impresa, costosissima, si concluse con un esito disastroso: uscite dal letto naturale, le acque allagarono non Lucca, bensì il campo dell'armata fiorentina!
Altri documenti ci mostrano Brunelleschi impegnato nella progettazione di un battello per risalire l'Arno contro corrente fino alle porte di Firenze (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 4085A). Per il progetto, concepito per trasportare agevolmente da Carrara le pesanti lastre di marmo necessarie per la costruzione della cupola di S. Maria del Fiore, Brunelleschi richiese nel 1421 alle autorità fiorentine, ottenendolo, quello che può essere considerato il primo brevetto del quale si abbia testimonianza. Anche questa impresa si concluse, tuttavia, con un insuccesso. Il battello s'inabissò nel 1425 col suo carico di 100 tonnellate di marmo bianco e Brunelleschi fu obbligato a risarcire il notevole danno!
Sappiamo che il talento meccanico di Brunelleschi trovò espressione anche nella realizzazione di 'effetti speciali' in occasione di cerimonie e festività civili e religiose. Resta soprattutto memoria, grazie alla dettagliata descrizione del Vasari, del dispositivo messo in opera nel 1439 per la festa dell'Annunziata nella chiesa fiorentina di S. Felice. Mediante raffinati e complessi accorgimenti meccanici, Brunelleschi offrì una suggestiva rappresentazione del Paradiso, facendo muovere sotto il tetto della chiesa, come se fossero sospese in aria, numerose figure angeliche (interpretate da bambini in carne e ossa) in un baluginio di luci accecanti e di fuochi di artificio accompagnati da musiche celestiali. Questo tipo di performance, che era piuttosto comune nel Quattrocento, comportava rischi considerevoli, giacché spesso si concludeva con minacciosi incendi e talvolta addirittura con la morte dei protagonisti.
Già da questi spunti essenziali emerge evidente la centralità e trasversalità della figura di Brunelleschi in una città che, tra fine Trecento e inizio Quattrocento, era impegnata nel completamento e nell'ampliamento di ambiziosi progetti architettonici e urbanistici concepiti fin dalla fine del Duecento. La comunità fiorentina mirava a ribadire e a rafforzare il proprio ruolo non soltanto di centro mercantile di eccellenza su scala internazionale, ma anche di punto di riferimento culturale e di laboratorio civile per l'intero Occidente, oltre che di centro motore della largamente auspicata riunificazione di una cristianità frammentata da molteplici scismi ed eresie, in modo da porla in condizione di contrastare efficacemente la temibile minaccia turca.
Brunelleschi, come altri colleghi contemporanei (Donatello, Ghiberti, Battista d'Antonio, ecc.), offre a questa città smaniosa di svilupparsi e di imporsi sul piano internazionale progetti ardimentosi, ma non folli, e soprattutto la capacità concreta di realizzarli.
Quello che già si è detto di Leonardo va ripetuto per Brunelleschi. Egli non fu un genio isolato, ma l'esponente più brillante e più fortunato di una schiera di tecnici di talento che operarono a Firenze e nel resto d'Italia negli stessi decenni. Già varie volte si è fatto il nome di Ghiberti, che fu di fatto il suo concorrente più temibile e agguerrito, praticamente in ogni settore di attività. Concorrente e collaboratore, dovremmo dire, dato che molteplici evidenze mostrano che la progettazione dell'opera per la quale Brunelleschi è giustamente meglio conosciuto, la cupola di S. Maria del Fiore, fu in realtà un'impresa largamente collettiva, la cui iniziale elaborazione va fatta risalire a metà del Trecento e nella cui definizione ebbe un ruolo determinante non solo Filippo Brunelleschi ma anche ‒ e in misura significativa ‒ Lorenzo Ghiberti, per tacere di tanti altri maestri meno noti che furono consultati più volte e che parteciparono ai concorsi indetti dal governo della città, versando così nel gran crogiolo della cupola idee e proposte, spesso assai solide, delle quali Brunelleschi fece certamente tesoro.
La storia dell'edificazione della cupola è troppo nota perché debba essere qui ripetuta sia pure schematicamente (Saalman 1980). Gli studi che si sono succeduti, soprattutto dopo l'edizione dei principali documenti (Guasti 1857), hanno contribuito a chiarire le tappe fondamentali che precedono l'inizio della costruzione nell'estate del 1420 a seguito di concorsi pubblici e consultazioni, ai quali parteciparono numerosi tecnici, non soltanto fiorentini. Sappiamo ‒ e abbiamo precise evidenze documentarie in proposito ‒ che le autorità cittadine manifestarono a lungo diffidenza e preoccupazione nei confronti del progetto brunelleschiano di voltare la cupola senza centine di sostegno. Apprezzavano certamente il notevole risparmio di legname che tale soluzione avrebbe comportato e la maggiore speditezza dell'esecuzione, ma temevano che una struttura di dimensioni così smisurate non avrebbe potuto sostenersi da sola. Sta di fatto che l'incarico della direzione non fu affidato inizialmente al solo Brunelleschi ‒ che pure era l'ideatore del progetto approvato ‒ ma alla coppia Brunelleschi-Ghiberti, con pari stipendio, il che significa con pari autorità.
Soltanto nel corso degli anni, certamente col rafforzarsi della fiducia nella plausibilità del metodo costruttivo seguito da Brunelleschi, osserviamo la progressiva uscita di scena del Ghiberti e il conferimento a Filippo della piena e indiscussa responsabilità.
Com'è noto ‒ anche se non finisce di stupirci ‒ la cupola fu completata (fino all'occhio) in soli 15 anni di lavoro. I modelli e i programmi di lavorazione che ci sono pervenuti illustrano con chiarezza la struttura fisica della cupola. Resta viceversa ancora vivace il dibattito relativo al metodo utilizzato da Brunelleschi per condurre la complessa opera di muratura in modo da rispettare costantemente l'inclinazione prescelta (a sesto di quarto acuto, per la cupola esterna, e a sesto di quinto acuto, per la cupola interna). Appare estremamente sensato supporre che Brunelleschi abbia fatto ricorso, come sostiene Gurrieri (1994-95), a una fitta trama di centine di tracciamento. Tuttavia, bisogna riconoscere che anche in questo caso siamo nell'ambito delle congruenze e delle probabilità, non in quello delle dimostrazioni certe. Al citato saggio di Gurrieri è da rinviare per l'aggiornata sintesi che offre delle principali interpretazioni relative al metodo compositivo di Brunelleschi, e anche per l'analisi dei principî che regolano l'equilibrio delle masse in una struttura così complessa, nelle diverse fasi della costruzione. Resta tuttavia aperto l'interrogativo sulla consapevolezza che Brunelleschi aveva dei principî teorici che garantiscono la stabilità della fabbrica. Va certamente esclusa la conoscenza da parte sua di modelli di analisi teorica che saranno definiti soltanto alcuni secoli più tardi, con i quali si può rigorosamente spiegare la statica della struttura. Eppure la fabbrica appare istintivamente come l'espressione di un progetto fondato su analisi geometriche e considerazioni meccaniche di carattere quantitativo, delle quali si deve prendere atto che non resta traccia nei documenti originali. Si tratta di un tema di particolarissima suggestione, gravido di implicazioni, soprattutto in relazione al problema generale degli apporti recati dall'esperienza pratica e dalle nozioni teoriche nella nascita della tecnologia moderna. Purtroppo, l'immensa fabbrica è muta e non può raccontare la propria storia illuminando i nostri quesiti.
C'è un altro aspetto della costruzione di questa fabbrica straordinaria che assume particolare importanza dal punto di vista della cultura tecnica: quello della concezione e dell'organizzazione del cantiere.
Assai meno ardua, grazie a una documentazione anche grafica piuttosto ricca, è la ricostruzione delle principali macchine concepite o perfezionate da Brunelleschi e utilizzate nelle diverse fasi di costruzione.
Queste macchine, ognuna caratterizzata da specializzazioni non banali, aiutano a capire la grandiosità dell'opera, spostando l'accento dalla meraviglia che suggerisce l'eleganza della struttura architettonica pienamente risolta alla consapevolezza che il processo della sua ideazione, della messa a punto di metodi realizzativi adeguati, fino alla concezione ‒ che fu parte integrante del progetto e del suo successo ‒ del cantiere e delle singole macchine rappresentò un'impresa di inaudita complessità nella quale si espresse il talento di un tecnico la cui opera segnava l'inizio di una stagione di straordinaria innovazione.
Né può sorprendere che delle macchine brunelleschiane, così come di molte altre sue imprese tecniche, rimanga testimonianza fitta e costante nei taccuini di tutti i più grandi artisti-ingegneri delle generazioni successive, Leonardo compreso. Sembra che essi siano restati più colpiti dalle macchine che dalla cupola. Evidentemente riconobbero in quello che rimaneva del cantiere brunelleschiano un monumento da registrare e conservare, l'espressione di un magistero concreto da assimilare e da utilizzare.
Non deve dunque sorprendere se i suoi concittadini, che pure avevano manifestato più volte, durante l'esecuzione dell'opera, perplessità e scetticismo sul suo buon esito, posero sulla pietra tombale del Brunelleschi un'epigrafe, dettata dall'umanista Carlo Marsuppini (1398-1453), che esaltava soprattutto i suoi meriti di inventore, quasi novello Dedalo, di macchine straordinarie (plures machinae divino ingenio ab eo adinventae). Non fu purtroppo attuato il progetto originario di decorare la sua tomba con lastre marmoree nelle quali sarebbero state delineate anche le macchine da lui inventate. Si sarebbe trattato, con ogni probabilità, dell'esordio assoluto delle macchine nella simbologia funerale, un segno eloquente, questo, del radicale mutamento del clima culturale e, insieme, della rapida trasformazione dell'immagine sociale dell'artista-ingegnere.
A chi frequenti la complessa storia di Siena nel Quattrocento capita spesso d'imbattersi in figure di tecnici 'universali', che presentano collegamenti emblematici sia con gli ambienti umanistici sia con le botteghe artistiche, all'attività delle quali parteciparono attivamente, per esempio, Mariano Daniello di Jacopo detto il Taccola (1382-1458 ca.) e, più tardi, Francesco di Giorgio Martini (1439-1501).
Né può sfuggire come queste straordinarie personalità riflettano le aspirazioni e le capacità di una piccola città che cullava progetti di smisurata ambizione, che aveva saputo superare con ardite realizzazioni l'ostacolo a lungo paralizzante della mancanza d'acqua, che aveva in animo di edificare una cattedrale di dimensioni inusitate e vagheggiava di espandersi verso il mare in modo da gareggiare nei commerci con Genova e con Napoli. Per sostenere quelle aspirazioni non bastavano le ricchezze accumulate col fiorire dei commerci e delle attività finanziarie; occorreva anche un ceto dirigente preparato e soprattutto la presenza di operatori capaci di raccogliere le ambiziose sfide lanciate dalla comunità senese realizzando le strutture vagheggiate.
Basterebbe riflettere sulla straordinaria costruzione tra il Duecento e il Trecento della rete dei 'bottini' e delle fonti e sui tanti altri progetti, talvolta di audacia inaudita, concepiti allo scopo precipuo di garantire l'approvvigionamento idrico di Siena, per considerare come del tutto naturale l'eccezionale spessore delle competenze di idraulica applicata che si riscontrano sia in Mariano di Jacopo sia in Francesco di Giorgio. Né sorprende che un centro come Siena, favorito anche dalla ricchezza di minerali del territorio, abbia sviluppato, accanto a una produzione di fusioni artistiche di grande qualità, rilevanti professionalità nella fabbricazione delle armi da taglio, delle armature, delle campane, delle bombarde e delle armi da fuoco.
Non mancavano a Siena occasioni d'incontro e di dialogo tra i rappresentanti della nuova cultura umanistica, impegnati nel recupero dell'antica sapienza con l'acuminato strumento della filologia, e gli esponenti del ceto degli artigiani e degli artisti; un dialogo che, come risulta nella meglio studiata situazione fiorentina di quei decenni, portò a collaborazioni proficue nella scienza delle costruzioni, nelle ricerche sulla teoria della visione applicate alla pittura, e nelle riflessioni de ponderibus. A Siena fioriva uno Studio nel quale erano attive personalità di notevole rilievo per la rinascita degli studi classici, mentre le biblioteche, anche se non potevano rivaleggiare con quelle di Firenze, erano tuttavia ricchissime di tesori.
Gli artisti-ingegneri senesi appaiono perfettamente inseriti nel fervore di attività pratiche e produttive, nel continuo succedersi di guerre o, più di frequente, di semplici scaramucce, di progetti di costruzioni o decorazioni ambiziose che caratterizzano la vita di Siena nel corso del Quattrocento.
Se guardiamo ai profili professionali di questi personaggi, si colgono fisionomie e tendenze evolutive riscontrabili anche in altri contesti. Già da metà Trecento erano venuti dedicandosi sempre più intensamente alla compilazione di scritti tecnici illustrati dotti come Guido da Vigevano, attivo in Francia presso la corte di Carlo il Bello e di Filippo V, e Conrad Kyeser di Eichstätt (1366 - m. dopo il 1405), un colto soldato della Franconia bavarese legato al re di Germania Roberto elettore del Palatinato. Né Guido, né Kyeser erano tecnici di professione, ma medici che si dedicarono all'illustrazione di dispositivi soprattutto bellici per potenti sovrani ai quali prestarono la propria collaborazione. Più avanti, nel Quattrocento, s'imporrà la figura di Giovanni Fontana (1395-1455), un medico e dotto letterato, che utilizza nel suo Bellicorum instrumentorum liber numerose fonti classiche, dimostrando in tal modo di aver buona familiarità anche con gli autori arabi.
I loro testi sono conservati in codici finemente illustrati, dedicati solitamente ai protettori o, comunque, a illustri personaggi. Tali codici furono riprodotti in numerose copie, assicurando agli autori una reputazione duratura e proiettando il mondo delle tecniche in un circuito d'interessi letterari dal quale era rimasto fino ad allora escluso. Nelle loro presentazioni le macchine appaiono però degne di attenzione per la loro curiosità e persino per l'aspetto che assumono piuttosto che per la loro specifica utilità. Esse suggeriscono un'immagine dell'ingegnere molto simile a quella del 'mago': l''ingegno', come la magia, piega la Natura ai voleri e ai comodi dell'uomo.
Colpisce anche lo sforzo d'impiegare un linguaggio e uno stile letterario di livello elevato. Si tratta infatti di opere scritte in buon latino, che registrano un cospicuo numero di citazioni dirette o indirette di autori classici e moderni, che ostentano precise prese di posizione politiche e religiose (Guido da Vigevano, per es., concepisce addirittura la propria opera, il Texaurus, datato 1348, come uno strumento per sostenere efficacemente la crociata che Filippo V intendeva lanciare). Questi testi non si limitano a illustrare dispositivi d'uso esclusivamente bellico, ma piuttosto presentano soluzioni di notevole interesse per la vita e per il benessere delle comunità in tempo di pace: soprattutto mulini, argani e sistemi per sollevare l'acqua.
Questi autori e le loro opere sono sostanzialmente 'trasparenti', anzi ostentano spesso un intento pedagogico. Si propongono infatti di favorire il riconoscimento dell'utilità e dell'opportunità di un serio impegno di ricerca in tema di macchine e dispositivi meccanici, sottolineando con forza l'attenzione riservata alle tecniche da tanti illustri esponenti dell'ammirato mondo greco-romano.
Lo scenario che queste opere sottendono non è la corte del principe medievale, ma piuttosto i circoli che circondano i nuovi signori italiani o che formano la classe dirigente di fiorenti e ricche repubbliche, gli uni e le altre interessati fortemente a un continuo aggiornamento delle tecniche militari, peraltro in quei decenni in rapida evoluzione, ma sensibili anche al contributo che i nuovi ingegneri possono offrire alla realizzazione delle ardite opere di ristrutturazione urbanistica e di abbellimento delle città.
Emerge, d'altra parte, sempre più marcatamente anche il tentativo di rimettere in moto processi originali di riflessione e di sperimentazione. Nei primi decenni del Quattrocento sulla scena italiana è ormai chiaramente riconoscibile la fisionomia di un nuovo tipo di operatore tecnico, assieme antiquario e inventore, ammiratore dei grandi ingegneri dell'Antichità con i quali si sente però impegnato in una nobile gara di emulazione.
Mariano di Jacopo detto il Taccola
Questa tensione caratterizza in maniera distintiva anche l'opera e l'attività di Mariano di Jacopo, detto il Taccola, che si autodefinisce significativamente l'"Archimede di Siena" (all'inizio del suo De machinis). Fermiamo un attimo l'attenzione sul significato di questo epiteto. Dato che il Taccola non mostra debiti particolari nei confronti dei celebrati scritti geometrici e meccanici del Siracusano, l'epiteto va riferito all'immagine di Archimede come simbolo stesso dell'inventore, un aspetto del suo 'mito' che ne esaltava la capacità di ideare dispositivi eccezionali, come quelli grazie ai quali tenne a lungo in scacco la soverchiante armata romana di Marcello. Si tratta dunque di un'autocelebrazione della capacità inventiva del Taccola e, insieme, di un omaggio all'ingegnosità degli Antichi.
L'intenzione di mettere nuovamente in movimento una riflessione originale e creativa sulle tecniche s'intreccia infatti in Mariano di Jacopo con lo sforzo di riportare alla luce le conquiste tecnologiche degli Antichi. Ciò aiuta a comprendere il curioso impasto esistente tra le registrazioni di carattere pratico e sperimentale e le frequenti citazioni di casi desunti dalla tradizione classica. Mariano di Jacopo si sente al tempo stesso inventore e restauratore dell'antico sapere: 'scoprire' e 'riscoprire' implicano entrambi l'attivazione di un processo di innovazione.
Per procedere al pieno recupero del sapere tecnico dell'Antichità, l'ingeniarius deve superare l'arduo ostacolo di testi spesso di difficilissima decifrazione e ordinariamente privi di illustrazioni. Capire un testo tecnico del passato e renderlo comprensibile significa, per Mariano, tradurlo visivamente, 'reincarnarlo' in un'immagine che diviene poi la sostanza stessa del dispositivo. Nel Taccola emerge con grande chiarezza questa funzione centrale dell'immagine, strumento specifico di una filologia 'macchinale' riconducibile agli stessi stimoli che spingevano in quei decenni tanti illustri umanisti a impegnarsi in un'assidua opera di recupero del sapere antico. Le sue vignette illustrano testi dei quali si è assai di frequente in grado di indicare la fonte (tutta una serie di disegni, per es., sono ispirati dagli Stratagemata di Sesto Giulio Frontino), ma il blocco testo-immagine trasforma quei testi in qualcosa di nuovo, in un''invenzione' appunto. D'altra parte, molti testi di Mariano sottolineano, oltre alla centralità, anche i limiti dell'immagine, che sono poi i limiti delle tecniche di raffigurazione che Mariano riesce a padroneggiare.
Nel corpus degli scritti del Taccola (i quattro libri del De ingeneis e il De machinis) esiste un documento (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Clm. 197 II, f. 107v; cfr. Thorndike 1955) che illumina circa la consapevolezza che due fra i massimi protagonisti del rinnovamento delle tecniche nella prima metà del Quattrocento ebbero del carattere nuovo dell'esperienza professionale che venivano interpretando. Il Taccola vi verbalizza infatti la sua conversazione col 'collega' Filippo Brunelleschi, avvenuta a Siena in data non dichiarata, ma presumibilmente intorno al 1430. Il suo resoconto mostra che il problema sul quale i due interlocutori concentrarono l'attenzione era quello della dignità e dei diritti non correttamente tutelati della nuova categoria degli ingegneri-inventori. Brunelleschi invita il collega a far tesoro delle proprie amare esperienze ed esprime parole durissime nei confronti di coloro che prima spregiano le invenzioni altrui e poi, trascorso qualche tempo, se ne appropriano.
Dalla trascrizione del Taccola dello sfogo del Brunelleschi traspare la situazione estremamente delicata nella quale era venuto a trovarsi il tecnico 'inventore', soprattutto negli ordinamenti 'democratici' (come a Firenze o a Siena), con l'impetuosa ripresa, a partire dal Trecento, delle attività costruttive e con l'intensificarsi del processo d'innovazione del sapere tecnico. Coloro che acquisivano queste nuove competenze sperimentavano sulla propria pelle la mancanza di dispositivi di tutela delle invenzioni, assieme ai limiti di un sistema che riservava ai livelli politici il potere decisionale, anche in caso di opzioni squisitamente tecniche. Non a caso, le proposte di Brunelleschi erano state sistematicamente messe in discussione dai concittadini ai quali competeva la decisione. D'altra parte, proprio per sottrarsi alla situazione di precarietà in cui versava l'inventore, costretto a dichiarare pubblicamente le proprie idee per ottenerne l'approvazione, Brunelleschi aveva escogitato per primo un sistema di garanzia pubblica dei diritti derivanti dallo sfruttamento della sua 'invenzione' di una nave per il trasporto dei marmi. L'incompetenza, da un lato, e la mala fede, dall'altro, costringono l'ingegnere alla riservatezza. Abbiamo già sottolineato come Brunelleschi fu rigoroso interprete di questo cliché, evitando sistematicamente di consegnare a testi illustrativi o a disegni i suoi molti progetti innovativi.
Il Taccola è di soli cinque anni più giovane di Brunelleschi, al quale sopravviverà di oltre un decennio. è tuttavia evidente che egli considera Brunelleschi un'autorità e che intende far tesoro dei suoi suggerimenti. In effetti, in molti luoghi dei suoi scritti Taccola fornisce un'informazione intenzionalmente vaga di alcuni dispositivi, dichiarando di non voler correre il rischio di farsi derubare; dotato però di diverso temperamento, egli non seguì alla lettera l'invito alla riservatezza del collega. Mariano, infatti, ha compilato centinaia di pagine piene di note e disegni nei quali si riesce quasi sempre a ricostruire nei minimi particolari i dispositivi analizzati. In una parte almeno dei testi del Taccola che ci sono pervenuti è evidente addirittura lo sforzo di organizzare una presentazione delle proprie ricerche in forma di trattato organico, come successione di disegni accuratamente eseguiti, a ognuno dei quali appone un testo descrittivo; in qualche caso, inoltre, fornisce l'indicazione esatta della data e del luogo nei quali mostrò a determinati personaggi certe pagine dei suoi manoscritti, informandoci anche dell'interesse suscitato dai dispositivi che vi erano illustrati. Infine, egli preparò un esemplare di dedica per l'imperatore Sigismondo d'Ungheria del De ingeneis libri III-IV, inserendovi un testo letterariamente studiato nel quale si dichiarava pronto a mettere a disposizione dell'imperatore i propri servigi come ingegnere idraulico e come miniatore.
Accanto alle molte analogie, non devono dunque sfuggire le diversità che caratterizzano le posizioni di Brunelleschi e del Taccola. Il grande architetto fiorentino rappresenta ancora la mentalità e lo stile della segretezza professionale tipici delle corporazioni medievali, che peraltro sopravviveranno nella tradizione dei ricettari e dei 'libri di bottega' fino al XVII secolo. Mariano è viceversa soprattutto interessato a una rivendicazione del ruolo centrale dell'ingeniarius-inventore, non soltanto per ovvie ragioni di autopromozione, ma per l'esigenza che avverte di procedere al recupero, all'analisi e alla divulgazione dei grandi testi tecnici dell'Antichità. Per questo, diversamente da Brunelleschi, egli sente il bisogno di trasformarsi in 'autore'.
Il Taccola è un uomo di confine, che cavalca, o cerca di cavalcare, imbarazzanti contraddizioni di ruolo (autore e inventore) in un mondo che sta registrando grandi trasformazioni culturali e professionali, soprattutto per quanto attiene alla figura dell'ingegnere. Quel pochissimo che sappiamo della sua biografia sembra confermare l'impressione di una situazione di trapasso. Mariano è un notaio che decide di rinunciare a esercitare una professione molto decorosa e fonte di notevole guadagno. Vive inoltre in un ambiente culturale nel quale si riconoscono due poli privilegiati. Anzitutto, quello degli artisti, con molti dei quali ‒ primo tra tutti Iacopo della Quercia ‒ intrattenne relazioni di collaborazione e di amicizia; egli stesso fu protagonista di attività artistiche e disegnatore apprezzabile. Alcune sue vignette, come il s. Giorgio e il Drago (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. 766, f. 48r) o la Dorotea col Bambin Gesù (ibidem, f. 42r) sono veramente di elegantissima fattura, mentre un soffuso tono di umana solidarietà caratterizza le raffigurazioni di uomini impegnati in lavori di fatica (ibidem, f. 8v); egli, inoltre, è in grado di concepire composizioni e pose cariche di complessi significati allusivi, come nel celebre ritratto dell'imperatore Sigismondo (ibidem, f. 1v).
D'altra parte, il Taccola ebbe certamente rapporti di familiarità con alcuni illustri maestri dello Studio senese. Tra il 1424 e il 1434, ricoprì l'incarico di camerarius della Domus sapientiae, che si era trasformata da istituzione assistenziale in 'albergo' per gli studenti meno abbienti. Nell'esercizio delle sue funzioni, Mariano ebbe certamente occasioni di contatto con i docenti che vi operarono in quegli anni, tra i quali si trovavano personaggi della statura di Francesco Filelfo, mentre menti brillanti come il Panormita (Antonio Beccadelli) vi studiarono, tornando poi a Siena più volte con incarichi diplomatici di elevatissimo rango. Tra i grandi maestri merita soprattutto ricordare Mariano Sozzini ‒ col quale il Taccola fu familiare ‒, vero faro dello Studio, nel quale attrasse, grazie alla sua reputazione di giureconsulto, moltissimi studenti.
Negli anni della maturità del Taccola, d'altra parte, transitarono nella sua Siena tanti illustri umanisti, a cominciare da Leon Battista Alberti (1404-1472), che vi spese un intero mese nel 1443, al seguito di papa Eugenio IV. È persino inutile sottolineare l'interesse di un uomo come l'Alberti per il mondo delle arti e delle tecniche e a quali straordinarie conversazioni avrebbe potuto dare origine un suo incontro con Taccola. È difficile resistere alla tentazione d'immaginare di ritrovare un'eco di quell'ipotetico dialogo senese nell'attenzione che Taccola dedica continuamente ai dispositivi per immergersi e per respirare sott'acqua e ai metodi per recuperare dai fondali colonne o tesori sommersi, in un esercizio di vera e propria archeologia subacquea. Pochi anni più tardi l'Alberti tenterà, infatti, di recuperare un'intera nave romana dai melmosi fondali del lago di Nemi, impresa per la quale impiegò tecniche molto simili a quelle illustrate dal Taccola, con la determinante collaborazione di sommozzatori fatti venire da Genova. Il tentativo dell'Alberti suscitò un'impressione enorme, della quale si trova testimonianza in molti manoscritti riconducibili alla tradizione macchinale senese, come, per esempio, nel probabile ritratto ideale dell'Alberti a cavallo al quale un villano mostra la carcassa della nave romana che traspare dal fondo del lago (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. 767, f. 120), conservato in un manoscritto che contiene copie di disegni sia del Taccola sia di Francesco di Giorgio.
Restano documenti che sembrano attestare un rapporto di familiarità del Taccola con un'altra figura straordinaria del moto umanistico, Ciriaco di Ancona (1391-1452), un intellettuale che fece da tramite tra l'Oriente mussulmano e l'Occidente cristiano e che soggiornò a più riprese a Siena. Può darsi che proprio grazie a Ciriaco sia pervenuto nella biblioteca di Maometto II uno stupendo esemplare del De machinis di Taccola. Il grande sultano ‒ col quale Ciriaco intrattenne relazioni amichevoli ‒ apprezzava i manoscritti riccamente miniati e guardava con occhio particolarmente attento ai testi occidentali d'ingegneria e di architettura militare, come il codice contenente il De re militari di Roberto Valturio, inviatogli da Sigismondo Malatesta per il tramite di Matteo de' Pasti.
Le trame che s'intravedono nella scarna biografia intellettuale di Mariano servono a fare chiarezza su un punto che è fondamentale non soltanto per capire il ruolo e le vocazioni degli ingegneri senesi, ma anche per afferrare la tensione essenziale che caratterizza gli sforzi di tutti i tecnici italiani del Quattrocento, da Brunelleschi a Leonardo. Questa tensione non deve essere individuata soltanto nella rivendicazione di pari dignità, che pure fu avanzata, da parte degli operatori pratici nei confronti degli esponenti della cultura ufficiale. Altrettanto importanti e costanti furono infatti gli sforzi per favorire lo stabilirsi di una proficua collaborazione tra due settori di competenze che erano rimasti fino ad allora sostanzialmente estranei. Né sarà inutile ricordare che Mariano non è un tecnico illetterato, ma una persona che scrive non in volgare ma in latino e cita gli autori classici. Non può sfuggire, d'altra parte, l'interesse che una schiera considerevole di umanisti manifestava nei confronti del problema dell'illustrazione dei testi tecnici e scientifici antichi; basti ricordare a tale proposito la consapevolezza che un altro grande umanista, Giovanni Aurispa, dimostrò dell'importanza, proprio per le immagini che registrava, del codice greco ‒ oggi alla Bibliothèque Nationale di Parigi (gr. 2442) ‒ contenente i testi dei cosiddetti 'matematici greci' (che erano poi testi di tecnologia, soprattutto militare). Questo codice fu subito avidamente ricercato da tecnici e da artisti (tra questi il Ghiberti) proprio in virtù dell'eccezionale presenza di un ampio apparato iconografico.
Resta da valutare l'effettivo spessore e l'originalità del contributo del Taccola sul piano squisitamente tecnico. Quando furono riscoperti nella seconda metà del Settecento, i suoi scritti suscitarono una certa impressione per i dispositivi militari che vi erano rappresentati. Oggi, dopo i notevoli progressi degli studi di storia militare, si è assai più cauti nel sottolineare il carattere innovativo delle registrazioni di Mariano in questo settore, che stava subendo, durante il corso della sua vita, trasformazioni radicali. In effetti, il Taccola possiede un'informazione delle tecniche militari non particolarmente aggiornata. Egli non è un ingegnere militare, ma è stimolato a misurarsi in questo campo dalle lusinghe di una committenza che privilegia tale tipo di applicazioni. Inoltre, gran parte dei suoi studi di tecnologia militare appaiono come un attento esercizio d'interpretazione e di divulgazione mediante le immagini di testi classici, come quelli di Vegezio e di Sesto Giulio Frontino, a lui ben noti.
Diversa valutazione meritano altri settori della produzione tecnica del Taccola. Conviene, anzitutto, isolare dalla messe delle sue note e dei suoi disegni alcuni echi evidenti di dispositivi e soluzioni tecniche brunelleschiane, sulle quali egli probabilmente attinse informazioni dirette dall'autore. Oltre alle raffigurazioni della 'colla' del Brunelleschi, negli autografi di Taccola si trova una ricostruzione grafica del battello adibito al trasporto dei marmi brevettato dal Brunelleschi; l'analisi in questo caso si sviluppa su tre pagine, nelle quali il Senese illustra il processo di produzione, carico e trasporto per via di terra e d'acqua di pesanti colonne di marmo. Il Taccola, che ha ricevuto dal Brunelleschi una descrizione verbale sommaria dell'imbarcazione, mostra di avere afferrato il concetto centrale della continuità di carico che evidenzia nel disegno, dove il carro sul quale è posta la colonna si trasforma in chiatta galleggiante.
Mariano sembra raggiungere la massima originalità nel settore delle applicazioni idrauliche, che rappresentano una 'fetta' rilevantissima del complesso dei suoi studi tecnici. Da alcune dichiarazioni relative a invenzioni delle quali si proclama autore e dall'enfasi che pone sulla propria qualificazione idraulica nell'offerta di servigi all'imperatore Sigismondo, risulta che egli considerava particolarmente significativa la professionalità raggiunta in questo campo.
L'evidenza di una notevole specializzazione idraulica che mostrano i manoscritti del Taccola non deve sorprendere. Nel controllo delle acque e nella messa a punto di soluzioni de aquis stringendis i tecnici senesi avevano compiuto esperienze e ottenuto risultati con i quali pochi altri centri potevano competere. È del tutto logico dunque che il Taccola esibisca gli aspetti più innovativi di quella che può essere definita una vera e propria cultura tecnica del territorio. A formarla e a irrobustirla avevano contribuito anzitutto le esigenze del centro cittadino, con la cronica e drammatica carenza d'acqua per risolvere la quale, tra il 1200 e il 1400, era stata creata la formidabile rete sotterranea dei 'bottini', una delle realizzazioni più impressionanti dell'intera civiltà senese. Anche se non pare che Mariano sia stato direttamente impegnato nella costruzione, la sua amicizia con Iacopo della Quercia, coinvolto con la sua bottega non solamente nella decorazione della Fonte del Campo ma anche nella gestione dei bottini, e la propria curiosità di tecnico dovettero renderlo familiare con questi impianti di vitale importanza per la città. Molti dei suoi schizzi di soggetto idraulico possono essere interpretati come la volontà di mettere a disposizione della comunità la propria competenza d'ingegnere idraulico per individuare soluzioni che consentissero di aumentare la disponibilità d'acqua per il benessere dei cittadini e per le attività produttive.
Nelle vignette de aquis stringendis e nei dispositivi idraulici analizzati nei suoi manoscritti opera costantemente l'aspirazione ‒ o il sogno ‒ di trovare la macchina o il sistema che consentano di condurre acqua a volontà dovunque si desideri. Da un lato, infatti, egli registra con precisione le tecniche e gli strumenti impiegati per realizzare la rete dei bottini: tecniche di misurazione e di scavo, metodi e strumenti per garantire portate d'acqua costanti. Dall'altro lato, installa in paesaggi rupestri sifoni d'improbabili dimensioni o arditi ponti-canali per trasportare l'acqua da una sorgente d'acqua a un fontanile, alla ruota di un mulino o a una peschiera, scavalcando un rilievo interposto. Non è improbabile che questi studi debbano essere collegati alla ricerca di soluzioni praticabili per il vagheggiato progetto di condurre a Siena l'acqua proveniente dal fiume Merse, distante trenta chilometri dalla città.
Nello stesso sfondo ‒ tra sogno e ricerca di utili applicazioni ‒ sono da inserire gli schizzi relativi alla città spagnola di Toledo, raffigurata, come Siena, in cima a un colle, alimentata d'acqua dal sifone invertito dell'antico acquedotto romano, del quale il Taccola doveva essere informato, con buona probabilità, da qualcuno dei molti Catalani presenti nel territorio senese in qualità di gestori dei commerci del porto di Talamone. Nel caso di Siena-Toledo vediamo riproporsi la caratteristica combinazione tra curiosità antiquaria e ricerca di utili applicazioni.
L'insistenza del Taccola sui sifoni indica probabilmente il suo suggerimento per l'uso di questo dispositivo a integrazione o in alternativa al sistema dell'adduzione dell'acqua per gravità praticato nella rete dei bottini. Mariano mostra di conoscere il funzionamento del sifone, ma ne esagera palesemente le prestazioni. Anche nell'uso della vite di Archimede Taccola esibisce qualche impaccio; infatti, egli dispone talvolta la vite in posizione verticale, mostrando d'ignorare che l'inclinazione è condizione fondamentale per il funzionamento di questo dispositivo.
Le esigenze e le vocazioni del territorio si affacciano prepotentemente in molti altri disegni di Mariano. Gli animali, anzitutto, con la netta e motivata prevalenza accordata ai bufali rispetto ai buoi e ai cavalli in virtù della loro capacità di nuotare e di procedere nel fango. I bufali rinviano alle ampie distese paludose della pianura maremmana, 'recente' conquista senese, dove questi quadrupedi abbondavano. I sistemi per svuotare stagni e lagune bonificando terreni paludosi, raffigurati in molte vignette del Taccola, potrebbero di nuovo essere riferiti allo stesso territorio maremmano, così come alludono probabilmente alle paludi di Talamone e di Orbetello le barche a basso pescaggio per navigarvi, i carri anfibi e l'insistita attenzione riservata a dispositivi sfondacarene per acque basse, che Taccola indica esplicitamente come adatti in paludibus, eco presumibile degli sforzi compiuti dai Senesi in quei decenni per fortificare e difendere dai corsari il porto di Talamone e le lagune circostanti.
Occorre anche sottolineare la presenza, tra i pochi mulini riprodotti da Mariano, di un mulino a mercurio, riflesso presumibile dell'abbondante disponibilità di questo metallo pesante nelle miniere dell'Amiata. Infine, persino le gustose e ossessivamente ripetute vignette che illustrano scene di pesca registrano un preciso problema della comunità senese dal quale il tecnico si lascia intrigare. Le ricche pesche 'tecnologiche' che Mariano raffigura sono evidentemente da intendere come prelievo di pesce da peschiere, che abbondavano nel territorio della Repubblica e delle quali resta ampia traccia nella toponomastica dell'area senese. È inevitabile collegare questa serie di disegni al progetto di realizzare una grande peschiera artificiale nel territorio maremmano per liberare Siena da un altro dei suoi problemi storici, quello della necessità d'importare notevolissime quantità di pesce dal lago Trasimeno. Probabilmente, operano in questi disegni la suggestione del progetto, concepito fin dal Trecento, di creare con una diga di sbarramento un lago-peschiera sul fiume Bruna in prossimità di Giuncarico (presso Grosseto).
Mette conto infine sottolineare che, come risulta dalla sua 'dichiarazione dei redditi' del 1453, Mariano aveva coperto anche l'incarico pubblico di 'stimatore', ossia di chi aveva compiti di preparazione degli appalti, approntava i preventivi dei costi, effettuava le misurazioni anche ai fini di determinare precisamente i confini di proprietà e compiva quelli che oggi definiremmo i calcoli strutturali, provvedendo ad assicurare la perfetta esecuzione delle opere pubbliche e la loro massima economicità. Allo stimatore competeva inoltre di procedere all'acquisizione comunitaria di beni di consumo, nonché alla determinazione e alla gestione dei salari degli operatori. In Mariano troviamo continui e precisi riferimenti a tecniche e strumenti per compiere rilevamenti territoriali, che potrebbero essere collegati a questo incarico, anche se va sottolineato che nei suoi manoscritti manca quasi completamente traccia dei computi caratteristici di quelle matematiche pratiche così fiorenti nella Siena tra Medioevo e Rinascimento, nelle quali dovevano essere di necessità esperti gli stimatori.
Francesco di Giorgio Martini
Nelle carte conclusive dell'autografo del De ingeneis I-II del Taccola (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. 767) si trova una serie di note e disegni autografi di Francesco di Giorgio Martini (1439-1501); nessun documento esprime più efficacemente di questi fogli la continuità della tradizione senese di studi macchinali, fotografando, per così dire, il momento stesso del passaggio del testimone da Taccola a Francesco di Giorgio Martini. Particolare interesse riveste il contenuto delle note e degli schizzi di Francesco che risultano puntuali registrazioni di disegni e note vergati dal Taccola nel ms. Palat. 766 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (De ingeneis III-IV).
Cogliamo dunque Francesco, figlio di un funzionario pubblico, impegnato in un'assidua consultazione dei testi del Taccola. È impossibile datare con precisione questi appunti e questi schizzi; non si è tuttavia certamente in errore nell'assegnarli agli esordi della sua fortunata carriera di tecnico e, magari, nel collegarli all'ipotesi di un suo breve discepolato, che non è reso impossibile dalle date, presso l'anziano tecnico senese. I documenti più antichi che conserviamo dell'attività di Francesco di Giorgio confermano infatti che la sua carriera iniziò sotto il segno di un'attenta valutazione dell'eredità letteraria di Mariano di Jacopo.
La testimonianza più eloquente in questo senso è rappresentata dal cosiddetto Codicetto vaticano (Città del Vaticano, BAV, Urb. lat. 1757), un taccuino di minuscolo formato che Francesco ha fittamente riempito di appunti e di schizzi.
Alle evidenze offerte dall'attento lavoro giovanile di trascrizione e di assimilazione critica dell'opera del Taccola siamo in grado di aggiungere pochi dati sulle tendenze che caratterizzano la fase di formazione di Francesco e gli esordi della sua carriera (Weller 1943).
Le attività delle botteghe artistiche senesi ‒ come di quelle fiorentine ‒ erano tradizionalmente caratterizzate dalla compresenza di numerose specialità. Quel poco che sappiamo in merito ai primi lavori di Francesco riflette questa varietà di competenze e d'impieghi, che ne segnerà caratteristicamente la personalità per tutto il corso della sua carriera. Il primo documento su Francesco di cui disponiamo ne attesta, nel 1464, l'attività come pittore. Mancano poi notizie sicure fino al 1469, quando all'ormai trentenne artista è affidato, in società con Paolo d'Andrea, l'incarico di 'operaio' dei bottini. Nel 1470 Francesco riceve un pagamento per la pittura del Monte Vasone, che esegue sulla base dei rilevamenti eseguiti dallo 'stimatore' Mariano di Matteo. Il disegno è perduto, ma è significativa la collaborazione che Francesco stabilisce grazie a questa commessa con un rappresentante delle matematiche pratiche.
L'ultimo riscontro documentario per attività di carattere tecnico compiute da Francesco nel primo periodo senese è del 25 luglio 1476, quando egli avrebbe ricevuto dalla Repubblica (ma non è certo che si tratti di lui) l'ordine di compiere, insieme a Sano di Pietro (1406-1481), un sopralluogo al lago-peschiera che era stato realizzato negli anni precedenti sul fiume Bruna. Tale visita potrebbe essere posta in relazione con la necessità di prendere una decisione circa il modo di riparare la falla di 8 braccia (quasi 5 m) che si era manifestata nella muraglia della diga nel settembre del 1475 e che aveva indotto ad aggiungere contrafforti per timore di un crollo. Si tratterebbe del primo riferimento documentato che attesti l'attività di Francesco come architetto e, al contempo, il suo coinvolgimento nella sfortunata impresa senese della diga sul fiume Bruna.
I documenti successivi indicano la partecipazione di Francesco di Giorgio alla cosiddetta 'guerra di Colle Val d'Elsa', a partire dal 1475, nella quale Siena si schierò contro Firenze all'interno di una coalizione nella quale militavano papa Sisto IV, il duca di Calabria, Alfonso d'Aragona, e Federico da Montefeltro, il duca di Urbino, le cui truppe erano guidate dal figlio Antonio. Non abbiamo notizie precise sulle incombenze svolte da Francesco in quegli eventi; si è tuttavia supposto che quella guerra, che lo avrebbe contrapposto nell'assedio di Castellina a un altro brillante tecnico, Giuliano da Sangallo (1445 ca.-1516), schierato dalla parte dei Fiorentini, segni il debutto di Francesco come architetto militare, avviandolo a una carriera assai fortunata, in cui assumeranno un ruolo decisivo proprio i due prìncipi-condottieri, Federico da Montefeltro e il duca di Calabria, alleati di Siena durante quella guerra.
In effetti, a partire dal 1477, Francesco si trasferisce a Urbino. L'effetto degli stimoli che Francesco riceve in quell'ambiente e dell'affettuosa familiarità che gli dimostrerà lo stesso duca appare subito evidente. Francesco diviene presto l'ambasciatore di Federico presso i Senesi, mentre la stima e la fiducia dimostrategli dal duca lo fanno enormemente crescere nella considerazione dei concittadini. È a Urbino, tra l'altro, che Francesco comincia a occuparsi di fortificazioni. Egli contribuirà alla realizzazione del Fregio dell'arte della guerra del Palazzo Ducale, che segna il debutto delle macchine come soggetti di decorazione architettonica.
Il cambiamento di ambiente e di relazioni trova un riscontro evidente anche nella produzione letteraria di Francesco, come mostra il piccolo nucleo di note e schizzi di architettura militare del citato Codicetto vaticano databile al tempo del primo soggiorno urbinate.
Alla gamma già vastissima delle specialità di Francesco di Giorgio resta da aggiungere l'impegno suo e della sua bottega nella fabbricazione delle armi da fuoco; a questo proposito bisogna ricordare che il più fedele e antico dei suoi collaboratori, Iacopo Cozzarelli (1453-1515), che lo seguì a Urbino, fu un ottimo e attivissimo produttore di bombarde e armi da fuoco. Tra i collaboratori di Francesco va inoltre annoverato probabilmente anche Giovanni delle Bombarde, figlio di Giovanni da Zagabria, un maestro bombardiere ungherese stabilitosi a Siena, dove era giunto al seguito dell'imperatore Sigismondo nel 1432. Va ricordata poi l'attività di un tal Giovanni di Francesco, maestro di bombarde, al quale si riferiscono molti documenti degli anni Ottanta. 'Di Francesco' potrebbe infatti essere interpretato come 'collaboratore di Francesco', secondo il costume che ebbe una certa diffusione nelle botteghe rinascimentali di aggiungere al nome di battesimo non il patronimico ma piuttosto il nome del maestro.
Occorre sottolineare che nel già citato ms. Palat. 767 sono illustrate due bombarde firmate. La prima reca l'iscrizione Opus Dio. Vit., che consente di assegnarne l'esecuzione a Dionisio da Viterbo, un notevole meccanico e orologiaio la cui attività è documentata a Siena negli anni Sessanta. L'altra presenta lo stemma degli Orsini ed è siglata Opus Francis[ci], a indicarne con ogni probabilità la fabbricazione da parte di Francesco di Giorgio, il quale, tra l'altro, prestò la propria collaborazione come ingegnere militare a Virginio Orsini nel 1490. A conferma dell'impegno di Francesco o, comunque, della sua bottega nella fabbricazione delle armi da fuoco sembra militare anche la riflessione sulla bombarda e sulla sua origine e la catalogazione delle bocche da fuoco secondo la forma e il peso del proiettile sparato che Francesco inserirà nella più tarda redazione del Trattato di architettura. Non si fa qui cenno, d'altra parte, alle attività, peraltro intensissime nel corso di quegli anni, di pittura, scultura e miniatura, che sono state esaustivamente ricostruite e analizzate (Fiore 1992).
I due blocchi formati dall'eredità taccoliana e dal nucleo delle macchine innovative di Francesco di Giorgio appaiono per la prima volta perfettamente saldati negli oltre 160 disegni che costituiscono lo splendido Opusculum de architectura conservato alla British Library di Londra (197.b.21). L'Opusculum presenta novità significative rispetto al Codicetto non soltanto nel formato e nella confezione. Mentre nel manoscritto vaticano i disegni del Taccola e quelli dei dispositivi presumibilmente di Francesco erano giustapposti e quindi facilmente distinguibili, nell'Opusculum la fusione di questi due nuclei è ormai completamente avvenuta. Ne risulta una carrellata di disegni perfettamente eseguiti e totalmente privi di commento, tra i quali non si fatica a riconoscere, accanto alla serie ormai familiare delle 'invenzioni' di Francesco, la sobria, accorta e figurativamente più matura riedizione di una serie di vignette del Taccola. Il codice è mutilo della carta iniziale che conteneva la dedica a Federico da Montefeltro (segno forse di una successiva riutilizzazione come esemplare di dedica). Ciò consente di supporre che la preparazione del manoscritto risalga al tempo del trasferimento di Francesco a Urbino (1477), in relazione al quale l'artista senese avvertì l'esigenza di mostrare con un dono appropriato le proprie capacità in diversi settori delle applicazioni tecniche. Risulta, d'altra parte, particolarmente adatta a un duca-guerriero come Federico anche la presenza nell'Opusculum di alcune planimetrie di fortezze. Nel complesso, l'Opusculum presenta il variegato campionario dei settori nei quali Francesco vantava delle competenze tecniche speciali. È una sorta di lussuoso dépliant, che illustra le prestazioni tecniche che potevano essere fornite dall'ingegnere senese e dalla sua bottega.
L'Opusculum, che forniva una sintesi visiva di grande efficacia e suggestione delle specialità tecnologiche senesi, avrà una fortuna inaudita. Non si conosce un testo tecnico che sia stato copiato integralmente o parzialmente, saccheggiato un numero di volte altrettanto elevato, né che abbia ispirato così a lungo l'immaginazione di tecnici, di illustratori o di editori di testi tecnici a stampa (Scaglia 1991a).
L'epistola dedicatoria dell'Opusculum ‒ fortunatamente conservata in una copia cinquecentesca (Scaglia 1991b) ‒ indica chiaramente la direzione evolutiva della ricerca di Francesco. In quel documento trovava infatti espressione l'ambizione del Senese di confrontarsi con i grandi maestri dell'Antichità. L'elogio del duca di Urbino, che Francesco paragona ad Alessandro Magno e a Cesare, comportava la lusinghiera istituzione di un confronto tra l'artista senese e Dinocrate e Vitruvio, i grandi architetti che quei magnifici prìncipi dell'Antichità protessero e onorarono.
L'evidenza della conoscenza di Vitruvio va particolarmente sottolineata. Se il blocco delle soluzioni tecniche di Taccola-Francesco subirà di qui in poi solo modificazioni marginali, la funzione che la raccolta di macchine svolgerà nelle opere successive di Francesco muterà continuamente. Lo sforzo di diventare 'autore' induce Francesco a elaborare un progetto di Trattato segnato caratteristicamente dall'impronta vitruviana, nel quale le macchine, proprio rispettando l'esaltazione della machinatio nell'opera dell'architetto romano, rivestono un'importanza centrale, in equilibrato rapporto con quell'insieme di precetti, di regole e di consapevolezze circa la natura dell'uomo e il suo posto nell'Universo, senza i quali non è possibile concepire adeguatamente né una dimora, né un tempio, né una fortezza, né una città.
Non è qui possibile insistere sulle delicate questioni relative alla datazione e alla scansione delle numerose stesure attestate da un gruppo di codici, nessuno autografo, che in questi ultimi anni è venuto progressivamente allargandosi; ma preme sottolineare soprattutto due aspetti della complessa vicenda. In primo luogo, va considerato con attenzione il criterio seguito da Francesco nella sistemazione delle macchine nella prima stesura che ci è pervenuta del suo Trattato di architettura (Trattato I); Francesco introduce in questo testo, che può essere datato intorno al 1480, blocchi di note e di disegni relativi alle fondazioni in acqua e alla costruzione di dighe che riflettono, almeno in certi casi, un'ulteriore assimilazione (rispetto all'Opusculum, dove erano assenti) di proposte tecniche illustrate da Mariano di Jacopo nel De ingeneis. Inserisce anche una significativa sezione relativa alla misurazione delle altezze e delle distanze, che pur essendo più ricca e articolata delle note e dei disegni dedicati dal Taccola a questo problema, ne riecheggia alcuni motivi. Questa sezione mancava peraltro tanto nel Codicetto quanto nell'Opusculum.
Egli sistema, poi, in un'organica e coerente successione i quattro blocchi di dispositivi già presenti nel Codicetto (mulini, pompe, 'tirari e alzari', carri) che erano stati riproposti sostanzialmente immutati nell'Opusculum. Le novità, rispetto a quest'ultimo, consistono nell'aggiunta di un commento testuale ai singoli disegni, nell'integrazione di un'appendice contenente una serie di dispositivi che non rientrano nelle quattro categorie precedentemente illustrate, e nell'introduzione di un quinto blocco tematico, dedicato all'arte della guerra e ai suoi strumenti di offesa. In questa sezione traspare nuovamente la propensione di Francesco a combinare atteggiamenti antiquari con riflessioni e proposte innovative. Accanto alle tecniche tradizionali, registrate attraverso l'abituale saccheggio e riformulazione dei disegni del Taccola (trabocchi, carri, sfondacarene, balistae, scale da assedio, ecc.), egli presta attenzione alle armi da fuoco, soffermandosi in particolare sui sistemi di trasporto, di protezione e di agevole puntamento di mortai e bombarde. Egli fornisce poi una serie di precetti sul modo di realizzare bombarde sicure ed efficienti e sulle loro diverse denominazioni in rapporto alle forme e al peso dei proiettili lanciati.
I quattro nuclei fondamentali delle macchine di Francesco presentano alcune novità interessanti. Anzitutto, il commento scritto arricchisce le immagini di questi dispositivi con informazioni lessicali di notevole interesse, con indicazioni sui materiali e sulle dimensioni, su particolari opportunità costruttive o su determinate prestazioni specifiche, nelle quali Francesco raccomanda di impiegarle, facendo anche riferimento, in certi casi, alla sperimentazione che ha compiuto di determinati dispositivi. In alcuni disegni di mulini egli introduce inoltre considerazioni e riflessioni di tipo quantitativo sul rapporto tra denti, diametri delle ruote e dei rocchetti e velocità della macina, formulando considerazioni di ordine generale, relative, per esempio, alle soluzioni da adottare per ridurre l'usura da frizione. Si tratta di annotazioni importanti che indicano la maturazione di Francesco come ingegnere e la sua esperienza ormai considerevole. Francesco introduce un criterio di ordinamento dei disegni che non è soltanto di rigorosa successione dei dispositivi per categorie, ma comporta anche l'adozione di un certo ordine nella sequenza interna alle singole tipologie. Nel caso dei mulini, per fare un esempio, Francesco analizza prima gli impianti a ruota idraulica, quindi quelli azionati dal vento e dalla forza dell'uomo e degli animali. Una preoccupazione di catalogazione sistematica delle macchine, questa, sostanzialmente assente non soltanto in Taccola e nelle prime opere di Francesco, ma anche in tutti i precedenti libri di macchine.
Assieme all'adozione del commento, la ricerca di sistematicità impone esigenze di riformulazione che divengono progressivamente più evidenti. Nella prima redazione del Trattato (cosiddetto Trattato I) si osserva infatti anche una sostanziale modificazione dei rapporti numerici tra le diverse classi di dispositivi illustrati rispetto al Codicetto e all'Opusculum. I mulini, proprio in virtù dello sforzo di analisi esaustiva per struttura costruttiva e per energia impiegata, raggiungono la massima dilatazione (58 impianti diversi); lo stesso fenomeno si verifica per le pompe, presentate nel Trattato I in una gamma vastissima di modelli. Viceversa, nel caso dei carri e dei 'tirari e alzari', gli esempi illustrati sono meno numerosi di quelli descritti nel Codicetto e nell'Opusculum (per quanto attiene alle macchine per alzare e spostare colonne e obelischi la riduzione è notevolissima).
La tendenza all'essenzialità della casistica subisce una fortissima accelerazione nella seconda redazione dell'opera (Trattato II). Nel codice che ce la conserva, tutte le categorie di dispositivi registrano infatti una radicale contrazione. Sopravvivono le immagini di dieci mulini soltanto, che presentano però una scansione rigorosa per tipo di energia: ruota idraulica a cassette colpita di sopra (un esempio), ruota orizzontale 'a ritrecine' (un esempio), mulino a vento con asse orizzontale (un esempio), mulino 'a frucatoio' con volano a sfere di metallo (due esempi), mulini azionati dall'uomo o da animali (3 versioni, diverse per il sistema di trasmissione), e, infine, il mulino a ruota calcatoria azionata dal cavallo (2 versioni: in una l'animale aziona la ruota dall'interno, mentre nella seconda esercita la pressione sulla corona esterna).
Questo processo, che va posto in relazione col parallelo sforzo di organizzazione e di sintesi che caratterizza l'evoluzione degli altri capitoli del Trattato, esprime eloquentemente la nuova interpretazione che Francesco viene dando in questi anni del significato e della natura della machinatio. Tra le macchine del Trattato e quelle del Codicetto o dell'Opusculum la differenza fondamentale non è nei sistemi tecnologici, che appaiono già sostanzialmente definiti al tempo del Codicetto; ciò che segna il processo evolutivo è il progressivo prevalere di un'esigenza di presentazione delle macchine per tipi e per categorie che è fondata sulla individuazione di principî comuni.
Francesco s'allontanava così dalla tradizione consolidata nelle botteghe di affrontare ogni questione tecnica e ogni dispositivo meccanico come un caso a sé stante. Nella logica della bottega, la qualità di un artefice coincideva col numero dei 'casi' che riusciva a padroneggiare, per ognuno dei quali era richiesta una precisa presentazione e un'analisi specifica. Le due successive stesure del Trattato illustrano dunque l'evoluzione degli studi tecnici di Francesco da una serie tendenzialmente infinita di exempla alla definizione di un numero limitato di 'tipi', che registrano i principî fondamentali di un sistema tecnologico determinato, poi variabile all'infinito in relazione alle esigenze dell'artefice.
La presentazione delle macchine nel Trattato II è in questo senso estremamente distante dal significato che assumeva l'affollata presenza nel Codicetto di tanti dispositivi spesso diversi soltanto per qualche marginale variazione nella disposizione delle parti. Lo riconoscerà chiaramente lo stesso Francesco dopo aver fornito l'illustrazione di pochissimi dispositivi nel paragrafo relativo alle macchine per alzare e per spostare pesi del Trattato II: "e con questi è da por fine alla parte degli instrumenti per tirare pesi per edificare, sì perché da questi facilmente delli altri si porrà componere" (Trattato II, f. 94r).
L'altro aspetto significativo delle sezioni dedicate alle macchine del Trattato di Francesco riguarda il nuovo rapporto tra il testo introduttivo e le illustrazioni. In particolare, il Trattato I, come ci è conservato nelle copie d'autore fiorentina e torinese, presenta una concezione fortemente innovativa sia nella definizione dei metodi di rappresentazione delle macchine sia nel sistema di impaginazione, concepito in modo da collegare intuitivamente il testo all'immagine corrispondente. Siamo ben lontani dalle soluzioni adottate, per esempio, nella ricca tradizione manoscritta del De re militari di Valturio (direttamente trasferita nelle edizioni a stampa di questo testo), o nelle prime edizioni a stampa di testi tecnici, a cominciare da Vegezio, precocemente illustrato, fino alla raffinata editio princeps del Vitruvio iconografato, realizzata da Fra' Giocondo nel 1511. Non restano esplicite testimonianze di un progetto di edizione a stampa del Trattato che, se realizzato nella forma in cui è stato concepito l'impaginato delle due copie sopra citate, avrebbe costituito un'innovazione editoriale straordinaria.
Per quanto attiene, in particolare, alle tecniche di raffigurazione delle macchine, è da sottolineare la complessità delle convenzioni grafiche adottate da Francesco per mettere in evidenza i dettagli costruttivi fondamentali dei dispositivi illustrati. L'orgoglio che Francesco doveva provare per i risultati raggiunti nell'illustrazione delle macchine era assolutamente legittimo. Esso spiega l'insistenza con la quale egli sottolineò il suo netto primato figurativo e, quindi, anche concettuale su coloro i quali non dispongono di abilità e pratica nel disegno. "Concordare con la scrittura il disegno" diventa la sua parola d'ordine contro chi si illude di poter "retrovare quasi come di nuovo la forza del parlare de' più antichi autori, per forza di grammatica greca e latina" (Trattato II, ff. 88r e 1r).
Francesco reinserì nell'architettura quel sapere tecnico che nel non architetto Taccola si era sviluppato in sostanziale autonomia. Nonostante lo sforzo di organizzazione sistematica e il proposito di stendere un Trattato dal significato universale, resta evidente nelle diverse redazioni che ci sono pervenute l'orgoglio di Francesco per le specialità tecnologiche senesi. Si coglie, per esempio, nella sezione sui metalli il riflesso di un sapere accumulato grazie alla frequentazione di tanti operatori specializzati nello sfruttamento delle miniere delle quali era ricco il territorio della Repubblica senese.
È difficile, d'altra parte, sottrarsi all'impressione di una precisa relazione tra i diversi metodi per sbarrare i corsi dei fiumi e per fondare solide strutture sui fondali marini, lacustri e fluviali illustrati di nuovo da Francesco nel Trattato I, da un lato, e le attività effettivamente praticate dallo stesso ingegnere e dai suoi colleghi senesi, dall'altro. Francesco fu coinvolto nel 1485 nella ricostruzione del ponte di Macereto sul fiume Merse. Egli fondò i nuovi pilastri di sostegno del ponte ancorandoli ai resti dei precedenti abbattuti da una piena, una soluzione, questa, che riscosse l'apprezzamento dei commissari incaricati di giudicare il lavoro.
Nelle pagine del Trattato relative alle fondazioni in acqua e alle peschiere sono certamente riecheggiate da Francesco tanto le informazioni quanto i precetti assimilati attraverso la consuetudine con esperienze particolarmente sviluppate nell'ambito territoriale senese, quale era quella della costruzione delle peschiere.
L'espressione più diretta del collegamento tra la presentazione delle macchine nel Trattato e le specialità tecnologiche caratteristicamente senesi è tuttavia riscontrabile nelle sezioni dedicate ai modi di addurre le acque. Francesco trasferisce infatti dettagliatamente nel Trattato I l'esperienza personale compiuta a più riprese come 'operaio' della rete dei bottini e fornisce indicazioni sul modo di costruire gallerie sotterranee per addurre le acque; sulle tecniche per mantenere costante la sezione dello scavo; sulla funzione dei pozzi o 'smiragli'; su come ottenere un gradiente costante di due piedi ogni cento con l'uso dell'archipenzolo, del filo a piombo e della squadra; su come convogliare ben purificate alle fonti le acque dei bottini, sia mediante decantazione forzata in vasche, sia costringendole a passare per filtri pieni di rena finissima e di minutissima ghiaia.
Queste evidenze indicano il rapporto assai stretto che intercorse tra lo sviluppo di alcune linee di ricerca dell'ingegnere senese e le esigenze e le vocazioni del territorio. Nonostante che il grande successo ottenuto come architetto militare lo avesse reso un tecnico febbrilmente conteso dai più autorevoli signori della penisola, Francesco restò per i Senesi soprattutto un ingegnere idraulico, l'uomo in grado d'impedire il paventato crollo della diga sul fiume Bruna e di garantire il massimo afflusso d'acqua alle fonti. Non a caso i reggitori di Siena rivolgendosi al duca di Calabria l'11 settembre del 1492 per raccomandargli di lasciar libero di rientrare a Siena Francesco ‒ che il duca stava impegnando nel rafforzamento delle fortificazioni in terra d'Otranto per timore di un attacco dei Turchi ‒ addussero due eloquenti motivi: "l'uno è delle fonti a li quali è mancato molto l'acqua per rispecto deli acquedutti li quali non cessaro ridurli a la sua perfectione; e l'altro lo lago nostro, il quale, appropinquandosi lo verno, è di bisogno provedere ad alcune cose per la perfetione di esso" (Chironi 1991, p. 479).
La tradizione degli ingegneri senesi
L'assimilazione del corpus tecnologico del Taccola da parte di Francesco di Giorgio segna la nascita di una tradizione senese che trova espressione e diffusione in testi di architettura con forte presenza delle macchine, come pure in album contenenti soltanto disegni di dispositivi e di 'ingegni' di impiego civile e militare.
La fortuna di questa tradizione fu enorme. Il modello dell'album di soli disegni di macchine (derivato dall'archetipo dell'Opusculum) riscosse maggiore successo del più sofisticato inserimento della machinatio nelle diverse redazioni del Trattato di architettura, che pure circolarono in maniera considerevole e che, peraltro, attrassero l'attenzione interessata, tra gli altri, di Leonardo, di Giuliano e di Antonio il Giovane da Sangallo.
Nel Cinquecento questo complesso di ricerche fu propagandato efficacemente dalle nuove generazioni di tecnici senesi, come Baldassarre Peruzzi, Pietro Cataneo o il prematuramente scomparso Oreste Vannoccio Biringucci, ai quali va aggiunto Vannoccio Biringuccio, che introdusse più di un orgoglioso riferimento a questa tradizione autoctona nella sua fortunatissima Pirotechnia. Dopo la presa di Siena da parte di Cosimo I de' Medici, autorevoli artisti, letterati e tecnici fiorentini contribuirono all'ulteriore diffusione di questa tradizione, che si allargò sensibilmente in area veneta e romana, grazie anche alla ricettività mostrata nei confronti di molte delle macchine 'senesi' da parte degli autori dei fortunati 'teatri di macchine' a stampa. L'ossessiva ripetizione dei dispositivi di Mariano e di Francesco avvenne tuttavia senza che si avesse coscienza dell'identità degli autori.
Il lento processo di riattribuzione di questa importantissima serie di documenti ai legittimi autori fu avviato alla fine del Settecento grazie agli sforzi convergenti di un gruppo di eruditi locali, che stavano compiendo contemporaneamente le prime esplorazioni documentarie sull'attività degli artisti senesi del Rinascimento, e di alcuni studiosi di storia militare alla ricerca di testi e documenti capaci di illustrare i primi sviluppi delle armi da fuoco.
Il suddetto processo ha restituito una precisa fisionomia a questi straordinari personaggi, proiettandone l'opera sullo sfondo di tensioni, aspirazioni e stili di ricerca che caratterizzarono aspetti importanti della cultura del Rinascimento, a Siena come in altri centri italiani, e non soltanto ‒ come si è a lungo creduto ‒ a partire da Leonardo da Vinci. Visto come una tradizione e non come l'espressione di una serie di personalità eccezionali, questo complesso di interessi e di ricerche assume sempre più marcatamente il carattere di un aspetto fondamentale dell'attività culturale al quale non è stato prestato il rilievo che merita nella ricostruzione della cultura del Rinascimento.
Nell'enorme letteratura su Leonardo si riscontra ancora una notevole esitazione nel proporre una definizione precisa della sua personalità: artista, architetto, inventore, filosofo, scienziato. La vastità degli interessi ha a lungo suggerito di riconoscere in Leonardo l'incarnazione stessa della genialità che ignora ogni delimitazione disciplinare, spaziando libera negli immensi territori del sapere. Eppure, quando si fermi l'attenzione sul complesso rilevantissimo delle carte e dei codici autografi di Leonardo che ci sono pervenuti, appare evidente che la maggior parte delle sue energie fu assorbita da attività che oggi definiremmo di carattere tecnico-scientifico.
La movimentata biografia vinciana, che presenta lacune e incertezze ancora notevoli, indica inoltre chiaramente che i mezzi economici dei quali Leonardo, privo di fonti di sussistenza proprie, poté disporre (mezzi capaci di garantirgli un'esistenza piuttosto agiata e qualche risparmio) derivarono in larga misura dall'ufficio di ingegnere esercitato presso diversi autorevoli patroni. I benefici ricavati dalla sua attività di pittore integrarono e incrementarono occasionalmente questa fonte costante di reddito.
Leonardo nasce a Vinci (Firenze) nel 1452, figlio del notaio ser Piero. Dal 1469 si stabilisce a Firenze, dove nel 1472 risulta iscritto alla Compagnia dei Pittori. Nel 1482 si trasferisce a Milano presso la corte di Ludovico il Moro; vi resta fino all'inizio del 1499, quando la sconfitta della casa degli Sforza a opera dei Francesi, lo costringe a lasciare Milano per Venezia. Quello di Milano è il periodo più ricco di realizzazioni e progetti per Leonardo. Dopo la breve permanenza a Venezia, inizierà un periodo di frequenti trasferimenti al servizio di vari signori, che si concluderanno in Francia, dove morirà nel 1519 nel castello di Cloux, presso Amboise, che Francesco I gli aveva offerto come residenza.
Il problema dei manoscritti di Leonardo
Per poter valutare in maniera equilibrata il significato delle ricerche di Leonardo è necessario porre preliminarmente alcuni avvertimenti critici e introdurre una serie di criteri di distinzione. Anzitutto occorre mettere a punto strumenti di analisi adeguati per orientarsi nell'enorme e caotica massa delle carte vinciane. Le poco meno di seimila pagine di Leonardo che ci sono pervenute corrispondono a meno di un terzo delle carte che egli lasciò per testamento nelle mani dell'allievo Francesco Melzi (1493-1570), al momento della morte nel 1519 (Pedretti 1977). Nonostante la pesante mutilazione, il complesso di queste carte costituisce la più ampia, dettagliata e suggestiva fonte di documentazione in merito allo sviluppo delle tecniche nel Rinascimento di cui disponiamo.
Negli ultimi decenni alcuni studiosi hanno richiamato l'attenzione sul fatto che di alcune presunte sensazionali invenzioni di Leonardo si trova memoria in manoscritti e fonti iconografiche inequivocabilmente precedenti il suo ingresso sulla scena. D'altra parte, si è via via imposto un metodo nuovo e rigoroso d'interpretazione dei disegni vinciani e delle note illustrative che li accompagnano. Essi sono accettati nell'effettivo grado di completezza che esibiscono, respingendo la tentazione d'introdurre correzioni o completamenti, magari con la giustificazione che questo o quel decisivo particolare era stato intenzionalmente omesso da Leonardo per proteggere la propria scoperta. Così procedendo, si è potuto concludere che una parte rilevante dei progetti vinciani (il caso degli studi per la macchina volante è illuminante) presenta soluzioni tecnicamente audaci e talvolta geniali, ma configura macchine il cui funzionamento appare problematico. Tutto un settore delle ricerche tecniche di Leonardo si caratterizza, di conseguenza, non tanto come attività progettuale finalizzata a un'immediata possibilità di realizzazione, quanto piuttosto come una sorta di 'sogno tecnologico', prodotto da un'immaginazione operosissima. I manoscritti di Leonardo ‒ così come quelli degli altri ingegneri del Rinascimento ‒ sono pieni di 'sogni' di questo tipo. Il sogno tecnologico di Leonardo presenta grande interesse, attesta la sua fiducia nel dischiudersi, grazie alle tecniche, di potenzialità inaudite per l'uomo (volare, come gli uccelli; vivere sott'acqua, come i pesci), dando così efficacemente voce all'entusiasmo e all'attesa di novità di un'epoca intera, segnata da scoperte sensazionali e dal continuo dilatarsi degli stessi orizzonti geografici. Non è un caso che il sogno tecnologico leonardiano si colori molto di frequente di toni profetici e di suggestive riflessioni sulla natura dell'uomo, come in alcuni degli studi sul volo o nella celebre nota nella quale proclama di voler occultare l'invenzione del sistema per respirare e nuotare sott'acqua al fine di evitare che sia usato come strumento di morte (Seattle, Bill Gates Collection, Cod. Leicester, ex Cod. Hammer, f. 22).
Converrà inoltre sottolineare che una parte notevole degli studi di Leonardo registra i risultati dell'attività intensissima di un ingegnere che per l'intero arco della propria non breve esistenza è stato al servizio di protettori autorevoli, dai quali ricevé sollecitazioni e commesse in cambio di compensi speciali o di stipendi regolari. Leonardo stesso, d'altra parte, progettò di propria iniziativa soluzioni tecniche che sapeva gradite agli influenti protettori, ripromettendosi benefici notevoli dalla loro realizzazione. Rientrano in questa categoria praticamente l'intera serie delle sue ricerche di tecnica militare, il gruppo più notevole delle sue indagini d'idraulica applicata, alcuni grandi progetti d'inaudita complessità (come i monumenti equestri per Francesco Sforza e per il Trivulzio, con delicatissimi problemi di fusione), gli studi per spettacolari allestimenti di feste e rappresentazioni teatrali a corte, nonché l'elaborazione di soluzioni tecniche particolari (come il meccanismo per alimentare d'acqua calda il bagno della duchessa Isabella d'Aragona). Ancora a questa categoria sono da riferire molti degli studi per ottimizzare lo sfruttamento dell'energia (per es., del vento e di acque correnti) e per meccanizzare determinati cicli produttivi. Questi studi appaiono costantemente caratterizzati da un approccio empirico assimilabile nello stile e nel metodo a quello degli altri ingegneri del tempo.
Diversa appare invece la natura di un altro cospicuo gruppo di ricerche tecniche leonardiane. Queste ricerche, che non sono riferibili a commissioni dirette, registrano lo sviluppo di un processo autonomo di qualificazione professionale al quale Leonardo avvertì a un certo punto l'esigenza di sottoporsi. Si tratta di ricerche più organiche che evidenziano il disegno sempre più intenso, dopo il 1490, di fondare le attività applicative sui principî generali desunti da un'assidua osservazione e imitazione della Natura, nella quale caparbiamente s'impegnò negli anni della maturità. Per Leonardo, infatti, il buon ingegnere, così come l'ottimo pittore, deve essere in grado di cogliere le leggi che disciplinano con ferrea necessità ogni processo naturale: inventare non significa infatti altro che saper riprodurre. Si potrebbe dire che in questi studi Leonardo si trasformò da 'tecnico' in 'tecnologo' (Koyré 1966).
Dalla ripartizione schematica del complesso degli studi tecnici di Leonardo nelle tre categorie sopra illustrate ‒ sogni tecnologici, espressioni della committenza e studi di fondazione teorica ‒ resta fuori un numero elevato di progetti vinciani che vanno assegnati a un quarto gruppo distinto, includente disegni e note di macchine e congegni meccanici derivati da esperienze non personali. Rientrano in questo gruppo le 'citazioni' da autori contemporanei e precedenti (anche classici), le registrazioni di soluzioni tecniche viste in opera nel corso delle sue molte peregrinazioni, nonché i promemoria che fissano metodi operativi o dispositivi dei quali ebbe notizia da tecnici che frequentò o che furono alle sue dipendenze. Se già oggi disponiamo di un ricco elenco di testi ‒ classici e contemporanei ‒ citati o utilizzati da Leonardo (Archimede, Euclide, Vitruvio, Filone, Valturio, Alberti, Francesco di Giorgio, ecc.), più ardua risulta l'individuazione degli studi che registrano realizzazioni dalle quali era stato colpito o che lo avevano stimolato a elaborare proposte migliorative.
Oltre allo sforzo di definire il più accuratamente possibile il collegamento delle ricerche tecniche vinciane con gli stimoli provenienti dagli ambienti nei quali operò, è fondamentale stabilire, almeno nelle grandi linee, un ordinamento cronologico dei suoi disegni e delle sue note.
Questa esigenza assume un rilievo del tutto particolare per comprendere l'evoluzione di Leonardo ingegnere e scienziato. Nel complesso degli scritti pervenutici, infatti, il nucleo documentario di maggiore entità e importanza è costituito dal monumentale Codice Atlantico conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. Chiamato impropriamente 'codice', a suggerire un'organicità della quale è completamente privo, l'Atlantico costituisce una raccolta di oltre mille carte, di vario formato, nelle quali prevalgono nettamente i contenuti di carattere tecnico-scientifico. Tale raccolta fu formata alla fine del Cinquecento dallo scultore Pompeo Leoni (1533 ca.-1608), che smembrò gli innumerevoli quaderni leonardiani finiti nelle sue mani per raccogliere gli studi di carattere tecnico-scientifico, separandoli da quelli di carattere artistico e figurativo (compresi gli studi anatomici). Questi ultimi furono inseriti da Leoni in una seconda raccolta, conservata oggi presso la Royal Library nel castello di Windsor. Il Codice Atlantico raggruppa fogli assegnabili all'intero arco cronologico dell'attività di Leonardo, che si succedono senza alcun apparente criterio tematico o cronologico. L'intervento di Leoni ha prodotto un vero e proprio disastro, rendendo drammaticamente ardua l'opera di ricostruzione critica degli storici.
Una tappa fondamentale dello sforzo di datazione dei fogli del Codice Atlantico è rappresentata dal lavoro, del 1925, di Gerolamo Calvi, che fissò in termini ancora oggi sostanzialmente accettati i limiti cronologici dei codici di Leonardo allora conosciuti. Calvi dedicò un'attenzione speciale al Codice Atlantico, nel quale, tra l'altro, isolò un numero rilevante di fogli appartenenti alla prima fase di attività di Leonardo. Negli ultimi decenni, ulteriori progressi sono stati compiuti soprattutto da Carlo Pedretti (1978-79), che ha condotto raffinate indagini coordinate e simmetriche sulle tre raccolte vinciane miscellanee che ci sono pervenute: il Codice Atlantico, la Collezione di Windsor e il Codice Arundel della British Library di Londra.
L'esordio di Leonardo ingegnere (Firenze 1469-1482)
Il debutto professionale di Leonardo come artista e come tecnico data, come è noto, dal suo trasferimento a Firenze avvenuto alla fine degli anni Sessanta del XV secolo. Tra i pochi dati certi dei quali disponiamo circa l'attività giovanile di Leonardo è da registrare l'apprendistato presso la bottega del Verrocchio, la più industriosa e importante, assieme a quella dei Pollaiolo, della Firenze di quei decenni. Non abbiamo documenti diretti che indichino con precisione le attività di Leonardo negli anni dell'apprendistato. Resta la testimonianza di Giorgio Vasari, che accenna all'emergere impetuoso, in quel periodo, di uno spiccato interesse riguardo alle questioni tecniche:
Et non solo esercitò una professione, ma tutte quelle ove il disegno si interveniva. Et avendo uno intelletto tanto divino et maraviglioso [...] non solo operò nella scultura [...] ma nell'architettura ancora [...] e fu il primo ancora che, giovanetto, discorresse sopra il fiume d'Arno per metterlo in canale da Pisa a Fiorenza. Fece disegni di mulini, gualchiere ed ordigni che potessino andare per forza d'acqua, ma la professione sua volse che fosse la pittura. (Le vite, ed. Milanesi, IV, pp. 19-20)
I codici di Leonardo pervenutici nella loro integrità datano tutti a partire dal periodo milanese, ossia dal 1482. Non è dunque da essi che possiamo avere lumi per ricostruire gli esordi di Leonardo tecnico. L'unica traccia della sua attività negli anni del primo soggiorno fiorentino è registrata in alcuni fogli sparsi e, soprattutto, in numerosi disegni e note del Codice Atlantico, già evidenziati da Calvi (1925).
Quando Leonardo giunse a Firenze, la cupola brunelleschiana era stata ultimata, compresa la lanterna che fu completata nel 1461; restava soltanto da collocare sopra la lanterna la grande e pesantissima sfera di bronzo. Si può supporre che, nella prospettiva di tale realizzazione, il cantiere, gran parte delle macchine brunelleschiane e le impalcature fossero ancora in opera quando Leonardo entrò al servizio del Verrocchio (1435-1488), al quale era stato affidato l'incarico di fondere la grande sfera e di fissarla saldamente sulla sommità dell'edificio a circa 100 m dal suolo. L'opera, della quale non è difficile intuire la difficoltà, fu realizzata tra il 1468 e il 1472. Mancano prove precise che attestino la partecipazione diretta di Leonardo al progetto, se si fa eccezione per un ricordo autografo assai più tardo (dopo il 1510) nel ms. G dell'Institut de France di Parigi: "Ricorda della saldatura con che si saldò la palla di S. Maria del Fiore" (ms. G, f. 48v). La realizzazione dell'impresa da parte della bottega dove egli lavorava dovette tuttavia offrirgli l'occasione per entrare in contatto diretto con la tecnologia delle costruzioni più avanzata dell'intero Rinascimento. Restano infatti tracce evidenti della grande impressione che il cantiere brunelleschiano produsse sul giovane Leonardo. Egli fu attratto dalla straordinaria ingegnosità delle macchine per sollevare i pesi, di molte delle quali eseguì disegni accurati.
Questa serie di disegni e di note pone bene in risalto la figura di Brunelleschi sullo sfondo del debutto di Leonardo ingegnere. È logico che a un giovane ambizioso, ma privo di esperienze, Brunelleschi si prospettasse come un modello da imitare; infatti, altri documenti di questi anni indicano l'interesse di Leonardo per Brunelleschi e l'attenzione con cui cercò di fare tesoro delle sue realizzazioni. Leonardo pare anzitutto interessato a estendere il campo di applicazione della vite, largamente utilizzata nelle macchine brunelleschiane. La vite sembra riprodurre col movimento aggraziato delle sue spire le stesse forze vive della Natura, quelle dei turbini e dei venti, o quella dei vortici d'acqua che Alberti aveva paragonato a un 'trivello liquido' (Pedretti 1978) e sembra promettere, come nelle macchine di Brunelleschi, una moltiplicazione senza limiti della forza. I suoi impieghi appaiono, inoltre, universali. In un celebre foglio del Codice Atlantico (f. 909v), all'inizio del primo periodo milanese, si trovano suggestivi disegni e note di 'attacchi sottomarini', oltre a dispositivi in grado di consentire all'uomo di respirare sott'acqua. Leonardo vi accenna a un'invenzione dalla quale si ripromette notevoli benefici economici. Le frasi e i disegni sono intenzionalmente oscuri (Leonardo protegge il suo segreto) e non è facile capire se egli pensi a sommozzatori o a battelli sottomarini che, portatisi sotto le carene delle navi nemiche, le avrebbero sfondate usando uno strumento a vite del quale nel foglio si trovano alcuni schizzi. Leonardo annota: "vuolsi improntare una delle tre viti di ferro dell'Opera di Santa Liberata; forma di getto e gitta di cera" (ibidem). Santa Liberata è S.Maria del Fiore e il riferimento, come conferma il disegno, è ai tenditori di Brunelleschi. Un impiego originale dunque della vite e, ancora una volta, un eloquente riferimento all'apprendistato brunelleschiano.
Un'altra eco di questo apprendistato è probabilmente rintracciabile anche nel progetto leonardiano di sollevare il Battistero senza rovinarlo per sottomettervi delle scale, riferito da Vasari. Secondo Pedretti (1976), Leonardo intendeva liberare con scavi le fondazioni dell'edificio, costruendo al di sotto di esse una piattaforma ben collegata da sollevare mediante potenti viti. Saremmo di nuovo in presenza di un'impresa di sapore brunelleschiano (ma potrebbe riconoscervisi anche la memoria delle imprese di Aristotele Fioravanti), nella quale la vite gioca un ruolo decisivo.
È ancora Vasari a informarci del precoce concentrarsi dell'attenzione di Leonardo sull'Arno, sia per renderlo navigabile da Firenze a Pisa sia per sfruttarne a fini industriali l'energia naturale (Le vite, ed. Milanesi, IV, pp. 19-20). Non ci restano studi vinciani di questo periodo che affrontino il problema della canalizzazione dell'Arno, anche se Pedretti (1978) ha richiamato l'attenzione su una serie di copie di disegni di Leonardo (XVI sec.) tra le quali si osserva un barcone a pale ruotanti che potrebbe conservare memoria del battello fluviale brevettato da Brunelleschi, ricordato in precedenza. Un più preciso riferimento brunelleschiano, questa volta relativo a problemi di canalizzazione fluviale, si trova nel f. 64r del ms. B conservato all'Institut de France di Parigi che contiene studi degli anni iniziali del primo soggiorno milanese (1485-1490). Nel contesto di una serie di disegni e annotazioni di tecnica e strategia militare (in particolare sul modo di deviare il corso naturale di un fiume) Leonardo inserisce un riferimento allo sfortunato progetto, al quale s'è accennato sopra, di deviare il Serchio per allagare Lucca e indurla alla resa, messo in opera da Brunelleschi nel 1428 durante la guerra tra Firenze e Lucca.
Il precoce interesse di Leonardo per l'idraulica è attestato anche da altre evidenze. In un memorandum, probabilmente vergato nel 1482, alla vigilia del trasferimento a Milano, Leonardo elenca una serie di lavori menzionando anche "certi strumenti per navili" e "certi strumenti d'acqua" (Cod. Atlantico, f. 888r). Gli "strumenti per navili" possono essere riferiti agli studi di attacchi sottomarini dei quali già si è parlato. D'altra parte, numerosi fogli del Codice Atlantico del primo periodo, quello fiorentino, attestano l'attenzione che Leonardo prestò fin dagli esordi agli "strumenti d'acqua"; uno di questi (ibidem, f. 1069r) presenta un notevole numero di congegni idraulici; vi compaiono diversi tipi di pompe e vi è illustrato l'uso combinato di due lunghe viti di Archimede, azionate da una ruota mossa dalla corrente di un fiume, che sollevano l'acqua sulla sommità di due torri. Leonardo studia soluzioni per sollevare l'acqua da pozzi o da fiumi, per poi sfruttarne dinamicamente l'effetto di caduta. Egli comincia a sperimentare nuove tecniche grafiche; per esempio, rende in trasparenza i meccanismi sotterranei delle pompe, mentre riesce a raffigurare con precisione ingranaggi complessi che trasformano una spinta circolare costante in un moto alternato. Un altro foglio coevo (f. 7r) presenta ricerche analoghe: un sifone, una pompa a doppio effetto azionata da una grande ruota a pale che consente di sollevare l'acqua a grande altezza e una macchina per sollevare l'acqua da un pozzo, grazie al movimento di una ruota a tazze che si riempiono immergendosi nel pozzo e scaricano l'acqua in un deposito in alto.
Un altro nucleo di interessi che emerge con chiarezza dai fogli giovanili di Leonardo riguarda la tecnologia militare. Se è vero, come ha dimostrato Pietro C. Marani (1984), che l'assidua applicazione di Leonardo all'architettura militare data dal periodo milanese, pare tuttavia che egli abbia iniziato a Firenze a prestare attenzione a tale tipo di problemi. A questo periodo vanno infatti assegnati alcuni studi di affusti snodabili e disegni di spingarde e 'schioppetti' di varie fogge (Cod. Atlantico, f. 157r). Leonardo studia non soltanto sistemi di offesa, ma anche dispositivi atti a difendersi dagli assalitori. A questa categoria appartengono due disegni (1480 ca.) che illustrano tecniche per difendere una fortezza dalle scale d'assalto. Leonardo costruisce una sequenza cinematografica; prima illustra (ibidem, f. 139r) come ribaltare le scale degli assedianti spingendo in fuori una ringhiera protettiva, quindi, ipotizzando che il nemico sia riuscito a superare il primo sbarramento, indica (f. 89r) come spazzare via i nemici, facendo ruotare vorticosamente delle pale orizzontali. Come in tanti altri casi, la novità consiste nel riciclaggio per una funzione diversa di congegni ben conosciuti; infatti, Leonardo utilizza il motore di un mulino (ff. 139r e 89r).
Altri fogli fiorentini del Codice Atlantico presentano Leonardo impegnato in osservazioni e studi di varie macchine operatrici. Si può citare il celebre disegno della macchina per la produzione delle lime (f. 24r), realizzato intorno al 1480 ‒ non abbiamo alcuna prova per considerarla un'invenzione di Leonardo, ma essa attesta la sua attenzione per i processi di meccanizzazione di produzioni precedentemente eseguite a mano ‒ oppure gli studi, assegnabili al 1478-1480, di macchine per produrre specchi concavi (f. 17v), da impiegare come specchi ustori nella saldatura dei metalli. Meritano di essere segnalati anche gli argani e i meccanismi a vite per piegare balestre nel verso di un foglio (446A) conservato al Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi (1478) e il celebre disegno dei due girarrosti, a peso e ad aria calda (Cod. Atlantico, f. 21r). Questi ultimi indicano come l'attenzione di Leonardo fosse richiamata dai complessi ruotismi che piegavano a ogni immaginabile esigenza qualsiasi fonte di energia.
Le ricerche di questo periodo non sembrano riconducibili a un disegno organico, ma si configurano piuttosto come una serie di casi specifici e irrelati. Leonardo vi appare simile ai tecnici che si muovono nell'orizzonte affascinante ma limitato della bottega rinascimentale. Essi hanno imparato per esperienza a impiegare le forze naturali e quelle degli animali, ma non tentano di comprenderne le leggi né di impostare su basi quantitative il loro sfruttamento. Neppure il grande Brunelleschi era uscito da quelle prospettive, nonostante avesse avvertito più di una volta l'esigenza di utilizzare le conoscenze teoriche e la competenza geometrica di un dotto umanista come Paolo dal Pozzo Toscanelli, uno dei protagonisti della rinascita di Archimede nel Quattrocento.
Leonardo a Milano (1482-1499): continuità e rinnovamento
Qualunque siano state le ragioni che lo indussero ad abbandonare Firenze, Leonardo passò dal 1482 al servizio della più grande, attiva e potente corte della penisola, guidata da un signore ambizioso che governava su un territorio pieno di ricchezze naturali e di attività industriali, al centro del quale si trovava Milano, vera metropoli (aveva allora 200.000 abitanti, oltre il doppio di Firenze). Il ducato poteva offrire a un giovane ambizioso ed eclettico come Leonardo l'occasione per dispiegare in molteplici campi le proprie capacità. Giunto a Milano come un artista di buona reputazione ma ancora non conosciutissimo, egli farà presto apprezzare le proprie straordinarie qualità.
Leonardo riceve dal duca Ludovico il Moro incarichi e commissioni precise sia come artista sia come tecnico. Ignoriamo l'entità del compenso riscosso fino al 1500 e gli esatti termini contrattuali che lo legavano al Moro. Egli è citato nei documenti come ingeniarius ducalis e come ingeniarius camerarius. È certo, inoltre, che gli fu consentito di accettare commesse da privati, e di fatto ne assunse diverse di natura sia artistica sia tecnica.
La ricostruzione della sua attività diviene meno difficile; aumenta la documentazione disponibile ed entrano in scena, accanto ai fogli giovanili del Codice Atlantico, altri manoscritti di datazione certa, che presentano una maggiore organicità d'interessi. È il caso del ms. B e del Codice Trivulziano della Biblioteca Trivulziana di Milano, entrambi compilati nella seconda metà degli anni Ottanta. Essi concordano anche nei nuclei tematici centrali; in entrambi hanno infatti particolare rilievo gli studi di architettura e di tecnologia militare, a conferma che Leonardo prese estremamente sul serio il compito di consigliere tecnico-militare per il quale fondamentalmente si era offerto allo Sforza. Si tratta di studi celebri, oggetto di molteplici analisi, anche recenti, che presentano Leonardo come un ingegnere militare non straordinariamente innovatore. Il disegno appare ora più maturo, mentre emerge in maniera sempre più evidente il ricorso a fonti classiche e a testi contemporanei, come il trattato De re militari di Roberto Valturio, pubblicato a Verona in latino nel 1472, che Leonardo usa (si serve dell'edizione in volgare del 1483) sia per trarne informazioni sulle macchine da guerra antiche, sia per attingervi una vasta gamma di termini tecnici. I disegni d'ingegneria militare assegnabili al primo decennio milanese offrono un commento illustrato puntuale ed eloquente della lettera (1482?) con la quale Leonardo aveva messo a disposizione di Ludovico il Moro la propria vasta gamma di competenze tecniche (Cod. Atlantico, f. 1082r). Se i "modi di ponti leggerissimi e forti" menzionati nella lettera trovano riscontro negli schizzi di ponti del ms. B e del Codice Atlantico (f. 855r), negli stessi manoscritti è notevolissimo il numero degli studi di armi e di strumenti di offesa, in parte derivati da Valturio ("farò bombarde ‒ aveva scritto al Moro ‒ mortai e passavolanti di bellissime e utili forme fora del comune uso"). Tali studi risultano interessanti per lo sforzo d'incrementare il ritmo di fuoco, di rendere più agevole il sistema di carica, di attenuare il rinculo e di mettere a punto sistemi di puntamento più accurati. La sua capacità d'ingegnere si esprime nell'automazione del ciclo operativo. Ciò è evidente soprattutto negli spettacolari studi per la grande ruota azionata dall'energia umana che consente di scaricare a ripetizione le quattro poderose balestre delle quali è armata (ibidem, f. 1070r), o nella gigantesca balestra con complessi meccanismi di caricamento e di azionamento dello scatto (f. 149Br). Questi ultimi studi, tra i quali va compreso quello magistralmente chiarito da Ladislao Reti (1956-57) dell''architronito' (cannone a vapore; ms. B, f. 33r), possono essere ricondotti alla categoria dei 'sogni' tecnologici. Leonardo riesce a suggerire, attraverso l'espressività dinamica del disegno, la convinzione del sicuro funzionamento di meccanismi spesso improbabili. Ciò vale per il disegno del pesantissimo carro armato conservato dal British Museum (Drawings and Prints Collection, n. 1860-16-99) ‒ "item farò carri coperti securi et inoffensibili", aveva promesso nella succitata lettera al Moro ‒ il cui modello è presentato in tutti i musei vinciani come invenzione di Leonardo, ignorando i disegni di dispositivi simili in molti manoscritti anteriori di altri. Lo stesso può dirsi dei minacciosi carri falcati leonardiani, dei quali i disegni (Torino, Biblioteca Reale, n. 15583) illustrano gli effetti disastrosi prodotti nelle file del nemico, ma a proposito dei quali lo stesso Leonardo riconosce che "spesso furono non meno dannosi a li amici che a' nemici" (ms. B, f. 10r). Leonardo si occupa anche dei dispositivi per la produzione delle armi da fuoco, come la fresatrice idraulica (Cod. Atlantico, f. 10r), che produce segmenti di canna da saldare successivamente in modo da ottenere bocche da fuoco di grandi dimensioni.
Ancora come aveva promesso al Moro, Leonardo avrebbe potuto mettere a disposizione, in caso di guerra sul mare, "molti instrumenti actissimi da offender e defendere i navili". Abbiamo già accennato agli studi vinciani di attacchi sottomarini e di congegni per respirare sott'acqua. Leonardo pensava probabilmente al loro impiego per sostenere la volontà dello Sforza di difendere Genova, acquisita nel 1487, dalle continue scorrerie dei pirati. In un foglio del Codice Atlantico (f. 881r), accanto a vari dispositivi suggestivi, ma non nuovi, per consentire all'uomo di respirare sott'acqua, si notano schizzi e note che sembrano attestare un progetto di Leonardo per un'imbarcazione subacquea, il 'sottomarino di Leonardo', come è stato prontamente battezzato. Carlo Pedretti (1978) ha supposto che Leonardo pensasse di far immergere un'imbarcazione ermeticamente chiusa e perfettamente impermeabile, lasciando uscire l'aria dagli otri posti lungo le fiancate per garantirne il galleggiamento. Per farla tornare in superficie, sarebbe stato necessario pompare dalla superficie di nuovo aria negli otri. Siamo probabilmente davanti a un altro caratteristico sogno tecnologico, fondato sullo sviluppo inarrestabile di catene di arditi ragionamenti che conducono Leonardo a materializzare nella fantasia e nel disegno progetti ben al di là delle possibilità delle tecniche del suo tempo.
L'impegno di Leonardo come ingegnere idraulico durante il primo soggiorno milanese è difficile da valutare con precisione. La tendenza tradizionale ad attribuirgli un ruolo fondamentale nella definizione delle imponenti opere di canalizzazione, che caratterizzano la regione milanese alla fine del Quattrocento, tende oggi a essere messa in discussione. Si ha l'impressione che nei primi anni milanesi Leonardo si trovi in difficoltà. Egli dispone di competenze maturate in relazione ai problemi posti da un fiume bizzoso e instabile come l'Arno; gli mancano gli strumenti e l'esperienza necessari per intervenire efficacemente su un sistema complesso, composto di fiumi dalla portata costante (Adda e Ticino), numerosi affluenti, laghi e canali da sfruttare come reti di comunicazione e per il trasporto delle merci a beneficio di una città, Milano, che è distante dai corsi d'acqua principali. Quando Leonardo vi giunge, la struttura dei navigli milanesi è già in grande parte definita. Il canale della Martesana, costruito da Bertola da Novate tra il 1457 e il 1469, consente, attraverso l'Adda, il collegamento tra il lago di Como e Milano. Un'altra rete di canali collega, attraverso il Naviglio Grande, Milano al Ticino, sul quale sorge la seconda città del ducato, Pavia, col suo celebre Studio. Molte delle soluzioni tecniche impiegate in queste opere straordinarie richiameranno l'attenzione di Leonardo: conche, sistemi di chiuse, draghe per mantenere i canali puliti, aperture regolabili negli argini per attingere l'acqua dai canali, e così via. Una delle prime e comprensibili preoccupazioni di Leonardo sembra sia stata quella di orizzontarsi. Restano tracce infatti del suo sforzo, attraverso perlustrazioni personali e tentativi di misurazioni e di schematica raffigurazione cartografica, d'impadronirsi delle coordinate di un territorio che non gli era familiare. È naturale che la sua attenzione si sia concentrata in particolare sulla rete navigabile, come mostra la schematica pianta di Milano disegnata nel 1493 (Cod. Atlantico, f. 184v). D'altra parte, Ludovico il Moro stimolò Leonardo a elaborare un ambizioso progetto di ampliamento di Milano che rinnovasse la struttura medievale della vecchia città sfruttando i benefici offerti dall'abbondanza d'acqua. Tracce eloquenti di questi studi restano nei suggestivi disegni leonardiani della cosiddetta 'città ideale' nel ms. B (f. 16r), dove è esaltata la funzione urbanistica, economica e igienico-sanitaria di una rete di corsi d'acqua perfettamente regolati.
Nel 1490 Leonardo è a Pavia, assieme a Francesco di Giorgio, per consultazioni relative al progetto di costruzione della cattedrale; ivi, è certamente attratto dalle molteplici conche del Naviglio Bereguardo. A quelle visite o a un'altra precedente, ipotizzabile nel 1487-1488, risalgono forse i primi disegni di conche e di chiuse del Codice Atlantico (f. 935r) e del ms. B (f. 64r), che potrebbero tuttavia registrare una sua proposta originale di chiuse per consentire il regolare flusso dell'acqua nei canali.
I manoscritti vinciani dell'ultimo decennio del secolo mostrano l'intensificarsi dell'interesse di Leonardo per le questioni di tecnologia idraulica. Vi si trovano molti riferimenti a canali e località del milanese collegati dalla rete navigabile, e si accenna continuamente a problemi che attendevano ancora soluzioni soddisfacenti: mantenere costante nei canali il livello delle acque; ideare chiuse di forte tenuta (come quelle con i battenti ad angolo); progettare macchine adeguate per dragare i canali esistenti e scavarne di nuovi; mettere in opera dispositivi efficienti per erogare quantità d'acqua esattamente determinabili dalle bocche disposte lungo gli argini (problema importante, dato che l'approvvigionamento idrico era concesso dal duca a fronte di un pagamento secondo la quantità d'acqua erogata). Più difficile è stabilire in quale misura questa imponente serie di disegni e appunti presenti sue ricerche originali o semplicemente registri gli accorgimenti visti in opera. Per una fase non breve Leonardo sembra impegnato più a imparare che a insegnare in questo campo; egli appare alla ricerca di contatti con gli esperti 'maestri d'acque' lombardi, ai quali ha mille domande da porre: "truova un maestro d'acqua e fatti dire i ripari d'essa e quello che costa" (Cod. Atlantico, f. 611Ar).
Mentre cerca di attingere dall'esperienza degli esperti, egli sta però elaborando un proprio personalissimo metodo, che traspare dai documenti con sempre maggiore evidenza. Tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta si verifica infatti una svolta decisiva nella carriera di Leonardo ingegnere. Tale svolta è fortemente sollecitata dallo studio dei problemi idraulici, che lo inducono a cambiare strada. Si convince che l'esperienza lo potrà guidare soltanto fino a un certo punto. La soluzione dei problemi dei fiumi che scorrono, dei canali, delle chiuse, dell'approvvigionamento idrico per usi domestici e per l'agricoltura presuppone che l'ingegnere conosca con esattezza l'elemento 'acqua', ne afferri le leggi in modo da prevederne il comportamento, riuscendo così a piegarlo, con idonei strumenti meccanici, al servizio dell'uomo. Risalgono a questi anni i più antichi studi 'teorici' di Leonardo e l'acqua ne è l'oggetto costante. Il ms. A dell'Institut de France di Parigi (1490-1492) presenta il primo prospettarsi in termini di relativa organicità dei suoi studi in tema di acque: "cominciamento del trattato dell'acqua" (1490 ca.; ms. A, f. 55v). È una dichiarazione capitale, la prima che documenti la volontà di Leonardo di dedicarsi alla stesura di un trattato. Che egli pensi non a una raccolta di precetti pratici ma a uno scritto organico è attestato anche dalla dichiarata volontà di riprendere e sviluppare quanto gli Antichi avevano scritto su questo stesso argomento. È uno scritto molto ambizioso quello al quale Leonardo intende dedicarsi; esso già appare nella sua fervida mente come la sezione fondamentale di una vasta enciclopedia destinata a registrare altri capitoli strettamente collegati: "del moto e del peso", dell'anatomia dell'uomo e della Terra. L'elemento liquido appare a Leonardo un fattore universale; egli lo definirà "vetturale della natura": scava le valli, circola nel ventre della Terra dando origine alle fonti, percorre come sangue il corpo dell'uomo, dovunque con moto incessante e secondo leggi ferree. Non è un caso che proprio il primo vagheggiamento del trattato sull'acqua nel ms. A rinvii esplicitamente alla simmetria tra l'uomo e la Terra: "L'omo è detto da li antiqui mondo minore, e certo la dizione d'esso nome è bene collocata, imperò che, sì come l'omo è composto di terra, acqua, aria e foco, questo corpo della terra è il simigliante" (ibidem). Unità, dunque, tra mondo animato e inanimato e, di conseguenza, legittimazione di un'indagine rigorosamente meccanica dell'uomo, che non a caso Leonardo avvia con sistematiche dissezioni proprio a partire da questi anni, mantenendo costante l'insistenza sul rapporto uomo-Terra (respirazione, circolazione degli umori, ecc.) fondato in misura notevole su analogie che vedono protagonista l'elemento acqua. Negli stessi anni, anche sotto la spinta efficace dell'artista proteso a realizzare una perfetta imitazione della Natura, impossibile senza una precisa conoscenza delle sue leggi, s'intensificano i suoi studi teorici di ottica e di meccanica. Vi osserviamo il medesimo processo: sforzo di attingere le fonti classiche e medievali ‒ restano tracce della sua ricerca di testi importanti, soprattutto Archimede, la tradizione de ponderibus e i classici della fisica dell'impetus ‒, proficui contatti con dotti del tempo (i Marliani, Fazio Cardano, ecc.), tentativo di fissare i principî generali della meccanica, verificandoli sperimentalmente nelle applicazioni concrete. Leonardo scopre presto che lo strumento fondamentale e unificante di tutte queste ricerche è la geometria, della cui conoscenza è totalmente sprovvisto. Si dedica quindi con entusiasmo al tentativo di colmare questa lacuna. I primi sintomi, registrati in un promemoria del 1489, mostrano il consueto metodo di ricerca dei testi capitali e di ricorso agli amici competenti: "Fatti mostrare a messer Fazio [Cardano, padre di Gerolamo] di proporzione"; "Fatti mostrare al maestro d'abbaco riquadrare uno triangolo"; "le proporzioni di Alchino [al-Kindī] colle considerazioni del Marliano l'ha Messer Fazio"; e ancora "Fa d'aver Vitolone [Witelo], che è nella Libreria di Pavia, che tratta delle matematiche" (Cod. Atlantico, f. 611Ar). Così fino al felice incontro, nel 1497, con Luca Pacioli (1445 ca.-1517), un altro dei molti toscani attratti dalla corte sforzesca, col quale stringerà amicizia e dal quale riceverà un vero e proprio corso di istruzione geometrica fondato sulla lettura e sul commento degli Elementi di Euclide.
Questa svolta straordinaria avrà ripercussioni dirette e vistose sull'attività dell'ingegnere. A metà dell'ultimo decennio del Quattrocento Leonardo ha già definito per grandi linee la propria teoria delle 'quattro potenze di Natura' (moto, peso, forza e percussione), dalle quali dipende ogni fenomeno fisico. Da allora aria e acqua, che Leonardo assimilerà sempre più tra loro (spintovi anche dalle ricerche sul volo degli uccelli), si presentano come imponenti forze naturali in perenne movimento che l'uomo può imbrigliare e piegare a proprio beneficio.
Rimangono tuttavia palesi contraddizioni tra le dichiarazioni programmatiche e lo sviluppo concreto delle sue ricerche, che procedono in maniera frammentaria, per 'casi'. Gli studi del ms. A, dopo la formulazione di un ambizioso progetto di trattato sull'acqua, appaiono deludenti. Leonardo concentra la propria attenzione soprattutto sui corsi d'acqua; cerca di stabilire il variare della velocità dei diversi strati d'acqua in relazione alla scabrosità del fondo; s'interroga sulle variazioni di portata dei corsi d'acqua in rapporto alle variazioni di larghezza e profondità del letto e della velocità della corrente; studia gli effetti che la percussione delle acque produce sui corpi in essa immersi e sugli argini. In sostanza, Leonardo, da un lato, stila l'indice di opere teoriche ambiziose e, dall'altro lato, seguita a intraprendere una serie di osservazioni scollegate.
Pur se non porterà mai alla stesura delle summae più volte solennemente promesse, lo sforzo di fondare le applicazioni su principî generali determinerà notevoli cambiamenti nell'attività di Leonardo. Le prime evidenze di questo mutamento si trovano in una serie di disegni e di note del 1494 relativamente a progetti idraulici. In quell'anno Leonardo è a Vigevano, luogo natale del Moro e teatro di grandi realizzazioni sforzesche. Egli registra nei propri taccuini varie osservazioni dei canali della città e delle 'scale d'acqua' adottate nella Sforzesca, la fattoria modello del Moro, per bonificare un terreno paludoso e per mantenere verdi i prati declivi (Parigi, Institut de France, ms. H, f. 65v). Tra le molte pagine del Codice di Madrid I della Biblioteca Nacional di Madrid, composto tra il 1490 e il 1499, e del ms. H, degli stessi anni, che si riferiscono a questa visita, presentano particolare interesse quelle dedicate ai mulini di Vigevano. Leonardo effettua misurazioni precise dei mulini da grano osservati (Cod. Madrid I, f. 151v) e calcola il costo per costruirne uno, valutandone la capacità di produzione giornaliera; riflette sulle deficienze osservate nei mulini lombardi, per le quali propone rimedi che si fondano su considerazioni e su principî generali di idrostatica e di idrodinamica.
Sempre nel Codice di Madrid I, egli s'interroga sulle cause che rendono più o meno efficace una caduta d'acqua, analizzando sperimentalmente l'effetto di quattro cadute da altrettante aperture eguali praticate a diverse altezze in un contenitore pieno d'acqua. La sua analisi dipende da un ragionamento teorico fondato sulla convinzione che la potenza del getto risulti dall'effetto combinato del peso dell'acqua e della sua percussione, quest'ultima, in virtù dell''impeto', proporzionale all'altezza della caduta. Leonardo conclude che le quattro cadute "debbono essere d'eguale potenzia"; annota infatti che "dove manca la forza della percussione sopperisce il peso" (ibidem, f. 134v).
Sono indizi eloquenti di un cambiamento di metodo conseguente l'avvio di analisi teoriche. Esse sembrano aprire nuove prospettive all'attività dell'ingegnere, consentendogli di progettare mulini dal rendimento più soddisfacente o di calcolare la quantità d'acqua erogata dalle bocche aperte nei canali secondo l'altezza alla quale è praticata l'apertura. Non è un caso che in questi studi Leonardo avanzi le proprie proposte unicamente sulla base di previsioni teoriche, dichiarando esplicitamente di non averle in alcun modo sperimentate: "credo che queste saran meglio. Non l'ho sperimentata, ma secondo oppenione" (ibidem, f. 151v). Siamo davanti a dei veri e propri 'esperimenti mentali', in quanto la certezza nei fondamenti teorici rende inutile la verifica sperimentale.
Leonardo manifesta una tensione intellettuale che appare nuova. Il "discepolo della sperienza", come egli stesso si definisce, è immerso in studi di matematica, di meccanica dei solidi e dei fluidi, di anatomia, di geologia. Si sforza di arricchire e raffinare il proprio lessico, di perfezionare la conoscenza del latino, di misurarsi con i grandi dotti del passato.
Accanto a questi segni di novità, altri studi tecnologici degli ultimi anni del primo soggiorno milanese conservano il tradizionale carattere di soluzioni ingegnose di problemi particolari fondate sull'esperienza pratica. È questo il caso della serie di studi ‒ contenuti nel fascicolo finale del Codice di Madrid II della Biblioteca Nacional di Madrid ‒ per la fusione del gigantesco cavallo del monumento equestre per Francesco Sforza commissionatogli dal Moro (Cod. Madrid II, f. 157r), dei quali Leonardo non poté verificare l'efficacia, dato che l'enorme quantità di bronzo necessaria per la fusione fu destinata, per fabbricare bombarde, a Ercole d'Este, alleato del Moro contro i Francesi.
Anche la serie di disegni, attribuibili all'ultimo quinquennio del Quattrocento, che presentano con efficacia illustrativa notevole una serie di macchine e dispositivi per l'industria tessile (Cod. Atlantico, f. 1105r), evidenzia il tradizionale metodo d'analisi di Leonardo. Nel ducato milanese era intensa l'attività tessile, della cui consistenza tecnologica sappiamo pochissimo. Non può dunque essere escluso che Leonardo abbia semplicemente registrato le soluzioni più avanzate viste in opera, magari traendo spunto ‒ secondo il suo costume ‒ dalle deficienze di funzionamento lamentate dagli operatori per proporre rimedi efficaci. Questa serie di progetti presenta nel complesso uno sforzo di automazione per aumentare il rendimento del ciclo produttivo. L'esigenza dell'automazione è un tratto costante della progettazione di macchine da parte di Leonardo, che giustamente è stato definito 'profeta dell'automazione'.
Lo stesso tipo di considerazioni può essere ripetuto per illustrare i molti studi di orologi meccanici nel Codice di Madrid I; Silvio Bedini (1974) ha sostenuto che si tratta di lavori di notevole interesse. In essi, tuttavia ‒ con l'eccezione, pur essa problematica, della proposta dello scappamento a pendolo (Cod. Atlantico, f. 754r) come regolatore dell'orologio ‒, non possono essere riconosciute anticipazioni sensazionali. La tecnologia di precisione dell'orologio stimola Leonardo a uno straordinario esercizio di automazione. La sua attenzione non a caso si concentra sui sistemi di trasmissione e di regolazione del movimento. Né è certo che tutti quegli studi vadano riferiti a meccanismi d'orologeria. Non si deve infatti dimenticare che orologi e automi, macchine capaci di compiere una serie di movimenti preordinati, erano considerati congegni appartenenti a una medesima categoria ed erano prodotti in genere dagli stessi tecnici. Peraltro, Leonardo costruì automi per le feste della corte sforzesca e, più tardi (1515), ideò per la Repubblica fiorentina un leone meccanico semovente il cui petto si apriva facendo fuoriuscire dei gigli.
Resta da dire degli studi vinciani sul volo. Già avviati negli anni fiorentini, essi ebbero a Milano uno sviluppo notevole; lo attestano molte pagine del ms. B e del Codice Atlantico, che ci conservano progetti di macchine per volare. Raffaele Giacomelli (1936) ha dimostrato per primo che negli studi iniziali lo sforzo di Leonardo si concentra sulle vere e proprie macchine per volare ad ali battenti, quali sono illustrate in molti splendidi disegni nel ms. B. In alcuni, l'uomo appare prono e aziona le ali con le braccia (ms. B, f. 79v); in altri, sono gli arti inferiori a conferire la spinta, oppure l'uomo sta in piedi e utilizza per la spinta sia le braccia sia gli arti inferiori (ibidem, f. 80r). Sono progetti suggestivi, che sembra abbiano indotto Leonardo a considerare non impossibile il funzionamento di tali macchine. Restano tracce del suo proposito di compiere un tentativo di volo dal palazzo sforzesco e della successiva scelta di un luogo meno rischioso: "Questo instrumento isperimenterai sopra un lago e porterai cinto un otro lungo, acciò che nel cadere tu non annegassi" (ibidem, f. 74v).
Le macchine per volare concepite in questi anni presentano soluzioni ad ali battenti con congegni estremamente complessi per azionarle. Leonardo prende in considerazione l'uso di molle che devono essere continuamente ricaricate durante il volo. L'accento sembra concentrarsi sui sistemi meccanici per trasmettere vantaggiosamente la forza impressa dall'uomo e per elaborare sistemi efficaci per trasformare la spinta costante del motore in un moto alternato, come quello del battimento d'ali; sono macchine imponenti, pesantissime, alle quali, nella non improbabile ipotesi di caduta, Leonardo suggerisce di applicare ridicoli ammortizzatori. Sembra impossibile che egli abbia davvero pensato che con questi congegni e la sola forza muscolare l'uomo avrebbe potuto volare. Eppure tutte le evidenze indicano che per alcuni anni Leonardo lavorò febbrilmente e con grandi aspettative a questo progetto. Egli sembra convinto che l'uomo possa imitare con l'arte i dispositivi naturali dei volatili: "L'uccello è strumento operante per legge matematica, il quale strumento è in potestà dell'uomo poterlo fare" (f. 89r). Gli studi della 'macchina volante' sembrano fondarsi più di ogni altro sulla convinzione della sostanziale uniformità meccanica della Natura. Gli schemi e i principî meccanici impiegati dalla Natura nelle proprie produzioni, come l'uccello, possono essere imitati e riprodotti dall'uomo.
Interrotti alla fine del secolo, forse per la presa d'atto di difficoltà insormontabili, gli studi sul volo saranno ripresi intorno al 1505, come attesta lo straordinario Codice sul volo degli uccelli della Biblioteca Reale di Torino. Operando un puntuale confronto tra la potenza muscolare dell'uccello e quella dell'uomo e tra il peso della macchina uccello e quello della macchina volante, Leonardo si è ormai accorto che l'uomo non può sollevare un dispositivo così pesante. Da allora in poi le macchine volanti ad ali battenti scompariranno dall'orizzonte leonardiano ed egli si dedicherà a un'altra prospettiva assai più realistica: quella del 'volo a vela' (Cod. Madrid I, f. 64r), sul modello dei moderni alianti. Se non darà risultati concreti, questo nuovo tentativo lo spingerà a concepire ricerche importanti sulla meccanica del volo degli uccelli, sulla natura dell'elemento aria, sulla formazione e sul ruolo dei venti e delle correnti aeree. Sono studi che occupano parte notevole dell'attività di Leonardo dal 1500 al 1514 e nei quali opera sempre più evidente l'assimilazione tra aria e acqua, nuoto e volo, pesci e uccelli: "scrivi del nuotare sotto acqua e avrai il volare degli uccelli per l'aria" (Cod. Atlantico, f. 571Ar).
Continue peregrinazioni (1500-1519)
La contrastata conclusione della dominazione sforzesca, a seguito della vittoria dell'armata francese, pose termine alla fine del 1499 al primo soggiorno milanese di Leonardo. All'inizio del 1500, a Venezia, dove è giunto assieme all'amico e istruttore nelle matematiche Luca Pacioli, Leonardo verga sulla copertina del ms. L (Parigi, Institut de France) una nota, degna per concisione e brutale efficacia della penna di Machiavelli: "Il Duca perso lo Stato, la roba e la libertà, e nessuna sua opera si finì per lui" (Kemp 1982).
Per Leonardo inizia un periodo di continui spossanti viaggi alla ricerca di nuovi patroni che possano garantirgli la libertà di studio e il benessere dei quali aveva goduto sotto lo Sforza. Tra le poche tracce del suo soggiorno nella Serenissima rimangono gli studi per una serie di opere di fortificazione sull'Isonzo (Cod. Atlantico, f. 638Dv).
Da Venezia, sempre in compagnia del Pacioli, punta verso sud. Nel marzo del 1501 è a Firenze, dove si trattiene fino all'estate del 1502. Non pare che il rientro di Leonardo, dopo un'assenza di venti anni, abbia destato particolare emozione nella città, ora retta da un governo repubblicano, né che Leonardo vi abbia trovato grandi possibilità d'impiego. La testimonianza di un agente di Isabella d'Este, Pietro da Novellara, lo dipinge, in una lettera del 3 aprile 1501, privo di commesse e quindi libero d'impegnarsi, secondo la propria vocazione, in quegli stessi studi scientifici ai quali aveva dedicato gran parte degli ultimi anni milanesi: "dà opra forte a la geometria, impacientissimo al pennello".
La penuria di impieghi spinge Leonardo ad abbandonare i piacevoli otia e ad accettare, nell'estate del 1502, l'invito di Cesare Borgia, il famigerato Valentino, a unirsi in qualità di Architetto e Ingegnere Generale alla campagna militare con la quale stava formando un vasto dominio nell'Italia centrale, spalleggiato dal padre, papa Alessandro VI. Al seguito del Valentino egli attraversa le Marche, l'Umbria e la Romagna, ispezionando le piazzeforti e proponendo adeguamenti dei sistemi di difesa. Partecipa alla presa di Urbino, dove è attratto dai tesori raccolti dai Montefeltro nella celebre biblioteca che il Valentino trasferirà a Roma. Leonardo vi avrà certamente cercato quei testi scientifici che aveva cominciato appassionatamente a raccogliere negli anni milanesi: "Archimenide ‒ scriverà in un memorandum del 1515 ‒ è intero appresso al fratel di Monsignore di Santa Giusta in Roma. Disse averlo dato al fratello che sta in Sardigna. Era prima nella Libreria del Duca d'Urbino; fu tolto al tempo del Duca Valentino" (Cod. Atlantico, f. 698Br). Dovunque Leonardo osserva, prende misure, registrando nel ms. L le più diverse notazioni. La realizzazione più importante di questa fase è la celebre mappa di Imola conservata a Windsor (Royal Library, 12284). Essa dimostra la capacità raggiunta da Leonardo nella raffigurazione cartografica, strumento fondamentale per impostare efficaci progetti di intervento urbanistico o di architettura militare (fine al quale era destinata). La mappa di Imola riprende e perfeziona i metodi geometrici di rilevamento già utilizzati da Alberti nella Descriptio urbis Romae. La città è iscritta in un cerchio il cui centro coincide con un luogo determinato; a partire da esso l'abitato si espande in un disegno perfettamente dettagliato, mantenendo, grazie a misure dirette assai accurate, le proporzioni reali di strade, piazze ed edifici. Leonardo utilizza, inoltre, colori diversi per distinguere le vie dalle piazze, dai corsi d'acqua, dalle case.
Il ritorno di Leonardo a Firenze, conclusa l'esperienza col Valentino, è da collocare nella tarda primavera del 1503, nel momento più acceso della guerra della Repubblica fiorentina contro Pisa. Questa circostanza è all'origine del primo incarico tecnico affidatogli dal governo della città; si chiede infatti un suo parere circa il modo di deviare il corso dell'Arno per allagare Pisa costringendola alla resa. Non è chiara la parte svolta da Leonardo in questo progetto d'inconfondibile sapore brunelleschiano, che comunque coinvolse anche altri tecnici. Lo scavo del canale di deviazione fu avviato nell'estate del 1504, con l'impegno di mezzi imponenti e la partecipazione di circa 2000 operai, ma i risultati furono deludenti e l'opera venne presto abbandonata. A questo impegno sono certamente da collegare alcune mappe e profili dei rilievi del territorio pisano, con speciale attenzione alla rete fluviale, conservati nel Codice di Madrid II (ff. 22v-23r). Secondo il metodo abituale, Leonardo inserisce i propri progetti d'intervento territoriale nel quadro di una scrupolosa documentazione cartografica, idrografica e orografica della regione interessata.
Potrebbero essere riferiti alla partecipazione di Leonardo a questo progetto anche i due disegni di scavatrici disegnati nel Codice Atlantico. Come ha dimostrato Pedretti (1978), i due fogli erano originariamente uniti ed evidenziavano il diverso funzionamento di due gigantesche macchine che operavano sul medesimo canale. In questo modo Leonardo poteva far risaltare la netta superiorità della macchina da lui proposta (Cod. Atlantico, f. 3r) rispetto a quella tradizionale (f. 4r).
Il progetto della nuova scavatrice potrebbe, d'altra parte, essere collegato a un'altra serie di studi, databili sempre al 1503, per canalizzare l'Arno, in modo da aggirare la parte tortuosa e non navigabile del fiume tra Firenze ed Empoli. Il progetto (Windsor, Royal Library, 12279) prevedeva la costruzione di un canale che da Firenze si sarebbe sviluppato lungo la piana tra Prato e Pistoia, aggirando le anse tortuose del fiume tra Montelupo ed Empoli, per ricongiungersi al corso naturale presso Vico Pisano. Il nuovo tracciato, di forma semicircolare, avrebbe comportato opere grandiose, come, per esempio, l'attraversamento in galleria della collina di Serravalle, presso Pistoia. Allo scopo di mantenere costante il flusso dell'acqua del canale, Leonardo prevedeva la costruzione di un grande bacino di riserva nelle Chiane. A un certo punto Leonardo deve aver sottoposto il progetto alle autorità della Repubblica fiorentina, come peraltro lasciano supporre alcune note (Cod. Atlantico, f. 127r) nelle quali egli insiste sulla bonifica di vasti territori e sui benefici economici che ne sarebbero derivati.
L'importante commessa artistica che Leonardo ottiene nel 1503 dalla Repubblica (la realizzazione di un affresco per celebrare la vittoria dell'esercito fiorentino contro le truppe viscontee ad Anghiari nel 1440) assorbe molte energie, ma non gli fa trascurare gli amati studi di geometria. Un nuovo incarico lo allontana da Firenze nel 1504. Sollecitato certamente dalla stessa Repubblica fiorentina, Leonardo si trasferisce a Piombino per offrire a Iacopo IV Appiani la propria consulenza in materia di fortificazioni militari. Rientrato a Firenze, torna a immergersi nelle ricerche geometriche e nella preparazione dell'affresco della Battaglia di Anghiari. Nel 1505 riprende con intensità gli studi anatomici e si dedica alla stesura del Codice sul volo degli uccelli. Nel maggio del 1506 è di nuovo costretto a interrompere le proprie ricerche perché chiamato a Milano dal governatore francese Carlo d'Amboise, che vuole affidargli opere di pittura e di architettura. Tra il 1506 e il 1507 è un continuo andirivieni tra Milano e Firenze dove lo richiamano la lite con i fratelli per l'eredità dello zio e le pressioni della Repubblica perché finisca la Battaglia di Anghiari.
L'ultima parte del 1507 e buona parte del 1508 sono trascorsi a Firenze. Leonardo prosegue gli studi di anatomia (è questo il periodo più intenso e fruttuoso per le suddette ricerche) sfruttando la possibilità di accesso al nosocomio di S. Maria Nuova. Mentre scompone la macchina umana nei suoi organi fondamentali allo scopo precipuo di carpirne i segreti, Leonardo volge lo sguardo alla macchina della Terra, nella quale cerca prove sicure della stretta simmetria tra uomo (il 'mondo minore') e Cosmo. Geometria e meccanica, anatomia e geologia, con scambio continuo di concetti, di principî e di analogie, costituiscono ormai il suo campo preferito di attività, come attestano i manoscritti di questi anni, vale a dire il Codice Leicester, ex Hammer, i fogli di anatomia conservati a Windsor e il Codice Arundel.
In questo periodo di continua instabilità, l'interesse per le applicazioni tecniche sembra rarefarsi e si accentua sempre di più la sua propensione per gli studi teorici, mentre si rafforza in lui la convinzione che ogni conoscenza presuppone il pieno padroneggiamento della geometria. La stessa tendenza si conferma a Milano, dove si trasferirà alla fine del 1508 abbandonando definitivamente Firenze. Qui Leonardo sviluppa le ricerche anatomiche e geologiche avviate a Firenze, sempre insistendo sulla stretta connessione tra Cosmo e microcosmo; si ripromette inoltre di ridurre queste ricerche in trattati. Costante e forte rimane l'interesse per la geometria, soprattutto per le trasfigurazioni geometriche, che gli appaiono strumento formidabile, sia per l'attività pittorica sia per l'indagine dei corpi fisici; le utilizza infatti continuamente nei propri studi miologici (allungamento e raccorciamento dei muscoli) e d'idrodinamica (flusso del sangue nelle arterie e nelle valvole del cuore, ma anche dell'acqua nei fiumi dal tracciato tortuoso).
Il tentativo di fondare le applicazioni su chiare basi teoriche è evidente nel trattato che progetta di dedicare all'acqua, elemento chiave dell'universo dinamico di Leonardo. Gli indici del trattato mostrano che i primi capitoli avrebbero affrontato le questioni teoriche, dalle quali sarebbero derivate le sezioni dedicate all'ingegneria idraulica ("Libro 10°: De' ripari de' fiumi; Libro 11°: delli condotti; Libro 12°: de' canali; Libro 13°: delli strumenti volti dall'acqua; Libro 14°: del far montar l'acque", Cod. Leicester, f. 15v). Appaiono solo occasionalmente nei suoi studi sviluppati in questi anni progetti di realizzazioni tecniche particolari, del tipo di quelli che ricorrono con estrema frequenza prima del 1500. Il suo progressivo coinvolgimento in questioni teoriche sembra portare di conseguenza all'attenuazione dell'interesse per le applicazioni.
A progetti tecnici particolari Leonardo si dedicherà ormai solamente su richiesta dei committenti. È il caso di quello concepito tra il 1508 e il 1510, probabilmente per incarico del re di Francia, Luigi XII, per scavalcare con un canale la strettoia dell'Adda presso i tre Corni, in località Paderno, del quale ci restano elementi per ricostruire le complesse e forse irrealizzabili (comunque mai realizzate) sue soluzioni. Approfittando anche della generosa protezione del re di Francia, che gli lascia larghi spazi di libertà, Leonardo sviluppa la propria vocazione che non sembra presentare più i tratti caratteristici dell'ingegnere, ma piuttosto quelli dello scienziato e del dotto.
Questa tendenza si mantiene evidente negli anni che gli restano da vivere dopo il forzato abbandono di Milano nel 1513, in seguito alla sconfitta francese, col conseguente ritorno nel ducato di Massimiliano Sforza. Non più giovane, è costretto ancora una volta a intraprendere viaggi faticosi alla ricerca di nuovi protettori. Si ferma a Firenze, dove erano tornati a regnare i Medici, suoi antichi protettori, e poi a Roma, al servizio di uno dei membri di quella famiglia, Giuliano de' Medici, fratello di papa Leone X. In cambio di stipendio e protezione, Giuliano utilizza le competenze idrauliche di Leonardo per il progetto di bonifica delle paludi pontine (Windsor, Royal Library, 12684), poi effettivamente realizzato senza che Leonardo vi abbia probabilmente avuto un ruolo di rilievo. A Roma si occupa della fabbricazione di grandi specchi parabolici realizzati assemblando molteplici pezzi; studia anche congegni per fabbricare le funi, attestati da alcuni tra i più tardi disegni del Codice Atlantico (ff. 12r e 13r), uno dei quali reca il simbolo mediceo dell'anello con diamante, prova eloquente della commissione ricevuta da Giuliano. Questa modesta ripresa di attività pratiche si spiega con l'efficace pressione delle necessità quotidiane. Appena possibile Leonardo torna tuttavia a dedicarsi ai prediletti studi di geometria, di ottica e di anatomia. Questi ultimi lo conducono a frequentare l'ospedale romano di S. Spirito, del quale gli viene però a un certo punto interdetta la frequentazione per una denuncia di necromanzia.
Nell'estate del 1516 il giglio di Francia torna a splendere sul destino di Leonardo. Il nuovo re Francesco I lo invita a seguirlo oltralpe offrendogli ricompense e onori straordinari. Sua principale occupazione di questi anni è la progettazione del nuovo palazzo reale a Romorantin, collegata a tutta una serie di opere di canalizzazione dei corsi d'acqua della regione; né l'una né le altre saranno realizzate. In realtà, Leonardo è poco impiegato dalla monarchia francese. La sua sola presenza in una corte che attirerà ingegni di ogni sorta, con particolare predilezione per gli artisti italiani, giustifica il suo decorosissimo mantenimento e il pagamento di una pensione come premiére peinctre et ingénieur et architect du Roy. La testimonianza di Antonio de Beatis, che al seguito del cardinale d'Aragona fece visita a Leonardo il 10 ottobre del 1517, ritrae un uomo che suscita ammirazione non tanto per l'attività che svolge, impedita dagli acciacchi senili, quanto per la straordinaria competenza che ha saputo acquisire in ogni campo del sapere. È l'immagine di un vecchio saggio e virtuoso, non dell'operoso ma socialmente modesto ingegnere, quella che viene offerta dai testimoni degli ultimi anni della sua vita. In un brano destinato a ricordare l'affetto straordinario portato a Leonardo da Francesco I, Benvenuto Cellini, interpretando felicemente l'ormai avvenuta metamorfosi, presenterà il vecchio Leonardo addirittura come un "grandissimo filosafo":
Il Re Francesco, essendo innamorato gagliardissimamente di quelle sue gran virtù pigliava tanto piacere a sentirlo ragionare, che poche giornate l'anno si spiccava da lui [...]. Io non voglio mancare di ridire le parole che io sentii dire al re di lui, le quali disse a me [...] che non credeva mai che altro uomo fusse nato al mondo che sapessi tanto quanto Lionardo non tanto di scultura, pittura e architettura, quanto che egli era grandissimo filosafo. (Opere, ed. Meier, 1968, p. 859)
Dall'anatomia delle macchine all'uomo-macchina
La tensione che caratterizza l'evoluzione degli studi vinciani di macchine, con la crescente invadenza dell'analisi teorica e dei metodi quantitativi e con lo sforzo di procedere alla individuazione dei principî universali dei quali si serve la Natura, risulta straordinariamente evidente quando si osservi il complesso di studi riferibili al progettato trattato sugli "elementi macchinali", al quale Leonardo fa più volte riferimento. Un trattato organico corrispondente a tale titolo ‒ a dire il vero ‒ non è rintracciabile tra le carte vinciane che ci sono pervenute. Tuttavia, la sensazionale scoperta di due codici di Leonardo a Madrid nel 1966, ha offerto materiali importanti per gettare luce su quest'opera misteriosa. Il Codice di Madrid I, in particolare, è interamente dedicato alla meccanica. In esso si nota una distinzione abbastanza netta tra una sezione di meccanica teorica e un'altra sulle applicazioni e sui meccanismi.
Ladislao Reti, che ebbe parte rilevante nel ritrovamento, fu incaricato di produrre l'edizione dei due manoscritti, che vide la luce poco dopo la sua scomparsa nel 1974. In alcuni saggi, Reti (1974b) propose di considerare la sezione iniziale del codice (che è la seconda in ordine di compilazione) come la stesura quasi definitiva di un organico trattato sui 'meccanismi'; secondo Reti, tale stesura coinciderebbe con il trattato sugli "elementi macchinali".
Reti riconobbe negli "elementi macchinali" di Leonardo una serie ordinata di riflessioni sui meccanismi condotte secondo modelli di analisi che saranno definiti solo tre secoli più tardi, con la fondazione dell'École Polytechnique di Parigi, trovando definitiva canonizzazione a metà Ottocento nella Teoria generale delle macchine di Franz Reuleaux.
In realtà, i molteplici riferimenti diretti di Leonardo agli "elementi macchinali" mostrano che il progettato trattato non era dedicato solo all'analisi dei meccanismi. In un testo del Codice Atlantico (1500 ca.), Leonardo afferma che ogni corpo che scenda lungo un piano inclinato di 45° "si rende metà della sua gravità naturale, come provai nella quinta-decima conclusione del quarto libro degli elementi macchinali da me composto" (Cod. Atlantico, f. 444r). Ancora in un passo dell'Atlantico (1504 ca.) si legge: "De' due cubi i quali son doppi l'uno dell'altro, come si prova nel 4° delli Elementi macchinali da me composto" (f. 161r); e, ancora nell'Atlantico: "Elementi macchinali. Del peso proporzionato alla potenzia che il move s'ha a considerare della resistenza del mezzo dove tal peso è mosso e di questo si farà un trattato" (f. 220v). Altre occorrenze si trovano nel ms. I dell'Institut de France di Parigi (1497-1499), nel Codice sul volo degli uccelli e negli studi di anatomia a Windsor, soprattutto tra il 1508 e il 1510. Leonardo accenna a un trattato distinto in due parti, una teorica e una pratica. Esso comprende sezioni che riguardano la duplicazione del cubo, la teoria dei centri di gravità, della leva e del piano inclinato. In particolare, il Libro IV, il più frequentemente citato, presenta questioni di meccanica generale e teorica, mentre l'unico riferimento diretto alle applicazioni si trova nel testo nel quale invita a tener conto, nel calcolo tra potenza e resistenza, delle influenze perturbatrici del mezzo (Cod. Atlantico, f. 220v).
Gli "elementi macchinali" indicano dunque con ogni probabilità il titolo sotto il quale Leonardo pensò di raccogliere l'intera serie delle sue riflessioni di meccanica. Seguendo il modello della statica classica e medievale, l'analisi geometrica vi giocava un ruolo centrale. Dovevano seguire le sezioni sulla teoria delle quattro 'potenze' di Natura (moto, peso, forza e percussione), le riflessioni sui centri di gravità, e sui metodi per determinarli, nonché un'analisi, che era anch'essa tradizionale, sulle macchine semplici. Fin qui è possibile immaginare che si sviluppasse la parte teorica. Nella parte pratica venivano presentati gli impieghi indipendenti e combinati dei dispositivi meccanici e gli accorgimenti per ottimizzarne l'impiego, assieme alle macchine per produrli.
La denominazione stessa "elementi macchinali" rispecchia precisamente questa funzione; in quanto espressione simmetrica a quella euclidea di "elementi geometrici", dove 'elementi' equivale a fondamenti, principî.
Chiarita l'identità del trattato sugli "elementi macchinali", occorre riconoscere che l'enfasi posta dal Reti sulla straordinaria originalità e penetrazione con cui Leonardo analizzò, nel Codice di Madrid I, i principî, i criteri di funzionamento e gli organi fondamentali delle macchine appare del tutto giustificata. La parte più notevole è certamente quella iniziale, dove Leonardo analizza in dettaglio una serie di congegni e dispositivi meccanici, soffermandosi sulle loro caratteristiche, verificandone potenze e resistenze, materiali di costruzione, modi di applicazione. Egli presta inoltre grande attenzione agli attriti, sforzandosi di elaborare soluzioni per attenuarli. Siamo davanti a una vera e propria 'anatomia' delle macchine. L'intenzione di procedere a una 'dissezione' delle macchine, d'altra parte, è esplicitamente dichiarata da Leonardo: "E tali strumenti si figureranno in gran parte sanza le loro armadure o altra cosa che avessi a impedire l'occhio di quello che le studia. Poi si dirà d'esse armadure per via di linie, poi delle lieve per sé, poi delle fortezze de' sostentaculi" (Cod. Madrid I, f. 82r).
Il disegno è protagonista. Analizza e ricompone magistralmente questi dispositivi con un insieme suggestivo di tecniche diverse di dimostrazione, fondate su un'eccezionale padronanza della prospettiva: vedute da più punti di vista, vedute esplose, schematizzazioni geometriche. Leonardo tenta di ridurre in un catalogo numericamente finito gli organi elementari che, combinandosi diversamente, danno vita all'infinita varietà degli organismi-macchine: "Creato che sia lo strumento, la neciessità della sua operazione dimanda la forma delle sue membra. Le quali son d'infinite figure, ma pur tutte fien sottoposte a queste regole de' quattro volumi" (ibidem, f. 96v).
L'efficacia straordinaria, anche retorica, di questa successione di disegni e note, così accuratamente impaginati, non dovrà tuttavia indurci a dare per scontato che in queste pagine si trovino sensazionali scoperte. Occorre andare estremamente cauti nell'attribuire a Leonardo l'invenzione di congegni, come, per esempio, il cuscinetto a sfera (ibidem, f. 20v), oppure il giunto universale (f. 100v), dei quali al massimo possiamo dire di trovare nel Madrid I la prima raffigurazione.
Certamente originali sono invece l'approccio e lo 'stile' della ricerca di Leonardo. Mai nessuno aveva tentato in precedenza d'inserire in un trattato di meccanica una sezione così ricca di dettagli sulle applicazioni, né mai si era cercato di affrontare le applicazioni meccaniche con un simile sforzo di deduzione da principî generali, di rigorosa analisi quantitativa e di schematizzazione geometrica. Il Codice di MadridI illustra eloquentemente i risultati ai quali Leonardo pervenne, intorno alla metà dell'ultimo decennio del Quattrocento, nel tentativo di riunificare due tradizioni meccaniche che avevano proceduto fino ad allora sostanzialmente separate. Da una parte, la meccanica classica e medievale che, con la parziale eccezione dei 'casi' della meccanica aristotelica, aveva fondamentalmente trascurato le applicazioni. Dall'altra parte, la meccanica praticata nelle botteghe da artefici che ignoravano i testi della statica geometrica. Leonardo è in partenza uno di questi artefici "sanza lettere", ma egli compie uno sforzo enorme di qualificazione professionale; entra in contatto con le fonti della grande tradizione meccanica e si sforza di assimilare gli 'elementi' della geometria, non dimenticando tuttavia le esigenze pratiche della bottega, e proprio per questo cerca di allargare i confini della scienza della meccanica fino a comprendervi le macchine reali che producono attriti, incontrano ostacoli nel mezzo e impiegano materiali di resistenza limitata.
Più che i risultati concreti, i quali non sempre furono eccezionali e talvolta appaiono errati, è proprio questo tentativo che si dovrà apprezzare. Esso implica una radicale trasformazione della professione dell'ingegnere e indica con chiarezza quanto Leonardo stesse ormai allontanandosi da tanti pur abili e apprezzati colleghi.
Queste ricerche di meccanica non erano destinate a restare fine a sé stesse. Negli oltre venti anni che separano le ultime note e disegni depositati nel Codice di Madrid I dalla morte di Leonardo, la sua anatomia delle macchine rappresentò un modello che egli tentò caparbiamente di trasferire ad altri campi d'indagine. Non è un caso che l'evocazione degli "elementi macchinali" s'infittisca dopo il 1500. Le quattro potenze della Natura vengono poste a principio di ogni effetto. Inoltre, Leonardo compie uno sforzo di geometrizzazione integrale e concentra l'attenzione sui processi dinamici e sugli strumenti meccanici attraverso i quali si realizzano. Questo metodo trova applicazione negli studi d'architettura, dove le leggi degli "elementi macchinali" sono introdotte per rendere conto in termini quantitativi delle spinte laterali degli archi. L'edificio, la fabbrica e le loro membra sono analizzati come una 'macchina', non struttura statica fondata su proporzioni precise, ma organismo vivente in equilibrio dinamico. Di qui la suggestiva analogia tra il medico e l'architetto, un topos largamente utilizzato dagli architetti del Rinascimento, che Leonardo riprende spostando l'accento dalle corrispondenze e dalle simmetrie alla comune dipendenza dalle medesime leggi meccaniche:
Sì come ai medici [...] bisogna intendere che cosa è omo, che cosa è vita, che cosa è sanità [...] e conosciuto ben sopra le dette nature potrà meglio riparare che chi n'è privato [...] questo medesimo bisogna al malato edifizio, cioè uno medico architetto che intenda bene cosa è edifizio e da che regole il retto edificare deriva e donde dette regole sono tratte e in quante parti sieno divise e quale siano le cagioni che tengano lo edificio insieme e che lo fanno premanente e che natura sia quella del peso e quale sia il desiderio della forza [...]. (Cod. Atlantico, f. 730r)
Anche la Terra appare a Leonardo come un grande organismo vivente, ansimante, percorso da una costante circolazione di umori, dove ogni flusso o riflusso, ogni ascesa o caduta d'acqua avviene secondo leggi e modelli meccanici. Nel mondo animale, lo studio dello strumento-uccello rivela i segreti meccanici che presiedono alla meraviglia del volo, spesso indicato come "bilicarsi nell'aria", mentre l'azione dell'ala è ricondotta a quella del cuneo: "La mano dell'ala è quella che causa l'impeto e allora il gomito suo si mette per taglio e obliqua si fa l'aria dove si posa quasi in forma di conio" (Cod. sul volo degli uccelli, f. 15v).
Dopo il 1500 l'uomo diventa il campo di esercitazione preferito della scienza meccanica vinciana. Attraverso l'insistito riferimento al modello della cosmografia di Tolomeo, Leonardo traccia il proprio programma di una geografia meccanica universale, una nuova enciclopedia ampiamente illustrata, fondata su pochi principî meccanici e guidata dalle rigorose procedure della geometria. Mentre riprende il grande ideale enciclopedico del Rinascimento, Leonardo ne trasforma radicalmente il significato: non più coincidenza universale di corrispondenze e armonia di proporzioni, ma unità di processi e di funzioni, fondata sul movimento, secondo leggi e modelli costanti per ogni tipo di organismo: macchine, edifici, Terra, animali, e uomo. L'uomo ha ovviamente un posto di rilievo in questo progetto ambizioso e Leonardo dedicherà alcuni dei disegni e dei testi più suggestivi alla descrizione della sua macchina mirabile.
Nella straordinaria serie dei disegni anatomici del primo decennio del 1500 l'operare degli schemi meccanici assume un'evidenza impressionante, sotto l'influenza continua del modello degli "elementi macchinali". L'anatomia dell'uomo appare insomma largamente tributaria in Leonardo di quella concettualmente e cronologicamente precedente delle macchine. Da questa gli studi anatomici vinciani derivano, oltre ai principî generali, alcuni aspetti caratterizzanti del lessico, le tecniche di illustrazione e molte suggestive analogie. Abbondano peraltro nel corpus degli studi anatomici a Windsor, esplicite dichiarazioni circa la dipendenza dal modello meccanico: "Fa che il libro delli elementi macchinali con la sua pratica vada innanzi alla dimostrazione del moto e forza dell'omo e mediante quelli tu potrai provare ogni tua proposizione" (Windsor, Royal Library, K/P 143r). E ancora, in una nota intitolata Delle macchine: "E la natura non può dare moto alli animali sanza strumenti macchinali, come per me si dimostra in questo libro" (K/P 153r).
Le indagini anatomiche presentano il corpo dell'uomo come un insieme straordinario di dispositivi: "non mi pare che gli omini grossi e di tristi costumi e di poco discorso meritino sì bello strumento, né tante varietà di macchinamenti" (K/P 80v). Continuamente tornano i richiami sulla necessità di spingere lo sguardo al di sotto delle 'armadure' del corpo umano, esattamente come aveva suggerito di fare per le macchine: "rompi la mascella da parte, acciò che tu veda l'ugola" (K/P 143v); e ancora: "io voglio levare quella parte dell'osso, armadura della guancia [...], per dimostrare la larghezza e profondità de' dua vacui che dirieto a quello s'ascondano" (K/P 43v).
Le molteplici articolazioni del corpo umano sono presentate come poli girevoli. Dell'articolazione della spalla è sottolineata con forza l'analogia con il polo universale studiato nel Madrid I (f. 100v). Ancora il termine 'polo' è sistematicamente impiegato per indicare l'asse di rotazione della caviglia: "Il polo a è quello dove si bilica l'omo col suo peso mediante le corde mn e op, le quali fanno del fusto della gamba sopra detto polo come fan le sarte alli alberi delle navi" (K/P 102r). In questo passo appare quell'analogia meccanica con l'albero della nave e le sartie che Leonardo impiegherà negli stupendi studi della colonna vertebrale. Articolazioni e 'polo' lo inducono, come nel trattato sugli "elementi macchinali", a studiare i meccanismi antifrizione del corpo umano, che Leonardo individua nelle "ossa glandulose": "Ha posto la natura l'osso glanduloso sotto la giuntura del dito grosso del piede perché se il nervo dove tale osso glanduloso è congiunto fussi sanza tale glandula, elli riceverebbe gran detrimento nel confregarsi sotto sì gran peso" (K/P 135r). Al 'cuneo' è spesso paragonata l'azione dei muscoli, i quali sono abitualmente ridotti alle loro linee di forza e chiamati 'potenze'. 'Lieva' e 'controlieva' sono, infine, diffusamente utilizzati per spiegare i diversi moti degli arti superiori e inferiori (K/P 140r).
Altri tratti caratteristici attestano che è lucidamente operante nell'analisi della macchina-uomo il modello degli "elementi macchinali". Leonardo prende infatti in esame separatamente molti dispositivi e congegni del corpo umano, secondo la tecnica sperimentata per i meccanismi elementari nel Codice di Madrid I. Valgano per tutti i disegni dei singoli denti, dove Leonardo deriva dall'azione meccanica le rispettive forme e funzioni, nonché il catalogo in disegno di un gruppo di congegni dell'uomo-macchina: il nervo, la corda, la vena, l'arteria, il muscolo, associato a una precisa funzione. Egli ricorre infine con frequenza alle schematizzazioni geometriche del funzionamento degli organi, in modo da evidenziare le leggi meccaniche dalle quali dipendono, come nell'azione dei muscoli intercostali, o nella riduzione dei moti mascellari alle leggi della leva: "Quel dente ha minore potenzia nel suo stringere che è più remoto al centro del suo moto" (K/P 44r).
La geografia meccanica dell'uomo, "mondo minore", presenta analogie impressionanti col trattato degli elementi macchinali anche per il ruolo che vi recita il disegno. La complessità dell'oggetto spinge Leonardo ad allargare e perfezionare le tecniche di raffigurazione. Il numero delle vedute s'intensifica, le vedute esplose sono continuamente impiegate, mentre si affina la tecnica della penetrazione delle strutture in trasparenza e delle serie di disegni condotti col metodo della rimozione progressiva degli strati superficiali, fino all'osso, o, viceversa, rivestendo il nudo scheletro con gli strati sovrastanti. Riprendendo un precetto avanzato nel Codice di Madrid I circa il modo di schematizzare le 'armature' delle macchine perché non impediscano la vista degli organi interni, Leonardo sostituisce ai muscoli linee di forza, raccomandando poi di tracciare non linee ma corde, in modo da evidenziarne la scansione in profondità.
Consapevole dell'abilità raggiunta nelle dimostrazioni, Leonardo si lascia trascinare dall'entusiasmo: "E tu che vogli con parole dimostrare la figura dell'omo con tutti li aspetti della sua membrificazione, removi da te tale openione perché quanto più minutamente descriverai, tanto più confonderai la mente del lettore [...]. Adunque è necessario figurare e descrivere" (K/P 144v).
In un'altra nota, Leonardo torna a parlare del ruolo fondamentale dell'illustrazione:
Questa mia figurazione del corpo umano ti sarà dimostra non altremente che se tu avessi l'omo naturale innanzi [...]. Adunque è necessario fare più natomie delle quali tre te ne bisogna per avere piena notizia delle vene e arterie [...] e altre tre per avere notizia delli panniculi e tre per le corde e muscoli e legamenti e tre per li ossi e cartilagini e tre per la natomia delle ossa, le quali s'hanno a segare e dimostrare quale è buso e quale no, quale è midolloso, quale spugnoso [...]. Adunque, per il mio disegno ti fia noto ogni parte e ogni tutto [...] non altrementi che se tu avessi in mano il medesimo membro e andassi voltandolo di parte in parte. (K/P 154r)
Il cenno finale al rigirarsi in mano il membro stesso oggetto di studio sembra dilatare i confini dell'illustrazione dal piano bidimensionale a quello tridimensionale, proponendo la perfetta illustrazione come dimostrazione addirittura superiore a quella offerta dai modelli. Modelli che Leonardo realizzò largamente in quegli stessi anni, come quello dell'arto inferiore, con le linee di forza dei muscoli schematizzate da corde di rame, o quelli dell'occhio e dall'aorta. Peraltro con i modelli Leonardo fu familiare anche in altri campi; egli concepì infatti modelli di architettura, di scultura, di meccanica, di idrodinamica. Se è proprio la forza straordinaria dell'analogia tra macchina e uomo a suggerire a Leonardo tecniche di illustrazione come quella delle linee di forza, ciò vale ancora più esplicitamente per la realizzazione di modelli anatomici, che traducono l'organo in un congegno meccanico funzionante. Al tema del modello Pedretti (1978-79) ha giustamente collegato il progetto per un automa documentato in alcuni fogli del Codice Atlantico (f. 579r); è difficile dire se questo studio possa essere considerato l'esito estremo di un'impostazione rigorosamente meccanicistica.
Resta comunque la straordinaria coerenza con cui, partendo dall'anatomia delle macchine, Leonardo impostò per oltre un decennio un'analisi del corpo umano fondata su osservazioni dirette e tuttavia fortemente condizionata da un rigido schema interpretativo, che egli a un certo punto fu perfino tentato di estendere (come farà successivamente Cartesio) all'analisi delle umane passioni: "E così piacessi al nostro altore che io potessi dimostrare la natura delli omini e loro costumi nel modo che io descrivo la sua figura" (K/P 154r).
Qua e là, tuttavia, nel tetragono tessuto del meccanicismo di Leonardo emergono crepe nelle quali tenta di far breccia la coscienza di un'irriducibile distinzione tra la macchina e l'uomo: "Ancora che lo ingegno umano in invenzioni varie rispondendo con vari strumenti a un medesimo fine, mai esso troverà invenzione più bella, né più facile né più brieve della natura, perché nelle sue invenzioni nulla manca e nulla è superfluo e non va con contrappesi [...] ma vi mette dentro l'anima d'esso corpo componitore" (ibidem).
Il passo appena citato sembra scritto apposta per contrapporre il corpo dell'uomo all'automa meccanico, cioè i dispositivi artificiali alle creature naturali. A questo riguardo Leonardo ha però subito un violento moto di reazione: "Questo discorso non va qui, ma si richiede nella composizione delli corpi animali. E il resto della diffinizione dell'anima la lascio nella mente de' frati, padri de' popoli, li quali per ispirat'azione san tutti i segreti" (K/P 114v).
Proprio davanti all'affacciarsi di un dubbio che sembra far vacillare le stesse fondamenta di un progetto di unificazione tenacemente perseguito, Leonardo ribadisce così la legittimità di un'indagine dell'uomo secondo schemi rigorosamente meccanici, che è un modo efficace per sottolineare ancora una volta con forza che l'ingegnere e il medico, così come l'artista e l'architetto, traggono tutti ispirazione dai medesimi principî, scoperti grazie a una diligente osservazione della Natura.
Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento
Dopo la lunga stagione dell'esaltazione del genio isolato, negli ultimi decenni del XX sec. molte voci autorevoli hanno suggerito l'opportunità di una revisione del giudizio tradizionale su Leonardo tecnico e inventore. Fondandosi su una serie d'importanti ricerche dirette sui manoscritti degli innumerevoli ingegneri attivi al tempo di Leonardo e nei decenni precedenti, si è potuto dimostrare che di molte delle sensazionali scoperte del da Vinci si trova testimonianza in opere anteriori. Molte idee di Leonardo riecheggiano infatti non soltanto studi di Brunelleschi, del Taccola e di Francesco di Giorgio, ma appaiono talvolta anticipate addirittura in codici medievali francesi e tedeschi, che registrano a loro volta echi della grande tradizione classica. Ciò vale per lo scafandro come per l'automobile, per il paracadute come per il sistema manovella-biella, per il carro armato come per la bombarda a canne multiple.
Nello stesso tempo, si sono cercate e trovate nei manoscritti vinciani le prove dell'attenzione con cui Leonardo cercò di assimilare le soluzioni tecniche introdotte dagli ingegneri dell'Antichità e dai tecnici più reputati del suo tempo. Basti a questo proposito ricordare i fruttuosi contatti con Francesco di Giorgio e l'evidenza dell'attenzione che Leonardo dedicò agli studi del grande ingegnere senese del quale trascrisse alcuni brani del Trattato II nel Codice di Madrid II. Egli ebbe inoltre a un certo punto nelle proprie mani una stupenda copia del Trattato di architettura di Francesco di Giorgio (Trattato I) sulla quale depositò alcune note autografe.
Una tappa fondamentale di questa revisione storiografica è rappresentata dal lavoro dedicato, nel 1964, a Leonardo da quell'insigne filologo e storico della tecnica che è stato Bertrand Gille (1980). Gille si propose di mettere in evidenza le analogie tra Leonardo e gli altri ingegneri del suo tempo, attraverso un'indagine documentaria di ampio respiro sulle fonti delle tecniche tra Medioevo e Rinascimento. I meriti di Gille sono enormi e gli studiosi di Leonardo hanno contratto un grande debito nei suoi confronti. Tuttavia, non deve sfuggire che la forte e giustificata motivazione polemica nei confronti della tradizione celebrativa spinse Gille a cadere nell'eccesso opposto. Nel suo lavoro, infatti, gli aspetti che caratterizzano in maniera originale l'esperienza di Leonardo come ingegnere finiscono per scomparire nell'insieme variegato della serie di soluzioni tecniche, di metodi di lavoro e di attività professionali che per Gille presentano, senza apprezzabili distinzioni e senza evoluzione, il monotipo ripetitivo del tecnico rinascimentale. Le conclusioni di Gille, se aiutano a ricondurre Leonardo nel contesto nel quale operò, non ci consentono insomma di cogliere la tensione essenziale che caratterizza il suo specifico contributo. Nel lavoro di Gille, oltre alle conseguenze di una visione dello sviluppo storico della tecnologia ispirata da un 'continuismo' eccessivo, si avvertono i limiti di un approccio ai testi vinciani non assistito dal fondamentale criterio dell'ordinamento cronologico. Nella sua analisi si osservano inoltre gli effetti deformanti che derivano dalla separazione sostanzialmente netta che egli opera tra gli studi vinciani di tecnologia applicata (macchine e dispositivi meccanici) e gli studi scientifici teorici o 'di fondamento' che egli evitò di prendere in considerazione.
L'evoluzione della carriera di Leonardo ingegnere ricostruita nelle pagine precedenti e la giustapposizione del contributo di Leonardo a quello di alcuni tra i principali ingegneri del suo tempo offrono la possibilità di formulare un giudizio più equilibrato. L'esordio della carriera di Leonardo presenta indubbiamente un cliché di atteggiamenti, pratiche, interessi e stili d'indagine che caratterizzano l'attività di tanti altri tecnici del suo tempo. L'evidenza di una formazione di bottega è incontrovertibile, così come è palese che egli s'ispirò inizialmente al modello brunelleschiano; ma nel corso di quasi mezzo secolo la sua carriera presenta un'evoluzione che non può essere ignorata. Come abbiamo visto, pochi anni dopo il trasferimento a Milano, i suoi manoscritti cominciano a registrare le prove di un poderoso sforzo di qualificazione. Questa tendenza appare col passare degli anni sempre più marcata; essa coinvolge ogni aspetto della sua attività, non solo quella dell'ingegnere. È, anzi, il pittore a porre per primo i quesiti fondamentali.
Se in altri ingegneri rinascimentali è riconoscibile la medesima tensione e direzione evolutiva ‒ si pensi agli sforzi per giungere a una trattazione organica delle macchine nel maturo Francesco di Giorgio ‒, tuttavia nessuno di essi si propose obiettivi paragonabili a quelli ambiziosissimi perseguiti nella fase finale della vita da Leonardo. Abbiamo già sottolineato che i suoi sforzi non furono quasi mai coronati da pieno successo. In sostanza, se promise a sé stesso di scrivere trattati teorici in molti campi fondamentali e ne registrò inizi solenni o indici ambiziosi, egli non riuscì di fatto ad andare oltre i limiti della sua formazione di bottega, della quale mantenne sempre lo stile frammentario e disorganico. Occorre dunque riconoscere che i limiti di formazione ‒ che Leonardo peraltro non rinnegherà mai, proclamandosi orgogliosamente "omo sanza lettere" e "discepolo della sperienza" ‒, nonché la smisurata dimensione e la straordinaria complessità dei propositi, determinarono l'impossibilità di portare a compimento il suo audace progetto di riforma.
Tuttavia, se Leonardo dedicò tante energie a questa impresa fu perché era assillato da domande alle quali non poteva sottrarsi. Ed è proprio in questo che va colto l'elemento di distinzione tra Leonardo e i suoi molti colleghi ingegneri. È probabile, come è stato sostenuto, che alcuni di essi fossero più capaci di Leonardo come tecnici militari, come costruttori di dispositivi meccanici e di macchine e come ingegneri idraulici, ed è certo che quasi tutti onorarono gli impegni con maggiore puntualità; non pare però che nessuno di essi abbia mai sentito l'esigenza ‒ febbrilmente avvertita da Leonardo ‒ di offrire un fondamento più solido al loro operare, che rimase basato sostanzialmente su pratiche acquisite attraverso l'esercizio della professione.
A osservare la scena da questa prospettiva, appare notevole la distanza che, alla fine del Quattrocento, separa Leonardo dagli altri ingegneri della sua e delle precedenti generazioni. Non a caso, peraltro, quest'uomo inconcludente, poco affidabile, dal carattere ombroso, sarà più degli altri ricercato e onorato da committenti abituati a trattare ben diversamente i propri ingegneri, pagati soltanto in cambio di precise prestazioni. Nel panorama rinascimentale l'unico intellettuale che può essere confrontato ‒ pur con le dovute e notevoli differenze ‒ col Leonardo della maturità è forse Leon Battista Alberti. Né sorprende che si trattasse non di un tecnico indotto, ma di un finissimo umanista che aveva elaborato trattati influenti e si era sforzato, sfruttando la vasta conoscenza dei classici, di presentare il mestiere dell'architetto-artista nella sua intera complessità, sottolineando come esso implicasse, oltre alla padronanza del disegno, a conoscenze geometriche, a procedure tecniche raffinate e a precise nozioni di statica, anche notevoli capacità nella ideazione di 'forme' cariche di implicazioni simboliche. Quest'ultima esigenza rispecchiava la coscienza albertiana dell'unità universale dei principî e delle forze, che imponeva d'insistere ossessivamente sulle stabili simmetrie che collegano uomo, edificio e Universo. Molte evidenze attestano che questi temi albertiani attrassero l'attenzione di Leonardo, il quale probabilmente riconobbe a un certo punto, dopo Brunelleschi, proprio nel grande umanista il modello da imitare.
Non è soltanto, d'altra parte, per lo sviluppo e per l'importanza assunti dalle indagini sulle cause e sulle leggi generali o per le conseguenze che ciò produsse nel suo modo di affrontare le attività applicative che la personalità di Leonardo appare innovativa rispetto a quella degli altri ingegneri del suo tempo. Come risulta evidente dal semplice confronto tra i suoi manoscritti e quelli dei tecnici contemporanei, il disegno tecnico di Leonardo presenta una suggestione e un'efficacia del tutto speciali. Anche in questo campo le carte vinciane illustrano un'evidente evoluzione: dai disegni giovanili di macchine, nei quali riconosciamo un uso ancora incerto della prospettiva, fino alla progressiva definizione di una precisa strategia di raffigurazione, che raggiunge la maturazione a metà degli anni Novanta del Quattrocento. In quegli anni Leonardo portò infatti a compimento una vera e propria rivoluzione nel disegno tecnico. Se questa rivoluzione si fondava, per un verso, sulla definizione di tecniche e di convenzioni grafiche che utilizziamo ancora oggi, non deve, d'altra parte, sfuggirci un altro aspetto fondamentale. Tutta l'opera grafica di Leonardo ‒ non soltanto nell'anatomia delle macchine e del mondo organico, nel quale ultimo spaziò anche come grande pittore‒ evidenzia la tensione di utilizzare il disegno alla stregua di strumento per illustrare le creazioni della Natura e dell'uomo non secondo le loro apparenze sensibili, ma come espressione necessaria dell'operare di leggi universali. Per Leonardo il disegno, meglio del modello, troppo rigidamente oggettivo, è in grado di restituire, mediante trasfigurazioni rigorosamente controllate e codificate, l'essenzialità e la costanza delle leggi della Natura, nelle macchine come nell'uomo, nell'architettura come nel macrocosmo. Soltanto il disegno può dare quella che Leonardo definisce l'"intera cognizione": la vera conoscenza che scaturisce dall'apporto combinato dell'osservazione e della riflessione sui processi causali, presupposto fondamentale per la perfetta imitazione della Natura.
Per Leonardo, nella descrizione delle opere dell'uomo e della Natura, il confronto tra l'esposizione verbale e l'illustrazione attraverso il disegno risulta assolutamente impari:
O scrittore, con quali lettere scriverai tu con tal perfezione la intera figurazione qual fa qui il disegno? Il quale tu, per non aver notizia, scrivi confuso e lasci poca cognizione delle vere figure delle cose, le quali tu, ingannandoti, ti fai credere poter sodisfare appieno all'ulditore [...]. Ma io ti ricordo che tu non t'impacci colle parole, se non dei parlare con orbi, o, se pur tu voi dimostrare colle parole alli orecchi e non alli occhi delli omini, parla di cose, di sustanzie o di nature e non t'impacciare di cose appartenenti alli occhi col farle passare per li orecchi, perché sarai superato di gran lunga dall'opera del pittore. (K/P 162r)
Quale brano potrebbe meglio illustrare la tesi di Lucien Febvre (1942), per il quale uno dei tratti caratteristici della transizione dalla cultura medievale ‒ fondata sul modello verbale del commento ‒ al nuovo sapere rinascimentale ‒ segnato dai processi visivi del mondo artistico ‒ va colto nel passaggio dal primato dell'orecchio a quello dell'occhio? E dove cercare una prova più eloquente della profonda integrazione in Leonardo tra ricerca scientifica e attività pittorica?
L'esaltazione della superiorità del pittore rinvia infatti al Trattato della pittura, che offre continui e probanti esempi del rilievo che Leonardo attribuì, per la formazione di un pittore degno del nome, ai fondamenti scientifici (meccanica, ottica, teoria della visione, scienze della natura, conoscenza dell'anatomia). Lo stesso primato che Leonardo rivendica per la pittura rispetto a tutte le altre discipline presuppone una concezione di questa attività come compendio di ogni forma di sapere e la perentoria affermazione della superiorità dell'occhio rispetto all'orecchio, vale a dire del 'figurare' rispetto alla descrizione puramente verbale.
L'occhio del pittore 'universale' teorizzato da Leonardo è però un "occhio della mente", che penetra oltre le apparenze superficiali, cogliendone i processi dinamici e gli equilibri instabili ‒ si tratti di paesaggi, di macchine artificiali o delle attitudini fisiche e mentali della figura umana. Nelle fabbriche costruite dall'uomo, così come nelle gran macchine del corpo o del mondo, l'artista coglie e restituisce attraverso il disegno i modelli e i processi operativi della Natura, raffigurandoli non come effetti staticamente compiuti, ma come processi, nei quali è riconoscibile l'azione viva dei 'motori'.
Il prolungato, estenuante impegno di Leonardo nella raffigurazione delle macchine non fu, né restò fine a sé stesso. Esso costituì sia il prodotto di un audace sforzo di unificazione della Natura sotto poche leggi universali, sia il risultato di un'intensa riflessione sul carattere e sui fini della raffigurazione, riflessione nella quale l'esperienza e la nuova concettualizzazione dell'arte del ritrarre le macchine avevano recitato un ruolo centrale. Il trasferimento diretto dell'analisi teorica e delle tecniche di raffigurazione dalla meccanica all'anatomia, nel quadro di un programma che riduceva il conoscere al figurare, assieme all'importanza cruciale che Leonardo attribuì all'anatomia per la formazione del perfetto pittore, consentono di affermare che, per quanto possa apparire sorprendente e quasi provocatorio, non è né inappropriato né impreciso definire il complesso dell'esperienza intellettuale di Leonardo come quella di 'un artista delle macchine'. Nessuno degli altri artisti-ingegneri del Rinascimento potrebbe legittimamente aspirare a questo titolo.
Il capitolo è una rielaborazione editoriale del saggio introduttivo a Gli ingegneri del Rinascimento da Brunelleschi a Leonardo da Vinci, Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza, 1996.
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