Il Rinascimento. Il contesto culturale e istituzionale
Il contesto culturale e istituzionale
Tracciare un quadro sintetico del contesto storico in cui si formò la cultura del Rinascimento è un'impresa ardua che occorre affrontare con la consapevolezza dei molti e complessi problemi storiografici connessi all'uso di questo termine, oggetto, da oltre un secolo, di discussioni mai davvero esaurite. Non è certo possibile, in questo breve capitolo, affrontare in maniera esaustiva siffatti temi che esigerebbero analisi particolareggiate e il ricorso a una letteratura vastissima. Si dovrà, in ogni caso, ricordare che concetti come 'rinascita' e 'Rinascimento' sono stati e sono tuttora adoperati dagli storici nell'ambito sempre più definito della storia della cultura per indicare un periodo di quasi tre secoli (dalla seconda metà del Trecento sino alla fine del Cinquecento), durante il quale si verificò la crisi e quindi la trasformazione profonda dei paradigmi intellettuali tradizionali e dell'immagine del mondo elaborata dalla civiltà classica e ripresa, in varie forme, dalla civiltà cristiana medievale. Si tratta, insomma, di concetti che non hanno trovato un'utile e valida applicazione nell'ambito della storia politica, economica e sociale e dei loro eventi e processi particolari. Tuttavia, non sarebbe possibile comprendere in modo soddisfacente la stessa storia della cultura rinascimentale (e quindi la riflessione filosofica, la scienza, l'attività artistica, la vita religiosa e le idee politiche dell'epoca) senza considerare la complessità, la profondità e l'incisività degli eventi politici e dei fenomeni economici e sociali propri di questa età che, per molti aspetti, ha segnato l'inizio del mondo moderno, delineandone talune tendenze e caratteri tipici.
Naturalmente, anche nella valutazione di tali fenomeni e di quegli eventi, come nella discussione relativa all'interpretazione storiografica di questa incipiente 'modernità', le ipotesi delineate dagli specialisti sono spesso diverse e discordi, al centro di un continuo processo di revisione critica. Vi sono però alcune opinioni che, come in passato, riscuotono ancora oggi un largo consenso; tra esse di grande interesse è l'insistenza di vari storici sulle gravi crisi politiche, sociali e istituzionali che, già nel corso del XIV sec. e, in particolare, nella sua seconda metà, segnarono la storia delle principali società dell'Occidente europeo. Le loro istituzioni ancora fragili furono sconvolte da aspri conflitti tra i massimi poteri, da lotte interne ai ceti dominanti, dal malcontento e dalle ribellioni degli strati sociali più poveri e subalterni del mondo rurale e urbano, dalle pesanti conseguenze di una crescente stagnazione economica e, ancora, dai terribili esiti di una grande epidemia. La 'peste nera', diffusasi in Europa nel 1348, non provocò soltanto un drastico calo demografico, ma turbò anche il ritmo delle attività produttive e mercantili, oltre a costituire, per oltre tre secoli, una continua, ricorrente e spaventosa minaccia.
Si tratta, insomma, di cause e situazioni tra loro assai diverse, difficilmente riconducibili a un unico comune denominatore che le unifichi sotto il segno di una facile spiegazione ideologica. è un fatto che esse contribuirono tutte a rendere particolarmente turbolenti e drammatici gli ultimi decenni del secolo. La crisi più grave colpì proprio le istituzioni che ancora incarnavano l'ideale religioso e politico della Respublica Christianorum, la cui unità sacrale doveva sovrastare ogni autorità o potere particolare. La Chiesa romana ‒ che, all'inizio del Trecento, sotto il pontificato di Bonifacio VIII, aveva riaffermato, con la Bolla Unam sanctam (1302), l'assoluta superiorità dell'auctoritas papale dalla quale discendeva la stessa legittimità di tutti i poteri politici e civili ‒ dopo essere stata costretta a sottostare al predominio della monarchia francese, sanzionato dal trasferimento ad Avignone della sede pontificia (1309-1377), fu travolta, nel 1378, dall'inizio del Grande Scisma, destinato a protrarsi sino alla precaria pacificazione raggiunta dal Concilio di Costanza nel 1417.
Ventitré anni dopo, nel 1440, lo scontro tra l'autorità pontificia e il partito conciliarista (appoggiato apertamente dal Regno di Aragona, dal Ducato di Savoia, dal Ducato di Milano e da numerosi prìncipi dell'Impero) provocò una nuova frattura sanata soltanto nel 1449. Da questi conflitti uscì, infine, vincitore il programma accentratore del partito papalista. Questa vittoria fu certamente propiziata anche dal successo ottenuto da Eugenio IV con il Concilio di Ferrara-Firenze, che si concluse con la precaria riunificazione della Chiesa romana con le chiese ortodosse e orientali e con le cristianità copte ed etiopiche. Tale concilio ebbe un grande significato politico perché fece del papato romano l'istituzione più impegnata nella difesa dell'Europa balcanica dalla minaccia dell'invasione turca, ma ebbe pure un particolare valore culturale perché espresse la vocazione ecumenica della nuova tradizione umanistica e favorì l'incontro tra gli intellettuali, impegnati nel ritorno ai principî e agli autori del mondo classico, e i maestri bizantini. Poi, sotto il pontificato di uomini di formazione umanistica, quali Niccolò V e Pio II, il soglio pontificio riaffermò definitivamente il proprio primato, teorizzato da teologi come Rodrigo Sánchez de Arévalo e Juan de Torquemada; rimasero però sempre intensi il malessere e il dissenso religioso. Fermenti di ribellione serpeggiarono nel clero e nel laicato tedesco, francese e dei Paesi Bassi (dove la devotio moderna espresse una nuova religiosità fortemente interiorizzata e risolta nell'imitazione del Cristo), mentre il dissenso religioso in Inghilterra ispirò la predicazione di John Wyclif, la rivolta dei lollardi e, in Boemia, le dottrine radicalmente riformatrici di Jan Hus, nonché un vasto movimento spirituale e politico in aperto conflitto con le gerarchie della Chiesa romana e con la feudalità germanica. Né ebbe mai inizio la reformatio Ecclesiae, così spesso invocata come suprema necessità della società cristiana e auspicata da alcune delle personalità più rappresentative della stessa religiosità ortodossa trecentesca e quattrocentesca.
Non meno grave fu la crescente eclissi dell'autorità, anch'essa 'sacrale', dell'Imperium, già ridotto a "un vano nome senza soggetto", durante il 'grande interregno' (1254-1273) e la cui potestas universale sull'ordine politico della società cristiana era sempre più limitata e, di fatto, sconfessata dalla ormai totale autonomia delle maggiori monarchie europee (Francia e Inghilterra). Anche il rafforzamento di forti poteri feudali particolari o di istituzioni cittadine che accrescevano l'importanza e la forza politica della borghesia urbana e della sua attività finanziaria e mercantile contribuirono ad alimentare questo processo. Certo, dopo la fine dell'interregno, l'ascesa al trono imperiale di Rodolfo I d'Asburgo e, successivamente, di Enrico VII di Lussemburgo aveva restituito all'Impero il suo significato politico, sempre più limitato, in realtà, alle terre tedesche dove, del resto, l'esercizio di un potere supremo si rivelò inevitabilmente debole e precario. Neppure l'energico intervento di sovrani preoccupati di estendere i propri domini territoriali, quali Ludovico IV il Bavaro e Carlo IV re di Boemia, riuscì a restituire all'autorità imperiale la coesione necessaria per fronteggiare la crescente anarchia generata in Germania dalle lotte tra i poteri cittadini e la feudalità minore, tra i prìncipi delle grandi casate e gli altri potentati laici ed ecclesiastici. Anzi, tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, la violenta ripresa dei conflitti suscitati dalle elezioni imperiali rese ancora più ingovernabili le terre tedesche; anche il lungo regno di Federico III d'Asburgo (1452-1493) fallì nel compito ormai impossibile di trasformare l'antica istituzione medievale in una monarchia moderna.
Nonostante tutto questo, il mondo germanico continuò a mostrare una grande vitalità e una crescente capacità di espansione, estendendosi sempre più a Oriente, vale a dire in Pomerania, Prussia, Slesia e Brandeburgo, e affermando la propria influenza anche nell'area danubiana e nell'Europa centro-orientale. Pure in questi lontani confini della società europea non mancarono però tentativi di dar vita a forti entità istituzionali politiche e dinastiche, come testimoniano le vicende della Polonia iagellonica e, più tardi, della 'grande Ungheria' di Mattia I Corvino (1440-1490).
Del resto, anche gli stati monarchici già consolidati dell'Europa occidentale, ossia il Regno di Francia e il Regno d'Inghilterra, attraversarono tra la metà del Trecento e il nuovo secolo un lungo periodo di lotte aspre, dalle quali i loro confini territoriali uscirono ormai ben definiti. Le alterne vicende dei conflitti tra le due dinastie che vanno sotto il nome di guerra dei Cent'anni (1337-1453) non soltanto provocarono il generale e gravissimo impoverimento della Francia ‒ divisa tra le terre rimaste fedeli al 're di Bourges', Carlo VII, e quelle poste sotto il dominio inglese, e sconvolta da un'anarchia dilagante, dalle carestie e dalla disgregazione sociale ‒ ma gravarono in modo insostenibile pure sulle finanze inglesi. Anche dopo la fine di questi conflitti, la necessità di ristabilire le strutture del potere e d'imporre, con la propria autorità, un ordine civile tollerabile, costrinse le due monarchie a un inevitabile ripiegamento sui problemi interni a ciascun paese. Tuttavia, se la ricostruzione della Francia unitaria fu intrapresa con successo sotto il regno di Luigi XI (1423-1483) che impose un rafforzamento del potere regio, in Inghilterra lo scontro tra le case di York e di Lancaster, noto come guerra delle Due Rose, funestò per trent'anni la vita del paese (1454-1485), tra violente sollevazioni contadine, ribellioni dei ceti più poveri delle città, tentativi delle corporazioni mercantili di estendere i propri poteri e privilegi. Non stupisce che di una simile circostanza approfittassero i prìncipi della casa ducale di Borgogna per elevare il loro dominio al rango di una vera potenza. Le conquiste di Filippo l'Ardito (1342-1404) permisero la formazione di un vasto stato che s'incuneò tra le terre controllate dalla monarchia francese, da quella inglese e dall'Impero, estendendosi, sia pure senza continuità, dai confini dei cantoni svizzeri alle province dei Paesi Bassi; si trattò di uno stato ricco grazie ai suoi porti e alle città mercantili, allo sviluppo di fiorenti manifatture tessili e a una vivace attività finanziaria, ma anche centro di una grande civiltà artistica e dell'esperienza spirituale della devotio moderna.
La splendida stagione del Ducato di Borgogna, narrata in un celebre libro di Johan Huizinga (1919), ebbe però breve durata. Il tentativo di Carlo il Temerario (1433-1477) d'impossessarsi dell'Alsazia e della Lorena, in modo che il suo Stato si estendesse ininterrottamente dal Mare del Nord al Giura, provocò una lunga guerra con Luigi XI, terminata nel 1477, quando il duca fu sconfitto e ucciso sotto le mura di Nancy, mentre combatteva contro gli Svizzeri, alleati della Francia.
In tutti i maggiori paesi dell'Europa centrale ‒ in particolare, in quelli che tra il XIII e il XV sec. furono i più importanti centri della cultura filosofica e scientifica della Scolastica ‒ il difficile passaggio verso le nuove forme di vita economica e politica tipiche delle società moderne provocò profondi sconvolgimenti che frenarono lo sviluppo di nuove esperienze intellettuali per gran parte del Quattrocento. A ciò si aggiunga che, per tutto il secolo e soprattutto dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi (1453), sulle terre orientali dell'Impero, sull'Ungheria e sulla stessa Austria gravò la minaccia dell'Impero ottomano, la cui avanzata verso l'Occidente sembrava inarrestabile, grazie anche alla crescente potenza della sua marineria. Né si dimentichi che, sebbene la dinastia aragonese avesse esteso il suo diretto dominio sulla Sicilia sin dal 1302 e sulla Sardegna dal 1326, fino a impadronirsi del Regno di Napoli nel 1442, le due maggiori monarchie iberiche, Aragona e Castiglia, erano ancora impegnate nella lunga lotta contro quel che restava dell'antico dominio arabo e nella formazione di una solida struttura politica e amministrativa in grado di governare territori così eterogenei, con storie, tradizioni e lingue diverse e una composizione etnica e religiosa assai mista.
Nell'Italia centrale e settentrionale gli eventi storici in atto nel resto dell'Europa, se pure influirono spesso in modo negativo sulle attività produttive e finanziarie, non provocarono tuttavia crisi politiche rilevanti, sicché, a proposito del periodo e del territorio geografico in questione, gli storici hanno potuto addirittura parlare di un'autonomia relativa dei suoi eventi politici, decisi principalmente da poteri e forze locali. Certamente, non mancarono interventi e interferenze straniere in Italia (come la conquista aragonese già ricordata) o sporadici episodi d'interventi francesi o imperiali. Nondimeno, il tardo Trecento e la prima metà del Quattrocento furono caratterizzati piuttosto dal consolidamento dei principali stati regionali ormai costituiti (il Ducato di Savoia, esteso al di qua e al di là delle Alpi, il Ducato di Milano, governato dai Visconti, la Repubblica di Venezia e la Repubblica di Firenze) e dalle lotte per affermare la loro egemonia o difendersi dalla minaccia delle altrui mire espansionistiche. Non è questa la sede per entrare nei particolari delle varie prese d'armi tra quei diversi stati. Basterà ricordare l'eccezionale ampliamento del Ducato di Milano, che sotto Gian Galeazzo Visconti (1385-1402) giunse a controllare gran parte della Valle Padana e, poi, oltre gli Appennini, Pisa, Lucca, Siena e Perugia. Una tale espansione dei domini viscontei rappresentò un grave pericolo per i due stati repubblicani e, in particolare, per Firenze, minacciata lungo tutti i suoi confini. La morte del duca e la suddivisione del ducato tra gli eredi permise poi a Venezia d'impadronirsi di gran parte del Veneto, stabile antemurale di terraferma di quella Repubblica che, più tardi, avrebbe occupato vasti territori nel Friuli (1420), e città come Bergamo, Brescia (1428) e ancora Rovigo, sottratta agli Estensi nel 1482. Non diversamente, anche la Repubblica fiorentina, acquistando Pisa (1409), Cortona (1411), Livorno (1421) e Volterra (1439), ampliò considerevolmente il suo territorio, sebbene in Toscana sopravvivessero ancora le Repubbliche indipendenti di Siena e di Lucca.
L'espansione delle due maggiori Repubbliche coincise, non a caso, anche con la fase più acuta del Grande Scisma e con la successiva difficile fase di assestamento del potere papale che impegnò i pontefici nel ristabilimento della loro autorità sulle terre del Lazio e dell'Umbria, conquistate tra il 1404 e il 1414 dal re di Napoli, Ladislao d'Angiò-Durazzo. Intanto Filippo Maria Visconti, divenuto nel 1412 unico erede del Ducato di Milano, era riuscito a ristabilire i confini del suo Stato, che si estendeva ora tra Parma, Brescia, Vercelli e Alessandria. Nel 1421 s'impadronì nuovamente di Genova e in seguito decise d'intervenire in Romagna per conquistare Forlì; ne seguì una nuova guerra con Venezia e Firenze, conclusa solamente nel 1433 con la pace di Ferrara, sfavorevole al duca costretto a cedere Bergamo e Brescia ai Veneziani, Vercelli e altre terre al duca di Savoia e a rinunciare a ogni intervento in Romagna e in Toscana. Anche il regime oligarchico fiorentino pagò però duramente le gravi conseguenze, soprattutto finanziarie, della lunga guerra e nel 1434 fu costretto a cedere il potere alla 'coperta' signoria di Cosimo de' Medici.
L'avvento al potere dei Medici, ricchi banchieri che avevano esteso le loro filiali in vari paesi europei e mantenevano un rapporto privilegiato con le finanze dello Stato pontificio, non mutò, per il momento, la politica estera fiorentina, sempre legata all'alleanza con la Serenissima. Al tentativo del duca milanese di avanzare nuovamente nelle terre emiliane e romagnole, approfittando della crisi del potere papale suscitata dall'ennesima minaccia di scisma, rispose subito una nuova lega tra le due Repubbliche. La guerra divenne generale, quando la morte di Giovanna II d'Angiò, regina di Napoli, aprì una contesa dinastica tra i due pretendenti, il re di Aragona, di Sardegna e Sicilia, Alfonso V d'Aragona, e Renato d'Angiò. Il conflitto ebbe varie vicende, tra le quali la sconfitta della flotta aragonese da parte di quella genovese al servizio di Milano, conclusa con la prigionia dello stesso sovrano, e quindi con l'imprevisto passaggio del duca dalla guerra all'alleanza con Alfonso V d'Aragona; seguì però la defezione di Genova entrata nella Lega antiviscontea, la quale fu presto abbandonata dalle milizie mercenarie di Francesco Sforza, divenuto nel frattempo genero e presumibile erede di Filippo Maria. Così la guerra, ormai in una fase stagnante, si concluse nel 1441 con la pace di Cremona, che garantì ad Alfonso V d'Aragona il Regno di Napoli e a Venezia il possesso di Ravenna e di Peschiera. Anche questa tregua però durò poco, perché nel 1450 l'ascesa dello Sforza al ducato indusse i Veneziani a riprendere le ostilità.
In questa occasione Cosimo de' Medici rovesciò la vecchia alleanza, inducendo Firenze a schierarsi a fianco del ducato, mentre Venezia organizzò una nuova lega insieme ad Alfonso V d'Aragona, al duca di Savoia, al marchese di Monferrato e alla Repubblica di Siena. Di nuovo, nessuno dei contendenti riuscì a ottenere successi definitivi e questa situazione di stallo fu, per qualche tempo, prolungata anche da un evento che, seppure estraneo alle vicende politiche italiane, ebbe lunghe e profonde ripercussioni sulle scelte dei principali stati europei, ossia la drammatica notizia della conquista di Costantinopoli da parte delle milizie turche del sultano Maometto II. Si trattava, in realtà, di una notizia ormai attesa da tempo, perché i deboli aiuti inviati sia dal papato sia dai paesi danubiani non avevano rafforzato la difesa della capitale bizantina. La caduta dell'ultimo residuo dell'Europa d'Oriente, se pure fece rafforzare l'antico terrore delle invasioni 'barbariche', non bastò per coalizzare i principali stati e poteri italiani ed europei e impegnarli nella nuova Crociata subito proclamata da Niccolò V, né ebbe miglior successo il tentativo di Pio II di convocare, nel 1459, la Dieta di Mantova per ottenere dai sovrani le truppe e i finanziamenti necessari per l'impresa; anzi, vari paesi, e tra questi anche Venezia, preferirono stipulare con il sultano favorevoli accordi commerciali.
L'avanzata turca poté così continuare in Bosnia e in Serbia, e Venezia dovette concentrare le sue forze in difesa dei propri possedimenti balcanici e orientali. Sicché un'abile mediazione da parte di papa Niccolò V portò, nel 1454, alla pace di Lodi. La Serenissima estese ulteriormente i propri territori lombardi sino alla Ghiara d'Adda; ma l'abbandono dei progetti espansionistici nella terraferma favorì una situazione di equilibrio politico e di relativa pace che durò sino al 1494. In realtà, nessuno dei maggiori stati regionali italiani aveva una capacità economica, militare e organizzativa tale da permettergli di stabilire la propria egemonia sul resto della penisola; questo equilibrio, che ebbe per gran parte della seconda metà del secolo la sua salvaguardia nell'abile attività politica di Lorenzo de' Medici, si sarebbe presto rivelato fragilissimo, quando l'intervento delle grandi monarchie straniere trasformò l'Italia in un campo di battaglia.
Non mancarono certamente nuovi tentativi di mutare i rapporti di forza e le influenze territoriali dei vari stati, sia nel 1458, quando alla morte di Alfonso V d'Aragona la successione al Regno di Napoli del suo figlio naturale Ferdinando fu nuovamente contestata da Giovanni d'Angiò, sconfitto definitivamente soltanto nel 1462, sia quando nel 1464 una congiura patrizia, appoggiata da Venezia, cercò di rovesciare la 'coperta' signoria di Piero il Gottoso, figlio ed erede di Cosimo de' Medici. Anche in questo caso, la Repubblica fiorentina, il Ducato di Milano e il Regno di Napoli costituirono subito una lega volta a impedire che questa crisi si risolvesse nell'accrescimento della potenza veneziana. Più grave, per le forze che mise in campo e i gravi problemi di equilibrio che suscitò, fu la guerra seguita alla fallita congiura dei Pazzi del 1478, che rappresentò il tentativo di una parte del patriziato, comprese anche personalità e famiglie già favorevoli ai Medici, di abbatterne il potere ora nelle mani dei giovanissimi Lorenzo e Giuliano. I congiurati, che riuscirono a uccidere Giuliano ma non il fratello, erano stati appoggiati e indotti ad agire da Girolamo Riario, signore di Imola e di Forlì, nipote di papa Sisto IV che, con ogni mezzo, voleva assicurare al suo parentato nuovi e più estesi domini.
Fallita la congiura, i suoi principali fautori furono subito passati per le armi o impiccati; tra questi vi era anche l'arcivescovo di Pisa Francesco Salviati, mentre il giovanissimo cardinale Raffaello Riario fu imprigionato. Il papa scomunicò subito Lorenzo e dette inizio, alleandosi con il re di Napoli e con Siena, a una guerra che mise realmente in pericolo non soltanto il potere mediceo, ma l'autonomia stessa della Repubblica fiorentina.
La Serenissima e il duca di Milano si schierarono subito al fianco di Firenze, mentre Lorenzo, con una fortunata e coraggiosa politica, riuscì a convincere il re a non sostenere le pericolose e avventurose pretese papali. L'accordo generale raggiunto nel 1480 mantenne sostanzialmente l'equilibrio sancito dalla pace di Lodi, ma Sisto IV riprese le armi nel 1482, avendo come alleata Venezia e approfittando di una contesa riguardante il commercio del sale, che avrebbe potuto fornire l'occasione per una spartizione dei ricchi territori del Marchesato di Ferrara. La guerra durò sino al 1484, quando lo stesso papa comprese che Venezia mirava a controllare tutti gli sbocchi del Po e a impadronirsi delle terre romagnole più importanti. La pace di Bagnolo (1484) concesse ai Veneziani il Polesine di Rovigo, mantenendo per il resto lo statu quo.
La fragilità del sistema italiano era tuttavia ormai evidente; infatti, due anni dopo, la congiura dei Baroni, una rivolta capeggiata dai grandi feudatari napoletani contro il sovrano aragonese, offrì al nuovo papa Innocenzo VIII il pretesto per intervenire militarmente e occupare L'Aquila. Di nuovo, l'intervento di Lorenzo e del duca di Milano costrinse il papa ad abbandonare l'impresa, lasciando a Ferdinando d'Aragona piena libertà di reprimere la rivolta nel modo più duro.
Senza dubbio si trattava di guerre condotte da milizie mercenarie poco interessate a renderle aspre e sanguinose, anche se questi continui conflitti pesavano in maniera intollerabile sulle popolazioni delle località minori, sottoposte spesso a saccheggi e violenze di ogni genere, e ancor più sui contadini. Erano comunque la dimostrazione di uno stato di perenne tensione e di crescente conflittualità che contrastava con il continuo rafforzamento dei maggiori stati europei, ormai usciti dalle lunghe guerre e lotte intestine, i quali avevano approfittato del periodo di pace per formare i loro apparati di governo, le loro istituzioni militari, nonché l'organizzazione fiscale e finanziaria che avrebbe permesso la mobilitazione di eserciti bene armati, organizzati ed equipaggiati con i nuovi strumenti di guerra.
Ci si è soffermati su questi eventi, perché essi aiutano a comprendere la particolare situazione storica nella quale nacque e si affermò una cultura nuova, l'Umanesimo, che ebbe le sue origini nei maggiori centri cittadini dell'Italia centrosettentrionale, per poi estendersi rapidamente all'intera penisola. Certo questo termine, che all'inizio indicò probabilmente l'attività propria dei maestri (umanistae) delle discipline e delle arti del discorso, è ormai divenuto di uso così generico da non rispecchiare l'effettiva natura e fortuna storica di una profonda trasformazione intellettuale. Tale processo si realizzò in un ambiente caratterizzato dalla crescente importanza economica e politica del patriziato mercantile e finanziario, dallo sviluppo di notevoli attività imprenditoriali particolarmente dedite alla produzione tessile e dalla formazione di un vasto ceto artigianale, nel quale cominciavano a emergere tecnici e artisti di grande valore. In una società di questo genere (che del resto non rappresentò un fenomeno unicamente italiano) non soltanto si ebbe un relativo aumento del numero di persone acculturate, ma crebbe il prestigio delle professioni intellettuali più legate alla gestione legale degli affari (i giuristi e i notai) e del loro tipo di cultura. Inoltre, proprio tra il tardo Trecento e gli inizi del Quattrocento, i maggiori centri della vecchia Italia comunale divennero le capitali di stati regionali sempre più vasti; ciò impose la formazione di organi istituzionali e amministrativi, le cancellerie delle repubbliche o le segreterie dei prìncipi e dei signori, capaci di gestire i più delicati strumenti del potere interno e dei rapporti esterni, spesso già di misura europea. Non meraviglia, pertanto, che, proprio tra i maestri delle arti del discorso e tra i giuristi e i notai, emergessero i primi decisi e combattivi sostenitori di una cultura che si richiamava al diretto insegnamento dei classici, evitava il gergo barbaro delle scholae, restituiva al linguaggio il suo potere persuasivo tanto necessario alla vita civile, ricercava nella storia e nelle testimonianze del passato ammaestramenti utili anche per il presente, e invece che agli interessi metafisici o naturalistici prevalenti nella filosofia universitaria, guardava all'insegnamento etico dei pensatori antichi, a Cicerone, a Seneca, allo stesso Aristotele dell'Ethica e della Politica, a Platone e al maggiore maestro del platonismo cristiano, Agostino. L'ispiratore di questi umanisti fu e restò sempre un grande uomo di lettere e poeta, Francesco Petrarca (1304-1374), dal quale essi ripresero la costante polemica antiscolastica, l'invito a perseguire gli studia humanitatis che formano la libera coscienza umana e il richiamo a una meditazione volta piuttosto alla conoscenza di sé stessi e del mondo degli uomini che all'acquisizione di un sapere enciclopedico troppo incerto e fallace. Soprattutto ne condivisero la convinzione di vivere in un'età di decadenza non soltanto intellettuale e spirituale, ma anche religiosa e politica. Tale certezza nutrì pure la speranza di una 'rinascita' (renascentia) in grado di restituire la perfezione di una civiltà considerata esemplare. Un'idea, questa, che indusse gli umanisti allo studio dell'Antichità, alla ricostruzione dei suoi linguaggi, vicende, istituzioni giuridiche e civili, delle sue massime espressioni letterarie e artistiche, delle concezioni politiche e filosofiche, ma che li indusse pure a recuperare le testimonianze fondamentali delle scienze e delle tecniche che avevano dato lustro alle grandi civiltà classiche.
Sarebbe però un grave errore confondere, come è pure talvolta accaduto, questo ritorno al primato della conoscenza dell'uomo e della sua vita etica e civile (imposto del resto proprio dalle circostanze storiche) con la negazione della filosofia e della scienza; o ritenere che l'interesse centrale degli umanisti per il linguaggio, la sua tradizione e la sua storia sia stato soltanto un'indebita intrusione di grammatici e retori nel dominio del sapere razionale, dei grandi problemi metafisici e della ricerca naturalistica. Al contrario, la rivolta antiscolastica degli umanisti, la loro scelta di un nuovo tipo di sapere di carattere storico e antiquario, incentrato sullo studio filologico e critico del linguaggio, esteso ben presto a ogni forma di testimonianza del passato, alla verifica delle tradizioni e alla loro rigorosa discussione, furono altrettanti momenti essenziali del lento e complesso processo che portò alla formazione della mentalità scientifica moderna, valida per ogni ambito del sapere, naturalistico o storico, sperimentale o deduttivo. La stessa crisi e la dissoluzione di una visione del Cosmo che vantava più di duemila anni e il passaggio dalla concezione di un "mondo chiuso" a quella di un "Universo infinito" non furono davvero estranee alla ricerca umanistica, che fece conoscere altri paradigmi cosmologici del passato, come quelli di Filolao, Eraclide Pontico, Aristarco di Samo, fornendo allo stesso Copernico suggestioni e argomenti di non scarso rilievo. Soprattutto l'attitudine critica e la rivendicazione della piena libertà nei confronti di qualsiasi auctoritas non verificata dall'esperienza e dall'argomentazione razionale permise alla discussione sulle cosmologie e sulle dottrine antiche (compreso il mito della prisca theologia ermetica e zoroastriana, accolto in molti ambienti umanistici) di trasformarsi in una vera rivoluzione mentale che mutò tutti i rapporti tra l'uomo e la realtà di cui è parte. Le idee fondamentali che l'Umanesimo pose come base del suo nuovo modello di formazione umana furono la ferma fiducia in un rinnovamento generale della vita e della storia umana, la rivendicazione della centralità cosmica dell'uomo e l'esaltazione della sua libertà, della sua dignità e delle sue arti di creatura destinata da Dio stesso a operare su tutte le cose, quasi per continuare la Creazione e imprimervi l'ultimo segno di perfezione. D'altro canto, la stessa Natura, nella ricchezza delle sue forme e dei suoi fenomeni, fu considerata come un immenso corpo vivente e sensibile che l'uomo poteva conoscere e comprendere con la propria esperienza razionale e i poteri dei suoi sensi. Tuttavia, come insegnava il Timeo platonico e confermavano i massimi matematici antichi, da Euclide ad Archimede, l'ordine armonico e geometrico del mondo sembrava regolato dalle leggi eterne delle scienze matematiche, anche in accordo con la narrazione biblica della creazione del Cosmo mensura, numero et pondere (Sapienza, 11, 21). Donde l'insistente e tipica analogia tra la mirabile architettura della Natura, quella artificiale degli edifici umani e le norme numeriche dell'armonia musicale che, nella loro perfetta corrispondenza, rivelavano una ragione e una suprema legge cosmica. Tutto questo accadeva mentre l'imponente ritorno dei testi greci di matematica e di meccanica, da Euclide a Pappo, da Archimede ad Apollonio di Perge, forniva ormai un corpo organico di conoscenze, presupposto di quell'avanzamento del sapere matematico che già si verificò nel corso del XVI sec. per opera di Cardano, di Tartaglia e di Commandino.
Non è certo il caso di soffermarsi sui molti e diversi sviluppi ed esiti dell'Umanesimo che, dopo aver prevalso nella vita intellettuale dell'Italia del Quattrocento e aver costituito nuovi importanti modelli di educazione e di formazione pedagogica, divenne, nel corso del Cinquecento, il principio comune e unificatore della cultura europea. Sta di fatto che questo nuovo tipo di cultura penetrò nelle università, i cui metodi furono spesso profondamente trasformati, lasciò il suo segno sulle nuove istituzioni scolastiche protestanti o cattoliche, riformò il diritto, la medicina e la stessa teologia, e ispirò i tentativi di costruzione di una diversa enciclopedia del sapere, già testimoniati da alcune opere esemplari della fine del secolo. Grandi personalità, come Erasmo da Rotterdam, Guillaume Budé, Juan Luis Vives e Thomas More furono i maggiori testimoni di questa umanistica "repubblica delle lettere" che riunì, in un fitto intreccio epistolare i migliori rappresentanti delle varie tradizioni umanistiche dei singoli paesi europei. Tali tradizioni erano accomunate da una fondamentale ispirazione filologica (espressa al suo più alto grado dalle opere di Pier Vettori e di Giuseppe Giusto Scaligero), dalla fede nella civile convivenza di ogni idea e opinione umana e dalla speranza di una pace religiosa che segnasse la fine di una feroce stagione di guerre e di sanguinose intolleranze.
Com'è noto, le aspirazioni umanistiche furono duramente smentite dalla storia di un secolo di continui conflitti dinastici e religiosi, di guerre civili, di persecuzioni implacabili e di repressioni radicali, mentre nelle terre del nuovo mondo iniziava l'asservimento, la schiavitù e lo sterminio d'intere popolazioni. Nondimeno, non scomparve mai una tradizione culturale che continuava a difendere le più elevate concezioni etiche dell'Umanesimo, non rinunciava al mito della renovatio e restava fedele all'immagine dell'uomo capace di lottare contro la fatalità del caso e di difendere la libera dignità di scegliere il proprio destino; fu questa una delle ragioni che permisero alla civiltà europea di sopravvivere anche alle sue crisi più gravi e alla minaccia sempre ricorrente di rinnovate barbarie.
La terra europea dove era nata la cultura umanistica fu, del resto, la prima a subire le conseguenze di un'età di grandi conflitti che, insieme ad altri eventi ancor più decisivi, contribuirono a mutare profondamente l'antico assetto dell'Europa tardo-medievale. Si è già detto come, assai più che la pretesa corruzione dei costumi e della vita morale, la vera ragione della crisi italiana di fine secolo sia stata proprio il fragile equilibrio politico quattrocentesco tra alcuni stati regionali, troppo deboli per far fronte a una minaccia esterna. Questa crisi rilevò non soltanto un'evidente impotenza politica e militare, ma anche l'incapacità di comprendere che la competizione tra le grandi monarchie europee, benché avesse spesso l'Italia come suo campo di battaglia, era, in realtà, un aspetto del generale spostamento del centro delle vicende storiche europee dal bacino del Mediterraneo ai paesi che si affacciavano sull'Atlantico.
Le ragioni di un tale evento decisivo sono molte e diverse, e sul loro peso e sulla loro influenza la discussione tra gli storici è tuttora aperta. Certo è, in ogni caso, che le scoperte geografiche in atto sin dal XIV sec. a opera soprattutto dei navigatori portoghesi o italiani al servizio del Portogallo, impegnati nella ricerca di una rotta che conducesse ai 'porti delle spezie', evitando gli itinerari mediterranei, minacciati dalla costante avanzata turca o controllati dai Veneziani, avevano già provocato un vistoso mutamento delle grandi vie di commercio e attribuito a Lisbona una notevole importanza economica. Soprattutto l'approdo di Colombo nelle terre del nuovo mondo (sarà questo il nome presto attribuito al continente americano) e le altre imprese marittime e militari che lo seguirono, portarono alla formazione dei grandi imperi coloniali spagnolo, portoghese, inglese e francese, e alla nascita di nuove potenze economiche e politiche. Nonostante l'impresa di Colombo avesse avuto tra i suoi finanziatori, oltre ai sovrani spagnoli, anche importanti banche genovesi e fiorentine, i maggiori porti dell'Atlantico divennero i luoghi naturali delle più importanti attività mercantili, al centro di un'imponente rivoluzione della vita economica e produttiva. Tutto ciò incise in modo definitivo non soltanto sulle scelte produttive e sulle abitudini di vita di tutti i paesi europei, ma provocò un rapido e straordinario arricchimento e un'improvvisa espansione demografica di quelli che possedevano i migliori approdi della navigazione transoceanica.
Si pensi, per citare l'esempio più rilevante, allo sviluppo rapidissimo del porto di Anversa, dove si formarono importanti comunità portoghesi e spagnole e, dopo l'espulsione dalla Spagna nel 1492, trovarono rifugio numerosi Ebrei di origine iberica. A ciò si aggiunga che le nuove tecniche finanziarie elaborate dai banchieri e dai mercanti italiani, almeno a partire dal XIII sec., erano state già accolte e utilizzate ormai da tempo anche dai banchi francesi, inglesi e tedeschi che, proprio nel Cinquecento, furono tra i finanziatori della colonizzazione del nuovo mondo e raggiunsero, come nel caso della banca dei Fugger di Augusta, un grande potere economico e politico. Naturalmente, anche le più importanti attività produttive, specialmente nell'ambito delle manifatture tessili e metallurgiche, ebbero un altrettanto rapido incremento, favorito pure dalle politiche protezionistiche dei sovrani e dalle lunghe guerre che imponevano la fabbricazione crescente di armi di ogni genere e di artiglierie. Ebbe conseguenze assai gravi anche la cosiddetta 'rivoluzione dei prezzi', favorita, se non addirittura provocata, dall'improvviso afflusso in Europa di grandi quantità di metalli preziosi e, quindi, da una forte inflazione alla quale seguì un generale e costante aumento del costo della vita.
Certo, gli storici dell'economia tendono ora a ridimensionare gli effetti di questo fenomeno, che non colpì soltanto i paesi importatori di oro e di argento (in particolare la Spagna e il Portogallo), ma si estese a gran parte dell'Europa, provocando l'impoverimento dei ceti contadini ma anche dell'aristocrazia feudale e fondiaria. Sono state infatti individuate altre e più complesse cause dei mutamenti sociali del XVI sec. che favorirono lo sviluppo di una solida e potente borghesia mercantile e finanziaria, impegnata nei commerci assai lucrosi che si svolgevano lungo le nuove rotte oceaniche. Tra queste cause quella che interessa particolarmente gli studiosi di storia della scienza e della tecnologia è certamente il notevole sviluppo delle tecniche usate per la produzione di nuove armi da fuoco più perfezionate e di artiglierie di maggior gittata e precisione, per la costruzione di fortificazioni capaci di resistere a questi nuovi strumenti, per il controllo delle acque, la costruzione di porti e di canali e, in generale, per il miglioramento della viabilità e della navigazione. Furono inoltre notevolmente perfezionati anche altri procedimenti e strumenti propri delle cosiddette arti meccaniche. Per esempio, i grandi orologi meccanici costruiti sin dal XIV sec. divennero capaci di riprodurre i più complessi moti celesti e costituirono, insieme agli automi costruiti per le feste e per le cerimonie di corte, i primi modelli di 'macchine di precisione'. Migliorò, anche grazie a una maggiore conoscenza delle leggi dell'ottica, la produzione delle lenti e, già nel corso del Cinquecento, quella di strumenti d'ingrandimento visivo di oggetti e di immagini lontane. Oltre all'ovvio incremento derivato dai continui conflitti e dall'uso ormai generalizzato delle armi da fuoco, la metallurgia ebbe molti perfezionamenti dovuti all'incipiente razionalizzazione delle tecniche di estrazione dei minerali e dei procedimenti di fusione.
La nuova 'arte' che, in breve tempo, conobbe uno straordinario successo fu soprattutto quella tipografica. I suoi inizi in Europa risalgono alla metà del Quattrocento, ma la tipografia e le conseguenti attività editoriali divennero rapidamente un evento di grande rilievo culturale ed economico, operante in quasi tutti i maggiori centri urbani e talvolta anche in località periferiche poste sulle grandi vie di comunicazione. Dapprima il testo stampato continuò ancora a imitare i codici medievali di cui ripeteva la forma e la struttura ma, tra la fine del Quattrocento e gli inizi del nuovo secolo, quando erano ormai stabilite le prime importanti reti di diffusione dei prodotti tipografici con le loro fiere e mercati, nacque, per merito soprattutto di Aldo Manuzio, il tipo di libro che ancora oggi adoperiamo. Non occorrerà sottolineare che proprio la stampa fu, allo stesso tempo, il più efficace agente e lo strumento di quella rivoluzione silenziosa che nel corso del XVI sec. mutò in modo irreversibile i modi di pensare e le abitudini intellettuali, oltre a essere una preziosa alleata della nuova mentalità scientifica che si stava faticosamente formando. Alcune delle più importanti innovazioni scientifiche e tecniche del Cinquecento non avrebbero avuto i successi realmente ottenuti se non fosse esistita una raffinata capacità di rappresentazione tipografica, legata anche alle esperienze eccezionali delle arti figurative; si pensi, in particolare, alla nuova anatomia del Vesalio o al notevole sviluppo di una letteratura di carattere tecnologico nell'ambito delle arti architettoniche, ma anche della metallurgia o della meccanica, che interessò anche ambienti estranei alla loro pratica.
La stampa cinquecentesca fu pure il più efficace veicolo di diffusione delle idee proprie della civiltà umanistica che, del resto, in quest'attività impegnò alcuni dei suoi maggiori protagonisti, a cominciare dallo stesso Erasmo, per alcuni anni collaboratore dell'impresa editoriale veneziana del Manuzio. Essa fu pure la via privilegiata della rapida diffusione delle dottrine teologiche ed ecclesiologiche della Riforma luterana in gran parte d'Europa, sia nei paesi divenuti presto protestanti sia in quelli che, secondo le loro particolari vicende storiche, rimasero sotto l'antica disciplina e tradizione romana.
I limiti di questa breve introduzione non permettono di soffermarsi sulle radici del grande moto riformatore cinquecentesco che affondano nelle tradizioni millenaristiche e profetiche dei secoli tardo-medievali, nella costante richiesta di una profonda riforma delle istituzioni ecclesiastiche, in particolare del papato e della curia romana, nonché nella condanna del potere mondano e corrotto della gerarchia e del clero, nell'esigenza di un rinnovamento morale e spirituale della comunità cristiana e nel rifiuto di una cultura teologica considerata ormai estranea alla spiritualità di una gran parte dei fedeli; esigenze queste, che, del resto, furono manifestate, già nel corso del Trecento e del Quattrocento, da personalità e movimenti religiosi dei più diversi paesi europei.
Si è già accennato alle particolari reazioni suscitate dalla cosiddetta 'cattività avignonese', dal Grande Scisma e dalla sua difficile composizione, dalla lunga lotta tra il papato e il partito conciliarista, dalle rivolte religiose e politiche di Wyclif e dei lollardi, di Hus e dei taboriti, tutti segni di un dissenso religioso sempre più grave e profondo. Si dovrà pure ricordare che, proprio alla fine del Quattrocento, a Firenze, la predicazione riformatrice e apocalittica di Girolamo Savonarola (ma anche quella di predicatori operanti in altre parti d'Italia) aveva avuto un grande successo, soprattutto nei ceti popolari, proprio per la sua polemica contro la corruzione del papato e della curia romana e per l'appello a una riforma generale della cristianità "nel suo capo e nelle sue membra". Certo, frate Girolamo non aveva proposto dottrine teologiche eterodosse o posto in discussione l'ordine tradizionale della Chiesa, e ‒ com'è noto ‒ la sua disubbidienza alla scomunica papale e la sua opera di religioso molto influente anche nella vita politica della città erano terminate presto con il supplizio e il rogo, il 23 maggio 1498. Non per questo si era però spenta, anche in Italia, la richiesta di una riforma della cristianità, invocata, del resto, anche dal re di Francia Luigi XII per giustificare il suo tentativo di convocare a Pisa nel 1511 un concilio scismatico che deponesse il pontefice, divenuto suo avversario politico e militare.
Papa Giulio II (1503-1513) aveva risposto convocando nel 1512 a Roma il V Concilio lateranense, ma anche i padri conciliari a lui fedeli avevano riconosciuto l'inevitabilità di un profondo rinnovamento delle istituzioni e della disciplina ecclesiale. Inoltre, in Italia, come in altri paesi, si stavano affermando movimenti ed esperienze spirituali di tipo nuovo, quale l'Oratorio del divino amore, congregazione caritatevole formata da ecclesiastici e laici uniti dal proposito di restituire la "santa vita cristiana", e si diffondevano le dottrine della devotio moderna, già operanti nella Germania renana, nelle Fiandre e nei Paesi Bassi.
A ciò si aggiunga che la diffusione dell'Umanesimo nei paesi dell'Europa centrale e settentrionale ebbe un forte carattere filologico, volto anche allo studio critico dei testi sacri e della tradizione teologica. Ne fu esemplare propugnatore Erasmo da Rotterdam, il maggiore protagonista della cultura umanistica europea, alla quale impresse la sua vocazione irenistica e la sua religiosità non dogmatica e fortemente interiorizzata. In Germania, come in altri paesi, era però già forte la protesta contro l'insaziabile fiscalismo della curia romana, che imponeva continuamente nuovi gravami o cercava nuove fonti d'introito con la vendita delle indulgenze. Non a caso, già nel 1511 lo stesso imperatore Massimiliano aveva promosso la redazione dei Gravamina Germanicae nationis, che raccoglievano le proteste dei vari ceti sociali tedeschi, specialmente borghesi e mercanti, contro Roma e le sue esose pretese.
Non occorrerà ricordare qui gli inizi della ribellione religiosa di Lutero (1517), l'occasione che la determinò, le sue ragioni spirituali e teologiche, l'appoggio che essa ottenne da parte di vari prìncipi (desiderosi di accrescere la loro autonomia e d'impadronirsi di nuovi territori e di cospicue ricchezze di origine ecclesiastica) e città tedesche, il suo rapido e straordinario successo, nel mondo urbano e in quello rurale, tra gli intellettuali umanisti, ma anche tra molti chierici e religiosi, tra la borghesia mercantile non meno che presso la piccola nobiltà feudale. Né è possibile qui ricostruire, seppure a grandi linee, le prime incerte e inadeguate risposte dell'autorità pontificia, i tentativi di repressione messi in atto dal nuovo imperatore Carlo V, costretto a prendere atto dell'impossibilità di sconfiggere la Riforma, e quindi i vari sviluppi delle nuove dottrine teologiche e la radicalizzazione sociale e politica di questo grande moto nella predicazione di Carlostadio, di Münzer e degli anabattisti, o le vicende della rivolta dei cavalieri (1522-1523) e, nel 1524-1525, della ribellione dei contadini, severamente condannate da Lutero e stroncate entrambe con estrema decisione.
La Riforma luterana si affermò comunque in gran parte della Germania, penetrò in alcuni paesi centro-orientali e s'impose presto anche negli stati scandinavi. In una vasta parte dell'Europa le dottrine teologiche tradizionali, ancora non compiutamente definite in alcuni aspetti dogmatici, furono sostituite da una concezione religiosa che riponeva nella fede in Cristo redentore e nella grazia divina le uniche ragioni di salvezza, considerava i testi sacri (sola Scriptura) come l'unico fondamento della verità cristiana, eliminava la vita monastica e impegnava i fedeli, sacerdoti di sé stessi, a testimoniare 'nel mondo' la loro fedeltà all'Evangelo. Poi anche la teologia di Lutero, nella quale erano profonde le tracce della tradizione medievale e della più recente fortuna filosofica del nominalismo occamista, si trovò presto a competere con altre dottrine di diverso significato e diversa formazione.
In particolare, il riformatore di Zurigo, Huldreich Zwingli (1484-1531), ammiratore di Erasmo e del suo magistero filologico e critico, propose una dottrina dell'eucarestia che negava ogni forma di presenza reale del Cristo nelle sue specie e concepì un ordinamento delle chiese riformate contrastante con le idee di Lutero. Pochi anni dopo, Giovanni Calvino (1509-1564), anch'egli di formazione umanistica, scrivendo nel suo rifugio ginevrino l'Institutio christianae religionis (1536), propose sia la riduzione del sacramento eucaristico a semplice commemorazione dell'Ultima Cena, ove la presenza del Cristo sarebbe puramente simbolica, sia la dottrina dell'assoluta predestinazione divina. La Chiesa riformata ginevrina procedeva quindi all'elezione dei propri ministri, semplici commentatori della Parola divina, mentre d'altro canto il suo concistoro, formato da ministri e da fedeli, s'identificava con la guida della Repubblica cittadina, trasformata in una sorta di 'città-Chiesa'.
Anche la diffusione della dottrina calvinista fu rapida, soprattutto in Francia (dove si formò una forte minoranza riformata, particolarmente radicata nel meridione, nel mondo rurale e in alcune grandi coteries nobiliari) e nei Paesi Bassi settentrionali a maggioranza protestante, ma anche nell'Europa centro-orientale, in particolare in Ungheria e in Transilvania. Nella Boemia e nella Moravia, la tradizione ussita e taborita trovò nuovo alimento nelle dottrine riformate e fu parzialmente assorbita dalle nuove confessioni. Non si potrà insistere, in questa sede, nel ricordare gli altri esiti ancora più radicali della Riforma, considerati eretici dalle stesse confessioni protestanti, come l'anabattismo, l'antitrinitarismo o il socinianesimo.
Pure il Regno d'Inghilterra ‒ dopo un iniziale schieramento di lealtà con la Chiesa di Roma che valse al re Enrico VIII, futuro scismatico, il titolo di defensor fidei ‒ passò al protestantesimo, ma si trattò, almeno agli inizi, di una riforma delle istituzioni ecclesiastiche, poste alle dipendenze del sovrano e del potere politico, che non toccava i dogmi o le concezioni teologiche di origine cattolica. Nondimeno, anche in questo paese e ancor più nella vicina Scozia, si diffusero presto le dottrine calviniste, in opposizione alla Chiesa anglicana ufficiale, nonostante che questa, in molti suoi preti e fedeli, fosse incline ad accettare riti e dottrine di carattere decisamente riformato. Del resto, anche nei paesi rimasti cattolici, come l'Italia e la Spagna, le idee ispiratrici della Riforma ebbero una loro diffusione, certamente superiore a quanto si credeva in passato e, in qualche caso, influenzarono importanti personalità dell'alta gerarchia ecclesiastica. A quelle idee guardarono con particolare interesse quegli umanisti erasmiani e quei chierici o laici sinceramente desiderosi di un rinnovamento profondo, morale e spirituale, delle istituzioni ecclesiali, avversi alla loro eccessiva mondanizzazione, propensi a una politica di pacificazione e alla ricerca di un accordo con i protestanti. Tali tendenze ebbero anzi un notevole peso sulle proposte di riforma cattolica formulate nel corso degli anni Trenta e dettero sicuramente un forte impulso alla nascita di nuove forme di spiritualità cattolica e all'instaurazione di una più severa disciplina etica del clero e della vita religiosa.
Per il momento è opportuno sottolineare come le diverse dottrine riformate, nella loro lotta contro la tradizione cattolica e nei loro contrasti talvolta anche gravi, promossero una trasformazione profonda dei comportamenti etici e dello stesso modo di vivere di una vasta parte della popolazione europea e, in particolare, di quella che abitava i paesi maggiormente coinvolti nell'imponente mutamento dei traffici, delle loro vie e dello sviluppo finanziario e produttivo. La storiografia attuale ha posto in discussione la nota tesi di Max Weber e di Ernst Troeltsch che tendeva a identificare la diffusione dell'etica protestante, e soprattutto di quella calvinista, con le origini dello 'spirito capitalista', fornendo così una spiegazione dello sviluppo economico dei paesi dell'Europa centro-occidentale dove la Riforma si era particolarmente affermata. Resta, tuttavia, certo che le conseguenze economiche della Riforma furono di grande rilievo. Con la soppressione degli ordini religiosi e della grande proprietà ecclesiastica, fu trasformata l'economia rurale, ora gestita anche da ceti borghesi e mercantili e fu, dunque, messa in circolazione una cospicua quantità di beni fondiari.
Inoltre, lo stile di vita dei protestanti e delle loro comunità s'ispirò a un'etica della produzione, del lavoro e del risparmio non altrettanto diffusa nei paesi di osservanza cattolica. Si dovrà pure tenere conto del fatto che la Riforma si era diffusa soprattutto nelle terre che si affacciavano sull'Atlantico e che quindi erano favorite dallo spostamento delle vie di commercio di cui si è già detto. In ogni caso, nei paesi passati alla Riforma fu particolarmente curata l'estensione delle istituzioni scolastiche, spesso divenute obbligatorie. In particolare, in Germania il grande umanista Filippo Melantone (1497-1560) riformò e riordinò le università delle città protestanti, mutandone gli ordinamenti e i curricula, ma anche i metodi d'insegnamento e di formazione dei futuri intellettuali, e fornendo un modello presto imitato anche in accademie e studi protestanti.
Un altro evento assai importante per la storia culturale e religiosa dell'Europa del Cinquecento fu l'espulsione dai territori iberici degli Ebrei non convertiti al cristianesimo e la persecuzione dei conversos che si riteneva fossero tornati all'ebraismo (1492). Un numero notevole di finanzieri, grandi mercanti e intellettuali che spesso avevano avuto posizioni elevate nella società castigliana e aragonese trovarono un precario rifugio in altri paesi dell'Europa occidentale o nei territori dell'Impero ottomano. La loro cultura religiosa, filosofica e scientifica fornì un contributo, ancora non bene valutato dagli storici, ma certo molto rilevante, anche alla vita intellettuale delle società cristiane, mentre diversi profughi ebrei ebbero una loro parte rilevante nello sviluppo economico e mercantile del XVI secolo.
Una conseguenza drammatica della Riforma, che ebbe gran peso sulla storia europea del Cinquecento, fu la lunga stagione delle guerre di religione che divisero, per molto tempo, la Germania, la Francia, i Paesi Bassi e altri paesi minori, intrecciandosi, come si vedrà, con i conflitti egemonici delle due maggiori monarchie europee. Nell'Impero, la fase più aspra e cruenta durò per più di vent'anni, tra la formazione della Lega protestante di Smalcalda (1530), sotto la guida del langravio Filippo d'Assia, e la pace di Augusta, che sancì la convivenza tra le due confessioni (1555). In Francia, dove le dottrine luterane prima e quelle calviniste poi si erano diffuse rapidamente, soprattutto nel meridione ma anche nella Normandia e nel Poitou, la lotta tra le confessioni assunse ben presto uno spiccato carattere politico. Dopo la morte del re Enrico II (1559), il brevissimo regno di Francesco II (1559-1560) e il debole e incerto governo di Carlo IX (1560-1574) segnarono l'inizio della crisi della monarchia francese, costretta a tentare un difficile equilibrio tra cattolici e protestanti, dietro i quali operavano potenti fazioni nobiliari e in particolare le famiglie, entrambe imparentate ai Valois, dei Borbone protestanti e dei Guisa cattolici. Le vicende della drammatica guerra civile ‒ esplosa dopo il massacro di un gruppo di ugonotti a Vassy (1562), interrotta da brevi tentativi di pacificazione, ripresa con l'intervento aperto o celato della Spagna e dell'Inghilterra dopo il massacro di San Bartolomeo (1572), continuata sotto il regno di Enrico III (1574-1589) e terminata soltanto con l'ascesa al trono di Enrico IV di Borbone (1589), la sua entrata a Parigi nel 1594 e la concessione dell'Editto di Nantes (1598) che assicurava la libertà di culto ai protestanti ‒ sono così note che non occorre qui ricordarle, se non per sottolineare le conseguenze gravi e negative che ebbero sulla vita economica e civile della Francia.
Anche la storia della rivolta antispagnola dei Paesi Bassi non fu meno travagliata e ricca di profondi sconvolgimenti. La politica di forte oppressione politica e religiosa condotta da Filippo II provocò il generale malcontento di tutti i ceti sociali e, in particolare, di quelli borghesi e popolari maggiormente legati alla Riforma, anche nelle sue forme più radicali. Quando nel 1556 il re volle imporre pure nelle Fiandre il Tribunale dell'Inquisizione, il malcontento si trasformò in aperta rivolta.
La repressione fu durissima, ma neppure l'uccisione dei conti di Egmont e di Horn (1568) riuscì a spegnerla; anzi, Guglielmo I principe d'Orange sollevò contro la Spagna tutte le province settentrionali, dalla Zelanda all'Olanda, e fu in grado di affrontare spesso vittoriosamente le milizie del duca Fernando Álvarez de Toledo. Nel 1573 questi fu richiamato in Spagna; neppure i suoi successori furono però capaci di arginare l'insurrezione che si estese anche alle province meridionali, in maggioranza cattoliche (Unione di Gand, 1576). Questa alleanza ebbe breve durata, perché l'abile condotta militare e politica di Alessandro Farnese riuscì a riprendere il controllo delle province del Sud che, con la sottomissione di Arras (1579), tornarono sotto il dominio spagnolo. Tuttavia, le province settentrionali, raccolte nell'Unione di Utrecht, continuarono la guerra e si costituirono nella Repubblica delle Sette Provincie Unite, sotto la guida del principe Guglielmo d'Orange. Così, nonostante l'assassinio dell'Orange (1584) e la presa di Anversa da parte di Alessandro Farnese, il conflitto proseguì, grazie anche all'aiuto degli ugonotti francesi e soprattutto dell'Inghilterra, sino alla tregua di Anversa (1609) che, di fatto, segnò l'indipendenza delle Provincie Unite.
In ogni caso, nel corso di queste lunghe guerre si delineò una divisione ormai insuperabile tra i paesi dove predominava l'adesione alle varie dottrine riformate e quelli rimasti fedeli alla tradizione cattolico-romana; questa divisione contribuì, senza dubbio, ad accrescere la diversità tra le due culture, le mentalità e i modi di vita. Anche nell'Europa cattolica non si spensero tuttavia quelle esigenze riformatrici di cui si è già detto e che contribuirono alla formazione di nuove istituzioni regolari ‒ la Compagnia di Gesù, i teatini, i barnabiti e, più tardi, i filippini od oratoriani ‒, a rigorose riforme degli ordini preesistenti ‒ come quella operata tra i francescani, con la formazione del nuovo ordine dei cappuccini ‒, nonché alla nascita di varie congregazioni caritatevoli. A partire dagli anni Quaranta, fallita la politica di conciliazione del cardinale Gaspare Contarini, prevalse però la decisione di opporsi con estremo rigore alla crescente diffusione delle varie dottrine riformate. Così, la Controriforma si propose di restaurare l'autorità della Chiesa romana anche nei paesi passati alla Riforma e istituì strumenti repressivi efficaci, sostenuti da una predicazione antiprotestante sistematica e incalzante, nonché dalla formazione di scuole adeguate alle nuove condizioni storiche e preposte in particolare alla formazione e al controllo dottrinale dei ceti dominanti. Nacquero così l'Inquisizione romana, alla quale fu affidata la funzione giudiziaria e repressiva e, più tardi, la Congregazione dell'Indice, incaricata della discriminazione di qualsiasi tipo di stampa eterodossa o comunque considerata contraria alla fede e ai dogmi, mentre i nuovi ordini religiosi, in particolare i gesuiti e i teatini, divennero le istituzioni più attive e recettive del nuovo spirito della Controriforma, sia nel rigore disciplinare e dottrinale, sia nell'individuazione e nella persecuzione dell'eresia, sia nell'elaborazione di nuovi metodi apologetici e pedagogici. I gesuiti ebbero, inoltre, una parte importante nel sostenere l'azione missionaria nelle terre americane e in quelle dell'Estremo Oriente, peraltro già iniziata e perseguita dagli ordini mendicanti; infatti, soprattutto la loro Compagnia creò un sistema scolastico, diffuso in gran parte d'Europa, di cui è ben nota la particolare efficacia educativa e culturale, oltre all'alto livello intellettuale dei suoi maestri; questi ultimi, in particolare, elaborarono nell'Università di Coimbra una vasta e organica enciclopedia filosofica, fondata sulla tradizione 'peripatetica' della cultura scolastica.
A stabilire fermamente, e con una rigorosa determinazione dogmatica, i principî dell'ortodossia, a restituire dignità disciplinare, etica e intellettuale al clero e agli ordini religiosi, e soprattutto a riaffermare l'assoluta autorità del papa e della gerarchia ecclesiastica, provvide, infine, il Concilio di Trento (1545-1564), che dette alla Chiesa romana una struttura fortemente centralizzata, norme dogmatiche definite in modo assoluto e nuove istituzioni per la formazione del clero. Scomparvero così gli scandali che, in passato, avevano provocato la pressante richiesta di rigorose riforme della disciplina del clero e dei religiosi. Sacerdoti meglio educati e preparati sostituirono i preti poco colti che avevano abbassato il livello intellettuale ed etico della vita ecclesiale, mentre nelle scuole rinnovate si formavano uomini di Chiesa di alto valore morale e di grande rigore intellettuale. Ciò favorì il rinnovamento della filosofia e della teologia cattolica che, sotto il nome di 'Seconda Scolastica', si richiamò alla dottrina tomista, ma anche ad altri autori tardo-medievali, e produsse un imponente corpus teorico affidato a maestri soprattutto gesuiti e domenicani. Tra costoro sono da ricordare, in particolare, i domenicani dell'Università di Salamanca, Francesco de Vitoria, Diego de Soto, Melchor Cano e Domingo Báñez, e i gesuiti Luis de Molino, Roberto Bellarmino e Francesco Suárez, autori di opere che ebbero una straordinaria diffusione nei collegi e nelle università dei paesi rimasti cattolici, ma furono ben note anche ai pensatori protestanti. Per di più, i teorici del giusnaturalismo cattolico, come il de Vitoria ebbero una parte notevole nel dibattito giuridico del pieno e tardo Cinquento; gli interessi scientifici, coltivati in alcuni ordini e congregazioni, come quelli dei gesuiti, degli scolopi e degli oratoriani, contribuirono alla crescita di una forte vocazione 'investigante', particolarmente vivace verso la fine del secolo; l'erudizione e la nuova storiografia ecclesiastica educarono una nuova generazione di studiosi che rinnovarono la conoscenza delle tradizioni ecclesiali, in una costante competizione con gli storici protestanti.
Le guerre di religione furono, in un certo modo, anch'esse momenti particolari o episodi del grande conflitto per l'egemonia continentale durato per buona parte del secolo e di cui furono protagoniste le due maggiori monarchie europee, quella francese e quella degli Asburgo, detentrici già all'inizio del Cinquecento di amplissimi domini territoriali, sia in Europa sia nel continente americano. Com'è noto, già nel 1499 Luigi XII di Francia (1498-1515) tornò a rivendicare il Regno di Napoli e il Ducato di Milano, dopo essersi assicurato l'alleanza di Venezia e di papa Alessandro VI; il 6 ottobre, dopo una campagna di breve durata, il re entrò a Milano e l'8 aprile dell'anno successivo sconfisse definitivamente a Novara Ludovico il Moro, grazie anche all'aiuto di Venezia, compensata con la cessione di Cremona e della Ghiara d'Adda. Quindi negoziò con il re di Spagna, Ferdinando il Cattolico, la spartizione del Regno di Napoli, ma alla facile conquista di quello stato da parte delle due monarchie seguì subito il loro conflitto, terminato con la sconfitta francese e l'armistizio di Lione (1504). Luigi XII ottenne il Ducato di Milano, mentre iniziava il lungo dominio spagnolo sul Regno di Napoli.
La pace fu brevissima. Nel 1508 papa Giulio II reagì all'occupazione veneziana di Cervia e di Faenza, promuovendo la costituzione della Lega di Cambrai, alla quale aderirono il re di Spagna, l'imperatore Massimiliano d'Asburgo e alcuni piccoli stati italiani. L'invasione del Friuli veneziano da parte degli imperiali, che giunsero sino a Padova, e la dura sconfitta inflitta da Luigi XII all'esercito veneziano ad Agnadello (1509) posero subito fine alla guerra. Venezia dovette cedere i porti pugliesi alla Spagna, alcuni territori lombardi ai Francesi e restituire al pontefice le città romagnole occupate, anche se, continuando a combattere con Massimiliano, riuscì a scacciare gli imperiali dal Veneto (1510); la sconfitta, comunque, segnò la fine di ogni proposito veneziano di ulteriore espansione nella Valle Padana.
L'accresciuta potenza militare e territoriale della Francia provocò un rapido mutamento della politica di Giulio II, il quale nello stesso anno 1509 si alleò con i cantoni svizzeri e subito mosse contro Ferrara, il cui duca era stretto alleato del re francese, assediando e occupando la cittadella di Mirandola (1511). Luigi XII rispose non soltanto militarmente, bensì anche sollecitando e sostenendo il Concilio di Pisa (1511), convocato con lo scopo di deporre il papa; egli non poté però impedire la formazione di una Lega Santa (1511-1513) antifrancese, alla quale aderirono anche Venezia, Ferdinando il Cattolico e, più tardi, il re d'Inghilterra, Enrico VIII. Lo scontro decisivo ebbe luogo a Ravenna (1512), ove i Francesi vinsero le truppe spagnole e pontificie; tuttavia, la morte sul campo del loro condottiero, Gaston de Foix, le gravi perdite subite e la discesa in Italia delle milizie elvetiche costrinsero Luigi XII ad abbandonare il Ducato di Milano, dove rientrò Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro. Anche Genova sfuggì al dominio francese, mentre la Repubblica fiorentina, alleata tradizionale della Francia, tornò di fatto sotto il potere mediceo (1512).
La morte di Giulio II e l'elezione al soglio pontificio di Leone X, al secolo il cardinale Giovanni de' Medici, non pose ancora fine alla guerra che, anzi, si estese anche in territorio francese, attaccato dalle milizie inglesi a Guinegate (1513), mentre, in Italia, il passaggio di Venezia all'alleanza con il sovrano francese non impedì che quest'ultimo fosse sconfitto dalla lega nella battaglia di Novara (1513). Due anni dopo, il nuovo re di Francia, Francesco I (1494-1547), scendeva nuovamente in Italia; a Marignano batteva le milizie svizzere (1515) e costringeva Massimiliano ad abbandonare Milano. L'anno seguente, a Bologna, era siglata una nuova pace, altrettanto precaria; con l'assenso del giovanissimo Carlo I d'Asburgo, re di Spagna (1500-1558), il Ducato di Milano era restituito alla Francia, insieme alle città di Parma e Piacenza già occupate da Giulio II.
Questi sedici anni di guerra quasi continua e combattuta prevalentemente in Italia furono soltanto il prodromo dei conflitti che, per quasi un quarantennio, trasformarono gran parte d'Europa in un campo di battaglia. Carlo d'Asburgo, dopo la morte del padre Filippo (1506), aveva già ereditato, sotto la reggenza del nonno paterno, l'imperatore Massimiliano, il dominio dei ricchi Paesi Bassi borgognoni, di cui assunse il diretto governo nel 1519. L'anno successivo, alla morte del nonno materno, Ferdinando il Cattolico, divenne il sovrano non soltanto di tutta la Spagna ormai unificata, ma della Sardegna, della Sicilia, del Regno di Napoli e delle immense terre americane dove stava avanzando la conquista e la colonizzazione spagnola. Nel 1519, la scomparsa di Massimiliano lo rese erede dei territori ereditari della casa d'Austria e delle acquisizioni più recenti, l'Artois e la Franca Contea. Infine, la morte sul campo di battaglia di Mohács (1526) di Luigi II Jagellone, re di Ungheria e di Boemia, sconfitto da Solimano II, pose le premesse per il passaggio sotto il dominio asburgico anche di quei paesi minacciati o invasi dagli Ottomani.
Il potere del giovane sovrano era già immenso quando fu consacrato dalla sua elezione a imperatore del Sacro Romano Impero (Dieta di Francoforte, 1519), ottenuta contro l'opposta candidatura del re di Francia, Francesco I, anche grazie al cospicuo sostegno dei grandi banchieri tedeschi, in particolare dei Fugger. Si trattava, però, di un impero enorme tutt'altro che omogeneo, costituito da territori spesso separati e lontani, abitati da popoli profondamente diversi per lingua, tradizioni politiche, strutture sociali, capacità economiche, modi di vita, e presto profondamente divisi dai grandi conflitti religiosi del secolo. Vi erano inoltre alcuni gravissimi problemi da affrontare, sempre riemergenti, rappresentati dalla crescente pressione turca sulle terre dell'Europa centro-orientale, dal pericolo di rinnovate insurrezioni contadine o dai costi altissimi dell'apparato militare e amministrativo necessario al controllo di un così sterminato impero. Tuttavia, i domini di Carlo V d'Asburgo stringevano ora da ogni parte il Regno di Francia, il solo stato dell'Europa continentale che, agli inizi degli anni Venti, poteva tentare di contrastare l'instaurazione di una totale egemonia asburgica.
Francesco I, alleatosi con Venezia e con i cantoni svizzeri, iniziò nel 1521 la sua offensiva, attaccando nel Lussemburgo e nella Navarra spagnola. Le sue forze, però, furono respinte, mentre le truppe spagnole e pontificie occupavano subito il Ducato di Milano, restituito agli Sforza, nella persona di Francesco II, secondogenito di Ludovico il Moro. Nel 1522, fallito, con la battaglia della Bicocca, un nuovo tentativo francese, anche Genova tornò sotto il dominio milanese. Con l'elezione al soglio pontificio del suo antico precettore, il vescovo di Utrecht Adriaan Florensz (papa Adriano VI, 1522-1523), Carlo V poté contare, sia pure per breve tempo, sulla stabile alleanza dello Stato pontificio; anzi, la sua supremazia sembrò confermata, nel 1523, con il passaggio nel campo imperiale di un principe di sangue francese, Carlo di Borbone. Tuttavia, la guerra era lungi dal cessare. Nel 1525 Francesco I scese in Italia guidando personalmente un nuovo esercito, ma a Pavia fu duramente sconfitto e cadde prigioniero; a Madrid fu costretto a firmare un duro trattato di pace che lo obbligava a rinunciare a tutte le sue pretese territoriali in Italia e nelle Fiandre e a cedere la Borgogna (gennaio 1526).
Liberato dalla prigionia, dichiarò nullo il trattato e riuscì rapidamente a organizzare, lo stesso anno, la Lega di Cognac alla quale aderirono il re d'Inghilterra, papa Clemente VII (al secolo Giulio de' Medici, 1523-1534), Firenze, Venezia e il Ducato di Milano, uniti dal timore comune di una totale egemonia asburgica. La risposta imperiale fu immediata; un esercito di lanzichenecchi, in buona parte protestanti, sotto il comando di Georg von Frundsberg e poi del duca di Borbone, sconfisse a Borgoforte le milizie mercenarie papali di Giovanni dalle Bande Nere, per giungere quindi, il 6 maggio del 1527, a Roma, sottoposta a un terribile sacco, mentre il papa e i dignitari della curia si chiudevano in Castel Sant'Angelo. A Firenze furono subito scacciati i Medici; il duca di Ferrara, Alfonso I, rioccupò Parma e Piacenza, mentre Venezia approfittava di questa crisi per impadronirsi di Cervia e di Ravenna. L'anno successivo un altro esercito francese, comandato dal maresciallo Odet de Foix visconte di Lautrec, tentò di riconquistare il Regno di Napoli, giungendo ad assediarne la capitale, ma anche questa controffensiva fallì, mentre la flotta genovese, guidata da Andrea Doria, passava al servizio di Carlo V. Finalmente, dopo nove anni di guerra, si giunse alla pace, siglata dal trattato di Barcellona per quanto riguardava i rapporti tra Carlo V e il papa, e dalla pace di Cambrai stipulata invece con il re di Francia. Con il primo, Clemente VII otteneva la restituzione di tutti i territori persi durante la guerra e l'impegno a ristabilire a Firenze il dominio mediceo, nella persona di Alessandro, figlio di Lorenzo, duca d'Urbino; doveva però riconoscere all'imperatore l'investitura del Regno di Napoli, il libero passaggio dei suoi eserciti nelle terre dello Stato pontificio e la futura annessione del Ducato di Milano ai suoi diretti domini. Con la pace di Cambrai, Francesco I poté ottenere la liberazione dei figli, concessi come ostaggi per la pace di Madrid (1526) e mantenere la Borgogna, ma dietro la rinnovata rinunzia a tutti i suoi possessi e pretese in Italia. Il Congresso di Bologna (novembre 1529-febbraio 1530) sancì la supremazia di Carlo V, incoronato dal papa imperatore e re d'Italia, e divenuto di fatto signore di tutta la penisola, i cui stati, esclusa Venezia, erano ormai posti sotto la sua tutela. Anche Firenze, nonostante le gravissime difficoltà economiche che l'affliggevano, restava ancora libera e repubblicana, sotto la guida degli ultimi seguaci del Savonarola, decisi a difendere sino all'ultimo la florentina libertas ma, alla fine, dopo un'eroica resistenza, a causa anche del tradimento di Malatesta Baglioni, la città dovette arrendersi alle truppe imperiali, spagnole e pontificie (agosto 1530).
Nel 1532 Alessandro ottenne dall'imperatore il titolo di duca di Firenze e neppure il suo assassinio, nel 1537, per mano di un parente, consentì il ripristino delle antiche istituzioni repubblicane; il giovanissimo Cosimo de' Medici, con l'assenso dell'oligarchia patrizia e il sostegno di Carlo V, lo sostituì nell'esercizio del potere. Grazie alla sua indubbia abilità e duttilità politica, Cosimo riuscì a iniziare la costruzione di un nuovo stato accentrato, sottoposto alla diretta autorità del sovrano e sempre meno subordinato al controllo imperiale, aprendo così la lunga stagione del Principato toscano.
Carlo V poté ora finalmente dedicarsi al tentativo di fronteggiare e reprimere la vasta diffusione, in terra tedesca, della Riforma e all'impegno militare necessario per battere la lega dei prìncipi e delle città protestanti. S'è già detto come si aprisse, in Germania, una guerra di religione che ebbe varie fasi e momenti di relativa superiorità, sia per i protestanti sia per i cattolici, ma che, in ogni caso, costrinse l'imperatore a rinunciare al tentativo di totale restaurazione cattolica e a inaugurare una politica di relativa tolleranza. Neppure le parziali e limitate concessioni ai protestanti posero però fine alla guerra, nonostante la loro lega subisse una grave sconfitta a Mühlberg (1547).
Ancora più grave fu la minaccia dell'avanzata turca che premeva sui confini orientali dell'Impero e che, nel 1526, dopo la vittoria di Mohács, si era già impadronita di una vasta parte dell'Ungheria. D'altro canto, la morte di Luigi II Jagellone aveva aperto la successione al Regno di Boemia e di Ungheria, il cui candidato era lo stesso fratello di Carlo V, Ferdinando, re dei Romani e già sovrano dei territori ereditari degli Asburgo; egli divenne nel 1526 re di Boemia, ma non gli fu facile ottenere anche la corona ungherese, contestatagli dal voivoda di Transilvania, Giovanni Zapolyai, che, battuto a Tokaj nel 1527, si alleò con i Turchi, dichiarandosi vassallo del sultano ottomano; ciò permise alle loro forze unite di varcare il Danubio e di avvicinarsi addirittura a Vienna.
Il pericolo di questa invasione fu alla fine sventato. Ferdinando poté occupare una piccola parte dell'Ungheria, mentre l'altra restava ormai sotto il dominio diretto o indiretto degli Ottomani. Gli Asburgo si trovarono così impegnati a fronteggiare direttamente la potenza militare turca, divenuta ormai dominante nelle terre balcaniche e sostenuta da una grande flotta che, dopo la presa di Rodi (1522), poteva controllare le rotte del Mediterraneo orientale e minacciare, con le sue scorrerie, le coste italiane meridionali nonché quelle della Sicilia e della Sardegna. Si può ben comprendere perché, nel 1535, Francesco I cercasse l'alleanza del sultano turco Solimano il Magnifico, proprio mentre si accingeva a rinnovare la guerra.
Il pretesto del conflitto fu la morte di Francesco II Sforza, duca di Milano, e la conseguente annessione del Ducato di Milano ai domini asburgici. L'alleanza che si opponeva a Carlo V, sostenuto dal nuovo papa, Paolo III (al secolo Alessandro Farnese, 1534-1549), e da Venezia, comprendeva, oltre alla Francia, l'Inghilterra ‒ che era ormai in insanabile conflitto con la Chiesa romana e con l'imperatore ‒ e la Turchia. Francesco I nel 1536 riuscì a installarsi stabilmente nel Ducato di Savoia, ma si trovò a fronteggiare lo sbarco di forze imperiali sulle coste della Provenza. Questa situazione di stallo, protrattasi nel tempo, e l'aggravarsi della minaccia turca favorirono la politica di pacificazione del papa; nel 1538, la tregua di Nizza impegnava Carlo V e Francesco I a sospendere il conflitto per la durata di dieci anni, ma già nel 1542, approfittando del fallimento del tentativo di accordo tra i protestanti e i cattolici e della distruzione, a causa di una tempesta, della flotta spagnola-genovese che muoveva contro Algeri, Francesco I fece assediare Nizza da forze congiunte francesi e turche. La guerra riprese subito; presto la rottura dell'alleanza con Enrico VIII d'Inghilterra pose in gravi difficoltà il sovrano francese, costretto a far fronte all'invasione della Francia nordorientale. Anche Carlo V doveva affrontare la guerra ormai aperta con la Lega protestante; così, nel 1544, la pace di Crépy confermò nuovamente l'occupazione francese del Piemonte e l'attribuzione del Ducato di Milano all'imperatore.
Francesco I morì tre anni dopo. Il suo successore, Enrico II (1547-1559), attese ancora qualche tempo prima di riprendere la guerra; questa volta il teatro principale non fu l'Italia ma la Germania, dove era sempre aperto il conflitto tra l'imperatore e la Lega protestante. Nel 1552 Enrico II occupò i tre Principati vescovili di Metz, Toul e Verdun, appartenenti all'Impero. La guerra si estese subito anche all'Italia, dove truppe francesi sostennero in Corsica la rivolta contro il dominio genovese, guidata da Sampiero da Bastelica e, sotto il comando di Piero Strozzi, cacciarono da Siena la guarnigione spagnola che l'occupava. Cosimo I, con l'appoggio delle truppe spagnole, eliminò presto la disperata resistenza di Siena (1555) e poi quella, più duratura, degli esuli senesi, rifugiati nella rocca di Montalcino (1559). Carlo V non ottenne invece alcun successo decisivo in Germania; ancora una volta la tregua di Vaucelles (1556) confermò la situazione militare e politica preesistente.
Gli anni tra il 1555 e il 1556 segnarono, però, una svolta decisiva. Nel 1555, Carlo V, con la pace di Augusta, pose fine alla guerra con i protestanti, accettando che, negli stati governati da prìncipi passati alla Riforma, le relative confessioni protestanti fossero riconosciute e liberamente professate, secondo la formula cuius regio eius religio. Fu così risolto uno dei più gravi problemi che aveva a lungo indebolito la supremazia europea degli Asburgo. Subito dopo, però, l'imperatore abdicò a tutte le sovranità che si erano accumulate sulla sua persona, prima di ritirarsi nel monastero di San Yuste in Estremadura (1556), dove morì nel 1558. I suoi immensi domini furono così spartiti tra il figlio, Filippo II (1527-1598), e il fratello Ferdinando I (1503-1564). A Filippo furono attribuiti la Spagna con i territori americani e oceanici, i Paesi Bassi con l'Artois e la Franca Contea, il Ducato di Milano, il Regno di Napoli, la Sicilia e la Sardegna. Ferdinando, eletto imperatore del Sacro Romano Impero, ottenne invece i territori ereditari, oltre al Regno di Boemia e a quello, poco più che nominale, d'Ungheria.
La suddivisione dei domini asburgici era l'implicito riconoscimento dell'impossibilità di governare un simile coacervo disorganico di paesi e di popoli, e, almeno nell'immediato, non indebolì la stretta alleanza instauratasi tra la Spagna e l'Impero. Anzi, Filippo II, dopo lo sposalizio (1554) con Maria I Tudor, regina cattolica d'Inghilterra (1516-1558) successa al breve regno dell'adolescente Edoardo VI, poteva minacciare direttamente la Francia dalla 'testa di ponte' di Calais ancora in mano inglese.
Enrico II di Francia poteva, invece, contare, questa volta, sull'appoggio di papa Paolo IV (1555-1559) che, sebbene impegnato con estrema durezza nella lotta contro i protestanti, era un acceso nemico della Spagna. Riprese così di nuovo la guerra. In Italia, le truppe spagnole invasero senza difficoltà lo Stato pontificio; nell'agosto del 1557, a San Quintino, nell'Artois, i Francesi furono duramente sconfitti. L'unico vantaggio di Enrico II fu, l'anno successivo, la conquista di Calais, che eliminò l'ultima presenza inglese in Francia. Nel 1559, la pace di Cateau-Cambrésis chiuse definitivamente l'età delle 'guerre horrende'. In Italia, la Francia dovette restituire il suo ducato a Emanuele Filiberto di Savoia, limitando i suoi possessi d'oltralpe al Marchesato di Saluzzo; Cosimo I unì al suo stato la Repubblica di Siena, con la sola esclusione di alcuni porti tirrenici, che costituirono lo Stato dei Presidî direttamente governato dalla Spagna. L'assoluto predominio spagnolo sulla penisola era così confermato. Enrico II, otteneva, oltre a Calais, anche i tre vescovati di Metz, Toul e Verdun.
La lunga guerra per il predominio europeo era durata, nel complesso, quasi sessant'anni; aveva provocato sofferenze terribili alle popolazioni, soprattutto italiane, delle terre dove si era combattuto, messo a dura prova le finanze dei principali stati coinvolti nella lotta e provocato un generale impoverimento; tuttavia, aveva anche accresciuto la potenza economica e politica dei grandi banchieri, genovesi e tedeschi, che avevano finanziato l'impegno militare degli Asburgo. Né gli anni che seguirono furono molto tranquilli. Certamente, la monarchia francese, sempre più coinvolta nelle vicende delle guerre di religione, non ebbe la forza e la possibilità di riaprire il conflitto, ma la morte di Maria d'Inghilterra e l'ascesa al trono di Elisabetta I Tudor nel 1558, non soltanto privarono Filippo II della corona inglese e impedirono che proseguisse la violenta restaurazione cattolica, ma posero anche le premesse di una nuova rivalità, quella tra la Spagna e l'Inghilterra, che aveva come ultima posta in gioco il predominio navale nell'Atlantico e l'ulteriore espansione dei relativi possedimenti nell'America Settentrionale, dove si stavano estendendo anche i territori in mano francese.
Il maggiore e più immediato pericolo per la monarchia spagnola era però costituito dalla crescente pressione turca verso il Mediterraneo centrale, che minacciava ormai la Sicilia e, con le scorrerie dei pirati barbareschi, rendeva insicure le coste spagnole e italiane. Filippo II cercò dapprima di attaccare direttamente i regni barbareschi, sbarcando nel Marocco e stabilendo i presidios di Ceuta, Melilla e Tetuan. Il tentativo fallì, mentre i Turchi riprendevano l'avanzata, mirando alla conquista di Malta, salvata grazie alla resistenza dei Cavalieri di San Giovanni (1565), e di Cipro, che invece fu sottratta a Venezia nel 1570. Si formò così, nel 1571, una lega che unì alla Spagna e a Venezia gli stati impegnati a sostenere il massimo peso della guerra, ossia lo Stato pontificio, la Repubblica genovese, la Toscana e il Ducato di Savoia. Il 7 ottobre dello stesso anno, le loro flotte riunite distrussero, a Lepanto, quella turca, e posero fine, per sempre, alla sua supremazia navale. L'Impero ottomano continuò, tuttavia, ancora a far pesare la minaccia dell'invasione sui paesi dell'Europa centro-orientale, alla cui difesa avrebbero dovuto a lungo provvedere i successori di Ferdinando I.
Filippo II, impegnato nell'appoggio al tentativo di restaurazione cattolica della Controriforma, e in una politica di ulteriore espansione territoriale, ottenne un indubbio successo quando nel 1580 riuscì a farsi accettare come re del Portogallo, dove si era estinta la linea di successione legittima della monarchia. Non riuscì invece ‒ come s'è visto ‒ a eliminare la ribellione politica e religiosa dei Paesi Bassi e a impedire, con il suo intervento diretto, che Enrico IV di Borbone fosse infine riconosciuto re di Francia. La sconfitta a Ivry (1590) dell'esercito spagnolo e di quello della Lega cattolica, pose fine, di fatto, alle guerre di religione che avevano stremato la Francia. Ancora più grave e, in un certo senso, definitivo, fu il drammatico fallimento del tentativo d'invadere per mare l'Inghilterra, conclusosi con la sostanziale distruzione dell'Invencible Armada (1588); questo avvenimento costituì l'inizio dell'inarrestabile decadenza dell'Impero spagnolo, impoverito da un secolo di guerre quasi continue, dal costo intollerabile dell'apparato militare e amministrativo necessario per controllare i tanti e così diversi possessi e da un'errata politica economica e finanziaria. Già alla fine del secolo e poi, sempre più, nel corso dei primi decenni del Seicento, i maggiori protagonisti di una storia che non era più soltanto europea, ma già di misura mondiale, sarebbero stati appunto i suoi avversari tradizionali: la monarchia francese, ormai saldamente ristabilita nel suo potere assoluto, il regno inglese, forte della sua supremazia navale oceanica, e i Paesi Bassi, al centro delle nuove vie di commercio e dei grandi mercati atlantici. Non occorrerà davvero ricordare che questi paesi furono anche le sedi privilegiate della grande 'rivoluzione scientifica' del Seicento.
Soprattutto l'Inghilterra, durante il regno di Elisabetta I e dopo la vittoria sulla Spagna, ebbe un impetuoso sviluppo economico che favorì la sua espansione e la colonizzazione nelle terre americane e la formazione di potenti organizzazioni mercantili, come la Compagnia delle Indie Orientali; l'Irlanda cattolica dovette cedere alla sua supremazia e restare sotto la corona dei Tudor. Alle vittorie militari e all'incremento della potenza finanziaria e mercantile dell'Inghilterra corrispose un eccezionale progresso della vita intellettuale, scientifica, letteraria e artistica, connesso anche alla notevole influenza delle tradizioni dell'Umanesimo italiano e alla presenza di grandi personalità, come Edmund Spenser, Christopher Marlowe, William Shakespeare e Francis Bacon. Nei decenni tra la fine del Cinquecento e gli inizi del nuovo secolo l'Inghilterra elisabettiana fu il paese europeo dove si delinearono con maggiore evidenza alcuni dei caratteri fondamentali della incipiente civiltà 'moderna'.
Nei due sec. XV e XVI, di cui si è cercato di delineare i caratteri e gli eventi storici essenziali, si svolse la storia delle idee e delle attività scientifiche e tecnologiche che sarà studiata nei capitoli che seguono. Si trattò, senza dubbio, di una vicenda intellettuale assai complessa e non sempre facile da interpretare, anche perché fu condizionata, in modo diretto o indiretto, dalle drammatiche vicende di un'età di transizione destinata a mutare in modo irreversibile tutte le forme culturali e gli assetti istituzionali e politici dell'Europa tardo-medievale e a subire gli influssi di una trasformazione generale del sapere e di un mutamento radicale del modo di concepire non soltanto l'immagine e la configurazione della nostra Terra ma, addirittura, l'ordine e la dimensione infinita dell'Universo.
Ciò spiega perché intorno alla scienza del Rinascimento sia ancora aperta una lunga discussione volta a stabilire, in modo preliminare, se ai suoi maggiori rappresentanti possa davvero competere la qualifica di scienziati o se la loro 'filosofia' generale, i loro metodi e i modi di pensare e d'interpretare i fenomeni naturali non appartengano piuttosto a una fase storica precedente ed estranea alla grande rivoluzione o 'frattura epistemologica' (un concetto anche questo usato, troppo spesso, senza la dovuta cautela) che, già nei primi decenni del Seicento, diede origine al nuovo sapere.
Non pochi studiosi di storia della scienza hanno, infatti, espresso la loro convinzione che, nonostante i progressi tecnologici già ricordati e la formazione di nuovi tipi di attività intellettuale legata alla pratica operativa dell'ingegneria, dell'architettura o delle arti metallurgiche e meccaniche, non si possa realmente parlare dell'effettiva maturazione scientifica di una cultura ancora lontana dal rigore sistematico della ricerca fisico-matematica moderna. Anche la discussione sulla methodus, che attraversò gran parte del Cinquecento, è apparsa troppo dominata da una supposta vocazione 'retorica' della tradizione umanistica (che sarebbe del tutto evidente nelle dottrine ramiste) e da un eccessivo pragmatismo di origine pedagogica. Con un giudizio ancora più severo, si è insistito sulla vistosa presenza di concezioni esoteriche, di suggestioni magiche, di credenze astrologiche e di 'illusioni' alchemiche che, anche in personalità di grande rilievo come Gerolamo Cardano, Paracelso o John Dee, si mescolano continuamente a ricerche di cui non si può contestare la particolare validità, specie nell'ambito delle discipline matematiche o della prassi operativa. Per non dire poi della continua ingerenza di preoccupazioni religiose o di remore teologiche imposte dalle diverse confessioni che, soprattutto nei paesi della Controriforma ma non solamente in quelli, prepararono l'estrema crisi segnata dal 'caso Galilei'. Altre obiezioni sono state rivolte anche al procedimento, spesso fortunoso e disorganico, di un'indagine naturalistica di carattere ancora prevalentemente descrittivo ed enumerativo, volta piuttosto alla ricerca del raro, dell'eccezionale e, addirittura, del mostruoso, con un andamento enciclopedico e classificatorio, ingombrante e infruttuoso; non è poi mancato chi, guardando soprattutto al carattere delle numerose opere di filosofia naturale, di tradizione aristotelica, platonica e neoplatonica, ha denunciato il loro carattere libresco, incapace di una diretta considerazione della Natura e risolto in un vano esercizio di erudizione, che spesso gravò anche sulle ricerche dei primi sperimentatori. Infine ‒ e non è certo questa la minore contestazione ‒ si è molto insistito sui limiti della polemica antiaristotelica e antiscolastica che attraversa gran parte del Quattrocento e del Cinquecento, certamente utile per l'eliminazione di taluni idola universitari ormai superati, ma superficiale e generica e, soprattutto, incapace di fornire nuovi modelli scientifici davvero validi. Anzi, per taluni storici, questa polemica sarebbe stata piuttosto negativa che positiva, perché avrebbe interrotto gli importanti sviluppi del sapere tardo-medievale nella direzione del formalismo logico e di una scienza quantitativa dei processi di moto e di trasformazione naturale. Insomma, la cultura scientifica dei secoli rinascimentali, oltre a essere sostanzialmente estranea alla disciplina e al rigore mentale della 'vera' scienza, sarebbe soltanto una sorta di oscura preistoria dai contorni incerti e confusi, prima che un salto qualitativo decisivo instaurasse l'effettivo corso storico della scienza, con i suoi cambiamenti, le sue crisi e il continuo mutare dei paradigmi, ma sempre nell'ambito di una razionalità universalmente riconosciuta.
La risposta a queste obiezioni deve essere proposta con molta misura e coscienza critica. Innanzi tutto si dovrà osservare che lo stesso concetto di 'scienza' ha un valore semantico non chiaro e non ben definito, che è mutato e muta, a seconda delle culture, delle società e delle tradizioni; esso quindi non può essere esclusivamente commisurato secondo i canoni e le prospettive metodologiche della scienza moderna che, del resto, ha cambiato così spesso i propri paradigmi e ha subito profonde rivoluzioni, tali da mutarne, di tempo in tempo, non pochi principî e criteri fondamentali. A ciò si aggiunga che, per lo storico, è buona norma studiare le mentalità e le forme di pensiero del passato, evitando il più possibile di sovrapporre a esse le proprie attuali convinzioni o conoscenze, proponendosi di ricostruire il loro sviluppo quale fu realmente e nelle sue specifiche conseguenze, senza formulare giudizi fondati sulla loro presunta maggiore o minore corrispondenza con i paradigmi scientifici oggi comunemente accettati. Ciò significa che chi studia la cultura di questi secoli non può certo evitare di considerare come 'scienze' allora ritenute tali da un buon numero di dotti sia la dottrina degli occulti influssi astrologici, con le credenze magiche e operative che ne seguivano, sia i procedimenti teorici e pratici dell'alchimia sia, ancora, i metodi e i concetti delle discipline mediche del tutto estranei a quelli attuali. Per le stesse ragioni dovrà accuratamente ripercorrere le molte discussioni e le polemiche che simili concezioni sollevavano non soltanto da parte di teologi e di uomini di chiesa delle diverse confessioni, preoccupati delle loro conseguenze nei confronti dell'ortodossia cristiana, ma anche da parte di filosofi e di scienziati che ne contestavano i fondamenti teorici, con argomentazioni di carattere matematico o metodologico.
D'altro canto, non v'è forse concetto storiografico più pericoloso e fuorviante di quello di 'precorrimento' che ha contribuito spessissimo a proporre letture completamente anacronistiche di testi e di documenti e a favorire impressionanti deformazioni di giudizi formulati sul fragile fondamento d'influenze presupposte e non accertate o, addirittura, di affinità apparenti e non verificate. Sicché si dovrà sempre diffidare delle traduzioni in linguaggi e in termini moderni di idee e di vocaboli che non possono essere sottratti al loro naturale contesto senza compiere una temibile falsificazione. Proprio per questo, sarà bene essere estremamente cauti nel sopravvalutare taluni problemi e risultati della tarda scienza scolastica, ancora lontana dal possedere lo strumentario matematico sempre più raffinato, reso possibile proprio dal rinnovato rapporto diretto con i testi capitali dell'età classica. Gli studi che, nel corso degli ultimi decenni, sono stati dedicati alla storia delle discipline matematiche tra Quattrocento e Cinquecento hanno, infatti, ben dimostrato che per questa via maturarono i più importanti sviluppi di quelle discipline, dai quali mosse il loro risolutivo rinnovamento nel corso del Seicento.
Simili considerazioni possono aiutare a comprendere perché la scienza dei due secoli rinascimentali debba essere considerata solamente nei suoi caratteri e modelli effettivi, riferendola sempre alla cultura che la nutrì, alle istituzioni e ai modi d'insegnamento che la trasmisero, all'influenza, senza dubbio assai forte, delle dottrine filosofiche e teologiche, all'incidenza dei nuovi metodi filologici nella lettura degli auctores, all'accrescimento delle conoscenze e delle esperienze di ogni genere, al ruolo che competeva agli 'uomini di scienza' nella società del tempo e, infine e soprattutto, alle crisi e ai mutamenti di ogni genere che, proprio durante questi due secoli, iniziarono una trasformazione vasta e profonda del modo di concepire e rappresentare la Natura.
Certamente, taluni aspetti di questa scienza possono prestarsi ‒ come del resto si prestavano anche allora ‒ alle facili ironie, agli sbrigativi giudizi liquidatori, e alla condanna che li respinge nei gironi infernali delle nostre attuali pseudoscienze, o li identifica con le molte avventurose falsità e inganni di cui è così popolata la storia della scienza. Quelle scienze umane che si dedicano allo studio delle 'civiltà diverse', presenti o passate, ci hanno però insegnato a considerare, con il rispetto che merita ogni fenomeno storico, ogni mentalità o immaginario umano, e quindi anche credenze, immagini del mondo, tentativi operativi, rituali magici prima considerati mere superstizioni o illusioni e, come tali, ritenuti degni di essere esposti soltanto tra le assurdità irrazionali. Né credo che idee condivise, talvolta, anche da personalità che hanno lasciato una loro profonda traccia nella storia della civiltà occidentale non meritino di essere ricordate e ricostruite attentamente, quando si voglia comprendere come gli uomini della prima Età moderna abbiano pensato il mondo in cui vissero, le sue leggi e gli strumenti con i quali intendevano trasformarlo. Oltre tutto, un esame particolare e concreto delle opere di quei filosofi, medici, astronomi e matematici, curiosi indagatori della Natura, alchimisti pratici che operarono nei secoli rinascimentali, rivela come spesso molti di loro ebbero in comune una profonda avversione per la scienza libresca del passato, una forte attrazione per la conoscenza diretta dei fenomeni naturali, una rivalutazione della 'sensibilità' e dei suoi strumenti percettivi nei confronti della ripetizione dogmatica delle auctoritates, nonché la consapevolezza di partecipare a un rinnovamento decisivo del sapere, inteso a leggere nella Natura stessa le sue leggi e ad attribuire all'uomo un più compiuto dominio del suo mondo.
Proprio in questi secoli non soltanto si dissolse un'imago mundi ben più che millenaria, ma iniziò quel processo verso l'infinità che, ancora oggi, è al centro delle più diverse analisi filosofiche, cosmologiche e matematiche.
Sono queste le ragioni che inducono a considerare i secoli rinascimentali come il tempo di una difficile, estremamente complessa e spesso addirittura drammatica nascita della modernità che, avvenuta in un tempo di grandi conflitti di ogni genere, ha mutato completamente il modo di pensare e di vivere delle società europee. Sono le stesse ragioni che rendono indispensabile per la nostra conoscenza anche la comprensione di come gli uomini di quell'età concepirono la scienza e, con essa, il proprio rapporto con l'universo naturale e mentale in cui vivevano. Altrimenti, anche la scienza attuale, separata dal suo passato o, addirittura, dalla memoria storica umana, rischierebbe di diventare una mera tecnica operativa, come la pensano e la descrivono i suoi non pochi nemici, incapaci di comprendere che questa straordinaria creazione umana è stata, sempre e soprattutto, un'inesausta volontà di sapere, operante nei tempi lunghi della storia, tra errori e verità sempre parziali e sempre perfettibili, ma con il proposito di non porre mai fine alla sua ricerca.
Huizinga 1919: Huizinga, Johan, Herfsttij der Middeleeuwen. Studie over Levens- en Gedachtenvormen der veertiende en vijtiende eeuw in Frankrijk en de Nederlanden, Haarlem, Willink, 1919 (trad. it.: L'autunno del Medioevo, Firenze, Sansoni, 1966).
I Propilei. Grande storia universale Mondadori, a cura di Golo Mann, Alfred Heuss, August Nitschke, Milano, Mondadori, 1966-1970, 11 v.; v. VI: Il Rinascimento. Le grandi civiltà extraeuropee, a cura di Golo Mann e August Nitschke, 1968; v. VII: Dalla Riforma all'Illuminismo, a cura di Golo Mann e August Nitschke, 1968 (ed. orig.: Propyläen Weltgeschichte. Eine Universalgeschichte, Berlin, Propyläen Verlag, 1960-1965, 11 v.).
Rabil 1988: Renaissance humanism. Foundations, forms, and legacy, edited by Albert Rabil jr., Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1988, 3 v.; v. I: Humanism in Italy.
Tenenti 1980: Tenenti, Alberto, La formazione del mondo moderno, XIV-XVII secolo, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 11-329.