Il Rinascimento. Il ritorno della scienza antica
Il ritorno della scienza antica
Per comprendere la svolta fondamentale che la nostra cultura, anche scientifica, attraversò in età umanistica, è necessario partire da Francesco Petrarca. Questi, per intelligenza e sensibilità, fu il primo a prendere coscienza della crisi attraversata dalla cultura del suo tempo, non limitandosi a una critica distruttiva ma, al contrario, additando con una preveggenza che non può non lasciare ammirati e stupiti le strade che l'Umanesimo, nelle sue personalità più rappresentative, avrebbe dovuto percorrere e di fatto percorse.
Ne è testimonianza principale il De sui ipsius et multorum ignorantia, opuscolo nato da un episodio assai noto che conviene richiamare. Nel 1366, a Venezia, il Petrarca era stato definito da quattro giovani 'averroisti' una persona dabbene ma ignorante. Egli vedeva la probabile 'fonte' di questo giudizio in un suo atteggiamento critico che non era stato gradito dai quattro. Questi erano soliti proporre "o un problema aristotelico o qualche quesito di zoologia" e il Petrarca era talvolta intervenuto chiedendo come facesse Aristotele a sapere qualcosa "di cui non esiste conoscenza razionale e non è possibile una conferma sperimentale". Lo avevano guardato allora come se avesse bestemmiato, facendo ben capire che per loro era rinata la ridicola consuetudine dell'ipse dixit pitagorico, cioè l'accettazione acritica della lezione del maestro. Petrarca ben sapeva che Aristotele era un grande filosofo, che tuttavia era soltanto un uomo e quindi alcune cose poteva anche ignorarle. Nel definire la sua posizione il Petrarca, richiamandosi a Orazio (Epistolae, 1, 1, 14), si dichiarava invece nullius addictus iurare in verba magistri (non obbligato […] a giurare sulle parole di alcun maestro), libero di scegliere e giudicare, senza dover dare ragione a questa o quella 'autorità' (De sui ipsius et multorum ignorantia, ed. Fenzi, pp. 216, 262, 265).
Il rifiuto dell'auctoritas ritorna in un'altra polemica, che il Petrarca ebbe con Giovanni Dondi dell'Orologio (1330 ca.-1388), medico, astrologo, cultore di studi classici e professore allo Studio di Padova e di Pavia. Al Dondi pareva ovvio che in campo medico si facesse riferimento a quanto scritto da Ippocrate e dagli altri grandi di questa disciplina, così come per l'eloquenza latina ci si appellerebbe a Cicerone, per la poesia greca a Omero, per la storia romana a Livio, per la fisica e la dialettica ad Aristotele, per la geometria ad Archimede o Euclide, per l'astrologia a Tolomeo. Altrimenti, s'interrogava il Dondi, "quale valore avrebbe avuto la prova argomentativa fondata sull'autorità?"; così pure, avrebbe perso valore la massima secondo la quale "bisogna prestare fede a chi è esperto nella propria arte" (Kristeller 1985, p. 236).
Nel De sui ipsius et multorum ignorantia, come nella polemica col Dondi, per limitarci a questi due soli esempi, Petrarca non accetta che siano divinizzate le autorità, che ci si privi della possibilità di giudicare in maniera autonoma. Dal suo punto di vista sarebbe stato un sacrilegio ‒ in campo medico come in quello filosofico ‒ prestare fede in tutto e per tutto a un uomo; una convinzione dichiarata con forza dal Petrarca in una sua epistola: "Perché mi domandi, o amico, s'io osi per amore tuo contraddire Aristotele? Può questo a molti sembrare un sacrilegio, ma è forse maggior sacrilegio volerlo seguire con ostinazione (pertinaciter) in tutto" (Familiares, 20, 14, 9, in: Opere, p. 1084).
È questo il fondamento della critica al Dondi, come pure della risposta ai quattro averroisti; l'uno e gli altri avevano voluto fare dei loro 'autori', fossero essi Aristotele o Averroè, Galeno o Ippocrate, delle divinità intoccabili, mentre erano soltanto uomini, seppure di eccezionale valore.
Il verso oraziano delle Epistole, richiamato nel De sui ipsius et multorum ignorantia, costituisce per il Petrarca norma di comportamento nei confronti della tradizione. Un verso che egli ebbe caro sin da fanciullo, come confessa in un'altra lettera, dichiarando di dare la palma, per l'utilità arrecata alla Chiesa, ad Agostino piuttosto che a Girolamo: "ma non con ostinazione (pertinaciter), non essendo io tanto schiavo né d'un'opinione, né d'una setta, né d'un uomo, da non poter cambiare parere dopo aver conosciuto la verità. Questo ho imparato da Cicerone, questo da sant'Agostino, il quale a sua volta non nega d'averlo imparato da Cicerone; e da fanciullo non avevo io stesso imparato da Orazio a 'non giurare sulla parola di alcun maestro'?" (Familiares, 4, 16, 5, in: Opere, pp. 425-426).
Dietro Orazio, come indica questa epistola, bisogna quindi vedere altri due autori particolarmente cari al Petrarca, Agostino e Cicerone, il Cicerone degli Academica, un 'Cicerone scettico' che il giovane Petrarca aveva letto con particolare attenzione, anche se almeno in parte a causa di un equivoco. Nella lista dei suoi libri peculiares, che egli vergò sull'attuale ms. lat. 2201 della Bibliothèque Nationale di Parigi verosimilmente nel 1333, figura infatti l'Hortensius, un dialogo di Cicerone andato perduto, noto anche col titolo De laude ac defensione philosophiae. Così è intitolato, in un celebre codice ciceroniano appartenuto al Petrarca, il ms. 552 della Bibliothèque Municipale di Troyes, uno dei due libri degli Academica, il Lucullus (altrimenti noto come Academica priora); per un certo tempo l'umanista pensò che si trattasse dell'Hortensius letto da Agostino.
Il Petrarca ricercava quindi negli Academica quel testo, l'Hortensius appunto, che aveva provocato una svolta fondamentale nella vita di sant'Agostino, convertendolo alla filosofia. Anche se l'equivoco fu poi dissolto, l'attenta lettura degli Academica fornì al Petrarca, assieme ad altri spunti, l'interpretazione filosofica del verso oraziano; vi trovava la critica contro quanti s'attaccavano all'autorità del singolo e non ricercavano piuttosto senza ostinazione (sine pertinacia) quale fosse la dottrina più consolidata (Academica, 2, 9). Una posizione, questa, che il Petrarca vedeva abbracciata sia da Cicerone sia dallo stesso Agostino, che nelle Confessioni aveva scritto a proposito dell'Hortensius, favorendo così l'equivoco in cui egli era caduto, che le esortazioni contenute in quel libro lo avevano indirizzato non a questa o quella setta filosofica ma a ricercare, ad amare e a possedere la sapienza per sé stessa, qualunque essa fosse (Confessiones, 3, 4).
La posizione petrarchesca nei confronti della tradizione, dell'auctoritas, questa sua impostazione 'scettica', non restò isolata nell'Umanesimo. Basti rammentare quanto Leonardo Bruni (1370-1444) fa dire a Niccolò Niccoli (1365 ca.-1437) in un passo giustamente famoso dei suoi Dialogi ad Petrum Paulum Histrum sulla degenerazione in cui versavano le arti e le dottrine, rimpiangendo in campo filosofico la scomparsa degli scritti ciceroniani che riportavano le dispute tra le varie scuole filosofiche dell'Antichità (verosimilmente, un riferimento ai libri degli Academica a noi non pervenuti e all'Hortensius); una perdita che tanto più doleva, visto il dogmatismo acritico degli aristotelici dell'epoca, che s'affidavano esclusivamente, seguendo la maniera pitagorica dell'ipse dixit, all'autorità del 'loro Aristotele'. Per non dire di Lorenzo Valla che, nel proemio alla Retractatio totius dialectice cum fundamentis universe philosophie, dichiara espressamente, sempre contro il dogmatismo aristotelico, che i filosofi hanno sempre avuto la libertà di dire con forza ciò che pensavano, né soltanto contro i princìpi delle altre scuole, ma anche contro i capi della propria, e che tanto più questa libertà l'avevano dimostrata coloro che non si erano asserviti ad alcuna setta. Lo stesso Valla nella lettera a Giovanni Serra del 13 agosto 1440, in cui si difende dall'accusa mossagli da alcuni di aver voluto attaccare e rovesciare tutte le auctoritates, rivendica il diritto a criticare i pensatori del passato, ricordando come tra tutti soltanto il barbaro Averroè non avesse mosso alcuna osservazione al suo maestro. Se a Teofrasto era parso lecito dissentire in più di una occasione da Aristotele, tanto più sarà permesso a lui, che a differenza degli sciocchi aristotelici del suo tempo non s'era asservito a nessuna setta; e proprio Valla dichiara di aver seguito il costume degli accademici, non criticando tutte le scuole di filosofia per intero, ma un poco di tutte (sed quasi more Academicorum nonnihil ex omnibus sectis, Epistole, ed. Besomi, pp. 193-209).
Al verso oraziano si richiamerà in maniera significativa anche Giovanni Pico della Mirandola, nel De hominis dignitate, per rivendicare a sé il diritto di conoscere e autonomamente giudicare le diverse scuole di pensiero, nessuna esclusa ‒ "Io, invece, mi sono proposto di non giurare sulla parola di nessuno, di frequentare tutti i maestri di filosofia, di esaminare tutte le posizioni, di conoscere tutte le scuole" (De hominis dignitate, ed. Garin, pp. 138-141) ‒, anche in questo caso alludendo a una delle critiche mosse negli Academica, vale a dire la necessità di conoscere tutte le scuole filosofiche, prima di poter giudicare ed eventualmente scegliere (Academica, 2, 9). Non sorprenderà quindi trovare nel margine di uno dei due codici di Galeno posseduti e annotati da Angelo Poliziano, a fianco di un passo nel quale il medico antico dichiarava quanto fosse difficile ricondurre alla verità quanti s'erano resi schiavi di una setta, l'annotazione polizianea Contra addictos alicui sectae. Falsae opiniones obsurdant obcecantque homines (Contro coloro che si sono consacrati a una setta. Le opinioni false rendono gli uomini sordi e ciechi, Perosa 1980, p. 105), dove addictos richiama ancora una volta il verso oraziano che tanto aveva colpito il Petrarca.
Allo stesso tempo, non minore rilievo deve avere un altro spunto offerto dal Petrarca nel De sui ipsius et multorum ignorantia, a cui occorre accennare. Quanto egli sostiene circa la mediocrità delle traduzioni aristoteliche e i danni che hanno apportato alla comprensione del pensiero del filosofo antico, dà un colorito quasi paradossale alla critica contro l'aristotelismo dei suoi detrattori: essi fanno di Aristotele un dio fondandosi su testi tradotti tanto male che probabilmente lo stesso Aristotele avrebbe stentato a riconoscervi sé stesso. Non si può non ricordare che proprio la nuova traduzione dal greco di tutto Aristotele, anche dell'Aristotele scientifico, diverrà nel corso del XV sec. uno dei principali impegni affrontati dagli umanisti. Impegno che mosse proprio dal genere di osservazioni fatte dal Petrarca alla qualità delle versioni medievali, riprese tra l'altro con particolare vigore proprio dal Bruni e dal Valla. E non sarà forse un caso che una delle prime 'nuove' traduzioni aristoteliche, verosimilmente da ricondursi a Leonzio Pilato e al Boccaccio, e da quest'ultimo frequentemente citata, sia stata quella dello pseudoaristotelico De mirabilibus auscultationibus ‒ già volto in latino da Bartolomeo da Messina e da un altro traduttore anonimo ‒ così ricco di notizie, sia pur in gran parte fantastiche, sulle scienze della Natura.
2. Coluccio Salutati e la 'grammatica'
Anche Coluccio Salutati, che assieme all'agostiniano Luigi Marsili raccolse l'eredità del Petrarca per poi diffonderla tra i giovani umanisti fiorentini, entrò in polemica con un difensore della medicina, maestro Bernardo da Firenze. Questi gli aveva indirizzato un opuscolo in cui dichiarava ‒ a quanto si desume dalla risposta del Salutati ‒ la superiorità della fisica (e della medicina, come sua parte) sull'etica e quindi anche sulle leggi, in quanto regolatrici della vita civile. La replica del Salutati ‒ il trattato De nobilitate legum et medicinae ‒ è tutta volta a dimostrare invece la superiorità della scientia legalis sulla scientia medicinalis.
Se la posizione del Salutati non può essere rappresentativa di tutti gli umanisti ‒ Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, per esempio, erano d'opinione diversa ‒, la sua requisitoria contro la medicina presenta alcuni punti di notevole interesse per delineare il rapporto tra Umanesimo e scienza. In particolare interessa una delle argomentazioni impiegate dal Salutati, quella relativa all'incertezza della medicina, all'alto grado di casualità legato alle scelte del medico, alla sua caratteristica di non scienza, che connota in particolare la medicina 'pratica'; argomentazione che ha suggerito una possibile influenza 'accademica' sull'opera del Salutati.
Le insistite osservazioni del Salutati sulla confusione terminolgica che tanto nuoceva alla medicina richiamano altre considerazioni fatte dall'umanista sullo stato in cui versavano i testi antichi e sulla scarsa conoscenza della lingua da parte dei suoi contemporanei. Si può rammentare a questo proposito il celebre passo del De fato et fortuna sulla corruzione dei testi e sulla necessità di creare delle biblioteche pubbliche che li contenessero tutti, con un peritissimus vir preposto alla cura dei testi e alla loro correzione. Va soprattutto rammentata la lettera del Salutati a Giovanni Dominici del 1406, rimasta incompiuta per la morte dell'umanista, in cui si sottolinea l'importanza della grammatica come necessaria base propedeutica di tutte le scienze. L'argomento specifico, nella lettera al Dominici, sono gli studi scritturali, e la necessità di essere in grado di leggere, con l'ausilio della grammatica, i testi dei commentatori delle Scritture, testi che gli stessi litterati hanno difficoltà a contenere. Questa grammatica non deve contenere un insieme di cognizioni astratte, ma deve fondarsi sulla conoscenza del reale: "Del resto la stessa grammatica non può essere in gran parte conosciuta se non si possegga, a prescindere dalla necessaria nozione dei termini, una nozione degli oggetti e del modo di variare della loro essenza, o senza il concorso di tutte le scienze" (Garin 1975, p. 24).
Bisogna insomma cercare l'esatta corrispondenza tra parole e cose, tra la lingua che si usa e la realtà che ci circonda, altrimenti la scienza (in senso lato) non è possibile, e tanto meno si è in grado di comunicarla agli altri.
3. La 'filologia geografica'
L'importanza della grammatica negli studi letterari, in quelli filosofici, ma anche negli studi scientifici, la necessità di conoscenze che vadano al di là del singolo testo preso in esame, e che servano a comprenderlo meglio in tutte le sue sfaccettature, con la maggiore aderenza possibile alla realtà, diventano particolarmente evidenti con la ripresa degli studi geografici. Nel 1335 il Petrarca possedeva un codice con il De chorographia di Pomponio Mela e il De fluminibus, fontibus, lacubus di Vibio Sequestre, opere che nel Medioevo erano pressoché sconosciute e che ripresero a circolare grazie a lui. Con Pomponio Mela tornava nelle mani degli studiosi una delle principali fonti geografiche antiche, citata e utilizzata nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio; altra opera, quest'ultima, che ebbe una straordinaria fortuna nel Quattrocento, come vedremo anche in seguito, e che ricominciò a essere utilizzata direttamente grazie all'opera del Petrarca.
Questi possedette una copia della Naturalis historia (l'attuale lat. 6802, Parigi, BN) che costituiva all'epoca, almeno a Firenze, una rarità. Lo stesso Boccaccio lesse e postillò l'opera di Plinio nel manoscritto del Petrarca. Coluccio Salutati in una sua lettera del 4 agosto del 1378 a Domenico di Bandino che gli aveva chiesto la Naturalis historia rispondeva di non averla personalmente e che non ne esisteva un esemplare a Firenze; una volta gli era capitato di scorrerla e l'impressione che ne aveva ricavato era stata quella di un'opera di mole così spropositata da renderne la consultazione più faticosa che utile; un'opera, cioè, non particolarmente affidabile e comunque fruibile con grande difficoltà.
Questo giudizio del Salutati tuttavia non precluse la via alla grande fortuna di Plinio nell'Umanesimo. Egli stesso poco dopo se ne procurò un esemplare, comprendente i Libri VI-XXXVII (oggi diviso tra il ms. Auct. T. I. 27, Oxford, Bodl., e il lat. 6798, Parigi, BN), appartenuto successivamente a due altri celebri umanisti, Leonardo Bruni e Antonio Panormita, da cui passò alla Biblioteca Aragonese. Probabilmente l'incompletezza di questo esemplare, come pure di un'altra copia conservata nel ms. 488 della Biblioteca Riccardiana di Firenze (sec. X), che appartenne a un altro grande umanista, Niccolò Niccoli, poté far lamentare a Vespasiano da Bisticci l'assenza in Italia di un Plinio completo: lo fece in due occasioni, nella vita di Poggio Bracciolini ("Plinio non era in Italia; avendone notitia Nicolaio, v'era uno a Lubichi nella Magna, uno finito et perfetto, fece tanto Nicolaio con Cosimo de' Medici, che, per mezo d'uno suo parente aveva di là, fece tanto co' frati che l'avevano, ch'egli dette cento ducati di Reno, et ebono il libro. Seguitonne presso che uno grandissimo inconveniente, et a' frati et a quello che l'aveva comperato") e poi in quella dello stesso Niccolò Niccoli (Le vite, ed. Greco, I, pp. 544-545; II, p. 229). In seguito alle pressioni di Cosimo il Vecchio e della filiale di Lubecca del Banco dei Medici, nel 1438 il codice ricordato da Vespasiano, appartenente a un convento domenicano di Lubecca, arrivò a Firenze ed è oggi Plut. LXXXII 1(Firenze, Laur.). Era comunque dal 1423 almeno che Niccolò Niccoli e il suo carissimo amico, il monaco camaldolese Ambrogio Traversari (1386-1439), erano sulle tracce di un Plinio completo, probabilmente proprio quello di Lubecca, a conferma di quanto tenessero ad avere il testo integrale della grande enciclopedia antica delle scienze.
Inizialmente la ricerca e lo studio di Pomponio Mela, come di Plinio, sembrava mirassero a risolvere una serie di questioni puntuali di carattere toponomastico, discusse nell'ambiente umanistico di fine Trecento. Questioni di toponomastica antica ricorrono frequentemente anche negli scritti del Salutati, che però a un dato momento poté avvalersi di uno strumento nuovo, un testo sconosciuto ai suoi predecessori, che con grandissima autorità gettava nuova luce su questi argomenti.
4. Manuele Crisolora e la diffusione di Tolomeo geografo
Proprio l'affinarsi di una 'filologia geografica', ebbe conseguenze rilevanti nel ritorno della scienza antica. Anche perché il frutto più fertile di questi interessi fu la comparsa in Occidente di un testo come la Geografia di Claudio Tolomeo, che ebbe uno straordinario impatto sugli umanisti contribuendo non poco alla rinascita degli studi scientifici.
La portò con sé Manuele Crisolora, il dotto bizantino che giunse a Firenze nel 1397, chiamato a insegnarvi il greco. L'arrivo del Crisolora, fortemente desiderato da Coluccio Salutati e dal nobile e ricco fiorentino Palla di Nofri Strozzi, segnò un momento di rilievo assoluto nello sviluppo della cultura occidentale. Dalla scuola del Crisolora uscirono alcuni tra i principali grecisti del primo Quattrocento: oltre a quelli già menzionati, Roberto de' Rossi, Pier Paolo Vergerio, Palla Strozzi e lo stesso traduttore della Geografia, Iacopo Angeli da Scarperia.
Da lungo tempo si è ipotizzato che il codice più famoso e studiato della Geografia, l'attuale Urb. gr. 82 (Città del Vaticano, BAV), fosse stato portato a Firenze dal Crisolora. Gli indizi raccolti per attribuire allo Strozzi proprio il ms. Urbinate sono stati poi confermati dal testamento del nobile fiorentino, il quale tra i beni che lasciò ai suoi discendenti ricorda appunto: "la Cosmographia in gre⟨c>o, ciò è la pictura in una carta in membrana grande colla guaina di chuoio nero […] che recò messer Manuello Crisolora, greco di Constantinopoli, quando a Firenze venne condocto ad insegnar greco nel 1397" (Gentile 1992a, p. 302).
Il Crisolora avrebbe lasciato allo Strozzi anche una seconda Cosmographia (questo è il nome con cui Iacopo Angeli tradusse in latino il titolo dell'opera di Tolomeo) che egli avrebbe iniziato a copiare, senza terminarla. Tuttavia il fatto che dal ms. Urbinate sia stata tratta con ogni probabilità a Firenze nei primissimi anni del Quattrocento una copia delle sole tavole, con i toponimi tradotti in latino, identica nelle misure e nella configurazione geografica al modello, induce a ritenere che proprio l'Urbinate si trovasse a Firenze all'inizio del secolo in casa dello Strozzi. Questa copia è attualmente il ms. Vat. lat. 5698 (BAV), di cui però non ci sono giunte ulteriori copie.
Se a Salutati in un primo momento poté interessare specialmente il testo tolemaico, con gli elenchi dei nomi di città e la loro posizione, certamente l'elemento che in assoluto fece maggiore scalpore fu rappresentato dalle tavole che illustravano la Geografia; costruite sulla base di coordinate astronomiche, queste carte offrirono infatti per la prima volta un'immagine completa del mondo abitato e allo stesso tempo un metodo (anzi più di un metodo) per rappresentarlo graficamente su di un piano. Il codice Urbinate, per quanto concerne le carte, appartiene alla redazione 'A', costituita da 26 carte regionali più il mappamondo, che è la più diffusa, proprio grazie alla fortuna occidentale del codice dello Strozzi; molto più rara, e non tradotta in latino, è invece la redazione 'B', composta da 64 carte, di misura ridotta, più il mappamondo. Il codice più importante di questa seconda redazione, Plut. XXVIII 49, nel 1495 figurava nell'inventario della biblioteca privata dei Medici. Dall'Urb. gr. 82, prima che lasciasse Firenze per Padova, quando lo Strozzi fu costretto all'esilio dalla fazione medicea nel 1434, fu anche tratta una copia, l'attuale Conventi soppr. 626 (Firenze, Laur.), che è invece il modello riconosciuto per le tavole di una serie di codici della Geografia confezionati a Firenze nella prima metà del Quattrocento. Si tratta di codici in cui coesistono la traduzione latina del testo tolemaico nella versione di Iacopo Angeli da Scarperia e le 26 carte regionali precedute dal mappamondo. Questi codici si possono attribuire a due fiorentini a cui Vespasiano da Bisticci fa risalire la 'conversione' in latino delle tavole di Tolomeo, Domenico Buoninsegni e Francesco Lapaccini. Nelle botteghe fiorentine si venne così costituendo una serie di 'archetipi' cartografici, discendenti dal codice della Badia, il Laurenziano Conventi soppr. 626, che vennero poi riprodotti nelle sontuose copie illustrate della Geografia, assieme alla versione latina di Iacopo Angeli.
Sorsero allora nella stessa Firenze le prime botteghe specializzate in cartografia tolemaica, come quella del 'dipintore' Piero del Massaio. 'Dipintore' e non cartografo perché proprio la stretta derivazione dei suoi codici dal Laurenziano (e quindi dall'Urb. gr. 82) e da altri modelli (con i toponimi tradotti in latino) che egli e altri dipintori di codici tenevano in bottega, presuppone un'opera di copiatura, quando non di ricalco, che non implica in alcun modo conoscenze cartografiche. L'attività di Piero si può far risalire almeno al 1460, anno in cui gli fu pagata la "dipintura d'uno Tolomeo" che egli aveva effettuato per conto di Alvero Alfonso, vescovo d'Algarve. Inizialmente legato alla tradizione discendente dall'Urb. gr. 82 e dal suo apografo Laurenziano, Piero del Massaio introdusse in seguito una novità nei suoi manoscritti tolemaici: una raccolta di carte moderne di regioni e di città che completano e integrano, quando non sostituiscono, la carta antica.
Negli anni Sessanta impiantò la sua bottega a Firenze il cartografo forse più innovativo del Quattrocento, l'astrologo e matematico Niccolò Germano. Questi modificò il tipo di proiezione tolemaica, sia per il mappamondo sia per le carte regionali. Dei suoi codici della Geografia si riconoscono tre diverse redazioni. Nella prima troviamo il mappamondo in proiezione conica e le tavole regionali in proiezione trapezoidale. Le altre due presentano invece il mappamondo in proiezione omeotera e un numero variabile di carte 'moderne'; nella seconda, di Spagna, Nord Europa e Italia, alle quali, nella terza redazione, si aggiungono le nuove tavole di Francia e di Terra Santa. Vicina ai modelli cartografici più antichi di Niccolò Germano è la prima edizione a stampa della Geografia illustrata, anche se come cartografo si è fatto il nome del miniatore Taddeo Crivelli; malgrado nell'epistola al lettore si dichiari che testo e tavole erano stati corretti da due famosi astronomi come Girolamo Manfredi e Pietro Bono Avogaro (astrologiae peritissimi) e dagli umanisti Cola Montano e Galeotto Marzio (summa eruditione praediti), e che fu poi sottoposta a revisione finale dall'umanista Filippo Beroaldo, si tratta dell'edizione di Bologna del 1477, assai scorretta. Molto più accurata risulta invece l'edizione uscita l'anno successivo a Roma presso lo stampatore Arnold Buckinck e curata da Domizio Calderini, che confrontò la traduzione latina e le tavole con un antico codice greco appartenuto all'illustre 'platonico' Giorgio Gemisto Pletone. Direttamente da modelli di Niccolò (terza redazione) derivano le due splendide edizioni uscite a Ulm nel 1482 e nel 1486.
Legata a Niccolò Germano, almeno agli inizi, è l'opera cartografica di un altro tedesco residente a Firenze, Enrico Martello. Un codice in particolare, il Vat. lat. 7289 (BAV), rivela come il Martello adoperasse modelli analoghi a quelli di Niccolò Germano, se non gli stessi suoi 'archetipi'. In questo codice troviamo infatti le 26 carte regionali nello stesso tipo di proiezione inventato da Niccolò Germano, quella trapezoidale. In seguito il Martello l'abbandonò per tornare alla più tradizionale proiezione cilindrica, in compenso ampliando notevolmente il numero delle tavole con l'aggiunta di molte carte regionali moderne. Di questa fase della produzione tolemaica del Martello ‒ che ci ha lasciato pure splendidi 'isolari' e un planisfero di grandi dimensioni conservato alla Yale University Library di New Haven e considerato il più vicino, tra quelli quattrocenteschi, alle concezioni cosmografiche colombiane ‒ ci è pervenuto un solo codice tolemaico, lo splendido Magliabechiano XIII 16 della Biblioteca Nazionale di Firenze.
Dalla metà del secolo la Geografia di Tolomeo era divenuta 'la' rappresentazione del mondo, come sembra emergere dalle parole di Lorenzo Ghiberti (1378-1455) che nei suoi Commentarii, a proposito dell''imperfezione' di una 'cosmografia' di Ambrogio Lorenzetti afferma: "Evvi [scil. nel palagio di Siena] una cosmografia cioè tutta la terra abitabile. Non c'era allora notizia della cosmografia di Tolomeo, non è da maravigliare se la sua non è perfetta" (I commentari, ed. Morisani, p. 38).
Così, pure la pictura Ptolemaei era entrata nell'insegnamento della geografia, come dichiara Battista Guarini nel suo De ordine docendi ac studendi (1459): senza Tolomeo l'orbis descriptio quandam plerumque importat obscuritatem (Opuscola, ed. Piacente, p. 154).
5. Crisolora e il testo di Tolomeo
Occorre però ritornare alle origini della diffusione della Geografia, e in particolare alla traduzione latina del testo. Abbiamo accennato al fatto che fu Iacopo Angeli da Scarperia, allievo del Crisolora, a tradurre l'opera tolemaica, impresa che egli portò a termine forse nel 1409 dedicandola a papa Alessandro V. Dalla prefazione di Iacopo alla sua traduzione apprendiamo però che una particula d'estensione indeterminata era già stata tradotta dal Crisolora e verosimilmente utilizzata dal suo allievo.
Fonte della traduzione non fu però l'Urb. gr. 82. Il testo greco tradotto da Iacopo Angeli, è infatti riconducibile a due manoscritti greci dell'inizio del sec. XV, scritti da mani italiane di scuola crisolorina, il cui testo risulta derivare da tre altri manoscritti della Geografia. Proprio uno di questi tre, il Vat. gr. 191 (BAV) del XIII sec., reca correzioni, note di lettura e scoli di mano dell'umanista greco.
Queste annotazioni riguardano in particolare i Libri I e VII della Geografia. Riguardano cioè due parti teoriche dell'opera tolemaica, in cui sono affrontati i problemi legati alle proiezioni, e testimoniano un'attenzione specifica del Crisolora non tanto verso gli elenchi di nomi di luogo e di coordinate quanto sull'impostazione teorica del geografo antico. Allo stesso tempo fanno pensare al Crisolora 'cartografo', impegnato a copiare Tolomeo per Palla Strozzi dal manoscritto che poi avrebbe lasciato al suo benefattore. Alcune di queste glosse passarono (attraverso la particula tradotta dal maestro?) nella traduzione dell'Angeli.
Nel Vat. gr. 191 Crisolora annotò soltanto il testo della Geografia. Vedere la mano dell'umanista greco impegnata sul testo tolemaico, con annotazioni che almeno in parte miravano a chiarire il testo greco, presumibilmente in vista di una sua traduzione, mette ancor meglio in luce un fatto assai significativo: il Crisolora, appena giunto a Firenze, non si mise a tradurre testi letterari o filosofici, ma Tolomeo. Evidentemente l'ambiente che trovò sulle rive dell'Arno era particolarmente ansioso d'impadronirsi del testo geografico e per ragioni, come possiamo facilmente arguire dalla natura stessa delle glosse del Crisolora al Vat. gr. 191, che andavano oltre l'interesse 'toponomastico' di Salutati.
Ma c'è di più. Le note del Crisolora e la natura propedeutica alla traduzione di alcune di esse, portano a escludere che il codice possa essere stato studiato dal Crisolora in Grecia; indurrebbero piuttosto a pensare che egli lo avesse portato con sé in Italia assieme al più lussuoso Urb. gr. 82. Ne conseguirebbe che uno dei codici più importanti tra quelli che ci hanno trasmesso testi scientifici greci arrivò in Italia già alla fine del Trecento. Vi troviamo infatti, tralasciando un nugolo di scritti minori, per lo più astrologici: la Catottrica, i Phaenomena e l'Ottica (nella recensione di Teone di Smirne) di Euclide; gli Sphaerica di Teodosio; il De magnitudinibus et distantiis Solis et Lunae di Aristarco; il De ortibus et occasibus e il De sphaera quae movetur di Autolico; l'Anaphoricus di Ipsicle; il commento di Eutocio ai Conica elementa di Apollonio di Perge; il Florilegium di Vezio Valente; la Geografia di Tolomeo; la Hypotyposis astronomicarum positionum di Proclo Diadoco; il De usu astrolabii eiusque constructione libellus di Giovanni Filopono; il commento di Ipparco di Nicea Ad Arati et Eudoxi Phaenomena commentarii; il commento di Eliodoro a Paolo Alessandrino; l'Harmonica introductio di Gaudenzio; gli Harmonica di Aristosseno; l'Isagoge musica di Alipio; gli Harmonica di Tolomeo; l'Aritmetica di Diofanto. Possiamo quindi affermare, per esempio, che proprio quest'ultima opera, che Regiomontano 'scoprirà' più tardi nella biblioteca del cardinale Bessarione, era già arrivata in Italia da molto tempo.
6. Paolo dal Pozzo Toscanelli e la correzione di Tolomeo
Si è accennato all'ambiente che il Crisolora trovò nella Firenze di fine Trecento. Attorno al vecchio Salutati e all'agostiniano Luigi Marsili si riunivano alcuni personaggi che sarebbero poi divenuti a loro volta guide per la generazione seguente. In particolare troviamo, legatissimo al Marsili e al Salutati, Niccolò Niccoli, personaggio bizzarro, ricordato più per le aspre polemiche con i contemporanei che per i suoi notevolissimi contributi alla cultura del tempo. Proprio il Niccoli incarna uno di quei viri peritissimi che il Salutati auspicava si preoccupassero di fornire alle biblioteche col loro lavoro di revisione testi quanto più possibile corretti. Il Niccoli svolse quest'attività con grande costanza ricopiando, collazionando, integrando i testi più disparati: da sant'Agostino ad Ammiano Marcellino, da Plinio al Pastore di Erma, da Giovanni Crisostomo a Celso, da Plauto a Lucrezio. Proprio la disparità va sottolineata: testi scientifici, come poetici, come patristici, con il fine manifesto, già chiaro ai suoi contemporanei, di mettere assieme una raccolta di libri che non avesse nulla da invidiare alla mitica biblioteca di Alessandria e che l'umanista intendeva fosse pubblica, aperta a tutti gli studiosi. Morto il Niccoli nel 1437, i suoi libri, affidati a una commissione di persone fidate, giunsero nelle mani di Cosimo de' Medici che, rispettando le volontà dell'umanista, a cui era stato legato da una profonda amicizia, li donò al convento di San Marco.
Per mettere assieme la sua biblioteca il Niccoli coinvolse gli amici più fidati, che a un certo punto, scomparsi il Marsili e il Salutati, presero a riunirsi presso il monastero di Santa Maria degli Angeli. Qui abitava Ambrogio Traversari, il monaco camaldolese che più d'ogni altro contribuì alla rinascita degli studi patristici nel Quattrocento.
Se da un lato nel Niccoli si è visto sempre per lo più lo studioso dei 'classici' e nel Traversari, appunto, lo studioso dei Padri, in realtà questi interessi si miscelavano tra loro in una maniera che può forse ancora sorprendere. Vespasiano da Bisticci elenca in questo modo i personaggi che frequentavano Ambrogio Traversari: "Quanti uomini degni aveva la città in questo tempo, radi dì era che non andassino a visitare frate Ambruogio, ché nel tempo suo Firenze fioriva d'uomini degni. Nicolaio Nicoli, Cosimo de' Medici, Lorenzo suo fratello, meser Carlo d'Arezzo, meser Gianozo Manetti, maestro Pagolo, ser Filippo di ser Ugolino, radi dì era che non vi fussino" (Le vite, I, p. 451).
"Carlo d'Arezzo" è l'umanista Carlo Marsuppini, "maestro Pagolo" è Paolo dal Pozzo Toscanelli, "ser Filippo di ser Ugolino" è Filippo Pieruzzi. Durante questi incontri si "ragionava sempre di cose singulari". Ma tra i ragionamenti "di cose singulari" che si tenevano agli Angeli, non dovevano mancare gli argomenti scientifici. Basta considerare alcuni dei nomi fatti da Vespasiano. Paolo dal Pozzo Toscanelli ‒ che il 'cartolaio' fiorentino definisce uomo religiosissimo, di moralità ascetica, ma anche "sommo astrolago" e "miraviglioso geometra", nonché grande medico ‒ è considerato dalle testimonianze coeve lo scienziato per eccellenza dell'età sua. Se la fama del Toscanelli ai giorni nostri è legata alla celebre lettera a Fernardo Martins, ben nota a Cristoforo Colombo, sulla possibilità di raggiungere le Indie navigando verso Occidente, sono soprattutto le sue conoscenze tanto di matematica quanto di astronomia che lo resero celebre nel Quattrocento. Per queste sue conoscenze lo esaltano Niccolò Cusano, Giovanni Regiomontano, Angelo Poliziano e Ugolino Verino. Filippo di Ugolino Pieruzzi, personaggio certo minore nel panorama quattrocentesco, fu altresì possessore della più nutrita biblioteca scientifica di testi 'medievali' (soprattutto in campo matematico) passata successivamente anch'essa nel fondo di San Marco.
Quando Crisolora arrivò a Firenze col suo Tolomeo, si trovò dunque in un ambiente dai notevoli interessi scientifici. Firenze aveva avuto del resto tra i suoi illustri concittadini Paolo Dagomari, e gli appunti astronomici che gli sono stati attribuiti, oggi conservati nel ms. Magliabechiano XI 121 della Biblioteca Nazionale di Firenze, rivelano l'attitudine dell'astronomo trecentesco all'osservazione diretta dei fenomeni celesti, con l'impiego di nuovi strumenti di sua invenzione, e l'intenzione costante di trovare nuove misure di longitudine e latitudine che correggessero le Tavole alfonsine; una correzione, quella delle Tavole, che vide poi impegnati tutti gli astronomi più esperti del Quattrocento. I calcoli del Dagomari sulle longitudini e latitudini, riferite a città e regioni sparse per tutto il mondo conosciuto, furono poi copiati dal Toscanelli tra quelle poche carte ‒ oggi riunite presso la Biblioteca Nazionale di Firenze con la segnatura Banco Rari 30 ‒ che ci sono giunte scritte di sua mano, assieme alle celeberrime osservazioni sulle comete. Al Toscanelli poi Ugolino Verino attribuì l'intenzione di retexere, vale a dire di ricomporre e restituire al suo significato originale, il testo dell'Almagesto di Tolomeo, confermando l'interesse nei riguardi di un'opera del resto presente, nelle biblioteche fiorentine dell'epoca, in diverse versioni latine medievali.
Le cure rivolte dal Toscanelli all'Almagesto, come pure la questione della critica alle Tavole alfonsine, trovarono certamente nuova linfa grazie all'arrivo della Geografia a Firenze. Come è noto, in quest'opera Tolomeo aveva stabilito una strettissima connessione tra astronomia e geografia, costruendo un reticolo di coordinate che assegnava a ciascun luogo della Terra precisi gradi di latitudine e di longitudine, determinando una posizione che veniva poi riprodotta graficamente nella rappresentazione 'pittorica' del mondo, cioè nelle carte geografiche che accompagnano l'opera di Tolomeo, così come nell'Urb. gr. 82.
Il problema che verosimilmente scaturì per primo non appena s'iniziò a studiare il nuovo testo di Tolomeo fu la discrepanza che si avvertiva tra le coordinate offerte dall'Almagesto, noto nelle traduzioni latine a cui s'è accennato, e quelle delle Tavole alfonsine e di tutti gli elenchi analoghi, elaborati per usi astronomici, che si conoscevano. Ci si trovò cioè di fronte al problema di uniformare tutti questi dati, e a questo scopo si tentarono diverse vie.
Pochi anni dopo la sua scoperta la Geografia di Tolomeo fu dunque messa sotto esame e confrontata con le altre fonti. Ne è testimonianza una lettera del Traversari al Niccoli del 27 dicembre 1427 in cui il monaco camaldolese narra la visita che gli aveva fatto il veneziano Pietro Tommasi. Questi gli aveva annunziato di essersi dedicato negli ultimi tempi alla correzione della Geografia di Tolomeo; il Traversari aveva allora sentito la mancanza del Niccoli, non sentendosi personalmente in grado di distogliere il Tommasi, che evidentemente riteneva non sufficientemente preparato, da tanto ardua impresa; ma Tolomeo era criticato anche fuori d'Italia: Pietro d'Ailly (1350-1420) nel Compendium cosmographie si preoccupò di correggere la Geografia, in particolare riguardo alla misurazione della longitudo terre versus oriens.
È anche per motivi di questo genere che si propose una revisione urgente della traduzione dell'Almagesto. Dalla testimonianza del Verino sappiamo che vi si era dedicato il Toscanelli, anche se non ci è pervenuta una sua nuova traduzione di questo testo. Quando Tommaso Parentucelli, amico e corrispondente sia del Traversari sia del Niccoli, divenne papa col nome di Niccolò V, uno dei primi testi che fece ritradurre dal greco, nella sua grande opera di 'ricostruzione' della biblioteca antica e di traduzione delle opere greche, fu proprio l'Almagesto.
L'apparizione della Geografia costrinse dunque i matematici e soprattutto gli astronomi a rivedere i loro calcoli per determinare la posizione dei luoghi. Ma anche quando le coordinate grosso modo tornavano, si poneva un secondo problema che faceva ancora dubitare della validità dell'opera del geografo antico. Le tavole tolemaiche non erano le prime carte geografiche a circolare in Occidente. Ne esistevano già sia regionali ‒ si pensi alla carta della Terra Santa di Marino Sanudo o a quella dell'Italia di Paolo Veneto ‒ sia di tipo nautico. Queste divergevano almeno in parte dalle tavole della Geografia; in particolare, quelle nautiche disegnavano un profilo costiero rivelatosi poi molto più preciso che non le carte tolemaiche, soprattutto per il bacino mediterraneo.
Le carte che corredavano la Geografia tolemaica si vennero così lentamente modificando, inizialmente senza correggere l'originale, ma piuttosto aggiungendo al nucleo originale nuove carte. Una delle prime carte che si aggiunsero all'eredità tolemaica fu quella del Nord Europa dovuta a Claudius Clausson Swart. Si tratta di una descrizione della Scandinavia, fondata sul metodo tolemaico, di cui si conoscono due redazioni, accompagnate da carte geografiche che modificavano radicalmente l'immagine del Nord Europa introducendo, tra l'altro, terre che Tolomeo non contemplava, come la Groenlandia. La prima redazione della carta dello Swart compare per la prima volta nel ms. 441 della Bibliothèque Municipale di Nancy. Il codice appartenne al cardinale francese Guillaume Fillastre, il quale esplicitamente afferma che le altre carte del suo Tolomeo erano state copiate ex exemplari Graeco nel 1427, mentre si trovava presso Martino V. In quel tempo, e probabilmente a Roma, il Fillastre ebbe anche la carta dello Swart, dal momento che di lui parla Poggio Bracciolini in una lettera al Niccoli, scritta da Roma nel gennaio 1428, a proposito di un codice di Tito Livio esistente, a detta dello Swart, nel monastero cistercense di Sorø. Le carte dello Swart passarono in seguito nei codici della Geografia di Niccolò Germano, che, come abbiamo accennato, introdusse nei suoi codici anche altre carte moderne.
Tuttavia se il 'Tolomeo illustrato' a un certo punto divenne un oggetto di lusso e nello stesso tempo l'unico atlante del mondo conosciuto disponibile, erano anche continuati i tentativi di correggere e modificare tanto le proiezioni quanto i calcoli, che avevano reso possibili le carte tolemaiche. Una testimonianza significativa di quest'opera di revisione è fornita da un esemplare della Geografia in versione latina, l'odierno ms. Harley 3686 della British Library di Londra, di provenienza veneziana. Qui il testo di Tolomeo, come ha mostrato Marica Milanesi (1996), è illustrato da carte di tipo nautico, in cui i soli toponimi sono di derivazione tolemaica. Al di là di questo particolare tentativo di conciliare i dati della tradizione dell'opera di Tolomeo con quelli dell'esperienza, si assisteva in quegli anni a un riesame che coinvolgeva tutto il sapere scientifico, in particolare quello matematico e astronomico, che si cercava di ricostruire ritornando alle antiche fonti, sia latine sia greche. Anche diversi altri testi 'scientifici' riemersero in quegli stessi anni in cui era comparsa la Geografia.
7. Da Celso ad Archimede: alla ricerca di testi scientifici
Antonio Beccadelli, detto il Panormita, nel 1426 riuscì ad ottenere un codice, antichissimo ma lacunoso, che si trovava a Siena presso un suo conoscente, del De medicina di Celso, opera di cui s'erano perse le tracce. Ne diede subito notizie tra gli altri a Guarino Veronese, il quale per primo, nello stesso anno, lo ottenne in prestito. Dal codice, poi andato perduto, si affrettò a trarre una copia, oggi Plut. LXXIII 7 (Firenze, Laur.), Niccolò Niccoli. L'anno successivo un altro umanista, Giovanni Lamola, scoprì a Milano un secondo codice di Celso, questa volta completo, oggi Plut. LXXIII 1 (Firenze, Laur.). Vi è una lettera del Panormita a Lamola del 22 settembre dello stesso anno, in cui si congratula per la scoperta e nel contempo si augura che il nuovo codice servirà a emendare il suo mutilatus; impresa, conclude, che sarebbe stata cura del Niccoli portare a termine. Difatti nel 1431, mentre era a Verona, il Niccoli poté colmare grazie all'aiuto del codice del Lamola le lacune del codice senese, integrando il testo del suo manoscritto.
Un altro testo scoperto agli inizi del Quattrocento è il De architectura di Vitruvio, rinvenuto da Poggio Bracciolini e da Cencio de' Rustici nel 1417 nel monastero di San Gallo, dove si erano recati dalla vicina Costanza, sede del Concilio. L'opera era comunque già nota anche prima, per esempio al Petrarca, che contribuì non poco alla diffusione del testo vitruviano. Tuttavia, è nel Quattrocento che il De architectura godette di maggiore fortuna, ispirando la nuova architettura 'all'antica'. Tra i suoi lettori più celebri vi fu Leon Battista Alberti, che rifuse gli insegnamenti vitruviani nel suo De re aedificatoria, la cui editio princeps fu pubblicata a Firenze, per le cure del Poliziano, nel 1485.
Non si può dimenticare poi, tra le scoperte scientifiche del primo Quattrocento, un testo poetico, vale a dire il De rerum natura di Lucrezio, rinvenuto anch'esso nel 1417 da Poggio Bracciolini. Questi si affrettò a mandarlo a Niccolò Niccoli, che lo trascrisse nell'attuale Plut. XXXV 30 (Firenze, Laur.); questa copia occupa un posto importante nella tradizione del testo di Lucrezio dal momento che l'antico esemplare poggiano, mai restituito dal Niccoli al suo proprietario, è andato perduto.
La riscoperta del testo di Lucrezio fece nascere tra gli umanisti un interesse particolare per l'epicureismo, su cui, fino al reperimento del De rerum natura, si avevano notizie soltanto indirette e spesso inesatte. La conoscenza delle fonti epicuree si allargò poi in maniera considerevole quando nel 1433 Ambrogio Traversari ultimò e dedicò a Cosimo de' Medici la sua versione delle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio, destinata a un eccezionale successo, prima manoscritta e poi a stampa. La traduzione del Libro X delle Vitae da parte del Traversari, unita alla riscoperta di Lucrezio, portò alla rivalutazione non soltanto dell'Epicuro 'morale', ma anche di quello 'fisico'. In particolare, il giovane Marsilio Ficino, attorno al 1455, tentò un'ardita conciliazione, che era già stata proposta dai platonici di Chartres, tra atomismo epicureo e la dottrina degli elementi contenuta nel Timeo di Platone.
Dello stesso Ficino si può anche rammentare la traduzione giovanile di alcuni testi pitagorici, tutt'altro che estranei alla matematica, oltre ovviamente al Commentarium in Platonis Timaeum (per le altre traduzioni e commenti platonici del Ficino, v. cap. IV). Tra le sue prime versioni dal greco, troviamo infatti la parte iniziale dell'Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium di Teone di Smirne, il De communi mathematica scientia liber e In Nicomachi arithmeticam introductionem liber di Giamblico (cioè il terzo e il quarto libro del De Pythagorica secta). Si può anche aggiungere la versione, anch'essa giovanile, del De universi orbis natura di Ocello Lucano. Queste traduzioni, tutte molto precoci (risalenti a prima del 1463), hanno in comune la caratteristica di essere state eseguite dal Ficino per suo uso personale e di pochi altri fortunati, come per esempio Giovanni Pico della Mirandola e Pierleone da Spoleto, a cui appartennero i due manoscritti quattrocenteschi che ci hanno conservato le traduzioni di Giamblico e di Teone (Vat. lat. 4530 e Vat. lat. 5953).
Intanto, nella prima metà del secolo, vi era stato un gran rincorrersi di notizie riguardo alle scoperte dei 'nuovi' testi scientifici, in particolare nelle lettere di Ambrogio Traversari allo stesso Niccoli.
Vi è innanzi tutto il 'mistero' del codice di Archimede. In sette lettere del Traversari al Niccoli del 1423-1424 si parla di un codice di Archimede, che l'umanista Rinuccio Aretino avrebbe posseduto, ma che nessun altro avrebbe visto di persona. In un solo caso viene dato anche il titolo esteso dell'opera contenuta nel codice, De instrumentis bellicis et aquaticis. Che argomento del libro fossero le macchine belliche è del resto confermato da quanto Giovanni Aurispa scrisse allo stesso Traversari, affermando anche che gli sembrava poco verosimile che Rinuccio avesse un Archimede; lui possedeva invece un grande e antico codice illustrato di Ateneo (Athenei Atheniensis mathematici cum picturis instrumentorum) e un altro manoscritto matematico, pure acefalo, di cui non conosceva l'autore. L'Aurispa inviò entrambi i codici al Traversari, a cui li chiese indietro nel 1427; l'Ateneo gli fu successivamente richiesto da Lorenzo Ghiberti, a cui lo stesso umanista fornì la traduzione latina della dedica a Marcello che lo scultore inserì, volgarizzata, nel proemio dei suoi Commentarii.
È verosimile inoltre che questo Ateneo sia lo stesso codice greco che l'Aurispa mandò ad Antonio Panormita, il quale si trovava a Napoli presso la corte Aragonese, e che comprendeva, oltre ad Athenaeus, De machinis et instrumentis bellicis cum pictura expressis, molti altri scritti di tattica e di poliorcetica.
L'offerta da parte dell'Aurispa del codice di Ateneo, quasi a consolazione dell'impossibilità di avere l'Archimede di Rinuccio, conferma la probabilità che si cercasse un Archimede 'meccanico'. Il grande matematico era una figura avvolta nel mito, già per Petrarca, che lo conosceva principalmente attraverso Cicerone. La sua fama d'inventore era certamente aumentata agli inizi del Quattrocento in virtù delle traduzioni delle Vite di Plutarco e in particolare di quella di Marco Claudio Marcello, tradotta in latino da Guarino Veronese prima del 1416, dove sono descritte le macchine inventate da Archimede nella difesa di Siracusa. Il collegamento con Archimede poteva anche sembrare più stretto dal momento che Ateneo dedicò la sua opera proprio a Marcello. è proprio questo l'Archimede ricordato da Battista Guarini quando nel 1453 presentò agli studenti ferraresi la 'matematica' nella sua Oratio de septem artibus liberalibus. Né va dimenticata, a questo proposito, la diffusione di Vitruvio, che esalta anch'egli l'Archimede inventore.
Le vicende del codice dell'Aurispa consentono di osservare come fosse grande l'attenzione che circondava questo genere di testi nel Quattrocento. Abbiamo accennato all'interesse di Ghiberti per Ateneo e al favore che incontrò Vitruvio (il cui Libro X è dedicato alle macchine d'assedio), e possiamo rammentare inoltre Vegezio; ricordiamo poi anche le macchine di Giovanni Fontana (1395-1455), di Mariano di Jacopo, detto il Taccola (1382-1458 ca.), soprannominato l'Archimede di Siena, e di Francesco di Giorgio (1439-1501), i dispositivi meccanici di Leon Battista Alberti, per arrivare sino a Leonardo. Per restare ai primi del Quattrocento, nella Firenze del Brunelleschi (1377-1446) e di Paolo dal Pozzo Toscanelli un interesse particolare per le macchine belliche traspare anche dalle annotazioni di Niccolò Niccoli ad Ammiano Marcellino, ulteriore conferma che la 'caccia' all'antico codice di Rinuccio doveva avere per oggetto 'questo' Archimede.
I due codici 'matematici' sono tra i pochi codici 'scientifici' riportati dall'Aurispa in Italia nel 1423, quando vi ritornò al seguito dell'imperatore Giovanni VIII Paleologo alla fine del suo secondo viaggio in Grecia. Su un totale di 238 volumi, l'umanista ci dà soltanto una quarantina di titoli. Tra questi troviamo il De his quae in orbe mira dicuntur (il De mirabilibus auscultationibus) e il De machinis pseudoaristotelici, alcune opere di Teofrasto (un Teofrasto era anche tra i codici che riportò dal suo primo viaggio), tra cui il De plantis, che gli sarà poi chiesto in prestito dal Filelfo, e, per il versante geografico, Strabone. Dall'inventario dei suoi libri allegato al testamento (1459) possiamo aggiungere un codice greco dell'Almagesto e l'Introduzione aritmetica di Nicomaco di Gerasa.
Quattro anni dopo il ritorno dell'Aurispa dalla Grecia, giunse a Venezia da Costantinopoli un altro umanista, Francesco Filelfo. Dopo aver vissuto nella casa dei Crisolora (aveva sposato una nipote di Manuele), anche il Filelfo riportò in Italia numerosi codici greci, di cui mandò una lista parziale al Traversari. Tra questi figurano alcuni autori d'interesse scientifico: nuovamente Strabone e Teofrasto, la Historia animalium, la Physica e il De partibus animalium di Aristotele, nonché Apollonius Pergaeus. La novità più notevole è costituita senz'altro dall'autore dei Conica, che però il Filelfo non nomina altrove. Visto che la maggior parte dei codici appartenuti all'umanista fu acquistata in seguito da Lorenzo de' Medici, potrebbe darsi che questo codice del Filelfo vada identificato con un Apollonio che compare nell'inventario mediceo redatto da Fabio Vigili tra il 1508 e il 1510 e di cui si sono poi perse le tracce.
Non compare invece nella lista un altro codice matematico, di notevolissima importanza, passato per le mani del Filelfo. Si tratta del Vat. gr. 218 (BAV), del sec. IX-X, che è sicuramente tra i codici filelfiani acquistati da Lorenzo de' Medici. Comprende un frammento del Perì paradóxōn mēchanēmátōn di Antemio di Tralle e la Collectio mathematica di Pappo d'Alessandria. Il codice probabilmente giunse in Occidente durante il sec. XIII (la Collectio sarebbe stata tradotta da Guglielmo di Moerbeke per Witelo su questo manoscritto, che figurerebbe nell'inventario della Biblioteca papale del 1311). Sarebbe poi pervenuto nelle mani del Filelfo che nel 1450 lo avrebbe dato in prestito a Giacomo da San Cassiano, traduttore di Archimede al servizio di Niccolò V. Con gli altri codici filelfiani passò infine alla Biblioteca Medicea privata e da questa a Roma, figurando nell'inventario Vaticano del 1533. Nulla esclude tuttavia che il codice filelfiano di Pappo non sia diverso da quello presente nell'inventario papale del 1311 e che magari fosse stato portato direttamente dalla Grecia dal Filelfo stesso; inoltre neppure si può escludere del tutto l'ipotesi già avanzata in passato, anche se su esilissime basi (vista la vaga descrizione data dall'Aurispa), che sia questo il codice matematico antico e acefalo di cui l'Aurispa, scrive nelle sue lettere al Traversari (bisognerà comunque presumere che il manoscritto fosse passato successivamente dalle mani dell'Aurispa a quelle del Filelfo, cosa per altro possibile). Nella lista non figura neppure un altro celebre codice del Filelfo, oggi Plut. LXXXV 19 (Firenze, Laur.), il suo Sesto Empirico, che egli probabilmente acquistò in Italia.
Sempre il carteggio Traversari-Niccoli ci riconduce a un altro autore, Teofrasto, i cui scritti botanici, come abbiamo visto, furono portati dalla Grecia in Italia dall'Aurispa. Una serie di quattro lettere del Traversari, che spaziano tra l'agosto 1430 e il giugno 1431, ci informano sul desiderio da parte del Niccoli di avere una copia di queste opere. L'avrebbe dovuto trascrivere dapprima un Francesco (probabilmente Francesco di Zanobi Lapaccini, cugino del Niccoli), poi il Traversari stesso; troppo preso dagli impegni che gli imponeva la sua posizione nell'Ordine, questi avrebbe poi demandato la copiatura al "dolcissimo" Paolo, vale a dire a Paolo dal Pozzo Toscanelli, che avrebbe effettivamente completato la trascrizione. Il codice potrebbe essere l'attuale Plut. LXXXV 22 (Firenze, Laur.), contenente il De causis plantarum e il De historia plantarum di Teofrasto (con inframmezzato il De plantis aristotelico), che nel caso sarebbe stato dunque scritto dal Toscanelli stesso.
Un altro accenno a un codice scientifico compare in una lettera del Traversari al Niccoli scritta il 3 marzo 1432 da Roma, dove il camaldolese si era recato per incontrare il pontefice dopo essere stato eletto generale dell'Ordine (26 ottobre 1431). Enumerando al Niccoli gli scarsi frutti delle sue ricerche nelle biblioteche di Roma e dintorni, il Traversari segnalava all'amico di avere per le mani un codice aristotelico, che apparteneva all'abate di Grottaferrata, Pietro Vitali. Assieme ad altre opere più comuni questo codice comprendeva i dodici (sic) libri della Metaphysica e i quattro (sic) libri delle Meteore di Cleomede (Latinae epistolae, ed. Mehus, II, coll. 407-408). Il monaco camaldolese avrebbe cercato di farseli vendere, visto che interessavano in modo particolare "al nostro Carlo" (verosimilmente l'umanista fiorentino Carlo Marsuppini), anche se l'abate di Grottaferrata sembrava non volersene privare. Il manoscritto visto dal Traversari passò poi nelle mani del Bessarione, ed è l'attuale gr. 214 della Biblioteca Marciana di Venezia.
Da altre lettere al Niccoli del 1433 apprendiamo che il Traversari, mentre era a Venezia, dove si era recato nel corso del viaggio d'ispezione dei monasteri dell'Ordine che aveva intrapreso dopo l'elezione al generalato, aveva ricevuto la visita di un Pietro physicus che gli avrebbe parlato di alcuni suoi codici greci, che poi gli portò a vedere, assieme a una raccolta di monete antiche. Si trattava di testi che il Traversari non conosceva: il De toto medicinae corpore di Paolo di Egina in sette libri; due opere di Galeno non specificate (per la perdita del titolo greco nella lettera), la prima in sei libri, la seconda in tre; il De musica di Plutarco. Il Traversari aveva parlato a Pietro del "nostro Paolo", vale a dire del Toscanelli, verso il quale il physicus s'era dimostrato assai interessato, nonché pronto, non appena ne avesse avuta l'occasione, a recarsi a Firenze per godere della compagnia (contubernium) del Niccoli e dello stesso Toscanelli; quanto a quest'ultimo, che chiedesse pure quello che desiderava a Pietro, senza tema di restare deluso.
Questo Pietro è stato identificato con Pietro Tommasi, il veneziano che avrebbe voluto emendare la Geografia di Tolomeo (v. sopra), personaggio ben noto ai fiorentini e al Traversari in particolare. Il Pietro che visitò il Traversari, è però presentato dal camaldolese come un physicus quidam, che aveva conosciuto allora per la prima volta. Non può dunque essere il Tommasi; la sua identità è fatta intuire dal Traversari stesso in un passo dell'Hodoeporicon (il diario del suo viaggio 'disciplinare'). Qui leggiamo che era andato a trovarlo, tra i nobili veneziani, Fantino Dandolo, suo amico di vecchia data, e che nell'occasione conobbe il fratello del Dandolo, "medico di professione", che in seguito sarebbe tornato più volte a fargli visita; successivamente Traversari accenna al fatto che "il medico Pietro" gli aveva mostrato "alcuni codici greci piuttosto rari" e che la stessa cosa avevano fatto altri patrizi. Dal momento che l'unico medico ricordato nelle pagine precedenti è appunto il fratello di Fantino e visto che questi ebbe un fratello maggiore di nome Pietro, è probabile che il possessore dei codici di Paolo di Egina e di Galeno non fosse Tommasi, ma piuttosto il meno noto Pietro Dandolo.
Non possiamo dire se i codici di Pietro siano mai arrivati nelle mani del Toscanelli. Rammentiamo soltanto che due dei tre manoscritti che il Poliziano acquistò dagli eredi del medico fiorentino sono codici greci di Galeno (l'altro è un Arato, Phaenomena, con gli scoli) entrambi del De compositione medicamentorum, opera che comunque è in dieci libri e quindi non sembrerebbe corrispondere a quelle possedute dal veneziano (sui codici di Galeno v. oltre).
Durante il suo viaggio d'ispezione Traversari si fermò pure a Mantova, dove Vittorino da Feltre teneva la sua scuola, improntata ai nuovi principî pedagogici umanistici, chiamata Ca' Giocosa. L'istruzione che egli intendeva dare ai suoi allievi era di tipo 'enciclopedico' e in essa l'insegnamento delle scienze aveva una parte di rilievo. Dal racconto del suo allievo Sassolo da Prato (1416/1417-1449), dall'insegnamento della grammatica, condotto direttamente sul testo dei poeti e prosatori antichi, si passava all'arte oratoria (dialettica e retorica) e quindi alle discipline matematiche (aritmetica, geometria, astronomia e musica), a loro volta gradino per salire agli studi filosofici, principalmente rivolti a Platone e ad Aristotele. Rispetto alla tradizione medievale le materie insegnate (le sette arti liberali) non variavano ma attingevano nuova linfa dalla lettura diretta dei testi antichi, di quelli greci nel testo originale. Gli altri biografi di Vittorino ‒ Francesco da Castiglione, Francesco Prendilaqua e Bartolomeo Platina ‒ parlano di una sua passione per la matematica che lo portò a seguire i corsi padovani del celebre Biagio Pelacani da Parma (1354 ca.-1416); è significativo il fatto che Euclide, come Omero, fosse uno degli autori che il maestro amava leggere dopo cena ai discepoli.
Non fu un caso allora che quando Traversari si presentò alla Ca' Giocosa uno degli allievi di Vittorino, il quattordicenne Giovanni Lucido Gonzaga, figlio del principe, oltre a recitargli i versi che aveva composto per l'ingresso dell'imperatore a Mantova, gli mostrasse due nuove proposizioni da lui aggiunte a Euclide cum figuris suis. Vittorino fece visitare al Traversari la sua biblioteca dove, per il versante 'scientifico', egli trovò un codice contenente scritti sulla musica di Tolomeo, Aristide Quintiliano e Bacchio il Vecchio; Vittorino avrebbe fatto trascrivere Aristide e Bacchio per il Niccoli. Il codice in questione, o il suo modello, potrebbe essere il ms. III. C. 1 della Biblioteca Nazionale di Napoli, trascritto da un copista greco che lavorò alla Ca' Giocosa, Pietro Cretico, con numerose annotazioni di un allievo di Vittorino, che va forse identificato con Giovan Pietro da Lucca. Il codice contiene il De institutione arithmetica di Nicomaco di Gerasa, il De criterio in arte harmonica di Tolomeo, il De musica di Plutarco, l'opera omonima di Aristide Quintiliano e l'Institutio artis musicae di Bacchio. È da segnalare inoltre una coincidenza suggestiva: il ms. 2478 della Biblioteca Pública del Estado di Salamanca, che, scritto da mano italiana, deriva dal codice napoletano, raccoglie le opere appartenenti a manoscritti diversi di Vittorino, che il Traversari aveva chiesto fossero trascritte e cioè, oltre a Bacchio e ad Aristide Quintiliano, le orazioni di Giuliano e la Vita Homeri attribuita a Erodoto. Potrebbe essere quindi questo, o un suo 'parente' stretto, il codice copiato per il Niccoli.
8. Il cardinale Bessarione e Giorgio Gemisto Pletone
Il grande umanista Niccolò Niccoli, che del contubernium fiorentino era stato l'anima, morì nel 1437, proprio alla vigilia di un avvenimento che si preparava da lungo tempo, vale a dire il Concilio che doveva riunire la Chiesa romana e la Chiesa orientale. Un avvenimento, questo, che doveva portare in Italia, nelle due città in cui si tennero le sedute conciliari (Ferrara e Firenze), dotti greci che avrebbero avuto un'influenza profonda sull'Umanesimo; personaggi come Bessarione e Giorgio Gemisto Pletone.
Il primo accenno alla ricchissima biblioteca del Bessarione (1403 ca.-1472) ci viene da una lettera del Traversari, diretta all'amico Filippo Pieruzzi ‒ che segue un'altra perduta, a cui fa riferimento, diretta a Paolo dal Pozzo Toscanelli ‒ scritta da Ferrara il 7 aprile 1438. Dopo aver dato notizia di tre codici che gli avrebbe mostrato lo stesso imperatore, sui quali si era già soffermato nella lettera al Toscanelli, Traversari riferisce di essere entrato in grande familiarità con l'"arcivescovo niceno", vale a dire appunto il Bessarione. Interrogato subito de re libraria dal Traversari, il Bessarione disse di non avere molto con sé, avendo lasciato a Modone, in Morea, la maggior parte dei libri, tra i quali la Geografia di Strabone in due grandissimi volumi. Con sé il Bessarione aveva tra l'altro mathematica plura: un codice scritto di sua mano con figure, comprendente oltre ai più comuni Elementa, altri tre opuscoli di Euclide più rari, vale a dire i Dati, i Fenomeni e la Catottrica, nonché l'Almagesto di Tolomeo. Il codice visto dal Traversari è l'attuale ms. gr. 302 (Venezia, Biblioteca Marciana) in parte scritto dallo stesso Bessarione, un codice che a un certo punto scomparve e venne recuperato da Pietro Bembo, bibliotecario della Marciana, nell'anno 1532.
Questo codice fu copiato dal Bessarione probabilmente negli anni in cui visse a Mistra, alla scuola di Giorgio Gemisto Pletone. Dall'Oratio in funere Bessarionis di Niccolò Capranica apprendiamo che proprio a Mistra, ricopiando giorno e notte il commento a Tolomeo di un Giovanni Alessandrino ‒ certamente una svista per Teone Alessandrino ‒ il Bessarione si sarebbe rovinato la salute iniziando a soffrire della fastidiosa malattia, una calcolosi ai reni, che l'accompagnò per tutta la vita. Ancora prima di recarsi a Mistra, il Bessarione era stato a Costantinopoli, alla scuola di Giovanni Cortasmeno, anch'egli grande studioso dell'Almagesto. Gli interessi matematici e astronomici coltivati dal Bessarione si rivelarono quindi subito, sin da questo incontro ferrarese con Traversari; interessi che lo portarono a riunire un nutrito numero di manoscritti scientifici, su cui torneremo in seguito a proposito del Regiomontano.
Al Concilio era presente lo stesso maestro del Bessarione, il filosofo Giorgio Gemisto Pletone (1355 ca.-1452), noto soprattutto come 'platonico' e come autore di quel celebre opuscolo sulle differenze tra Platone e Aristotele che accese una lunga disputa tra i sostenitori dei due filosofi. Del Gemisto Pletone preme, però, qui ricordare gli interessi scientifici. Grande studioso di geografia, dedicò lunghe cure all'opera di Strabone che probabilmente introdusse, assieme al Bessarione e a Isidoro di Kiev, tra gli umanisti italiani. Gli è stata attribuita una descrizione del Peloponneso fondata su Tolomeo, sulla cui paternità sono stati però avanzati dei dubbi. Nella lettera di Domizio Calderini, che precede l'edizione da lui curata per Conrad Sweynheym della Geografia di Tolomeo, e uscita dopo la morte di entrambi presso Arnold Buckinck nel 1478, l'umanista veronese afferma di avere utilizzato, per emendare il testo latino e le carte, un antichissimo codice greco con correzioni dello spartano Gemisto, vale a dire del Pletone. Inoltre, in un suo trattatello dedicato alla correzione di alcuni errori di Strabone, anche questo fondato principalmente sull'opera di Tolomeo, il Pletone narra come, mentre era a Firenze per il Concilio, un certo Paolo Fiorentino gli avesse mostrato una carta del Nord Europa disegnata da un uomo venuto da quelle regioni. I due personaggi sono stati identificati con Paolo dal Pozzo Toscanelli e Claudius Clausson Swart, il cartografo danese che abbiamo già incontrato; i legami di Gemisto Pletone con il Toscanelli non sembrano però esaurirsi qui. Nei quaderni autografi dell'umanista greco figurano alcuni excerpta dal De plantis di Teofrasto che derivano dal codice oggi Laurenziano, che abbiamo detto essere probabilmente di mano del Toscanelli. Dallo stesso codice il copista greco Demetrio Sguropulo copiò nel 1443 il ms. gr. 274 (Venezia, Biblioteca Marciana) per il cardinale Bessarione. Sappiamo anche che Gemisto Pletone ebbe notevolissimi interessi per la matematica e l'astronomia e che prediligeva lo studio dell'Almagesto di Tolomeo e il commento che ne aveva dato Teodoro Metochite (1270-1332). Giorgio Gemisto Pletone compose anche un trattatello sul Metodo per rinvenire le congiunzioni del sole e della luna, il corso dei pianeti e degli astri per mezzo delle tavole approntate dallo stesso, conservato in due manoscritti dove è appunto seguito dalle tavole; passione, questa per le scienze esatte, che trasmise ai suoi allievi, e in modo particolare al Bessarione.
Parrebbe dunque che la presenza del Gemisto Pletone a Firenze, non sia stata importante soltanto per i destini del platonismo ma anche per i colloqui che egli ebbe con Toscanelli (per i comuni interessi geografici e 'tolemaici') e con gli altri umanisti presenti a Ferrara e a Firenze per il Concilio.
9. Le traduzioni nella Roma di Niccolò V
Scomparso già il Niccoli, conclusosi il Concilio di Firenze con la proclamazione dell'unione con la Chiesa greca, pochi mesi dopo, nella notte tra il 20 e il 21 ottobre 1439 moriva anche Ambrogio Traversari. Vennero così a mancare, nel giro di due anni, i principali artefici del recupero della cultura antica. Il testimone passò, se così si può dire, a un loro fidato amico e collaboratore assiduo nella ricerca dei manoscritti, specie patristici, nelle biblioteche europee, Tommaso Parentucelli da Sarzana, che già segretario del vescovo di Bologna e del cardinale Niccolò Albergati, era destinato a salire al soglio pontificio col nome di Niccolò V.
Appena divenuto pontefice (1447) egli si adoperò in ogni modo per raccogliere il più gran numero possibile di 'nuovi' testi per la biblioteca, mandando emissari alla ricerca di codici, in un tentativo che fu accostato dai contemporanei a quello fatto da Tolomeo Filadelfo per la Biblioteca di Alessandria. Teodoro Gaza (1408/1410-1476) nel presentare a Niccolò V la sua traduzione delle opere botaniche di Teofrasto addirittura minimizza l'opera del Filadelfo di fronte a quella del pontefice; quest'ultimo si sarebbe preoccupato non soltanto di radunare tutte le opere in latino, ma anche di raccogliere le opere dei Greci e di farle tradurre in latino; al confronto, ben poca cosa aveva fatto il Filadelfo, facendo tradurre in greco solamente qualche libretto dei Giudei. Effettivamente Niccolò fece venire a Roma (dove si era trasferito nel 1448) i migliori traduttori dal greco, tra cui il Gaza, affidando loro la versione di testi capitali della cultura greca, dando grande spazio proprio a quelli scientifici. Non sarà stata estranea a questa scelta la presenza a Roma del Bessarione (che vi fissò stabile dimora dopo il 1440), i cui interessi scientifici, anche come allievo di Giorgio Gemisto Pletone, erano ‒ come abbiamo visto ‒ notevoli.
Il traduttore più prolifico alla corte di Niccolò V fu un greco, Giorgio di Trebisonda, o Trapezunzio (1395-1472/1473). Fatto venire in Italia dal veneziano Francesco Barbaro nel 1416, dopo aver messo la sua abilità di traduttore al servizio del Concilio, dal 1440 era entrato a far parte della Curia romana, divenendo nel 1444 segretario apostolico. Appena arrivato a Roma, Trapezunzio si dedicò alle traduzioni, in particolare dei libri 'naturali' di Aristotele iniziando dalla Physica, e affrontando successivamente il De generatione et corruptione e il De caelo et mundo e, infine, il De anima. Di queste traduzioni, il De generatione et corruptione e il De caelo et mundo ebbero una circolazione limitata, probabilmente perché nel frattempo, eletto Niccolò V, questi gli chiese d'impegnarsi subito in altre traduzioni. Per la fine del 1450 aveva già completato la versione dell'Historia animalium, del De partibus animalium e del De generatione animalium. Successivamente Niccolò V gli impose la traduzione dell'Almagesto, che Trapezunzio completò tra il marzo e il dicembre del 1451, accompagnandola con un commento. Probabilmente del 1452 è invece l'ultima traduzione compiuta dal Trapezunzio prima di lasciare Roma, quella dei Problemata pseudoaristotelici, che accompagnò con una serie di scholia. Per entrambe le traduzioni, Niccolò V aveva chiesto i manoscritti greci in prestito al Bessarione, che per quella dell'Almagesto aveva consigliato al Trapezunzio di tenere presente e di farsi guidare dal commento di quel Teone Alessandrino che tanto duramente lo aveva impegnato alla scuola del Pletone.
Quando il Trapezunzio offrì la versione tolemaica a Niccolò V, ribadendo la sua inesperienza in campo matematico, suggerì al pontefice di sottoporla a uno studioso più esperto per avere dei suggerimenti, anche perché non aveva avuto modo di 'limarla' in modo soddisfacente. Niccolò V affidò questo compito a un allievo di Vittorino da Feltre, succeduto al maestro nella direzione della Ca' Giocosa, Giacomo da Cremona (o da San Cassiano), che nel 1449, giunto a Roma, aveva offerto i suoi servigi al pontefice. Giacomo sottopose a una drastica revisione il commento (non la traduzione) del Trapezunzio, incollando sui margini della copia che leggeva alcuni fogliettini, in cui apostrofava come ignorante e incapace l'umanista greco. Pare che dietro alla critica di Giacomo vi fosse anche il Bessarione. Trapezunzio nel suo commento additava infatti, come causa delle deformazioni che avevano colpito il testo tolemaico in età medievale proprio l'interpretazione di quel Teone che gli era stato consigliato come 'guida' dal Bessarione. L'attacco al suo commento nonché un aspro litigio con Poggio Bracciolini, che lo fece finire in prigione, e poi un altro diverbio con Giovanni Aurispa, furono le cause ultime ‒ nel 1450 vi era stato il duro confronto con il Valla ‒ che convinsero il Trapezunzio nel giugno del 1452 a lasciare Roma per trasferirsi a Napoli.
Arrivato a Roma, Giacomo da Cremona aveva avuto un altro incarico da parte di Niccolò V, ossia tradurre Archimede con il commento di Eutocio. La traduzione fu completata da Giacomo tra il 1449 e il 1453, anno in cui Cusano ricevette una copia della stessa. Per tradurre Archimede Giacomo si servì del celebre codice 'A', oggi perduto, che alla fine del Quattrocento si conservava nella biblioteca di Giorgio Valla e poté anche utilizzare la versione latina di Guglielmo di Moerbeke, che la ultimò nel 1259 e che si conserva autografa nel ms. Vat. Ottob. lat. 1850 (BAV). Pare inoltre che Niccolò V intendesse far controllare la versione di Giacomo dall'umanista e 'familiare' del Bessarione Niccolò Perotti. A questo fine avrebbe dovuto mandare a Bologna, dove era allora il Bessarione, la traduzione di Giacomo assieme al testo greco, probabilmente il codice 'A'.
Su invito dell'umanista e bibliotecario di Niccolò V Giovanni Tortelli, nel 1450 giunse a Roma anche Teodoro Gaza. Legato al Filelfo e al Bessarione, e allievo di Vittorino da Feltre, negli ultimi tre anni Gaza aveva insegnato allo Studio di Ferrara. Assieme al Tortelli, al Bessarione, a Giacomo da San Cassiano e a Lorenzo Valla, Gaza avrebbe formato quel gruppo affiatato da cui il Trapezunzio si vide messo in minoranza e costretto ad abbandonare Roma. Niccolò V affidò proprio al Gaza la versione di due opere aristoteliche già tradotte dal Trapezunzio, i Problemata e il De animalibus, mentre gli fece tradurre ex novo il De plantis (l'Historia plantarum e il De causis plantarum) di Teofrasto e i Problemata di Alessandro di Afrodisia. Gaza ritradusse i Problemata pseudoaristotelici nel 1452-1454 mentre terminò la versione del De animalibus, iniziata subito dopo, sotto il pontificato di Sisto IV; tradusse i Problemata d'Alessandro di Afrodisia nel 1453 e del De plantis di Teofrasto, rispettivamente, l'Historia nel 1451 e il De causis nel 1453-1454.
Per la versione dei 'due' Problemata Gaza pare avesse utilizzato un codice che un ignoto corrispondente da Trebisonda avrebbe mandato a Niccolò V. La lettera di questo corrispondente è di particolare interesse, perché egli afferma di avere notato che il manoscritto che inviava conteneva, per il testo aristotelico, più problemata di quanti non ne avesse mai visti. È probabilmente un'allusione al fatto che esistevano manoscritti con versioni più brevi del testo. Gaza è il primo a tradurre tutti e trentotto i libri dell'opera pseudoaristotelica. Lo stesso Giorgio di Trebisonda aveva utilizzato un manoscritto che si arrestava al Libro XXXIII, e in calce alla sua traduzione aveva notato come essa fosse più breve di quella di Bartolomeo da Messina. Per il De plantis invece Gaza avrebbe usato un manoscritto del Bessarione, il Marciano gr. 274, copiato nel 1443 dal codice del Toscanelli, di cui lamenta il grave stato di corruzione; per il De animalibus, infine, Gaza sarebbe ricorso a più di un codice, pur servendosi preferibilmente del Vat. gr. 262, già saltuariamente utilizzato dal Trapezunzio.
Va infine rammentato il giudizio che darà il Poliziano nel cap. 90 dei suoi primi Miscellanea sulle due traduzioni ritradotte dal Gaza: lo accusa di plagio, di avere utilizzato la versione precedente senza menzionarla, mostrando comunque di preferire in entrambi i casi le versioni molto meno fortunate del Trapezunzio. Alla difesa della sua traduzione dei Problemata, contro quella del Gaza, Trapezunzio aveva anche dedicato un opuscolo, la Protectio Aristotelis Problematum, scritto nel 1456, che indusse Gaza stesso a rivedere la sua traduzione.
Durante il pontificato di Niccolò V vi furono anche altre traduzioni dal greco di testi 'scientifici'. Rammentiamo quella della Geografia di Strabone, che fu affidata da Niccolò V a Guarino Veronese e a Gregorio Tifernate. Dello stesso Gregorio si possono rammentare le traduzioni di alcuni opuscoli minori di Teofrasto, di cui tradusse anche la Metaphysica: sono il De igne, il De piscibus e il De vertigine, da lui dedicati a Niccolò V.
10. Giovanni Regiomontano
Nello studio e nella divulgazione dei testi scientifici restò comunque centrale l'interesse per l'opera astronomico-matematica di Tolomeo, in particolare grazie al Bessarione. Nel 1460, dopo le sue peregrinazioni in Germania in qualità di legato papale alla Dieta di Norimberga e poi a Worms, il cardinale approdò a Vienna, dove si trattenne sino al febbraio del 1461. In questa città conobbe il celebre astronomo Georg von Purbach, che convinse a preparare un commento all'Almagesto e che invitò a seguirlo a Roma. Purbach pose come condizione che lo seguisse il suo allievo più dotato, Johann Müller di Königsberg, meglio noto con il nome latinizzato di Regiomontano. Bessarione si trattenne a Vienna per alcuni mesi durante i quali Purbach completò i primi libri del suo commento, l'Epitoma Almagesti, ma poi morì prima della partenza per l'Italia. Sul letto di morte fece promettere al Regiomontano di completare l'opera; l'allievo, rimasto solo, accompagnò il cardinale quando questi tornò a Roma nell'autunno del 1461. Durante il soggiorno romano, oltre ad approfondire la conoscenza del greco sotto la guida del suo nuovo protettore, il Regiomontano poté continuare l'Epitoma, e iniziare a lavorare a un testo più complesso sulla stessa opera tolemaica, che avrebbe dovuto avere il titolo di Problemata Almagesti; soprattutto, a Roma egli incontrò alcuni personaggi di grande levatura intellettuale, che ricorda più d'una volta nei suoi scritti. Per imparare meglio il greco, oltre al Bessarione, vi era a sua disposizione Teodoro Gaza; v'erano poi Niccolò Cusano, Leon Battista Alberti e il Toscanelli. La presenza a Roma di quest'ultimo è resa assai probabile dalla sua partecipazione come testimone alla stesura del testamento del Cusano, avvenuta a Todi il 6 agosto 1464. Cusano stesso si stabilì a Roma dal 1458 al 1464, anno della sua morte, e l'Alberti, com'è noto, vi visse dal 1443 in poi. Cusano e il Toscanelli si conoscevano da lungo tempo, forse da prima del 1424, se entrambi studiarono alla scuola di Prosdocimo de' Beldomandi a Padova, come è stato supposto, oppure negli anni Trenta, quando si sarebbero potuti incontrare a Roma.
Quando il Regiomontano arrivò a Roma trovò quindi un ambiente singolarmente adatto ad accoglierlo e a stimolarlo. Particolare fu l'ammmirazione che suscitò in lui il Toscanelli, le cui qualità egli lodò nel De quadratura circuli (1464), sottolineando la sua eccellenza in filosofia e in matematica, tale da porlo in concorrenza con lo stesso Archimede. Il Regiomontano racconta come dopo aver studiato a fondo la medicina, Toscanelli avesse imparato il greco anche per poter correggere gli errori trasmessi alla latinità dal "sonnolento traduttore". Anche se non si può escludere che il Regiomontano si riferisse qui ad altre traduzioni, magari a quelle dell'Almagesto o della Geografia di Tolomeo, visto il contesto è probabile che si tratti delle opere di Archimede. Da una nota del Regiomonta-no, apposta in margine alla sua copia della traduzione di Archimede di Giacomo da Cremona, si può desumere che egli ebbe anche modo di consultare un exemplar vetus di Archimede appartenuto al Toscanelli, per il quale si è pensato a un codice greco, oppure all'autografo della traduzione di Guglielmo di Moerbeke.
Il Regiomontano a Roma completò l'Epitoma Almagesti e iniziò i Problemata Almagesti, alla cui stesura collaborò attivamente anche il Bessarione, come testimoniano i manoscritti annotati dai due. Sempre legata allo studio di questa opera di Tolomeo è la Theonis Alexandrini defensio in sex voluminibus contra Georgium Trapezuntium. Questa opera, mai pubblicata a stampa (si conserva nel ms. IV. I. 935 dell'Archivio dell'Accademia delle Scienze di San Pietroburgo), fu scritta dal Regiomontano successivamente, durante il periodo che trascorse in Ungheria (1469/1470-1471). Essa va ricollegata alla polemica tra il circolo bessarioneo e il Trapezunzio e alle accuse che questi aveva mosso contro il commento dell'Alessandrino. Costituisce anzi il pendant in campo matematico dell'In calumniatorem Platonis, dell'opera cioè con cui il Bessarione aveva risposto alle accuse mosse al platonismo dal Trapezunzio; nella Defensio questi viene accusato non soltanto di criticare a torto il commentatore alessandrino, ma nel contempo anche di plagio, per averlo cioè tacitamente sfruttato. Il legame dell'opera con il Bessarione è del resto confermato dal fatto che il cardinale ne ricevette un'anteprima ancora non rilegata. Che il Bessarione tenesse in modo particolare a vedere Regiomontano impegnato nella riabilitazione di Teone è confermato dal fatto che gli lasciò il suo codice con il commento dell'Alessandrino, oggi ms. Cent. V app. 8 conservato nella Stadtbibliothek di Norimberga. La parte più antica, appartenuta al Bessarione e contenente Teone, risulta databile agli inizi del sec. XV. Anche se non pare sia autografo del Bessarione (almeno dalle descrizioni che ne sono state date) è probabilmente da porre in relazione con gli studi che il futuro cardinale compì a Mistra, con quelle veglie sul commento dell'Alessandrino che avrebbero minato la sua salute.
Il Regiomontano fu certamente aiutato in maniera notevolissima dal libero accesso alla biblioteca del suo protettore che, arrivato dalla Grecia con un numero limitato di codici, fece ogni sforzo per ingrandirla e completarla. Rammentiamo il ms. gr. 214 (Venezia, Biblioteca Marciana), con Aristotele e Cleomede, che era appartenuto a Pietro Vitali, in questo caso un codice del sec. XIII/XIV, ma acquistato evidentemente in Italia; oppure il Marciano gr. 274, con il De plantis di Teofrasto che nel 1443 Demetrio Sguropulo copiò dal codice probabilmente di mano del Toscanelli; oppure il codice 'E' di Archimede (Marciano gr. 305 copiato dal perduto codice 'A'); oppure, ancora, lo splendido codice della Geografia di Tolomeo (Marciano gr. 388), che fu copiato da Giovanni Roso nel 1453, probabilmente a Firenze, dove venne pure decorato. Tra i codici antichi di carattere scientifico possiamo rammentare il manoscritto del sec. X con tutte le opere di Ippocrate, Marciano gr. 269, oppure il De compositione medicamentorum di Galeno, Marciano gr. 288 del sec. XII, o ancora il Marciano gr. 313 del sec. X, con l'Almagesto, ritenuto copia diretta dell'archetipo Vat. gr. 1594 appartenuto a Leone il Matematico.
Il Regiomontano poté dunque disporre di una biblioteca formidabile, in cui gli poteva capitare di imbattersi in opere ancora poco note come l'Aritmetica di Diofanto, i cui primi sei libri (i soli che ci sono pervenuti nel testo greco) egli scoprì verosimilmente nel Marciano gr. 308. Ne scrisse con entusiasmo all'astronomo ferrarese Giovanni Bianchini pregandolo di vedere se a Ferrara si potevano trovare i restanti libri.
Nell'orazione che tenne allo Studio padovano nel 1464, all'inizio di un ciclo di lezioni su Alfragano, il Regiomontano ripercorse la storia della matematica, mostrando così, accanto ai testi della tradizione 'medievale', le ultime scoperte del secolo: accanto a Euclide e Ipsicle nella versione di Boezio, accanto a Campano, compaiono il 'nuovo' Archimede, di cui viene ricordata la traduzione di Iacopo da Cremona e anche una Mechanica, che non aveva ancora visto, ma di cui aveva sentito parlare, che è probabilmente un ricordo dell'inafferrabile Archimede di Rinuccio Aretino; accanto ad Archimede, Apollonio di Perge, la cui importanza tutti avrebbero potuto ammirare quando fosse stato tradotto in latino, ancora, il commento ad Archimede di Eutocio, gli Sphaerica di Teodosio e il De sphaericis figuris di Menelao. Per quanto concerne l'aritmetica il Regiomontano cita come 'novità' l'Aritmetica di Diofanto che aveva appena 'scoperto'.
Il Regiomontano andava già allora progettando un'opera filologica di ampio respiro, in cui si proponeva di tradurre ex novo alcune delle principali opere astronomiche e matematiche greche, di emendare gli errori delle traduzioni precedenti, di accompagnarle, infine, con nuovi commenti e delucidazioni, ma anche di stamparne semplicemente i testi in forma corretta. Per questo programma il Regiomontano cercò degli alleati non appena nel 1471 tornò a Norimberga dopo il suo soggiorno in Ungheria. Scrisse infatti a Christian Roder, celebre matematico della Università di Erfurt e prefetto della Biblioteca Amploniana, per avere informazioni sui codici di quella biblioteca e allo stesso tempo per esporgli il suo progetto editoriale e chiedergli un sostegno nella 'lotta' contro i "nemici della verità". Questi erano i tanti 'errori' che non soltanto avevano corrotto la scienza 'siderale' (a un madornale errore astrologico si allude all'inizio della lettera) ma tutte le discipline matematiche, nelle quali la trasposizione di un solo elemento, numero o lettera, poteva guastare un'intera pagina. Intendeva perciò porre fine alla catena di errori che la trascrizione dei manoscritti comportava ricorrendo alla stampa, che avrebbe finalmente permesso la diffusione di testi senza errori di trascrizione; un errore d'altro genere, ma altrettanto grave, proveniva peraltro da quanti, professandosi astronomi eccellenti, ancora rendevano pubblici i loro calcoli basati sulle Tavole alfonsine senza ricorrere più all'osservazione diretta del cielo.
Se quest'ultimo proposito ci riconduce ai tentativi fiorentini del Dagomari e poi del Toscanelli, la grande novità del Regiomontano sta proprio nell'idea di ricorrere alla stampa per fissare un testo che si vuole definitivo. A questo fine lo stesso Regiomontano installerà in casa sua una tipografia, da cui uscirà però soltanto una piccola parte delle molte opere progettate, che sono elencate nell'Index stampato su un singolo foglio probabilmente nel 1474.
Nel foglio troviamo quindi elencate, accanto a opere moderne come le Theoricae novae planetarum del suo maestro Purbach, le seguenti opere antiche: gli Astronomica di Manilio (con le Theoricae novae sono gli unici testi già pubblicati, entrambi a Norimberga attorno al 1473-1474); la nuova versione latina della Geografia di Tolomeo, che sostituiva quella dell'Angeli, inaffidabile per l'insufficiente conoscenza da parte di quest'ultimo del greco e della matematica (la nuova traduzione avrebbe avuto due summi arbitri nelle persone di Teodoro Gaza, uomo dottissimo in greco e in latino, e di Paolo dal Pozzo Toscanelli Graecarum quidem non ignarus, in mathematicis autem plurimum excellens); seguono, nell'elenco, una nuova versione dell'Almagesto; un'edizione corretta della versione di Campano di Euclide e Ipsicle; il commento di Teone di Alessandria all'Almagesto; la Hypotyposis astronomicarum positionum di Proclo; Firmico Materno; una revisione della traduzione di Archimede di Giacomo da San Cassiano; opere di Tolomeo (la Prospettiva e la Musica), di Menelao, Teodosio, Apollonio di Perge, Sereno, la Meccanica di Aristotele e Igino. Si proponeva poi di disegnare alcune nuove carte geografiche, un mappamondo e varie carte regionali, nonché di pubblicare alcune sue opere: dei magna commentaria alla Geografia di Tolomeo, un Commentariolum singulare contra traductionem Iacobi Angeli (che voleva mandare agli 'arbitri', cioè al Gaza e al Toscanelli), la Defensio Theonis, dei Commentaria in libros Archimedis eos qui expositione Theonis carent, il Breviarium Almaiesti (vale a dire l'Epitoma) e i Problemata astronomica ad Almaiestum totum spectantia.
Non compaiono nella lista le Disputationes contra Cremonensis in planetarum theorica deliramenta, scritte nel 1464 a Roma e che egli stampò nel 1475 dopo la pubblicazione dell'index, al quale si accenna nella nuova prefazione aggiunta per questa edizione. Qui il Regiomontano addita nell'imperizia dei traduttori e nelle innovazioni immotivate dei copisti le ragioni che avrebbero portato al decadimento della nostra conoscenza dei testi greci antichi. Ciò è evidente, scrive il Regiomontano, in quella che è spacciata come Geografia di Tolomeo, opera di cui Iacopo Angeli aveva stravolto il testo, mentre le carte geografiche a loro volta erano state sconciate da un homo famelicus in cui si è voluto riconoscere Niccolò Germano, che aveva appunto introdotto alcune innovazioni nelle proiezioni delle carte tolemaiche. Il risultato era stato tale che il possessore di una Geografia nella versione di Iacopo e con le carte di Niccolò, in realtà non aveva per le mani neanche l'ombra di quell'opera, che per la sua difficoltà era stata abbandonata anche tra i Greci e che era stata salvata soltanto grazie a un monaco di nome Massimo, vale a dire Massimo Planude.
Tra le tante opere menzionate nella lista proprio il Commentariolum contro la versione dell'Angeli, malgrado non fosse stato finito, è una delle poche opere che saranno poi stampate nel 1525 a Strasburgo, nell'edizione della Geografia curata da Willibald Pirkheimer. Così, pure il manoscritto della versione di Archimede rivista dal Regiomontano (Norimberga, Stadtbibliothek, Cent. V. 15) sarà stampato assieme al testo greco da Thomas Geschauff (Venatorius) a Basilea nel 1545; l'Epitoma in Almagestum fu invece pubblicato a Venezia nel 1496.
11. La Roma di Sisto IV e gli umanisti veneti
La grande impresa avviata dal Regiomontano continuava, per la parte scientifica, quel vasto programma di traduzioni dal greco che Niccolò V, con l'aiuto fondamentale di Bessarione, aveva iniziato verso la metà del secolo. Molti dei lavori terminati o solo progettati dal Regiomontano si ricollegano esplicitamente da un lato al magistero del Bessarione, dall'altro all'influenza di personaggi del calibro di Teodoro Gaza e di Paolo dal Pozzo Toscanelli.
Nella seconda metà del secolo, nella Roma di Sisto IV, come nella Firenze medicea e nel Regno di Napoli, vi furono vari altri contributi al completamento di una nuova biblioteca scientifica di testi greci tradotti. Rammentiamo Giovanni Argiropulo, che ritraduce la Physica (ne approntò due redazioni, la prima per Cosimo il Vecchio, la seconda per Piero di Cosimo de' Medici) e il De caelo et mundo di Aristotele; Mattia Palmieri, che traduce i Meteorologica, versione che sarà usata dallo stesso Argiropulo in un suo corso allo Studio fiorentino; Andronico Callisto, che ritraduce il De generatione et corruptione; Teodoro Gaza che volge in latino gli Aphorismi di Ippocrate; oppure Andrea Brenta che negli anni 1479-1480 traduce il De insomniis di Ippocrate, dedicandolo a Sisto IV, e altri opuscoli ippocratici.
È soprattutto a Venezia che viene fatto lo sforzo maggiore, specialmente grazie a Ermolao Barbaro (1453-1493), verso un recupero integrale e filologicamente accurato delle fonti greche, in particolare di quelle scientifiche. È del Barbaro il proposito di leggere ai suoi allievi tutto Aristotele in greco, di tradurne tutte le opere e di commentarle principalmente con l'ausilio dei commentatori greci. È il Barbaro che fonda a Venezia il primo orto botanico; è il Barbaro, che traduce e pubblica la Paraphrasis in Aristotelem di Temistio, dedicandola a Sisto IV (Treviso, 1481), e nel 1480-1481 si volge alla traduzione del De materia medica di Dioscuride, stendendone poi un commento, che chiamò Corollarium e che lo impegnò verosimilmente tra il 1481 e il 1489. Da una lettera del 1484 apprendiamo che ogni sera il Barbaro era solito recarsi nell'orto a osservare le piante e a pensare a quel Dioscuride che un giorno (aliquando) avrebbe pubblicato; nel 1489, c'informa una lettera a Giorgio Valla, era sul punto di pubblicarlo, e per fare un controllo aveva appena dato una scorsa alle voci botaniche della Cornucopia di Niccolò Perotti, che proprio allora (1489) era stata pubblicata. Traduzione e Corollarium furono dati alle stampe postumi da Giovan Battista Egnazio (Venezia, 1516). Nel 1484 Barbaro stese un Compendium scientiae naturalis... ex Aristotele, anch'esso pubblicato postumo dal nipote Daniele (Venezia, 1545). Tra il 1491 e il 1493, durante l'esilio romano seguito alla sua nomina a Patriarca d'Aquileia da parte di Innocenzo VIII, scrisse la sua opera filologicamente più importante, ossia le Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam.
Il Barbaro, la cui fama di umanista è più legata a questioni di forma e di stile (notissima la sua polemica col Pico sullo 'stile parigino') e alla eleganza delle sue traduzioni, in realtà, in campo scientifico, fu attentissimo a sgombrare il terreno da ogni possibile equivoco terminologico che potesse condurre a un'errata interpretazione del testo antico, con conseguenze facilmente immaginabili nel campo pratico. La ricerca di un'esatta corrispondenza tra le res e i verba con cui esse erano rappresentate costituì infatti la sua maggiore preoccupazione, come risulta ben evidente già dal Corollarium. La stessa acribia terminologica si ritrova nelle Castigationes, il cui scopo dichiarato è quello di sanare le quasi cinquemila ferite che la tradizione aveva inferto al testo di Plinio, quand'anche (ma il Barbaro scrive di non volerlo nemmeno pensare) non si sia trattato di errori dello stesso autore antico. Per quest'opera di restauro sono messi a frutto tutti gli strumenti della nuova filologia e in particolare i testi che gli scavi umanistici hanno messo a disposizione degli studiosi: basti citare la Geografia di Tolomeo, per la sezione geografica di Plinio, oppure, per la parte botanica, le ricerche dello stesso Barbaro su Dioscuride.
Ma se le Castigationes del Barbaro rappresentano uno dei monumenti maggiormente rappresentativi ‒ accanto ai Miscellanea del Poliziano ‒ della filologia umanistica, esse non sono affatto un caso isolato nella seconda metà del secolo; il testo di Plinio, tanto ricercato nella prima metà, divenne allora una sorta di "laboratorio filologico" (Fera 1995), un laboratorio in cui filologia e conoscenze 'scientifiche' finivano molto spesso con l'identificarsi. La Naturalis historia fu anche il terreno su cui si scontrarono diverse scuole umanistiche; basti qui solo rammentare le polemiche tra Niccolò Perotti e Calderini, con l'intervento a favore di quest'ultimo di Cornelio Vitelli, tra Raffaele Regio e Calfurnio, tra Giorgio Merula, Domizio Calderini e Galeotto Marzio, tra Niccolò Leoniceno e Pandolfo Collenuccio, e i dissensi tra il Leoniceno e lo stesso Barbaro. Le Castigationes costitituiscono dunque il consuntivo finale, onnicomprensivo, di decenni di discussioni e studi pliniani in cui, tra una critica a un passo della traduzione del De animalibus aristotelico di Teodoro Gaza e le frecciate contro le Annotationes in Plinium di Marco Antonio Sabellico, nella posizione del Barbaro appare una sostanziale affinità con gli interventi su Plinio di Angelo Poliziano e di Giorgio Merula e, anche se in misura minore, con Filippo Beroaldo.
Tra coloro con cui il Barbaro si trovò in disaccordo su Plinio va ricordato in particolare Niccolò Leoniceno (1428-1524). Allievo di Ognibene da Lonigo, buon conoscitore del greco, il Leoniceno si laureò in artibus et medicina a Padova e poi insegnò per circa sessant'anni all'Università di Ferrara (con una breve parentesi bolognese, per il solo anno accademico 1508-1509), dapprima matematica e poi filosofia e medicina. Profondamente convinto della superiorità scientifica dei Greci, sua preoccupazione costante fu di mostrare come si dovesse tornare alle fonti greche della medicina scavalcando gli intermediari latini e arabi; questi, a suo giudizio, avevano causato danni gravissimi nella tradizione dei testi rendendo assai pericolosa la loro applicazione. Muovendo dagli scritti greci di medicina e botanica bisognava operare un attento esame filologico dei testi in un continuo confronto con la realtà; ci si sarebbe allora potuti rendere conto di come alcune medicine, che leggendo gli autori antichi potevano sembrare lontanissime dall'uso comune, "sono invece presenti nel nostro orto e magari le usiamo spesso in maniera non conforme agli insegnamenti degli antichi, correndo quindi grandi rischi".
Queste affermazioni sono tratte dall'opera maggiore del Leoniceno, il De Plinii et plurium aliorum in medicina erroribus pubblicato come opera in quattro parti nel 1509 a Ferrara. Le varie parti che compongono l'opera nacquero come epistole (al Poliziano, al Barbaro, a Francesco Totti e a Girolamo Menocchi) scritte dal Leoniceno in risposta alle critiche che gli erano state mosse per le sue correzioni a Plinio. All'origine vi era stata una lettera del Poliziano in cui oltre all'approvazione verso quanto il Leoniceno andava facendo contro l'inscitia barbarorum, in materia medica, in particolare contro Avicenna, si discute un presunto errore rinvenuto dal Leoniceno in un passo botanico di Plinio. Mostrando che nel caso specifico non si poteva parlare di errore, il Poliziano invitava l'amico, se questi intendeva criticare l'autorità di Plinio, a schierarsi con argomentazioni più decisive (Poliziano, Opera omnia, ff. B[iii]r-b[iiii]r). L'invito fu accolto e così nacque il De Plinii ... in medicina erroribus, che nella sua forma primitiva, costituita dalla lettera 'provocatoria' del Poliziano e dalla risposta del Leoniceno, fu stampato a Ferrara nel 1492. Proprio le critiche a Plinio, l'averlo contestato per avere erroneamente identificato alcune piante e in definitiva per aver tradito quelle fonti greche che erano all'origine della Naturalis historia, attrassero su di lui le ire dei fautori di Plinio, dal Barbaro al Poliziano, da Pandolfo Collenuccio ad Alessandro Benedetti. Se da un lato il Leoniceno era legato al Barbaro da comuni interessi per la botanica, in realtà erano i loro scopi a divergere, in quanto la filologia del Barbaro mirava a sanare il testo di Plinio dai guasti della tradizione, mentre quella del Leoniceno era asservita alla pratica medica, a individuare i possibili errori che potevano mettere in pericolo i pazienti. Lo afferma chiaramente il Leoniceno già nella chiusa della prima edizione del De Plinii ... in medicina erroribus; si tratta di cose reali, non di dispute tra letterati sul significato di un nome; è in gioco la communis hominum salus, che bisogna proteggere guardando non tam auctoritatem scribentium quam veritatem ipsam (De Plinii ..., f. c[iii]r). Per agevolare poi una maggiore diffusione dei medici greci, il Leoniceno si dedicò anche alla loro traduzione, in particolare di alcune opere di Galeno.
12. Angelo Poliziano e le scoperte di Giano Lascaris
Anche Angelo Poliziano doveva rivelare negli anni Ottanta una spiccata attenzione per i testi di carattere scientifico. Si rammentano: un elenco scritto di sua mano (l'attuale ms. fr. 9467, Parigi, BN) di abbreviazioni greche, con simboli astronomici, astrologici e matematici, che fu inserito dal Du Cange nel suo Glossarium ad scriptores mediae et infimae Graecitatis; la sua versione, compiuta negli anni 1479-1480, dei Problemata dello Pseudo-Alessandro di Afrodisia, per altro già tradotti dal Gaza. Si ricorda inoltre che nel 1491 egli fece collazionare il celebre Laurenziano Plut. LXXIII 1 di Celso con l'edizione del 1478 (v. sopra), e che fece copiare nel Vat. lat. 6337 (BAV) una raccolta di rari testi di medicina contenuti nel Plut. LXXIII 41 (Firenze, Laur.). L'interesse del Poliziano per la medicina è del resto confermato dalle molte citazioni di medici antichi contenute nei primi Miscellanea (Galeno, nei capp. 34 e 38, Dioscuride nei capp. 50 e 61 e Paolo di Egina nel cap. 50), a cui si aggiungono nei secondi, Celso, Apicio e Oribasio. Lo ha mostrato in maniera evidente Alessandro Perosa, pubblicando le annotazioni polizianee in margine a due esemplari del De compositione medicamentorum che il Poliziano aveva acquistato dagli eredi di Paolo dal Pozzo Toscanelli (sono i Laurenziani Plut. LXXV 8 e 17) e che annotò nel 1487, come confermano le sottoscrizioni che egli appose in calce ai due manoscritti. Inoltre in una lettera del 5 giugno 1490 Poliziano chiedeva a Lorenzo de' Medici se Pierleone da Spoleto, il celebre medico del Magnifico, poteva rivedere la sua "traductione di Hippocrate et Galieno, che è quasi al fine, et così el commento che fo sopra ecc.", commento che avrebbe compreso "tutti e' termini medicinali che venghono dal greco, et truovo come si possino chiamare latine", che egli aveva già sottoposto, ricevendone approvazione, a Ermolao Barbaro e a Giovanni Pico della Mirandola. Da un'altra lettera apprendiamo che si trattava del commento di Galeno agli Aphorismi di Ippocrate. Nel corso del viaggio compiuto con Pico alla ricerca di codici per la Biblioteca Medicea privata lo vediamo, nel giugno del 1491, trarre excerpta di Galeno (dal Protrepticus e dal Quod animi mores corporis temperiem sequantur) da un codice già appartenuto a Lianoro Lianori, e poi scoprire a Padova tra i libri di Pierleone da Spoleto il De dogmate Platonis et Hippocratis. E ancora nel 1492 chiedeva in prestito alla Medicea privata un Hippocratem antiquum e poco dopo un Hippocratem novum. Questi suoi interessi per la medicina sono del resto confermati dalla presenza più massiccia di testi greci nei secondi Miscellanea, che egli non poté terminare, e dal fatto che tra i codici medicei trovati in casa sua figurassero ben quattordici manoscritti di medicina, di cui dieci con opere di Galeno.
È stata notata l'affinità tra un'affermazione contenuta nella dedica al Poliziano del De Plinii ... in medicina erroribus in cui il Leoniceno definisce un''eresia' il ritenere che l'homo eloquens dovesse per forza essere incapace di giudicare de aliis disciplinis e le celebri affermazioni contenute nella prolusione al corso del Poliziano sugli Analitici primi di Aristotele del 1490-1491, intitolata Lamia e stampata a Firenze nel 1492. Qui il Poliziano, difendendosi dagli attacchi di coloro che criticavano la sua attività di commentatore aristotelico e gli rimproveravano di aver fatto suo il titolo di philosophus, rammentava la sua attività di grammaticus, cioè di filologo, in molti campi del sapere e le lunghe vigiliae che aveva trascorso a commentare testi di medicina e di diritto. Richiamandosi ai grandi grammatici dell'Antichità censores […] et iudices scriptorum omnium, il Poliziano rivendicava il diritto di applicare la 'grammatica' a tutti i rami del sapere, incluso quello filosofico. Per quest'ultimo egli adduceva a sua difesa contro gli attacchi delle lamiae gli extructa […] ad tectum loculamenta veterum commentariorum, le cataste di commentatori greci che aveva a disposizione, qui omnium mihi doctores praestantissimi videri solent, che se non altro lo avrebbero dovuto rendere non del tutto sprovveduto in campo filosofico (Lamia, ed. Wesseling, pp. 16-17).
Questa rivendicazione della competenza del filologo in ogni campo del sapere fu poi applicata dal Poliziano nel suo Panepistemon, la prolusione al corso sull'Etica Nicomachea, letta dal Poliziano nel 1491, e stampata la prima volta a Firenze nel 1492, in cui egli presentò un quadro complessivo di tutte le scienze, arti, discipline e mestieri. Il Panepistemon, del resto, potrebbe rappresentare, se si vuole, l'ossatura su cui il Poliziano avrebbe inteso costruire una nuova enciclopedia dello scibile umano. È stato mostrato come nel settembre-ottobre 1488 Poliziano avesse proceduto a un'ampia schedatura delle opere di Sesto Empirico, in cui egli aveva visto "una grande enciclopedia abbracciante tutti i rami del sapere". Dall'esame degli excerpta di Sesto è risultato inoltre come nel Poliziano prevalesse un "intento costruttivo, teso a ricomporre attraverso i tasselli delle opinioni dei vari pensatori un universo della scienza dotato di solide fondamenta razionali" (Cesarini Martinelli 1980, p. 354). Un primo frutto di questo intento 'enciclopedico' è costituito proprio dal Panepistemon, da questo tentativo di organizzare schematicamente lo scibile umano, che in parte deriva dalla lettura di Sesto, anche se sono opportune alcune distinzioni, alla luce di recenti studi. La sezione relativa a retorica, grammatica e logica sembra infatti derivare principalmente dal De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella; quella dedicata alla musica ha invece le fonti principali in due testi 'nuovi' come gli Harmonica di Tolomeo e il De musica di Aristide Quintiliano; per la descrizione della geodesia e della meccanica le fonti sono Erone e Pappo; per la poliorcetica sono menzionati Ateneo, Bitone, Erone, Pappo, Filone e Apollodoro, mentre in pneumaticis è citato Erone e in ochumenis Archimede (il riferimento è al Perì tõn ochouménōn, cioè al De corporibus fluitantibus); per la sezione sulla medicina l'autore a cui fa riferimento il Poliziano è sorprendentemente l'assai poco noto Teofilo Protospatario. È invece Sesto Empirico e in particolare il Libro V dell'Adversus mathematicos la fonte quasi esclusiva dell'astrologia. Ciò fa intuire quale possa essere stato il principale intento nella schedatura di Sesto, ossia servirsi dell'opera del filologo scettico per separare quanto andava ritenuto 'vera scienza' da altri campi del sapere per i quali non si poteva nutrire alcuna certezza. Non sarà poi un caso che molti punti toccati da Sesto Empirico nella sua critica dell'astrologia torneranno nelle Disputationes adversus astrologos di Giovanni Pico.
Alcuni particolari, in attesa di uno studio esaustivo del Panepistemon, sono sicuramente significativi: il richiamo a testi 'nuovi' come Archimede, Pappo ed Erone per la meccanica, e come Tolomeo e Aristide per la musica. In modo specifico per Pappo, la fonte del Poliziano va riconosciuta nel codice della Collectio mathematica appartenuto al Filelfo (il Vat. gr. 218), mentre, per quanto concerne Erone, il Poliziano cita esplicitamente philosophus Heron in pneumaticis già nel cap. 97 dei primi Miscellanea (del 1489).
Va richiamata l'attenzione soprattutto sull'impiego di Teofilo nella sezione del Panepistemon relativa alla medicina. La fonte letterale del Poliziano va riconosciuta nella Diaíresis tẽs iatrikḗs contenuta nel commento al primo degli scoli agli Aphorismi di Ippocrate che vanno appunto sotto il nome di Teofilo. Di questo testo la Biblioteca Medicea inizialmente possedeva un solo codice, oggi Plut. LXXIV 11 (Firenze, Laur.), mancante però della parte iniziale, quella da cui è tratto il testo che il Poliziano traduce nel Panepistemon; egli si poté invece servire dell'attuale Laurenziano Plut. LXXXVI 9, comprendente il commento di Michele di Efeso al De partibus animalium di Aristotele, degli scoli prevalentemente di Eutecnio ai Thēriaká e agli Alexispharmáka di Nicandro, seguiti appunto dal commento di Teofilo agli Aphorismi di Ippocrate. Quest'ultima parte del codice giunse a Firenze soltanto grazie a una precisa richiesta di Lorenzo de' Medici, che scrisse appositamente al duca di Urbino per far trascrivere Theophilo et Euthernio da un codice della Biblioteca Urbinate (l'attuale Vat. Urb. gr. 64). La lettera del Magnifico è registrata al 28 luglio 1490 ed ebbe evidentemente buon esito, visto che Teofilo è citato già nel Panepistemon. Successivamente, il 28 ottobre 1492, Michael in Aristotelem de partibus, vale a dire il Laurenziano Plut. LXXXVI 9, fu preso in prestito anche da Giovanni Pico. La scelta da parte del Poliziano ha evidentemente origine dalla natura schematica della suddivisione della scienza medica nel commento di Teofilo, perfettamente rispondente alla natura del Panepistemon.
Piuttosto, assume un particolare significato il fatto che l'arrivo del testo di Teofilo e il tentativo di sistemazione dello scibile da parte del Poliziano nel Panepistemon coincidano ‒ anzi s'integrino in un tutt'uno ‒ con le ricerche fatte svolgere da Lorenzo de' Medici per completare la Biblioteca Medicea privata. Quella biblioteca che il Magnifico voleva completare proprio per i suoi Pico e Poliziano; quello sforzo, notevole anche per l'impegno economico, di cui parla anche il Leoniceno nella lettera al Poliziano premessa al De Plinii... in medicina erroribus, notando con una punta di invidia quanto s'adoperasse il Magnifico in quegli anni per arricchire la biblioteca di famiglia, seguendo i consigli e i desiderata soprattutto del Poliziano e del Pico.
Già un decennio prima l'acquisto della biblioteca del Filelfo da parte di Lorenzo de' Medici aveva condotto a Firenze il codice appena ricordato della Collectio di Pappo. Così pure con la biblioteca del Filelfo la biblioteca dei Medici aveva acquistato un codice della Mechanica dello Pseudo-Aristotele (è il Laurenziano Plut. XXVIII 45). Ma negli anni 1490-1492 si svolse la ricerca più proficua di cui fu incaricato l'umanista greco Giano Lascaris, che nel 1490 percorse dapprima il Nord Italia e poi la Grecia e nel 1491-1492 il Sud Italia da cui passò di nuovo in Grecia. Mentre nel 1491 proprio il Poliziano e Pico partirono da Firenze alla volta di Venezia, rivisitando in parte le stesse biblioteche già viste dal Lascaris.
Tra le scoperte del Lascaris oggi sicuramente identificabili si può citare il celeberrimo codice dell'inizio del sec. X proveniente dallo scrittoio imperiale di Costantino VII Porfirogeneta, che raccoglie svariati autori di medicina tra cui spiccano i trattati illustrati di Apollonio di Cizio sulla ricomposizione delle fratture (Perì árthrōn) e quello di Sorano sulle fasciature (Perì epidésmōn). Il manoscritto (oggi Laurenziano Plut. LXXIV 7) fu acquistato a Candia nel 1492. Va ricordato anche il codice con tutti i commentatori greci di Aristotele (noto per la sua mole col nome di Oceanus), Laurenziano Plut. LXXXV 1 del sec. XIII-XIV, che compare pure tra i codici acquistati a Candia. Potrebbe provenire dalle ricerche del Lascaris anche il codice più importante del commento di Teone e Pappo all'Almagesto, l'odierno Laurenziano Plut. XXVIII 18 (IX sec.), che sembrerebbe identico a quello descritto in un elenco di codici riportati dal Lascaris in Italia (Magna compositio Ptolemaei cum expositione Theonis et Pappi). Questa identificazione si scontra con altre due notizie relative al Laurenziano: la prima è del bibliotecario settecentesco Angelo Maria Bandini, che avrebbe letto su una carta di guardia oggi perduta la nota di possesso del Poliziano, mentre la seconda è l'identificazione, parsa certa, di questo codice con un manoscritto appartenuto alla biblioteca papale ed elencato nell'inventario del 1311. Si potrebbe anche pensare che il Lascaris lo abbia acquistato in Italia (nella stessa Roma?) nel corso del suo secondo viaggio, dirigendosi verso la Puglia, ma si tratta di pure ipotesi.
Non è priva d'interesse neppure la lista dei desiderata che il Lascaris stilò prima di partire per i suoi viaggi. Basti qui rammentare che egli si proponeva di ricercare i dodici libri dell'Arithmetica di Diofanto, di cui ci sono pervenuti soltanto i primi sei libri e che già il Regiomontano aveva cercato di completare, e anche "un qualche commento dell'astronomo Teone a Tolomeo"; ciò a conferma della possibilità che il Laurenziano Plut. XXVIII 18 sia arrivato effettivamente solo col Lascaris.
Lo sforzo maggiore fu fatto per assicurare alla Biblioteca Medicea una copia del celeberrimo codice greco con le opere di Archimede e il De mensuris di Erone, siglato 'A', appartenuto a Leone il Matematico, poi alla Biblioteca papale e utilizzato per le loro traduzioni da Guglielmo di Moerbeke e da Giacomo da Cremona. Questo manoscritto, oggi perduto, riapparve vero la fine del Quattrocento nella biblioteca di Giorgio Valla a Venezia. Lì lo videro dapprima il Lascaris, che ce ne ha lasciato una descrizione dettagliata, e poi il Poliziano con il Pico. Fu soltanto per intercessione di Niccolò Leoniceno che finalmente Valla concesse che ne venisse tratta una copia per la Biblioteca Medicea, l'attuale Laurenziano Plut. XXVIII 4, ritenuto il migliore tra le copie di 'A'.
13. Giorgio Valla e la nuova enciclopedia del sapere
L'Archimede fu sicuramente il manoscritto più ambito della pur ricchissima biblioteca di Giorgio Valla (1447-1500), il cui fondo greco fu acquistato dopo la sua morte da Alberto Pio di Carpi e oggi si conserva quasi integralmente nella Biblioteca Estense di Modena. Allievo in greco di Costantino Lascaris e di Andronico Callisto, ma anche del 'fisico' Giovanni Marliani, Valla insegnò a Pavia e a Venezia, dove Ermolao Barbaro si adoperò per fare in modo che sostituisse nell'insegnamento Giorgio Merula (dal 1485). Numerose sono le traduzioni e i commenti che pubblicò. In particolare si rammentano: l'Introductorium ad medicinam di Galeno (Milano 1481); gli Scriptores astronomici veteres (con Arato, il Medicinae liber di Q. Sereno e Avieno: Venezia 1488), i Problemata dello Pseudo-Alessandro di Afrodisia (Venezia 1488), l'Harmonicum introductorium di Cleonide (Venezia 1497); poi un volume miscellaneo (Venezia 1498), nel quale Valla riunì, assieme a diverse altre traduzioni e al suo De expedita ratione argumentandi, le versioni latine di varie opere d'interesse scientifico.
Del Valla merita però di essere ricordata soprattutto la monumentale opera De expetendis et fugiendis rebus opus, che uscì a Venezia per i tipi di Aldo nel 1501, un anno dopo la sua morte. In quest'opera il Valla si propose di fornire al lettore esposizioni sistematiche delle diverse scienze e discipline. Divise l'opera in 49 libri a loro volta suddivisi in 7 ebdomadi. Il Libro I è dedicato a un'introduzione generale, in cui le varie discipline si fanno discendere tutte dalla 'filosofia', e alla definizione della scienza matematica. I libri successivi sono suddivisi tra le seguenti discipline: aritmetica (II-IV), musica (V-IX), geometria (X-XV), astronomia (XVI-XIX), fisica (XX-XXIII), medicina (XXIV-XXX), grammatica (XXXI-XXXIV), dialettica (XXXV-XXXVII), poetica (XXXVIII), retorica (XXXIX-XL), morale (XLI), economia (XLII-XLIV) e politica (XLV); le ultime due sezioni, infine, sono dedicate ai corporis commoda et incommoda (XLVI-XLVIII) e alle res externae (XLIX).
Sotto la filosofia, ars artium et scientia scientiarum, in maniera non dissimile da quanto accade nel Panepistemon del Poliziano, si dirama quindi tutto lo scibile che si tenta di organizzare in un sistema ordinato; è inoltre opportuno osservare che qui lo 'schema' è realizzato con le trattazioni dedicate a ciascuna materia, trattazioni che peraltro si rifanno ampiamente alle fonti antiche.
Quali esse fossero lo sappiamo, almeno in parte, grazie agli studi che sono stati dedicati alle singole sezioni dell'opera e che riguardano le scienze esatte, l'astronomia e la medicina. Quest'ultima rappresenta la sezione più ampia del De expetendis et fugiendis rebus opus, divisa in sette libri. Si tratta per lo più di un centone di traduzioni del testo greco, principalmente dalle compilazioni bizantine di Aezio d'Amida, Paolo di Egina e Alessandro di Tralle. Questi autori avevano a loro volta esposto e compendiato i risultati a cui era pervenuta la medicina greca antica. Ciò non toglie che all'occorrenza Giorgio Valla non facesse ricorso direttamente al testo antico, per esempio reintegrando un passo originale di Galeno in luogo del compendio di Aezio, oppure introducesse sue personali osservazioni oppure brevi testi per raccordare le varie parti. Tra le fonti mediche dell'opera valliana, oltre agli autori bizantini sopra menzionati, ricorrono Aristotele, Celso, Plinio, Galeno, Ippocrate, Dioscuride, Plutarco, Cassio. Comunque è evidente il desiderio da parte del Valla, in questa sezione della sua enciclopedia, di ritornare alla fonte prima della medicina occidentale saltando gli intermediari arabi.
14. Conclusioni
L'enciclopedia del Valla rappresenta simbolicamente la summa delle ricerche svolte dagli umanisti nel corso di un secolo per giungere a una nuova organizzazione del sapere umano. Vuole cioè rispondere a quella esigenza che abbiamo visto avanzata dal Poliziano nel Panepistemon di giungere a una risistemazione di tutte le scienze, arti e discipline. Tale esigenza nacque evidentemente come effetto dell'accumulazione continua, nel corso di tutto il Quattrocento, di nuovi testi, scientifici e non, che alla fine aveva mutato in maniera radicale la 'biblioteca'. Questa accumulazione è figlia della volontà di ricercare gli autori antichi nella loro pluralità, di vagliare i loro scritti, di farli 'dialogare' tra loro, nella continua ricerca del 'vero', in tutti i campi del sapere. Dal Petrarca sino al Poliziano, al Pico e al Valla si assiste a una moltiplicazione impressionante delle fonti antiche. Giovanni Pico, in una lettera al nipote Giovan Francesco del 1492, dichiarava di non potersi muovere fin quando non si fosse districato dai cumuli di libri greci che lo avevano sommerso quando Lascaris era tornato dal suo secondo viaggio in Grecia.
Grazie agli sforzi di Lorenzo il Magnifico nuove ondate di testi arrivano a Firenze, mutando di continuo la consistenza della 'biblioteca', facendo intravedere sempre nuove possibilità. Abbiamo visto come nel Panepistemon il Poliziano avesse utilizzato per definire la medicina un testo che era appena arrivato a Firenze. Così, Giovanni Pico nello stendere le Disputationes adversus astrologiam divinatricem si servì dei nuovi testi astrologici portati dal Lascaris.
Proprio le Disputationes forniscono una possibile interpretazione di quel che sarebbe potuto essere lo sbocco naturale del Panepistemon e degli studi 'scientifici' degli umanisti. Con le Disputationes il Pico intese infatti sgombrare il campo da una pseudoscienza, da un inganno secolare. Nel farlo seguiva la condanna espressa dal Poliziano nel Panepistemon sulla genethlogia, ma allo stesso tempo s'ispirava direttamente all'Adversus mathematicos di Sesto Empirico. E per sconfiggere gli astrologhi si affidava alla filologia, a un minuto controllo di quei testi su cui si era basata l'astrologia medievale, per dimostrare, confrontando le vecchie traduzioni con il testo greco, per esempio della Tetrabiblos di Tolomeo, quanto le loro teorie fossero infondate. Le Disputationes rappresentano cioè un concreto esempio di come si potesse finalizzare quella ricerca del vero, che più di un secolo prima il Petrarca lettore degli Academica si era proposto come unico legittimo scopo degli studi. Non per caso Poliziano e il Leoniceno consideravano il 'vero' come unico obiettivo del loro comune affannarsi attorno agli scritti dei medici. L'idea che la ricerca del vero dovesse continuare senza lasciarsi influenzare da singole dottrine o scuole, senza prima averle conosciute tutte, percorre tutto l'Umanesimo ed è il primo motivo per cui mai si smise di cercare, di scoprire, di leggere (e di correggere) 'nuovi' testi. Con le armi della 'filologia', del giudizio scevro da ogni condizionamento, il Poliziano e gli altri grandi umanisti del suo secolo allargarono e cercarono di definire l'orizzonte dello scibile: così facendo additavano nel 'dubbio' e nella mai soddisfatta ansia di ricerca la via maestra per fondare una nuova cultura, una nuova scienza, che proprio dallo studio dell'antico trasse la sua 'novità'.
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