Il Rinascimento. La scienza e le arti
La scienza e le arti
di Samuel Y. Edgerton
All'inizio del Trecento in Europa occidentale la caratteristica più evidente delle arti figurative, soprattutto della pittura, era la loro sempre maggiore conformità alle leggi della geometria classica. Nessun altro stile artistico di nessun'altra epoca e civiltà è mai stato così dipendente dalla matematica. La geometria, una delle discipline della enkýklios paideía, fin dall'Antichità era infatti considerata il criterio ultimo della verità oggettiva, non soltanto nelle arti figurative ma anche nelle scienze descrittive.
Le ragioni di questa influenza vanno ricercate non da ultimo nella diffusione, a partire dal XII sec., delle traduzioni di antichi manoscritti di Euclide, di Tolomeo, di Archimede e di altri appartenenti alle scuole di matematica greche e alessandrine. Nella cultura islamica questi stessi manoscritti, noti da molto tempo, si erano limitati a influenzare lo stile decorativo piuttosto che il contenuto dell'arte.
La 'rivoluzione', operata in Occidente dalla penetrazione di questi manoscritti, può essere spiegata rileggendo gli scritti di Ruggero Bacone che nel XIII sec. redasse un lungo trattato, l'Opus maius, dedicato al papa Clemente IV.
Lo scopo di Bacone era quello di aggiornare il pontefice sulle conoscenze scientifiche che proprio allora, alla vigilia della ritirata araba dalla Sicilia e dalla Spagna, erano divenute accessibili ai cristiani. Queste nuove conoscenze, insisteva Bacone, dovevano ora essere applicate come armi nella crociata che doveva scacciare definitivamente i Mori da Gerusalemme. Per Bacone, le più importanti discipline classiche tornate allora in vita erano sia la geometria euclidea, sia la sua 'ancella', l'ottica (tà optiká), da essa derivata. I medievali traducevano il termine greco con perspectiva, considerata la scienza che studiava la luce, il modo in cui questa si diffondeva mediante raggi rettilinei e il modo in cui l'occhio umano, raggiunto da questi raggi, percepiva i volumi e gli spazi presenti nel mondo fisico. A quel tempo, la perspectiva non aveva niente a che fare con ciò che attualmente definiamo 'prospettiva pittorica', definizione che si incontra soltanto a partire dal XV secolo.
La pittura e la scultura
Bacone era un frate francescano, apparteneva dunque all'ordine che era stato fondato nel primo decennio del XIII sec. nella cittadina di Assisi; mentre componeva l'Opus maius, ad Assisi veniva edificata una grande basilica dedicata al santo fondatore del suo ordine. Nei dieci anni successivi alla morte di Bacone, un certo numero di pittori, tra i quali probabilmente il giovane maestro fiorentino Giotto di Bondone (1267 ca.-1336), fu incaricato di affrescare le pareti interne del nuovo edificio con raffigurazioni di scene bibliche e in particolare della vita di san Francesco. Naturalmente non sappiamo se gli scritti di Bacone abbiano esercitato un'influenza sulla persona o sulle persone che dirigevano questo progetto decorativo, ma è evidente che chiunque abbia dipinto quegli affreschi ha introdotto originali soluzioni decorative che non avevano precedenti nella pittura europea fin dai tempi classici. Sebbene non vi siano prove che i pittori che affrescarono la Basilica di Assisi conoscessero i principî della geometria euclidea, essi certamente si conformarono, almeno empiricamente, al precetto di Bacone di creare "corpi concreti percettibili dai nostri occhi".
La cornice architettonica fittizia dipinta attorno a ciascuna delle ventotto scene della vita di san Francesco, progettata da chi aveva diretto gli artisti di Assisi, fu senza dubbio l'innovazione prospettica più interessante. Questa cornice è stata concepita come un colonnato illusionistico che sostiene una cornice a modiglione lungo le pareti della navata della Chiesa superiore. Inoltre, i modiglioni, apparentemente paralleli, posti al di sotto del margine della cornice, sono dipinti in modo tale che sembrano convergere prospetticamente verso il centro di ogni singolo gruppo di scene.
In altre parole, l'artista che aveva progettato questa cornice fittizia aveva concepito l'idea che l'osservatore immaginasse sé stesso in piedi davanti alla scena centrale di ogni gruppo, e che poi contemplasse tutto l'insieme da quel singolo punto di vista ottico. Inoltre, l'artista aveva immaginato la cornice come un proscenio teatrale proiettato in avanti; come se le scene della vita di san Francesco non fossero semplici immagini piatte dipinte sulla medesima parete ma si svolgessero 'dietro' la parete stessa.
Ci si può chiedere se, in questo caso, non vi fosse un implicito riferimento alle 'rappresentazioni dei miracoli' che a quel tempo erano recitate durante le feste religiose e che spesso erano messe in scena nella piazza della città, sotto portali incorniciati in modo analogo, forse perfino nel portico dell'antico tempio romano di Minerva, trasformato in chiesa cristiana durante il Medioevo. La cornice a modiglioni ancora esistente e i capitelli corinzi di questo monumento antico sono straordinariamente simili a quelli dipinti nella cornice fittizia degli affreschi della Basilica di Assisi. Anzi, l'antico tempio cristianizzato è stato persino dipinto come particolare dello sfondo proprio nella prima scena del ciclo, quasi per indicare la cittadina di Assisi quale 'palcoscenico' nel quale si svolge la storia di san Francesco.
Anche se l'aspirazione di Bacone a vedere realizzate immagini sacre concepite come volumi geometrici e il desiderio dell'autore degli affreschi di Assisi di rappresentare uno spazio reale, prospetticamente proiettato attraverso un punto di vista centrale, ebbero entrambi una realizzazione soltanto parziale nella nuova Basilica di S. Francesco, questi concetti innovativi entrarono in una corrispondenza immediata con la sensibilità estetica del grande pubblico. Le tradizionali soluzioni figurative dell'arte bizantina cominciarono a entrare in crisi nel XIV secolo. Il fallimento della Crociata del 1254, e lo scisma papale nel XIV sec., costituirono probabilmente gli eventi storici responsabili della crisi di un modello pittorico basato su una raffigurazione 'concettuale', che fu sostituito da una dimensione più realistica sia dell'oggetto sia dello spazio pittorico.
Oggi sembra molto strano che prima del Trecento gli artisti fossero così poco interessati alla raffigurazione degli effetti ottici del chiaroscuro (cioè della luce e dell'ombra). È difficile credere che prima di quel periodo nessun artista, in nessuna parte del mondo, avesse ritenuto importante dipingere gli effetti che la luce produce cadendo su un lato di un oggetto, mettendone in ombra il lato opposto. Persino le ombre proiettate dai corpi, che pure sono riconosciute come reali nel mondo visivo naturale, prima del Quattrocento difficilmente erano inserite in un dipinto. Sebbene gli antichi artisti ellenistici a volte giocassero con la pittura delle ombre, questa cognizione fu quasi completamente dimenticata durante il Medioevo cristiano per la semplice ragione che le ombre, dopotutto, implicavano la transitorietà della Natura piuttosto che la sua permanenza, proprio come indicava la famosa metafora della caverna di Platone.
In ogni caso, il verificarsi del cambiamento percettivo nell'arte del Trecento è testimoniato ancora una volta ad Assisi dove, per la prima volta dall'epoca classica, gli artisti iniziarono a pensare il soggetto rappresentato nello spazio virtuale della pittura come se fosse effettivamente illuminato dalla luce reale del mondo fisico a cui appartenevano gli artisti e gli osservatori. La cornice dipinta che contorna gli affreschi della Basilica di Assisi era altresì raffigurata come se fosse ombreggiata sul lato dell'intradosso, quindi in modo tale da ricevere la luce dall'alto, dalle finestre del cleristorio.
Curiosamente, le figure all'interno di queste cornici dipinte, benché modellate analogamente in chiaroscuro, non sembrano indicare la presenza di un'unica fonte di luce. Evidentemente, i pittori di Assisi erano maggiormente interessati alla resa dell'illusione ottica delle cornici e all'efficacia prospettica di questo espediente quasi teatrale, che doveva intensificare la sensazione della 'presenza divina' in ciascuna delle storie sacre collocate al suo interno, simili a quelle di un presepio.
Tuttavia, una volta sperimentata la seduzione dell'illusione ottica, gli appetiti percettivi del pubblico trecentesco non potevano che aumentare. Pochi anni dopo il completamento degli affreschi delle storie di san Francesco ad Assisi, Giotto dipinse una serie analoga di storie in sequenza della vita della Vergine nella Cappella Arena a Padova. In ciascuna di queste scene, l'artista non soltanto ha ulteriormente accentuato l'illusione di uno spazio prospettico tridimensionale, ma ha anche dipinto le parti in ombra e quelle in luce di ogni singola figura delle sante storie, come se fossero illuminate uniformemente dalla luce del giorno che penetra dalle vere finestre della cappella.
La prova che anche nell'Europa transalpina gli artisti e i loro committenti stessero già sviluppando idee simili può essere dedotta dal sempre maggiore interesse suscitato dall'arte della scultura al antico, una forma d'arte tridimensionale che sembrava dar corpo alla presenza divina in un modo più convincente della pittura convenzionale bidimensionale: la scultura delle cattedrali gotiche dell'Île-de-France del tardo XIII sec. costituisce il più brillante esempio di questa superiorità.
Mentre ad Amiens e a Chartres i Francesi riscoprivano autonomamente come modellare immagini di pietra che sembrassero vive, gli scultori italiani avevano come modelli i resti concreti dell'antica scultura dell'Impero romano e, nel tardo Trecento, cominciarono a riscoprire le tecniche e l'estetica della scultura tridimensionale in pietra e persino in bronzo.
All'inizio del Quattrocento, gli scultori italiani - in particolare artisti fiorentini come il giovane Donato di Niccolò di Betto Bardi detto Donatello (1386 ca.-1466) - riuscirono persino a definire alcuni problemi ottici che non erano stati risolti dai pittori del Duecento ad Assisi, come, per esempio, il fenomeno provocato dall'atmosfera densa che tende a rendere confusi i contorni degli oggetti osservati a distanza. Benché non fosse un argomento rigorosamente pertinente alla geometria, questo fenomeno, ora definito 'prospettiva aerea', riguardava comunque la scienza dell'ottica, in particolar modo era trattato dagli scritti arabi relativi a questo argomento. Il mirabile illusionismo del rilievo di San Giorgio e il drago di Donatello, eseguito intorno al 1417 nella chiesa fiorentina di Orsanmichele, realizza compiutamente nella scultura in pietra questo effetto quasi 'pittorico', prima ancora che esso sia affrontato dal più flessibile mezzo espressivo della pittura.
A Orsanmichele a fianco di Donatello aveva lavorato, nel corso della sua breve vita, il brillante artista Nanni d'Antonio di Banco (1384 ca.-1421), che scolpì un gruppo di figure disposte in cerchio all'interno di una nicchia della parete in modo tale che sembravano ergersi su un palcoscenico semicircolare, contravvenendo alla norma della scultura architettonica dell'epoca che allineava le figure semplicemente lungo i muri degli edifici. I corpi di due dei Santi Quattro Coronati, come è chiamato il gruppo scolpito da Nanni negli anni 1412-1416, disposti in primo piano, si sovrappongono lievemente a quelli delle due figure situate dietro, in modo da definire uno spazio cilindrico all'interno del quale i volumi delle quattro sculture delimitano una parte centrale vuota, il cui spazio negativo equivale al volume di una delle figure scolpite. Il nuovo assetto scultoreo concepito da Nanni potrebbe essere stato l'occasione che indusse i pittori fiorentini a dedicare una maggiore attenzione alla struttura geometrica e alla differenziazione dei volumi e degli spazi come cento anni prima avevano fatto presagire gli affreschi di Assisi e i capolavori di Giotto, un compito che nel frattempo era stato assunto dagli scultori.
Ancora altri avvenimenti, nei primi anni del XV sec. diedero probabilmente origine alla competitiva curiosità dei pittori europei; tra questi, certamente grande interesse destò lo specchio piombato, oggetto di uso quotidiano la cui invenzione si deve ai progressi raggiunti dalla tecnica della lavorazione veneziana del vetro. Fino a quell'epoca gli specchi di vetro a muro dovevano essere fusi come emisferi, e le immagini che riflettevano dovevano essere parabolicamente distorte.
Finalmente si potevano produrre specchi piatti, che riflettevano le immagini senza distorcerle, in misure sufficientemente grandi per l'uso domestico. Inoltre, sin dall'Antichità classica, gli studiosi di ottica avevano dedotto tutte le cause geometriche della riflessione delle immagini sia negli specchi piatti sia in quelli curvi, scoprendo, per esempio, la fondamentale legge secondo la quale l'angolo d'incidenza è sempre uguale all'angolo di riflessione. Questa branca della scienza geometrica, chiamata catottrica, insieme all'ottica euclidea, veniva studiata in tutta l'Europa occidentale medievale.
Sappiamo da una cronaca del 1413 che il fiorentino Filippo Brunelleschi (1377-1446), scultore, architetto e futuro ideatore della grandiosa cupola del Duomo di Firenze, si stava applicando allo studio della perspectiva, termine latino impiegato come sinonimo per l'ottica classica e araba molto tempo prima di essere applicato alla creazione artistica. Inoltre Giorgio Vasari (1511-1574) nelle sue Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, ci informa che verso il 1424 Brunelleschi ebbe come amico Paolo dal Pozzo Toscanelli (1397-1482), medico, astronomo e astrologo, matematico, geografo, cartografo, ottico e grande erudito. Vasari aggiunge che Brunelleschi, che non aveva ricevuto un'educazione regolare nelle artes liberales, era già così competente in matematica che riuscì a confondere il più istruito Toscanelli.
Quale che fosse la matematica a cui si riferisce Vasari in questo breve aneddoto, ci diverte pensare alla possibilità che Brunelleschi, un artigiano che si era formato sul campo, fosse in grado di discutere con Toscanelli di astruse questioni relative non soltanto alla teoria ottica, ma probabilmente anche alla cartografia tolemaica, che era un tema scottante per i dotti fiorentini e in particolar modo per Toscanelli. Durante i primi dieci anni del Quattrocento circolava a Firenze un antico manoscritto greco, Introduzione alla geografia, di Tolomeo, tradotto in latino col titolo Geographia, prima di allora sconosciuto nell'Occidente latino. Tuttavia, i Fiorentini compresero subito che in effetti questo manoscritto conteneva straordinarie informazioni geografiche e matematiche sul modo di interpretare il mondo come fosse una sfera. Il metodo di Tolomeo, spiegato nel trattato, consisteva nel suddividere la sfera terrestre in quadrati uguali reticolati ma convergenti, definiti da 360 meridiani verticali che si univano al Polo Nord e al Polo Sud, intersecati da un numero uguale di paralleli non convergenti.
Inoltre, Tolomeo descriveva diversi metodi per proiettare le sezioni di questa sfera suddivisa in quadrati su una superficie piana. I Fiorentini furono così affascinati dalle nuove concezioni della rappresentazione cartografica che la loro città, già artisticamente fertile, divenne in breve il centro della copiatura e della diffusione in tutta l'Europa occidentale di eccellenti atlanti tolemaici.
Possiamo supporre che Brunelleschi fosse informato di quest'attività e che, discutendo di questo argomento con Toscanelli durante le loro animate conversazioni sulla matematica, probabilmente avesse affrontato anche il problema della proiezione di un'immagine speculare di un oggetto tridimensionale su una superficie piana. Non a caso Toscanelli circa cinquant'anni più tardi scrisse una lettera, poi divenuta famosa, a Fernando Martins, consigliere del re del Portogallo, sulla possibilità di raggiungere l'Asia orientale dall'Europa navigando verso Occidente. Questa stessa lettera, insieme a una mappa geometrica che divideva l'Oceano, che prima di allora non era mai stato misurato, in 26 meridiani disposti a intervalli uguali, giunse alla fine tra le mani di Cristoforo Colombo che la usò per sostenere il suo ambizioso progetto di raggiungere il Catai navigando verso Occidente.
In ogni caso, tra il 1413 e il 1425 Brunelleschi dipinse una piccola immagine del Battistero di Firenze visto dal portale del Duomo. Gli storici concordano nel ritenere che questo sia stato il primo dipinto nella storia dell'arte mondiale a essere composto secondo le regole geometriche di quella che oggi definiamo 'prospettiva lineare'.
Sfortunatamente, questo importante dipinto è andato perduto, ma probabilmente la sua composizione si basava su un diagramma geometrico che combinava i principî della catottrica, alcune tecniche tradizionali di misurazione usate dai geometri e forse i nuovi metodi di proiezione ispirati da Tolomeo. Possiamo almeno presumere l'impiego della catottrica perché Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497), biografo e quasi coetaneo di Brunelleschi, ricorda che il protagonista della sua biografia realizzò la prima pittura dotata di prospettiva immaginando che l'osservatore tenesse il quadro in modo da avere la sua parte posteriore davanti a un occhio, la parte anteriore esposta in avanti, e quindi guardasse, attraverso un piccolo foro della parte posteriore, verso l'immagine dipinta del battistero riflessa in uno specchio piatto che l'osservatore teneva nell'altra mano. Quella di Brunelleschi, quindi, sembra essere una risposta alla nuova sfida del popolare specchio, dimostrando che, se gli artisti si fossero appropriati della conoscenza della prospettiva geometrica, sarebbero stati in grado di creare immagini indistinguibili da quelle delle riflessioni catottriche.
Benché il dipinto originale di Brunelleschi sia andato perduto, a Firenze esiste un altro esempio di pittura, quasi contemporaneo, che sembra applicare l'uso di questa prospettiva, se non addirittura l'attuale formula geometrica della riflessione. Si tratta della Trinità di Tommaso di Ser Giovanni Cassai detto Masaccio (1401-1428), un grande affresco dipinto probabilmente verso il 1427 ca. sul muro della navata della chiesa di S. Maria Novella. In questo dipinto si rileva un indizio dell'intervento dello stesso Brunelleschi, poiché l'architettura fittizia della cornice dipinta è quasi identica alla decorazione della facciata dell'Ospedale degli Innocenti che, proprio in quel periodo, egli aveva progettato a Firenze.
In questo affresco, Masaccio ha cercato di creare l'illusione di un profondo "buco nel muro" (come lo definisce Vasari) sovrastato da una volta divisa in cassettoni. Con un'illuminazione intensa si possono ancora osservare le curve parallele e le linee ortogonali convergenti che egli incise sul muro per disegnare questa struttura fittizia, che in effetti è composta da una sezione cilindrica piuttosto simile alle sezioni sferiche reticolate descritte nella Geographia di Tolomeo.
Tuttavia, l'unicità di questo affresco è nel cosiddetto 'punto di fuga' (punto di dissolvenza o punta del fugo) che corrisponde all'altezza da cui teoricamente lo sguardo dell'artista osserva la superficie del dipinto e quindi penetra all'interno dello spazio virtuale del dipinto stesso, indicando così il punto della superficie dell'affresco in cui le linee ortogonali della volta dovevano convergere, e si trova quasi esattamente allo stesso livello dello sguardo di chi osserva il dipinto in situ.
Già a partire dagli anni Quaranta del XV sec., diversi artisti italiani applicarono con qualche modifica questa nuova forma di illusione prospettica: pittori come Paolo Uccello (1396/1397-1475), Jacopo Bellini (1400 ca.-1470/1471), Filippo Lippi (1406 ca.-1469), il Beato Angelico (1400 ca.-1455) e persino scultori di rilievi come Donatello e Lorenzo Ghiberti (1378-1455) avevano lavorato intorno alle loro varianti geometriche. Ghiberti era così affascinato dalla scienza dell'ottica che copiò lunghi brani di diversi manoscritti medievali sull'argomento che circolavano a Firenze (inclusi quelli di Bacone) riunendoli poi (in modo piuttosto indiscriminato) nei Commentarii, un'autobiografia scritta a scopo autocelebrativo. Egli dichiara anche di conoscere bene la Geographia di Tolomeo.
Nel 1435-1436 l'umanista Leon Battista Alberti (1404-1472), rientrando a Firenze dopo un lungo esilio, rimase così impressionato dal fervore artistico che animava la città da scrivere un trattato sulla pittura in due versioni, una italiana, Della pittura, destinata presumibilmente agli artisti, e una latina, De pictura, per i loro ricchi e più istruiti protettori. Entrambe erano dedicate a Brunelleschi insieme a Donatello, a Ghiberti, a Luca Della Robbia (1400-1482) e a Masaccio. Proprio all'inizio del libro, Alberti sostiene che i pittori devono imparare la geometria se vogliono avere successo. Egli spiega persino i concetti euclidei fondamentali - punto, linea e piano - e propone una formula di ottica geometrica per disegnare un'immagine in prospettiva.
Alberti scrisse altri due libri sulle arti figurative, uno sulla scultura De statua e l'altro sull'architettura De re aedificatoria, entrambi in latino e quindi probabilmente non destinati agli artigiani illetterati.
Accenneremo al secondo libro nella sezione dedicata all'architettura, mentre ora illustreremo brevemente il trattato sulla scultura. Sebbene Alberti non aggiunga molto alla pratica degli scultori del suo tempo - dopo tutto la scultura era stata il mezzo di espressione artistica che in Italia, sin dall'inizio del Quattrocento, aveva guidato la rinascita dell'ideale classico secondo il quale "l'uomo è la misura di tutte le cose" - lo scrittore umanista pone in evidenza un concetto che avrebbe acquistato un'importanza sempre maggiore nella teoria dell'arte rinascimentale in generale, e cioè la commensurabilità dei rapporti numerici all'ideale di bellezza in un'opera d'arte. Egli suggerisce persino un modello uniforme di misurazione delle parti del corpo umano e le elenca citando le rispettive dimensioni e la proporzionalità di ciascuna alla statura complessiva della figura. Alberti, inoltre, descrive un complicato congegno di sua invenzione che serviva a trasferire, punto per punto, i particolari di un modello umano (o di un originale classico) nel bozzetto dello scultore.
Le modalità di divulgazione del metodo della prospettiva, minuziosamente esposte nel trattato sulla pittura, rimangono tuttora un mistero, dato che il manoscritto, che non era illustrato, fu riprodotto soltanto in poche copie e non ebbe un'edizione a stampa fino al 1540. Ciò nondimeno a Firenze la sua comparsa coincise con una moderata rivoluzione nel campo dell'educazione che si stava preparando sin dalla metà del Trecento e che potrebbe aver avuto una profonda influenza sugli artisti. Ci riferiamo all'esordio e alla diffusione della Scuola dell'abaco, un'istituzione cittadina dove i bambini delle famiglie artigiane frequentavano corsi gratuiti della durata di tre o cinque anni per imparare a leggere e a scrivere in italiano. Inoltre, essi apprendevano i rudimenti della geometria euclidea e l'algoritmo, l'aritmetica dei rapporti elementari e delle proporzioni.
Lo scopo dell'abaco era formare contabili e agrimensori per sostenere la rapida espansione dell'economia commerciale della città, che richiedeva sempre di più lavoratori istruiti in matematica. Probabilmente molti artisti fiorentini frequentarono le scuole dell'abaco durante gli anni della formazione, e senza alcun dubbio ritennero che l'importanza accordata alle arti della quantificazione potesse essere applicata anche alla propria professione.
Gli interpreti più rigorosi ed entusiasti della prospettiva di Alberti furono probabilmente gli artigiani specializzati nella creazione di intarsi per mobili. Uno dei più spettacolari esempi di arte illusionistica intarsiata è la serie di pannelli di noce creati nel 1480 circa per lo studiolo privato del palazzo del duca Federico da Montefeltro a Urbino. Anche oggi chi li osserva è sbalordito dal tour de force del trompe l'oeil di questo eccezionale capolavoro.
Probabilmente i pittori che, nel tardo XV sec., in Italia, seppero sfruttare meglio le idee di Alberti sulla prospettiva furono Piero della Francesca e Leonardo da Vinci (1452-1519). Come la maggior parte degli artisti del Quattrocento, Piero della Francesca era tutto sommato negligente nell'applicazione delle regole della prospettiva, tuttavia nella Flagellazione, un dipinto del 1450-1460 ca., costruì persino la complessa prospettiva del palazzo di Pilato servendosi della proiezione ortogonale di una pianta pre-disegnata e dell'elevazione.
Alla fine della sua vita, Piero della Francesca fu sempre più ossessionato dalla geometria pura. All'inizio degli anni Ottanta del XV sec. scrisse e illustrò un trattato di teoria della prospettiva destinato ai pittori, il De prospectiva pingendi e, nei suoi ultimi anni, un testo ancora più erudito per geometri professionisti sui cinque solidi regolari di Platone, il Libellus de quinque corporibus regularibus. Questo libello era così dotto da venire abbondantemente saccheggiato dal matematico francescano Luca Pacioli (1445 ca.-1517) nel suo De divina proportione, pubblicato nel 1509, nel quale Pacioli stesso sosteneva l'applicazione della geometria euclidea a ogni forma di attività artigianale, includendo anche il disegno delle lettere dell'alfabeto. Un dipinto del tardo Quattrocento, in stile veneziano, attribuito a Jacopo de' Barbari, ritrae frate Luca che, disegnando un diagramma euclideo, osserva ammirato, assieme al suo protettore Guidobaldo da Montefeltro duca di Urbino, un icosaedro trasparente (un poliedro irregolare limitato da venti facce) mirabilmente raffigurato sospeso a un esile filo di fronte a loro.
In effetti, frate Pacioli commissionò a Leonardo da Vinci i disegni per le incisioni in legno dei cinque solidi regolari, pubblicate nel De divina proportione. Secondo la filosofia platonica, tornata in auge soprattutto dopo la grande traduzione ficiniana, i cinque solidi regolari, il tetraedro (4 facce), l'esaedro (cubo, 6 facce), l'ottaedro (8 facce), il dodecaedro (12 facce) e l'icosaedro (20 facce), potevano essere tutti circoscritti da una sfera. La semplice idea di una geometria solida era così convincente da indurre, più di un secolo dopo, l'astronomo boemo Johannes Kepler (1571-1630) a credere che l'intero Universo, così come era stato disegnato da Dio al momento della Creazione, fosse formato da queste stesse figure platoniche inserite nella sfera celeste. Tra gli artisti e i filosofi vissuti in Italia durante il Rinascimento, tra la fine del XV e l'inizio del XVI sec., nessuno appariva convinto più di Leonardo da Vinci che tutti i fenomeni naturali potessero essere spiegati per mezzo delle leggi della geometria. In effetti, egli dedicò tutta la sua vita all'osservazione accurata di ogni aspetto del mondo fisico; il moto dell'acqua, il volo degli uccelli, le dinamiche dell'elasticità, gli effetti dei diversi tipi di arma, la dinamica delle tempeste meteorologiche e delle esplosioni della polvere da sparo, la meccanica delle diverse parti del corpo umano, e così via. Tutto ciò fu descritto a parole e con disegni elaborati secondo le regole della prospettiva in centinaia di pagine di manoscritti, concepiti come trattati specialistici di arte e scienza, forse destinati a essere un giorno raccolti e pubblicati in un'edizione a stampa. Sfortunatamente, nessuno di questi ambiziosi progetti fu mai portato a termine, e molto di questo materiale preparatorio, se non la maggior parte, è andato perduto. Tuttavia, la considerevole quantità di scritti originali e di disegni di Leonardo che ci sono pervenuti rappresentano il più brillante esempio di collaborazione tra l'arte e la matematica di tutta la storia della civiltà occidentale.
Nell'opera pittorica di Leonardo, invece, vi è soltanto una lieve traccia di questa profonda fede nella matematica. Anche la geometria della prospettiva lineare, che Leonardo studiò con accurate misurazioni in diversi disegni (fig. 7), fu applicata solo in modo casuale a dipinti compiuti. In effetti, l'Adorazione dei Magi, iniziata nel 1481 (di cui la fig. 7 si pensa fosse un disegno preparatorio), sembra sia stata lasciata deliberatamente incompiuta, perché, secondo l'opinione di molti studiosi, Leonardo comprese che una rigorosa applicazione delle regole geometriche avrebbe guastato l'ineffabile mistero di questa splendida opera d'arte.
Forse ancor più di Leonardo, il tedesco Albrecht Dürer (1471-1528) riuscì a cogliere l'inafferrabile essenza di una teoria artistica geometricamente determinata. Quando era ancora un giovane maestro nel campo delle incisioni a stampa, Dürer aveva attraversato due volte le Alpi per apprendere sul posto i segreti della prospettiva italiana e del chiaroscuro. Il suo principale contributo consistette nell'applicazione di queste idee alla tecnica delle stampe, riproducibili a basso prezzo (incluse le xilografie, le incisioni e le acqueforti, alle quali, sfortunatamente, Leonardo non fu mai molto interessato), rendendo così accessibili le nuove idee dell'arte rinascimentale basata sulla geometria a un pubblico più vasto, che fino ad allora era rimasto escluso dalla visione, per non parlare dell'acquisto dei costosi dipinti che rimanevano abitualmente sequestrati nelle dimore dei ricchi. Come Piero della Francesca, anche Dürer scrisse alcuni trattati di geometria applicata che ebbero un'ampia diffusione in Europa: Underweysung der Messung mit dem Zirkel und Richtscheyt in Linien Ebnen und gantzen Corporen (Trattato sulla misura con il compasso, la riga per le linee, i piani e i corpi solidi), Etliche Underricht von Befestigung der Stett, Schloss und Flecken (Trattato sulle fortificazioni) e Hierin sind begriffen vier Bücher von menschlicher Proportion (Quattro libri dell'umana proporzione). Soprattutto in quest'ultimo libro, Dürer analizzò ogni tipo di prospettiva complessa e di espediente prospettico anamorfico; il testo è inoltre corredato da numerosi disegni di figure in cui egli tentava di scoprire 'la sezione aurea', cioè la proporzione aritmetica in grado di determinare la bellezza ideale nelle forme del corpo umano. Eppure Dürer, come Leonardo da Vinci e Piero della Francesca, nella sua pratica artistica si dimostrò molto meno condizionato dalla teoria.
Dalla prima metà del XVI sec., mentre il pubblico dell'Europa occidentale, influenzato dalle teorie rinascimentali, dava per scontata l'illusione prospettica nella pittura, per reazione molti artisti iniziarono ad assumere posizioni antitetiche, rifiutando le regole della prospettiva a favore di una figurazione più astratta, a volte più spirituale, ritornando persino alle immagini piatte del Medioevo. Questo periodo della storia dell'arte, conosciuto come Manierismo, fu dominato dall'arte imponente e tormentata di Michelangelo Buonarroti (1475-1564). Tuttavia, non vi è bisogno di sottolineare che né Michelangelo né i suoi seguaci manieristi rinunciarono effettivamente ai principî geometrici della prospettiva lineare, che tentarono piuttosto di ridurre a convenzioni stilizzate e prestabilite.
Era anche l'epoca del fervore religioso della Riforma e della Controriforma. Più ancora dei manieristi italiani, gli artisti di un paese profondamente cattolico come la Spagna, per esempio, nelle loro rappresentazioni cercavano di ridurre al minimo l'uso della prospettiva geometrica considerata un segno di materialismo secolare. Sull'altro fronte, nell'Olanda protestante, la prospettiva geometrica veniva applicata con grande entusiasmo, impiegando persino gli specchi deformanti e la camera obscura al fine di ottenere effetti ottici eccezionali. Il pittore olandese Pieter Saenredam (1597-1665) eseguì un certo numero di disegni estremamente complessi, ma essenziali, della chiesa di S. Bavo ad Harlem allo scopo di sottolineare la purezza geometrica del suo spazio interno liberato ora dai vecchi addobbi cattolici.
Allo stesso tempo, la scienza pura della prospettiva geometrica, prescindendo dalle sue relazioni con l'arte, era sempre più studiata come disciplina autonoma dai matematici, interessati a dimostrare come una corretta proiezione prospettica delle immagini potesse risultare utile alle scienze meccaniche e persino all'astronomia.
I Perspectivae libri sex di Guidobaldo Dal Monte pubblicati nel 1600, che contengono un'analisi delle ombre proiettate da solidi di differenti forme, e il testo di Lorenzo Siringatti La pratica de prospettiva del 1596, che dimostra come la luce e l'ombra si dispongano sulla superficie di forme sferiche dotate di cavità e di sporgenze, furono certamente studiati da Galileo Galilei (1564-1642), che si servì di queste lezioni per esporre le sue descrizioni delle montagne e dei crateri della Luna, osservati per la prima volta nel 1609 grazie al suo telescopio. Dobbiamo sottolineare che a Firenze, nel corso del XVI e del XVII sec., si seguitò a esigere dagli artisti che aspiravano a essere riconosciuti come professionisti una profonda conoscenza della prospettiva geometrica. Lo stesso Galilei divenne membro della prestigiosa fiorentina Accademia del disegno, fondata da Vasari, con l'esplicito intento di promuovere l'applicazione dei principî geometrici all'arte.
Per non essere superata dai protestanti o dagli scienziati laici, la Compagnia di Gesù, da poco istituita, si appropriò rapidamente della scienza della prospettiva geometrica allo scopo di fare proseliti nelle file della Controriforma. Il gesuita Andrea Pozzo (1642-1709), che, prima di essere ordinato sacerdote, era stato un esperto quadraturista, dipinse, sul soffitto della chiesa romana di S. Ignazio un immenso proscenio architettonico, che sembra estendersi oltre le reali pareti della navata della chiesa fino a schiudersi in alto, su un cielo gremito di figure allegoriche alate. L'osservatore può sperimentare lo straordinario effetto olografico di questa illusione prospettica da sotto in su, guardando verso l'alto da un punto segnato sul pavimento della chiesa. Il Perspectiva pictorum et architectorum redatto da Pozzo nel 1693 ebbe un'ampia diffusione in Europa e fu ristampato in numerose edizioni e traduzioni, persino nell'Inghilterra protestante.
L'architettura
È curioso come nel suo trattato sull'architettura, Alberti raccomandi agli architetti di non progettare i loro edifici utilizzando disegni prospettici. A quel tempo le immagini prospettiche erano ancora una novità ed egli pensava che avrebbero creato soltanto confusione, soprattutto perché la prospettiva distorce inevitabilmente la dimensione reale degli oggetti rappresentati. In effetti, l'impiego di disegni in scala, come i piani, i disegni in proiezione ortogonale e le sezioni, oggi abitualmente utilizzati dagli architetti, non divennero una pratica comune prima del XVI secolo.
Tuttavia, da sempre, l'architettura è stata l'arte più intrinsecamente geometrica. Infatti, fin dai tempi più antichi, coloro che costruivano effettivamente gli edifici - da non confondere con i cosiddetti 'architetti' che erano consiglieri del re autori di progetti visionari spesso inattuabili - erano fondamentalmente esperti geometri che, armati di pertica e corda, tracciavano direttamente sul terreno il piano iniziale dell'edificio che doveva essere costruito. Quindi, manipolando in svariati modi diagonali e archi, essi riuscivano a ricavare le proporzioni verticali, nonché a progettare le proporzioni relative alle altre parti della struttura.
Il più antico, e universalmente apprezzato, di questi sistemi proporzionali era la già citata 'sezione aurea', la cui espressione algebrica è a:b=b:(a+b), dove a rappresenta il lato minore di un rettangolo e b quello maggiore. Per creare geometricamente il 'rettangolo aureo', si deve disegnare un quadrato; poi tracciare un segmento dal centro di un lato (C) fino all'angolo opposto. Ruotando questo segmento fino a farlo intersecare di nuovo col prolungamento dello stesso lato, e prolungando l'intera figura verso questo punto, si crea il proverbiale 'rettangolo aureo' ideale, le cui proporzioni (1:1,618) sembrano soddisfare istintivamente gli esseri umani in ogni luogo, di ogni epoca, razza, sesso o classe sociale. In effetti esseri umani culturalmente e storicamente distanti gli uni dagli altri come gli Europei, gli Asiatici e i Maya dell'America precolombiana hanno autonomamente scoperto con 'pertica e corda' la 'sezione aurea' e l'hanno applicata a ogni genere di costruzione, dai palazzi monumentali alle umili capanne dei contadini.
Alcuni brani biblici che si riferivano all'utilizzazione di misurazioni, in qualche modo analoghe a queste ultime, nella descrizione della costruzione dell'arca di Noè, del tempio di Salomone e di quello di Ezechiele, indussero i cristiani medievali e rinascimentali a immaginare che gli edifici costruiti secondo le proporzioni matematiche non fossero soltanto più belli de naturale ma possedessero anche il segreto dell'intero piano impiegato da Dio nella creazione dell'Universo. Gli antichi filosofi greci Pitagora e Platone furono affascinati dalle relazioni che esistevano tra certi rapporti numerici e le armonie musicali. Più tardi i cristiani credettero che questi stessi rapporti fossero stati impiegati da Dio nel secondo giorno della Creazione per ordinare i pianeti e le stelle. La 'musica delle sfere', come a quel tempo iniziò a essere definito il moto armonico dei corpi celesti, poteva essere ascoltata dalle orecchie dei mortali in cielo ma non sulla Terra. Tuttavia, ai mortali era data la possibilità di conoscere queste stesse 'divine proporzioni' sotto forma di rapporti aritmetici, e persino di esprimerle geometricamente in modo da renderle percettibili alla vista. Comprendere questi rapporti e applicarli a manufatti umani, come consentiva l'architettura, era un'idea che aveva assillato l'immaginazione dei cristiani medievali: questa stessa idea, come vedremo, si trasmise anche al Rinascimento.
Tale pratica tradizionale medievale, definita nella storia dell'arte come teoria dei rapporti geometrici logici, ha trovato la sua applicazione durante la costruzione del Duomo di Milano, negli ultimi decenni del Trecento. Tra i membri del comitato che doveva presiedere alla costruzione dell'edificio, sorse una controversia riguardo alla forma da attribuire alla copertura della navata e dei colonnati laterali. L'architetto di formazione francese, che in quel momento prestava la sua opera a Milano, sosteneva che la forma più adatta era un triangolo isoscele acuto, conforme allo stile gotico nordico dell'edificio. L'architetto milanese, invece, che si sentiva più vicino allo stile classico italiano, scelse un triangolo equilatero, non perché fosse strutturalmente più solido, ma perché le sue proporzioni erano più armoniose di quelle dell'aguzzo triangolo isoscele, quindi più 'divine'. Alla fine l'architetto nordico fu sommariamente congedato con questa incisiva annotazione in latino: Ars sine scientia nihil est (l'arte senza la scienza non è nulla).
Ciò che rendeva difficile l'applicazione dei differenti tipi di rapporti armonici alle tecniche di costruzione era la dipendenza della pratica architettonica dal metodo tradizionale della 'pertica e corda'. Di solito gli artigiani, che non erano sufficientemente istruiti in matematica, rifiutavano istintivamente di cambiare le pratiche a loro familiari che venivano trasmesse di generazione in generazione. Inoltre, in Europa, fino al Tardo Medioevo, non esisteva un unico sistema metrico universalmente riconosciuto da tutti coloro che esercitavano l'arte della costruzione. Era molto più semplice progettare gli edifici attraverso un semplice sistema di proporzioni geometriche che fossero in relazione l'una con l'altra, piuttosto che attraverso misure numeriche che gli artigiani non potevano comprendere.
Il primo architetto rinascimentale che tentò di integrare alcune delle più recenti teorie numeriche umanistiche della proporzione, tornate allora in auge, alla sua pratica architettonica, fu l'ingegnoso Brunelleschi che, non a caso, abbiamo già citato come autore del primo dipinto realizzato secondo una prospettiva lineare. Egli progettò la chiesa di S. Lorenzo, che venne costruita a Firenze tra il 1430 e il 1440, sulla base di un rapporto pitagorico di 1:2 dell'ottava musicale. Ogni quadrato della superficie del pavimento reticolato della navata centrale tra i colonnati fissa il modulo di questo rapporto; la larghezza della navata centrale è pari a quella di due quadrati, mentre la larghezza delle navate laterali è di un quadrato, così come lo spazio tra ogni colonna. L'altezza dei colonnati della navata, dal pavimento alla modanatura al di sotto del cleristorio, è ancora una volta il rapporto di 1:2, vale a dire lo stesso che regola la larghezza delle navate.
Eppure non si può affermare con certezza che Brunelleschi, che era più un tecnico che un teorico umanista, considerasse realmente 'divino' il sistema di proporzioni applicato a S. Lorenzo. È più probabile che egli abbia utilizzato quest'idea perché la riteneva facilmente comprensibile per i suoi artigiani, che erano già molto impegnati ad apprendere i metodi per scolpire e montare gli ordini classici del nuovo stile. La pianta modulare di Brunelleschi forniva un modello in scala, già pronto e facilmente applicabile, per l'edificio che doveva essere costruito, anticipando così i progetti in scala su carta che iniziarono a essere usati soltanto nel secolo successivo.
Retrospettivamente si rimane sconcertati nel constatare che, persino nella progettazione della stupefacente cupola del Duomo di Firenze, Brunelleschi non utilizzò disegni architettonici preliminari in scala. Eppure, egli riuscì ad anticipare e a risolvere tutti i problemi di compressione, di tensione e di gravità relativi all'elevazione dei poderosi archi della cupola, ancor prima che fosse posta la prima pietra delle fondamenta. In questo senso, Brunelleschi, come Leonardo, rappresenta l'aspetto 'moderno', pratico, del Rinascimento in curiosa simbiosi con l'aspetto teorico di derivazione classica, ma ancora per molti aspetti medievale, rappresentato da Alberti e dagli autori che tra il tardo Quattrocento e il Cinquecento scrissero trattati architettonici.
D'altronde la teoria architettonica rinascimentale aveva ricevuto un forte impulso dall'opera di Vitruvio, l'architetto romano del I sec. a.C., che aveva ideato l'immagine dell'uomo in un cerchio, resa poi famosa da Leonardo da Vinci (che la combinò con il suo uomo in un quadrato). Il De architectura era disponibile durante il Medioevo, ma non ricevette grande attenzione fino all'inizio del Quattrocento. L'architetto romano non soltanto descrive le tecniche di costruzione dell'antica Roma, di cui si era ormai perduto il ricordo, ma anche gli edifici, anch'essi scomparsi, che un tempo avevano dato lustro a quell''età aurea' di Cesare Augusto, che gli umanisti del XV sec. speravano ardentemente di far rivivere in Italia. Le ragioni dell'influenza esercitata da Vitruvio vanno cercate proprio nell'ipotetico significato attribuito al simbolo dell'uomo in un cerchio, e cioè che le proporzioni del corpo umano (creato a immagine di Dio) non soltanto si riferiscono ai rapporti matematici (sia geometrici sia numerici) in base ai quali è concertato il Cosmo, ma contengono la chiave dell'ideale venustas dell'architettura.
Ovviamente, gli umanisti delle classi aristocratiche, come Alberti, furono affascinati da Vitruvio, ma lo furono anche gli ingegneri-artigiani delle classi inferiori la cui abilità nella logistica militare in quel momento era molto richiesta nelle corti dei prìncipi europei, in particolar modo in Italia. Questi ingegneri, lusingati di essere così ricercati dall'élite aristocratica, cercarono di consolidare l'elevata posizione raggiunta di recente nelle corti divulgando la loro capacità di costruire edifici secondo la teoria di Vitruvio e quella ultima di Leon Battista Alberti.
Forse la personalità più significativa di questa generazione di ricchi e operosi ingegneri-artigiani del tardo Quattrocento, seconda soltanto a Leonardo da Vinci per vivezza d'ingegno, ma a breve termine più influente di lui, fu il senese Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), che compilò un certo numero di Trattati manoscritti, che contenevano sezioni sull'architettura e sull'ingegneria civile e militare, tutti scritti in volgare e illustrati di sua propria mano (v. cap. XIX). Come i manoscritti di Leonardo, le opere di Francesco di Giorgio Martini furono stampate soltanto dopo alcuni secoli; nella sua epoca, tuttavia, esse furono frequentemente copiate e saccheggiate, e raggiunsero addirittura la Cina della dinastia Ming. Lo stesso Leonardo venne in possesso, per un breve periodo, di un manoscritto dell'architetto senese, come testimoniano le annotazioni eseguite con la sua inimitabile calligrafia, e copiò nei suoi manoscritti molte idee del Martini sull'ingegneria.
Eccettuati pochi disegni sperimentali di costruzioni a cupola, Leonardo non era molto interessato all'architettura. Francesco di Giorgio Martini, invece, lo era chiaramente e il suo maggior contributo a quest'arte sembra essere stato l'incitamento rivolto ai colleghi ingegneri-artigiani affinché affrontassero i problemi tecnici, ancora poco conosciuti, della costruzione secondo lo stile monumentale classico. Nel corso del Cinquecento, mentre si perfezionavano le tecniche tipografiche, cominciarono a essere pubblicati in volgare un certo numero di trattati sull'architettura, che si richiamavano sia allo stile sia al metodo di Vitruvio e di Alberti, e, quel che era ancora più importante, all'ingegneria militare di Francesco di Giorgio Martini. Uno dei primi e dei più importanti fu la traduzione in italiano dell'opera di Vitruvio eseguita da Cesare Cesariano (1483-1543) pubblicata a Como nel 1521. Per gli ingegneri-artigiani del Cinquecento era particolarmente importante il Libro X di Vitruvio, che conteneva la descrizione dei diversi espedienti tecnici per trasportare e sollevare gli oggetti pesanti. Cesariano aveva inserito le sue illustrazioni incise su legno nel testo di Vitruvio, per dimostrare geometricamente principî meccanici come quello della leva.
Tra i numerosi libri stampati e illustrati d'architettura e sulle tecniche di costruzione pubblicati nel corso del XVI sec., due si dimostrarono particolarmente efficaci ai fini della diffusione dello stile rinascimentale italiano oltre le Alpi, nel resto del mondo e nelle Americhe recentemente scoperte: Tutte l'opere d'architettura, et prospettiva (1537-1575) di Sebastiano Serlio (1475-1554), e I quattro libri dell'architettura (1570) di Andrea Palladio (1508-1580). È interessante constatare che entrambi basarono il loro successo sulla presunzione che i potenziali lettori, anche se dilettanti con scarse conoscenze nel campo della costruzione, fossero a quel tempo sufficientemente istruiti in matematica per 'leggere' un disegno architettonico e per riuscire a tradurre le dimensioni metriche di un diagramma bidimensionale su piccola scala in una costruzione tridimensionale in grandezza naturale. Gli uomini del XVI sec. erano poco abituati all'innovazione dell'illustrazione tecnica in scala, a partire dalla quale potevano essere costruite macchine ed edifici reali. Serlio aggiunse alla sua opera un'intera sezione, il Libro II, dedicata alla proiezione prospettica di particolari architettonici, per insegnare ai suoi lettori-architetti come eseguire disegni attraenti degli edifici da realizzare per i loro potenziali clienti.
Il trattato di Palladio era anche più sofisticato dal punto di vista matematico. Esso consisteva di numerosi piani in scala e di disegni in proiezione ortogonale di edifici da lui progettati e costruiti, e di ricostruzioni congetturali basate sulle descrizioni di Vitruvio. A questi Palladio aggiungeva le dimensioni in pedes, che non erano unità metriche di misurazione ma rapporti armonici musicali. Per esempio, nella pianta di Villa Godi, Palladio disegnò due gruppi di quattro stanze su ciascun lato di una sala centrale a cui si accedeva attraverso un portico. Ciascuna delle stanze e il portico misuravano 16 pedes in larghezza e 24 in lunghezza, essi avevano quindi la stessa proporzione di un intervallo musicale diapente cioè 2:3 oppure 1:1,5, che è molto prossima alla proporzione geometrica del 'rettangolo aureo'. La sala centrale misurava 24 pedes in larghezza e 36 in lunghezza, il doppio delle dimensioni delle stanze laterali e del portico della facciata. In tal modo, il rapporto tra i lati delle stanze più piccole e quelli della più grande, e cioè 16:24:36 o 4:6:9, esprimeva un accordo musicale, due intervalli di diapente in sequenza a distanza di un'ottava.
In breve, la proporzione di questo edificio venne stabilita da Palladio in modo da permettere di intuire l'ideale 'musica delle sfere', come Pitagora, Platone, Vitruvio, e tutti gli antichi filosofi avevano affermato fosse implicito in certi rapporti numerici. Benché i mortali non potessero percepire con l'udito questi suoni celestiali, essi potevano comprenderli in modo altrettanto chiaro attraverso gli occhi, le 'finestre albertiane' dell'anima umana.
di Paolo Gozza
Chi è musico?
Il frontespizio della Practica musice (1496) di Franchino Gaffurio (1451-1522) ha un'elegante incisione, nella quale la struttura musicale del mondo è esibita ai musicisti e agli studiosi. Apollo in trono è il demiurgo di un Universo vivente e armonico, il musico che con la potenza della mente infonde vita e movimento alla propria creazione. Ministri del Musagete sono le menti, i corpi e gli strumenti musicali delle Muse, che dirigono i moti vocali dei corpi celesti, dal supremo cielo stellato alla Terra. Il piede del dio comunica alla Terra il proprio ritmo, misurato attraverso le spire di un drago che simboleggia il tempo, e che assume sulla Terra tre volti: uno per il passato, uno per il presente e uno per il futuro. La tavola non è soltanto la versione musicale della tradizione pitagorica e platonica del Dio geometra, è anche il modello da cui traggono origine e significato altre dimensioni del musico, mitologiche e mondane, ben note alla cultura rinascimentale.
Gaffurio introduce la seconda rappresentazione del musicus in una famosa incisione della Theorica musice del 1492 in cui è raffigurata la coppia Iubal-Pitagora, inventori delle consonanze. Il mistero cosmografico è svelato dai prisci musici che con la ragione e con l'esperimento trovano le leggi matematico-musicali della Creazione. Ministri ignari dei musici sono i fabbri, i cui diversi martelli generano sull'incudine sonorità nelle quali è celata la legge dell'Universo, tramandata sotto un velo di favola. Gli antichi musici sono perciò anche prisci philosophi, rappresentanti di una nobile genealogia della quale fa parte Orfeo, priscus theologus e musicus, che precede Pitagora. Allegoria dell'origine della musica fino al XVIII sec., la favola di Pitagora introduce nella cultura musicale la dicotomia tra musica theorica e musica practica, tra teorico ed esecutore.
L'incisione nel De harmonia musicorum instrumentorum opus (1518), infine, raffigurante Gaffurio nell'atto di insegnare ex cathedra la musica ai discipuli, è la dimensione secolare del musicus, dopo quella divina e quella mitologica. Il cap. 33, Quid sit musicus, nel Libro I del De institutione musica di Severino Boezio (480 ca.-524/525) ha fissato per secoli il primato epistemologico e sociologico del musicus nella gerarchia musicale; il vero musico non è schiavo della pratica e la domina con la speculazione, il citaredo e il poeta non prendono il nome dalla disciplina perché la loro attività meccanica (citharoedus) o istintiva (poëta) inibisce la loro capacità di giudizio. Musicus è in sostanza il teorico che dal XII sec. dell'era cristiana insegna la musica nell'università, il custode della tradizione nata nella bottega dei mitici fabbri. Egli tramanda e aggiorna la cultura musicale con l'insegnamento orale e scritto, riconducendo le mutevoli regole della prassi musicale alle leggi matematico-musicali della Creazione. Il suo archetipo è il musicus pitagorico-boeziano, che con la musica ha un rapporto intellettuale; i suoi ministri e banditori sono cantori e compositori ignari delle cause dell'arte e indegni del nome di musici; il suo genere letterario è il trattato musicale speculativo, la cui tradizione millenaria è la storia ideale sotto cui corrono le storie particolari della musica nelle nazioni.
Nel Rinascimento i mutamenti del linguaggio musicale e la ricezione delle fonti musicali greche e latine sono il teatro delle rinascite e delle metamorfosi del musicus boeziano. L'immagine rinascimentale del musicus è scolpita in due capolavori letterari della trattatistica musicale dell'epoca, Fronimo (1568) di Vincenzo Galilei (1525 ca.-1591) e Dimostrationi harmoniche (1571) di Gioseffo Zarlino (1517-1590). Si tratta di due dialoghi musicali ambientati rispettivamente nella bucolica quiete campestre dei pittori e dei letterati, e nella Venezia che nell'aprile 1562 si dispone ad accogliere solennemente il corteo di Alfonso II d'Este duca di Ferrara.
Francescano, originario di Chioggia, dal 1565 Zarlino, che aveva già pubblicato le Istitutioni harmoniche (1558), dirige la Cappella Marciana dopo Cipriano de Rore (1516 ca.-1565) e il comune maestro Adrian Willaert (1490 ca.-1562). Nella casa veneziana di Willaert infermo giungono Zarlino, Francesco dalla Viola (inizio XVI sec.-1568), maestro della Cappella ducale ferrarese, e Claudio Merulo (1533-1604), organista nella Basilica di S. Marco, da una parte il musicus, dall'altra i pratici. Il dialogo ha inizio con l'inatteso arrivo di un "degno et onorato gentiluomo forastiero", "Desiderio di Natione Lombardo da Pavia", personificazione del "natural desiderio di sapere" dell'incipit della Metaphysica di Aristotele. Desiderio si diletta "grandemente" di musica, ma è soprattutto interessato ai problemi teorici, avendo letto, oltre ai Moderni, "molti autori e Greci e Latini, i quali di Musica trattavano" (Dimostrationi harmoniche, p.2). Il rapporto tra teoria antica e pratica musicale moderna, nato dal "natural desiderio di sapere", è il fiat delle cinque giornate del dialogo che dà dignità letteraria e rigore dimostrativo alla comunicazione tra il teorico e i pratici.
Al vertice della nuova gerarchia il musicus (messer Gioseffo) disciplina la dotta conversazione; come l'umanista (Desiderio) egli legge direttamente gli autori greci e latini, come i pratici (Adriano, Claudio, Francesco) conosce le regole della prassi musicale ed è in grado di dimostrarle. Il titolo Dimostrationi sottolinea l'applicazione del metodo geometrico alla musica, che le edizioni del Commentarius in primum Euclidis Elementorum di Proclo (1560) e della Sectio canonis (1557) attribuita a Euclide hanno reso attuale. A differenza del musicus boeziano, Zarlino è il "musico perfetto" che nella propria persona unisce alla cultura scientifica e umanistica la competenza dei professionisti musicali.
Tre anni prima delle Dimostrationi la bottega di Girolamo Scotto stampa a Venezia il Fronimo di Vincenzo Galilei. Diversamente da Zarlino, Galilei non appartiene a un ordine religioso e non dirige una cappella musicale. Al suo esordio è un liutista che entra a far parte dell'entourage dei conti Bardi di Firenze, i quali lo mandano a Venezia da Zarlino per completare sul piano teorico la propria educazione musicale. Il suo incontro con l'umanista Girolamo Mei (1519-1594), erudito studioso della teoria musicale greca, segna la rottura dei rapporti con Zarlino e l'inizio della polemica che li dividerà fino alla morte. A differenza delle Dimostrationi, gli interlocutori del Fronimo non hanno storia, i loro nomi indicano la virtù che presiede alla loro attività. Fronimo, descritto nell'atto di accordare il liuto nell'idillio della campagna, è possessore di phrónēsis (la prudenza o temperanza) virtù della parte calcolatrice dell'anima razionale, il cui oggetto non sono le verità necessarie ma le direttive generali del caso particolare ossia i principî dell'intavolatura delle musiche per liuto su cui ruota il dialogo musicale. L'interlocutore di Fronimo è Eumatio, possessore di eumáthia, la buona disposizione all'apprendimento. La retorica del dialogo galileiano conferisce dignità letteraria all'arte dell'intavolare: non vile arte meccanica, ma prassi nobilitata dalla ragione. La diatriba tra Zarlino 'razionalista' e Galilei 'empirista', tra l''Euclide' e il 'Pericle' del Rinascimento musicale, ha come premessa la varietà dei ruoli del musicus sulla scena rinascimentale; da una parte il teorico post-boeziano, che riforma dall'interno la tradizione speculativa nata dalla polifonia vocale sacra col paradigma umanistico e matematico; dall'altra il pratico, che rivaluta la conoscenza e l'esperienza degli strumentisti e diventa teorico di un nuovo linguaggio musicale, espressione della cultura accademica e del gusto della società di corte.
Nel corso del Seicento, la gestazione della teoria musicale moderna (la Seconda prattica) seguìta al perfezionamento zarliniano della teoria del contrappunto vocale (la Prima prattica) riproporrà la frattura tra i teorici e i pratici. Variante del musicus boeziano sarà il matematico e il filosofo naturale: René Descartes (1596-1650), che nel Compendium musicae relega Zarlino tra i 'pratici'; Johannes Kepler (1571-1630), che nobilita la polifonia ignota agli Antichi con l'astronomia riformata dei Moderni; Galileo Galilei, che reinterpreta la tavola di Gaffurio sulla scoperta delle consonanze riutilizzandola nella sua meccanica dei corpi elastici. Le parti smembrate del "musico perfetto" si ricomporranno un'ultima volta nella prima metà del Settecento in Jean-Philippe Rameau (1683-1764). Poi la cultura romantica ribalterà i valori musicali, sostituendo al musicus di derivazione pitagorico-boeziana, compendiato da Rameau, il compositore geniale, demiurgo inconsapevole dell'opera d'arte musicale.
Cos'è musica?
L'idealizzazione del musicus corrisponde, nella tradizione musicale speculativa, all'idealizzazione della musica. Ci sono tante musiche quanti sono i livelli della Creazione, specializzazioni dell'idea della 'musica' esistente nella mente del Creatore. La varietà delle musiche particolari ha dato luogo a ripetuti tentativi di sistemazione del sapere musicale, nei quali la 'musica' è l'enciclopedia delle discipline che unitariamente concorrono alla conoscenza dell'armonia, musicale e non, intesa come ordine e proporzione tra le parti di una totalità. La più fortunata sistemazione musicologica della cultura europea è quella boeziana. Nel cap. II del Libro I del De institutione musica, Boezio distingue tre generi di musica: mundana (armonia del mondo), humana (armonia dell'uomo), instrumentalis (armonia dell'arte). Boezio, che parla ai filosofi, avvicina musica e filosofia; la sua tripartizione è la variante musicale della tripartizione della filosofia teoretica in metafisica, matematica e fisica, fondata sulla triadicità platonica dell'essere (intellegibile, medio e sensibile). Musicus è perciò il filosofo che dalle armonie sensibili risale alle armonie metafisiche attraverso armonie intermedie.
L'allineamento tra musica e filosofia è all'origine della straordinaria fortuna della sistemazione boeziana. Il Rinascimento ha accolto da Boezio l'idea della musica come enciclopedia, immagine di un Universo creato secondo archetipi musicali, ma ha complicato il modello boeziano. Nel cap. V della prima parte delle Istitutioni harmoniche (1558), Zarlino discute "quello che sia musica in universale, e la sua divisione"; l'argomentazione prosegue fino al cap. X, dove Zarlino spiega "quello che sia musica in particolare, e perché sia così detta". La musica "in universale", scrive Zarlino, "non è altro che Harmonia […], quella lite e amicizia che poneva Empedocle, dalla quale voleva che si generassero tutte le cose" (p. 10). L'armonia universale - coincidentia oppositorum - ha due parti, una "animastica" e l'altra "organica". L'"animastica", termine riferibile alla platonica anima del mondo, contiene la musica mondana e la musica humana di Boezio ossia armonia del macrocosmo e armonia del microcosmo, cosmologia musicale e antropologia musicale. L'"organica" - da 'organo', riferibile sia agli organi del corpo umano che producono la voce, sia agli strumenti musicali fabbricati dall'uomo - è la musica instrumentalis di Boezio. Membra della musica "organica" sono l'"harmonica o naturale" e l'"arteficiata", vale a dire l'armonia degli strumenti naturali (natura) e armonia degli strumenti artificiali (arte), la prima divisa in musica "piana", "misurata", "rithmica" e "metrica" (applicabili anche alla musica artificiale), la seconda divisa in base alla natura degli strumenti musicali ossia "da fiato", "da chorde" e "da battere".
Zarlino riformula la musicologia boeziana, indirizzata ai filosofi, adeguandola alla realtà musicale e ai musicisti; egli unifica musica mondana e musica humana nella musica animastica, distinguendola nettamente dalla musica organica prodotta dall'uomo su questa Terra. La musica instrumentalis ha poi in Zarlino articolazioni non contemplate nella sistemazione boeziana, che tengono conto dell'evoluzione della musica nei secoli che separano Zarlino da Boezio. Infine, l'oggetto delle Istitutioni harmoniche è la musica instrumentalis, ossia la musica "in particolare", separata dalla musica "in universale", mondana e humana, propria dei filosofi.
Ma cos'è per Zarlino "musica in particolare"? Le Istitutioni harmoniche riaffermano una convinzione radicata nella tradizione pitagorico-boeziana: la musica "è scienza speculativa mathematica", una delle discipline matematiche, con aritmetica, geometria e astronomia, che nella tripartizione della filosofia speculativa hanno posizione intermedia tra metafisica e fisica. Oggetto della musica è il "numero sonoro", dove il numero è la forma e il suono la materia. Per il numero la musica è "subalternata" all'aritmetica, per il suono è "scienza media" tra matematica e filosofia naturale. La scienza musicale ha poi una parte pratica, consistente nell'operare, non separabile dalla parte speculativa; la distinzione esprime la diversità tra chi con la musica ha un rapporto intellettuale (musicus) e chi ha un rapporto corporeo (compositore, cantore, sonatore). Infine, diversamente dalle altre matematiche, la musica è una scienza speculativa unita alla morale, per il suo potere di muovere l'animo a diverse passioni.
Nel Rinascimento l'enciclopedia musicale di Zarlino non è un caso isolato. Nel De musica (1577) Francisco de Salinas (1513-1590) traduce la tripartizione boeziana nella sua musica trimembris: agli estremi pone la musica che muove soltanto il senso (musica irrationalis) e soltanto l'intelletto (musica intellegibilis), mediate dalla musica che muove l'intelletto e il senso insieme (musica instrumentalis), insinuando la maggiore perfezione di quest'ultima sugli altri generi di musica. Salinas abbandona poi la musica sensibile alle creature irrazionali, la musica intellegibile "ai filosofi e agli astronomi", e affida al teorico musicale la musica instrumentalis, divisa in theorica e practica, e arricchita, rispetto alle Istitutioni di Zarlino, di un'ampia parte sulla ritmica, fondata sul De musica di Agostino.
Zarlino e Salinas sono teorici musicali, lasciano ai musici speculativi - philosophi e astronomi - il compito di adeguare la nuova teoria della musica "in particolare" alla musica "in universale" prodotta dalla moderna immagine del Cosmo. La congiunzione avverrà in un testo di astronomia, gli Harmonices mundi libri V (1619) di Kepler dove, negli ultimi tre trattati, la tripartizione boeziana è riformulata nella scienza tripartita dell'armonia generata dai moti delle voci, della Natura e dei pianeti.
Dal De institutione musica di Boezio il Rinascimento accoglie un'altra idea, ricordata da Zarlino, ovvero il potere della musica di indurre l'uomo a diverse passioni. Il lato oscuro, emozionale, della musica ha trovato esito nel suo duraturo legame con le discipline sermocinali, in particolare la poetica e la retorica, a conferma delle complesse articolazioni dell'enciclopedia musicale. Archetipo della seconda identità della musica è Orfeo, che il sincretismo rinascimentale affianca a Pitagora. Nelle Hebdomades sive septem de septenario libri (1589), Fabio Paolini (1535-1605) associa le due tradizioni, matematica e poetica, in una singolare enciclopedia delle discipline contemplative. Paolini unifica le discipline del trivio nell'arte poetico-retorica (Libro I: De poetica atque oratoria facultate), riformula il quadrivio organizzandolo attorno alla musica tripartita di Boezio (Libro II: De musica; Libro III: De humani animi sapientia, sive musica et harmonia; Libro IV: De astrologia) che sottopone all'aritmetica (Libro V: De arithmetica ideali), e chiude il divino settenario della sapienza con la magia (Libro VI: De naturae mysteriis) e la teologia (Libro VII: De theologia). La musica trimembre media i misteri della teologia e dei numeri ideali con la potenza del discorso poetico-retorico, e questa unità genera il potere emozionale della musica, gli straordinari effetti del canto di Orfeo musicus perfectissimus.
L'affermazione del paradigma scientifico moderno dividerà, nel corso del Seicento, le identità della musica, della matematica e della poetica, che l'enciclopedia rinascimentale ha armonizzato; a metà Settecento esse non coabiteranno più nell'edificio enciclopedico.
La musica nelle istituzioni
La distinzione tra musica theorica, o speculativa, e musica practica, o activa, condiziona il discorso sulla presenza della musica nelle istituzioni culturali, musicali e non. A questa distinzione è riconducibile la varietà delle forme assunte dalla musica nelle università medievali europee. L'università consente la compresenza e, talora, l'interferenza di diversi livelli di attività musicale, dall'esecuzione vocale e strumentale all'insegnamento orale e alla composizione scritta. A un estremo c'è la musica come intrattenimento, dall'ensemble strumentale alla danza e ai canti del simposio; all'altro estremo c'è l'ars musica ossia la musica come disciplina quadriviale insegnata nella Facoltà delle arti insieme ad aritmetica, geometria e astronomia. Tra i due estremi esistono livelli intermedi; musica funzionale agli eventi periodici della comunità dei doctores e degli scolares; insegnamento orale delle regole elementari del canto ecclesiastico nelle cappelle musicali annesse a monasteri e cattedrali; infine, trattatistica musicale orientata alla teoria della prassi musicale coeva più che al fondamento cosmologico e matematico della musica teorica.
All'inizio del Duecento la presenza dell'ars musica nelle università europee non è diversa da quella registrata nelle scuole dei monasteri e delle cattedrali: lettura dei libri (generalmente i primi due) del De institutione musica di Boezio, e compendia e commenta a essi ispirati, destinati all'insegnamento orale. L'armonia tripartita di Boezio rimane a lungo il principale catalizzatore delle forme di speculazione musicale nell'università pur nella crescente diffusione dell'aristotelismo che, per quanto concerne la teoria musicale, è testimoniata dalle circa cinquanta copie della prima traduzione latina dei Problemata attribuiti ad Aristotele, che Bartolomeo da Messina esegue tra il 1258 e il 1266, e le cui sezioni XI e XIX sono i due soli testi greci di teoria musicale tradotti in latino nel Medioevo. Ancora in pieno 'Rinascimento musicale' Boezio è autore studiato, tradotto, compendiato. Significativo è il caso delle scuole gesuitiche. La centralità delle matematiche nella ratio studiorum riformata da Cristoforo Clavio (1537-1612) si riflette in campo musicale nella tradizione rinascimentale di compendi del De institutione musica di Boezio, destinati all'insegnamento orale quali Musica demonstrata (1496 e 1551) di Jacobus Faber Stapulensis (Jacques Le Fèvre d'Étaples) e Musicae traditiones (1575) di Francesco Maurolico, precedenti del Compendium di Descartes.
La prima lectura musicae in una Facoltà delle arti e di medicina è quella istituita dalla Bolla papale di Niccolò V nel 1450 per lo Studio Bolognese. A questo insegnamento, apparentemente mai attivato, aspirò lo spagnolo Bartolomé Ramos de Pareja (1440 ca.-1491) quando si stabilì a Bologna nel 1472, dove pubblicò la sua Musica practica (1482). Gaffurio è invece pubblico lettore di musica nello Studio istituito a Milano da Ludovico il Moro, negli anni in cui Luca Pacioli (1445 ca.-1517) vi insegna le matematiche. Il Rinascimento complica tuttavia la trasmissione della teoria musicale nelle istituzioni culturali. Accanto e in concorrenza con le università sorgono le accademie, istituzioni tra il privato e il pubblico finalizzate alla formazione culturale dei nobili rampolli delle classi dirigenti cittadine. Nelle accademie italiane del Cinquecento la musica è coltivata più frequentemente come disciplina speculativa all'interno dell'enciclopedia delle arti liberali. Raramente la prassi musicale, vocale e strumentale, giustifica e fonda da sola un'istituzione nata come metafora vivente del Parnaso e dell'enciclopedia delle scienze simbolizzate dalle Muse e da Apollo Musagete. È questo il caso dell'Accademia degli Unisoni di Perugia o dell'Accademia Filarmonica fondata a Verona nel 1543, che coltiva gli intrattenimenti musicali lasciando tuttavia a Pietro Ponzio (1532-1595) il compito di teorizzare nel suo Dialogo … della theorica e prattica di musica (1595), dedicato all'istituzione veronese, il primato della musica activa sulla musica contemplativa. L'Accademia della Fama, fondata da Federico Badoer nel 1557, che si caratterizza per l'organizzazione enciclopedica del sapere, ospita invece la musica in una delle quattro stanze del "Consiglio delle Scientie", la stanza "de' Mathematici". Non meraviglia trovare in questa stanza Gioseffo Zarlino, la cui presenza nell'Accademia Venetiana trova espressione in due fatti culturali significativi: l'elenco dei libri di musica, antichi e moderni, che questa accademia intendeva pubblicare, e le Dimostrationi da lui edite dopo lo scioglimento dell'Accademia della Fama, della quale costituiscono l'eredità scientifica più singolare. Zarlino è il legame tra l'Accademia della Fama e l'Accademia degli Uranici, istituita nel 1587 a Venezia da Paolini. Professore di greco e latino in San Marco, Paolini è impegnato in una raffinata sintesi del Rinascimento musicale; le sue orazioni accademiche sulla musica armonizzano arcadia greca e verso virgiliano, platonismo e aristotelismo, contemplazione e abito pratico, e prescrivono un modello di composizione musicale, il canto monodico accompagnato da semplici armonie, che richiama esperienze coeve. Il nostalgico mito dell'antica musica dei greci, accademico e letterato, rivive come progetto di riforma musicale sia nelle accademie letterarie e musicali fiorentine della seconda metà del Cinquecento - dall'Accademia degli Alterati alla Camerata Fiorentina - sia nelle accademie francesi di fine Cinquecento; i "maravigliosi effetti della musica antica" diventano nel Parnaso italiano il precedente dell'opera e della musique mesurée à l'antique.
Nel Seicento l'ideale rinascimentale della musica come 'immagine dell'enciclopedia' ispira ancora l'impresa accademica teorizzata da Mersenne (decisamente orientata verso le scienze e più tardi concretizzata nell'Académie royale des sciences). L'enumerazione delle poliedriche conoscenze del "musico perfetto" che William Brouncker (1620-1684), futuro presidente della Royal Society, premette alla traduzione inglese (1653) del Compendium musicae di Descartes, è il manifesto del programma di ricerche musicali attivate dai membri dell'accademia scientifica londinese, poi imitate dai centri culturali europei. E "à Messieurs de l'Académie royale des sciences" Rameau indirizzerà nel 1737 la Génération harmonique, mentre la sua Démonstration du principe de l'harmonie del 1750 è "approuvée par Messieurs de l'Académie des sciences", a testimonianza del sodalizio ormai secolare tra musica e moderna istituzione accademica.
La ricezione delle fonti musicali greche e latine
Il Medioevo latino ha conosciuto i teorici musicali greci soltanto indirettamente, attraverso le sintesi e i commenti degli autori tardo-romani: Censorino (III sec.), De die natali, che nomina Aristosseno; Macrobio (IV-V sec.), Commentarii in Somnium Scipionis, che cita Tolomeo e si avvale di Porfirio; Marziano Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii (inizi V sec.), che nel Libro IX della sua enciclopedia delle arti compendia Aristide Quintiliano; il già citato Boezio, De institutione musica (inizi VI sec.), che attinge dai trattati di Nicomaco, di Tolomeo e da altre fonti; Cassiodoro, Institutiones divinarum et humanarum litterarum (VI sec.), che menziona Alipio, Euclide e Tolomeo; infine, un'anonima traduzione latina del trattato musicale di Gaudenzio. Il De musica (IV sec.) di Agostino, che applica le proporzioni pitagoriche alle durate e ai metri poetici, ha invece avuto scarsa influenza sulla cultura medievale (che segue i grammatici e i retori, Prisciano, Donato, Quintiliano, e così via) ed è riscoperto dai teorici musicali tra la seconda metà del XVI e la prima metà del XVII secolo. Nel Medioevo queste fonti musicali tardo-romane sono copiate, soprattutto Boezio, e variamente commentate; e tra il 1472 e il 1500 esse compaiono tra le prime edizioni a stampa: due di Censorino, Capella e Boezio, cinque di Macrobio.
Il Medioevo latino conosce anche, di nuovo soltanto indirettamente, le idee musicali disseminate negli scritti dei filosofi greci. La traduzione latina e il commento di Calcidio al Timeo (IV sec.) diffondono la cosmologia musicale di Platone; con le Glosae di Guglielmo di Conches (1080-1154 ca.) e i Commentarii di Macrobio, sul tema della creazione musicale dell'anima del mondo, esse rappresentano il centro dell'insegnamento universitario della cosmologia. La diffusione della tradizione matematico-musicale pitagorico-platonica è favorita dallo studio dei dialoghi platonici e delle loro componenti musicali, da Guglielmo di Conches allo Speculum di Enrico Bate di Malines (XIII sec.), ai commenti e alle traduzioni quattrocentesche di Giorgio Valla e Marsilio Ficino. La traduzione latina della Physica di Aristotele e la sua introduzione nella metà del XIII sec. nel curriculum delle artes medievali fornisce, con la tradizione dei commenti al De anima e al De sensu et sensibili, il modello della discussione sulla natura, propagazione e ricezione del suono. Anche le traduzioni latine di altri scritti aristotelici diffondono le idee musicali di Aristotele, in primis la traduzione dei Problemata, le cui sezioni XI e XIX sono sulla musica. La tradizione aristotelica della 'fisica' è poi integrata e complicata da altre tradizioni culturali: galenica, come nel Conciliator di Pietro d'Abano, autore dell'Expositio in librum Problematum Aristotelis (1310); stoica e neoplatonica, come nel De triplici vita (1489) di Ficino; e infine rimpiazzata all'inizio del XVII sec. dalle moderne concezioni atomistiche del suono e della percezione musicale di derivazione democritea ed epicurea.
Il recupero delle fonti musicali greche non ha inizio nell'Occidente latino, ma presso i Bizantini, che avevano accesso diretto agli originali. Nel X sec. si formò a Bisanzio una cerchia di dotti musicologi, cui risalgono tutti i codici musicali greci oggi noti, ossia la Sectio canonis attribuita a Euclide, gli Harmonica di Aristosseno e i frammenti di un suo trattato sul ritmo, i trattati De musica di Aristide Quintiliano e Plutarco, l'Enchiridion harmonicum di Nicomaco di Gerasa, l'Introductio harmonica di Gaudenzio e di Cleonide, gli Harmonica di Tolomeo col commento di Porfirio, le Introductiones musicae di Alipio, Bacchio il Vecchio e Dionisio, infine alcuni testi anonimi (più tardi designati Anonymi Bellermanniani) e alcuni frammenti. La conoscenza e la ricezione di questa letteratura da parte degli Occidentali va ascritta ai dotti bizantini dei secc. XII, XIII e XIV, come Massimo Planude o Manuele Briennio (la cui sintesi musicale fu più tardi assimilata agli scritti antichi), e ai collezionisti bizantini e italiani del XV secolo. A Venezia, in posizione geografica, economica e politica favorevole rispetto a Bisanzio, alla fine del XV sec. si trovano tutti i codici musicali bizantini, già appartenuti al patrizio e collezionista veneziano Francesco Barbaro, al cardinale Bessarione e a Valla, che per primo traduce Cleonide e Euclide (1497). La Biblioteca del convento di San Marco nella Firenze di Cosimo de' Medici e la Biblioteca Vaticana nella Roma di papa Niccolò V (1447-1455) e dei suoi immediati successori sono, come la Biblioteca Marciana di Venezia, le prime biblioteche pubbliche a custodire codici degli antichi scrittori greci di musica.
Le fonti musicali greche e tardo-romane non includevano esempi musicali riproducibili dai musicisti del XV o del XVI secolo. L'unico 'repertorio' della musica antica era rappresentato da alcuni inni di età ellenistica, passati inosservati fino a quando Mei ne inviò nel 1579 una copia a Vincenzo Galilei, che li pubblicò nella notazione originale. La 'musica antica' non era la musica sensibile, praticata in Grecia, ma la musica intelligibile immaginata e scritta dai filosofi, dai matematici e dai teorici musicali dell'Antichità, più tardi conservata nei codici musicali che da Bisanzio presero la strada per l'Italia. Il 'Rinascimento musicale', iniziato con la recezione degli scritti musicali greci, influenzò la 'musica del Rinascimento' attraverso l'interpretazione delle teorie sulla 'musica antica' nell'età della 'musica moderna'. Il paradosso spiega la spaccatura tra il mondo della cultura e il mondo dei professionisti musicali che caratterizza la fase iniziale del 'Rinascimento musicale'.
Ancora sul finire del Quattrocento il compositore, il maestro di cappella, il teorico musicale educato alla tradizione scolastica dei trattati di musica pratica non partecipano all'opera di recupero, di traduzione e d'interpretazione dei trattati musicali greci avviata dagli umanisti, dai filosofi e dagli uomini di cultura, che nella musica vedono una delle scienze teoretiche dell'enciclopedia, o una disciplina sermocinale affiancata alla retorica e alla poetica. Gaffurio, compositore, maestro di cappella, e poi anche pubblico lettore di musica nello Studio milanese istituito da Ludovico il Moro, colmò questa spaccatura promuovendo il dialogo tra musica e cultura che impronta la seconda fase del 'Rinascimento musicale'. Gaffurio fu il primo 'umanista musicale' a cercare e studiare i testi musicali greci. L'ignoranza della lingua, che aveva segnato il ritardo del Medioevo latino rispetto alla cultura giudaica, araba e soprattutto bizantina nella conoscenza della musica greca, fu superata dai contatti di Gaffurio con gli ambienti umanistici, ai cui rappresentanti egli affidò, nelle persone di Gianfrancesco Burana e Niccolò Leoniceno, le traduzioni dal greco: Aristide Quintiliano, il cosiddetto Anonimo Bellermanniano, Briennio e forse Bacchio (Burana), e Tolomeo (Leoniceno). Gli scritti musicali di Gaffurio, dalla Theorica musice al De harmonia musicorum instrumentorum opus, mostrano la crescente familiarità di questo autore coi teorici antichi; soltanto menzionati nel Libro I della Theorica musice di impianto boeziano, nel De harmonia essi suggeriscono i principali temi della trattazione.
La comunicazione promossa da Gaffurio tra musicisti e letterati segna una svolta nella storia della cultura musicale. La scomposta polemica che tra Quattrocento e Cinquecento oppone Ramos de Pareja e Giovanni Spataro (1458 ca.-1541) da un lato, Gaffurio e Niccolò Burzio (1450 ca.-1518) dall'altro, è il sintomo dei rivolgimenti epistemologici e sociologici indotti nel mondo dei musicisti dalla ricezione della cultura classica: da un lato il teorico educato ai modelli linguistici e culturali della trattatistica medievale, dall'altro l'umanista musicale che rinnova le forme della letteratura musicale per allinearla al nuovo paradigma umanistico. Alla "autorità di Franchino Gaffurio" non mancherà di appellarsi nelle sue Istitutioni harmoniche il "legislatore della musica" Zarlino, cui è ascrivibile l'elenco dei libri di musica contenuti nella Summa librorum (1559), il programma editoriale dell'Accademia Venetiana della quale Zarlino era membro. La lista associa i teorici musicali antichi (Tolomeo, Porfirio, Euclide, Aristide Quintiliano) ai teorici moderni (Fogliano, Faber Stapulensis e Francesco Giorgio Veneto), suggerendo la raggiunta unità e la continuità della cultura musicale del Rinascimento col suo antico principio materializzato nei codici musicali greci approdati a Venezia un secolo prima.
Cos'è un trattato di musica?
Alla domanda lo studioso dei codici musicali greci ha risposto con la metafora della cipolla, ossia il critico toglie di continuo strati (emendamenti, aggiunte, interpolazioni che narrano la storia del codice) soltanto per rinvenirne altri sottostanti; la risposta alla domanda non sta, tuttavia, nel raggiungere il centro, ma nell'assegnare a ciascuna stratificazione il proprio posto nella storia del codice, nella storia della sua recezione. L'avvertenza non si limita alla codicologia musicale ma interessa la teoria del testo, è quindi un efficace antidoto alle periodiche tentazioni classificatorie inflitte alla trattatistica musicale, in particolare medievale. Queste classificazioni rispondono al quesito 'cos'è un trattato di musica?' ponendo una 'questione di genere'; trasformano il problema della tradizione del testo nella definizione di modelli. Esse cercano di ordinare la straordinaria varietà dei trattati di musica, antichi e medievali, utilizzando criteri diversi, dalla distinzione tra musica theorica e musica practica all'impiego di categorie più complesse e raffinate, quali genere, stile, pubblico e così via. Esse determinano, tuttavia, una sottile contraffazione del trattato di musica; anziché essere il vivo testimone della cultura di un'epoca, il trattato musicale è confinato in un perimetro angusto e separato, comodo forse allo studioso attuale, ma estraneo alle motivazioni culturali dell'autore. La musica non fa eccezione alla fede dell'intellettuale medievale nell'unità del sapere, e la specificità della disciplina non ne esclude la dipendenza dai principî del sapere e dal fine della conoscenza delle verità teologiche, comuni a tutte le artes.
La stessa fede è condivisa dal teorico rinascimentale, che al trattato affida la sintesi della cultura musicale antica, medievale e moderna. Nelle Dimostrationi di Zarlino "il natural desiderio di sapere" indossa le vesti di un gentiluomo forestiero, che, nella sua qualità di lettore degli antichi scrittori di musica, desidera veder sciolto un dubbio: come mettere d'accordo la scienza degli Antichi con la prassi musicale dei Moderni? L'accordo tra teoria e pratica, tra ragione ed esperienza, non è problema tecnico di alcuni professionisti musicali, appartiene a tutta la cultura. Il trattato di musica porta la musica di fronte alla cultura, è il testimone della vocazione della musica a contaminare la cultura, a cambiarla ed esserne cambiato. Il genere dialogico nelle Dimostrationi è lo strumento retorico che apre il mondo della musica all'interlocutore umanista, incaricato di mediare per la prima volta dopo Boezio la comunicazione tra teorici e pratici, tra ratio e sensus. La struttura euclidea delle Dimostrationi è invece la contaminazione della teoria musicale col metodo della dimostrazione scientifica. L'allineamento della teoria musicale al paradigma euclideo non è l'imitazione di un modello estraneo, ma l'aggiornamento di una disciplina matematica alla luce del successo del metodo geometrico degli antichi matematici e musicologi greci. Questi aspetti collocano le Dimostrationi e il loro autore in un preciso contesto storico e culturale. Il trattato coagula l'attiva partecipazione di Zarlino alla cultura veneziana degli anni Sessanta. L'autorità di Gaffurio rivive nei rapporti di Zarlino con le cerchie umanistiche veneziane e lombarde. I rapporti tra Gaffurio e il suo collega allo Studio milanese, il matematico Pacioli, rivivono nei contatti tra Zarlino e "i moderni matematici" dello Studio patavino, aperto al rinascimento delle matematiche dal magistero di Francesco Barozzi (1537-1604). La partecipazione di Zarlino alle attività dell'Accademia della Fama collegano la musica al progetto di rinnovamento culturale e politico di Badoer, che continua idealmente nell'Accademia degli Uranici attraverso gli interessi musicali di Paolini, che a Zarlino chiede in lettura i codici musicali della Biblioteca Marciana.
Il trattato di musica non è il tradimento che il teorico consuma nei confronti della prassi musicale, dei cori polifonici della Cappella Marciana di cui Zarlino è il maestro? La scienza degli Antichi non sconfessa la pratica dei Moderni, o, viceversa, la polifonia moderna non falsifica la teoria musicale dell'età della monodia antica? Il dubbio di Desiderio è il problema che da Gaffurio a Nicola Vicentino, da Zarlino a Vincenzo Galilei, da Salinas a Descartes e Kepler, attraversa le pagine del trattato rinascimentale di musica. La risposta dei teorici fa fronte al destino di irripetibilità degli eventi sonori, all'apparente mancanza di principî della prassi musicale, con la ricerca dei loro archetipi intellettuali. A Willaert che non sa dare ragione delle proprie composizioni, Zarlino risponde con la dimostrazione imparata alla scuola degli antichi geometri. La risposta del teorico non è il tradimento del lavoro degli uomini, è la sua idealizzazione, ovvero la prassi musicale sub specie aeternitatis, l'affermazione della fede nell'unità del sapere e nell'armonia. E la distanza residua tra le musiche prodotte e fruite dagli uomini e la musica del trattato non è responsabilità dei soli teorici musicali, ma dei filosofi e degli uomini di cultura, del loro concetto di ragione e di scienza, del ruolo assegnato all'esperienza nei sistemi filosofici e culturali.
Questo è un punto importante per rispondere alla domanda "cos'è un trattato di musica?". Se una costante del trattato di musica è il suo rapporto con la cultura, se essa è mutata dai contesti e dagli individui, allora ogni trattato è un caso a sé, e tanto più quanto maggiore è la conoscenza che se ne ha. Diversamente il trattato di musica rischia di uscire fuori dal movimento della cultura per diventare l'oggetto di una ristretta cerchia di specialisti. La storia della recezione del Compendium musicae (1650) di Descartes ne è un esempio. Giudicato secondo la tradizionale distinzione tra 'musica teorica' e 'musica pratica', il trattato cartesiano è rimasto di fatto estraneo alla storia del suo autore e della cultura del Seicento. Il trattato di musica di Descartes non è il trattato di musica di Zarlino, non vuole dimostrare la musica del suo tempo; cos'è musica nel Compendium musicae è problema che tocca meno la musica al tempo di Descartes e molto più lo statuto epistemologico di una scienza matematica appresa nel curriculum del Collegio gesuitico di La Flêche.
Il trattato di musica non è l'oggetto dei soli musicologi. Ai nomi di Gaffurio, Fogliano, Glareano, Vicentino, Zarlino, Salinas, Vincenzo Galilei, Artusi, il Rinascimento affianca quelli dei maghi, dei filosofi naturali, dei matematici, degli astronomi; scrivono libri di musica Ficino, Faber Stapulensis, Valla, Giorgio Veneto, Maurolico, e nel Seicento Descartes, Kepler, Simon Stevin, Mersenne. A metà del Settecento il trattato di musica è emendato e semplificato, e infine distrutto; il venerando contenitore della musica si frantuma e le sue parti vivono una vita autonoma generando nuovi generi musicali.
Musica e storia
La "cognitione perfetta della Musica s'acquista da due parti, l'una delle quali chiameremo Historica & l'altra Methodica" (Zarlino, Sopplimenti musicali, p. 10). Storia e metodo sono per Zarlino le fonti di conoscenza della musica, tuttavia, non si tratta di generi autonomi ma della diversa enunciazione degli stessi principî, indiretta e diretta, attraverso il commento degli Antichi e attraverso la via della ragione, o metodo. La distinzione riguarda l'ordine delle materie nella teoria musicale, una scienza radicata nel passato che ha sempre fatto storia, da Boezio che riporta le opinioni dei teorici greci, a Gaffurio e a Zarlino che ripropongono tutta la tradizione che li precede. Zarlino enuncia la componente storica della teoria musicale già nel frontespizio delle sue Istitutioni harmoniche: "Nelle quali, oltre le materie appartenenti alla Musica, si trovano dichiarati molti luoghi di Poeti, d'Historici, & di Filosofi, si come nel leggerle si potrà chiaramente vedere".
La parte "historica" della teoria musicale ha trovato espressione in un genere retorico millenario, inglobato nella struttura sistematica del trattato, ovvero la lode della musica. La variante zarliniana dell'encomium musicae si estende dal proemio delle Istitutioni ai primi undici capitoli del Libro I, e rielabora un tema unitario e coerente, ossia il paragone tra musica antica e musica moderna (Proemio); l'origine della musica e la certitudo della disciplina (cap. I); le lodi della musica attraverso gli exempla dei suoi favolosi effetti (cap. II); il fine della musica (cap. III); l'utilità della musica (cap. IV); la definizione della musica e le sue divisioni (capp. V-X); la distinzione tra musica speculativa e musica pratica, e tra musico e cantore (cap. XI). Il trattato enuncia poi la "parte methodica" dell'edificio musicale; i rimanenti capitoli del Libro I, dal XII al XLIV, espongono il protrettico matematico, le dottrine aritmetiche su cui il teorico musicale fonda la manipolazione dei numeri sonori. Il Libro II, in 51 capitoli, descrive i fondamentali concetti musicali, suoni, intervalli, generi, temperamento e così via, e pone termine alla sezione speculativa. La sezione pratica delle Istitutioni è divisa anch'essa in due parti: il Libro III, di 80 capitoli, sull'arte del contrappunto, e il Libro IV, di 36 capitoli, sui modi. Il trattato musicale, dunque, è un organismo articolato, con molteplici funzioni. Include idealmente la totalità della disciplina, dalla narrazione del suo nobile passato e del suo 'rinascimento' attuale all'enunciazione dei suoi principî teorici (musica speculativa) alla loro concreta applicazione alla prassi compositiva (musica pratica). Ha perciò diversi livelli di lettura, per lettori e studiosi di diversa estrazione culturale, professionisti musicali interessati alla soluzione dei concreti problemi della loro arte, teorici della musica attenti alla sistematica dei concetti musicali, matematici attratti dall'applicazione dei numeri e delle figure geometriche agli eventi sonori, filosofi naturali alla ricerca delle cause fisiche e degli effetti psicologici del suono, grammatici e studiosi di retorica partecipi della misura del ritmo e delle clausole retoriche del periodo musicale.
Delle divisioni del trattato musicale la parte "istorica" è la meno specialistica, facilmente accessibile al lettore non direttamente interessato alle sezioni sistematiche. Non a caso precede tradizionalmente le altre divisioni del trattato, svolgendo il ruolo di protrettico musicale, di introduzione esortatoria allo studio della musica e, data la sua vocazione alla comunicazione, mutua dal discorso epidittico lo stile narrativo e la struttura tematica facilmente memorizzabile. L'encomio della musica appartiene al genere delle introduzioni esortatorie allo studio delle arti liberali nella cultura ellenistica e romana ereditata dal pensiero cristiano. La cultura scolastica dispone poi l'encomio nelle divisioni tassonomiche responsabili dell'organizzazione delle materie nella trattatistica musicale. Precedente del protrettico musicale moderno è la quattrocentesca disputa delle arti, che ridefinisce i parametri epidittici per tessere le lodi delle arti nella civiltà umanistica. A partire dal XV sec. l'encomio della musica diventa improvvisamente vitale; un organismo pietrificato, trasmesso senza varianti significative, è il 'genere musicale' più diffuso e letto del Rinascimento. Sensibile ai mutamenti della cultura e del pubblico e alle circostanze della vita letteraria, l'encomium musicae è genere praticato da umanisti e da letterati nelle prolusioni accademiche e nelle descrizioni celebrative delle esibizioni di celebri esecutori; nelle introduzioni generali agli scritti matematici volti a tessere le lodi dei mathemata (discipline matematiche), tra i quali figura stabilmente la musica; nei libri di magia rinascimentale, da Ficino a Della Porta, impegnati a rendere operative le teorie pneumatologiche sul potere della musica e a illustrare gli effetti fisici dei suoni; nei testi della tradizione enciclopedica, da Angelo Poliziano a Valla, all'enciclopedismo del Seicento; e, ancora, in certa letteratura umanistico-pedagogica, negli scritti degli eurematologi, nella poesia rinascimentale.
Talora i temi dell'encomio originano una tradizione specialistica; è il caso del Complexus effectuum musicae di Johannes Tinctoris, o della più tarda A curious dissertation concerning the causes of the power & effects of music del filosofo sperimentale inglese Robert Hooke; altre volte invece l'encomio è usato nel suo significato originario di discorso epidittico, di difesa della musica dai suoi detrattori: è il caso del Contra vituperatorem musicae (1509) di Carlo Valgulio, e delle Questions harmoniques (1634) di Mersenne, un'apologia della musica come scienza contro il Discours sceptique sur la musique di François de La Mothe Le Vayer, che mette in discussione il 'mito' del potere della musica e la certezza della disciplina. Con l'ubiquità, l'età umanistica e rinascimentale sperimenta anche l'amplificazione dell'encomio; nella Theorica musice (1492) di Gaffurio - il terminus a quo della rinascita dell'encomio nella trattatistica musicale - la "parte istorica" della teoria musicale occupa ormai gli otto capitoli del Libro I del trattato, di complessivi cinque libri, fondendosi col programma di recupero delle fonti musicali greche e con la volontà di avviare il dialogo tra professionisti musicali e letterati.
Col tempo, l'encomio della musica sperimenta anche la propria metamorfosi e dissoluzione. Le parti della lode abbandonano il tradizionale modellatore retorico e si contaminano con altre tradizioni culturali, mettendo in crisi la narrazione storica e le sue premesse epistemologiche e dando luogo a nuove forme e tradizioni. L'esempio più straordinario è il topos dei fondatori della disciplina, la leggenda biblica e pitagorica del ritrovamento delle consonanze. Trasmessa da Boezio, che l'accoglie da Nicomaco e Aristide Quintiliano, ripetuta dalla trattatistica musicale posteriore fino a Zarlino, la leggenda aveva trovato la sua sintesi visiva nell'incisione della Theorica musice di Gaffurio, radicandosi nell'immaginario degli uomini di cultura fino al XVIII secolo. Nella seconda metà del Settecento l'antica origine della teoria musicale è rimossa e sostituita dalla moderna origine della musica, il linguaggio, proiettato nel passato della storia umana dal nascente paradigma estetico-musicale. Ma già molto prima della sua radicale metamorfosi il classico luogo dell'encomio era stato riletto da Vincenzo Galilei col lume dell'esperienza "madre di tutte le cose". Nel Discorso del 1589 e nel Discorso particolare intorno alla diversità delle forme del diapason Vincenzo Galilei per primo getta il discredito sui mitici conditores (fondatori) della musica, mostrando l'errore di Pitagora e incrinando uno dei pilastri della tradizione musicale trasmessa dall'encomio; l'esperienza dimostra che i pesi dei martelli nella tavola di Gaffurio non sono definiti da rapporti tra numeri interi semplici, ma da rapporti di numeri inversi al quadrato. La crisi dell'archetipo epistemologico dell'encomium musicae diventa così luogo di origine della moderna scienza sperimentale del suono. L'osservazione di Vincenzo Galilei sarà convalidata nel Seicento da Mersenne, che rifonderà la legge delle tensioni, o dell'inverso dei quadrati, nella prima legge acustico-matematica della corda vibrante. Isaac Newton, invece, leggerà nella leggenda di Pitagora la propria legge di gravitazione universale, volutamente celata dall'antico sapiente nell''errore' del racconto tramandato da Boezio e dalla tradizione posteriore.
Nel corso del Settecento il trattato di musica si disgregherà e le parti separate dell'organismo produrranno nuove forme. Anche le topiche dell'encomium musicae, rese autonome dal loro contenitore, feconderanno nuovi generi; per esempio, la voce Effets de la musique nell'Encyclopédie, redatta da Rousseau, è interamente fondata sul Tentamen de vi soni et musicae in corpore humano (1758) di Roger, il maggiore trattato settecentesco di 'musica iatrica', specializzazione medica del topos degli straordinari effetti della musica antica. Ma forse l'eredità più viva dell'encomium musicae è la genesi settecentesca del genere storiografico; non a caso le prime storie della musica si affermano nel momento della definitiva separazione delle due fonti della conoscenza della musica incluse nel genere del trattato, "historica" e "methodica".
Natura e arte
"Quale musica si canta oggi?". La domanda di Zarlino e di Vincenzo Galilei non è naïve; deriva dalla convinzione che la musica non è la stessa nelle diverse epoche - che la musica moderna è diversa dalla musica antica. Di qui la ricerca di una continuità, la volontà di trovare nella prisca sapientia degli Antichi alcuni caratteri della musica dei Moderni. Per alcuni si tratta di trovare i principî della musica moderna nella scienza antica, per altri di ridurre l'"antica musica alla moderna prattica" (Vicentino, L'antica musica ridotta alla moderna prattica, 1555). Ridurre l'antica musica alla moderna pratica significa per Vincenzo Galilei fare musica moderna realizzando l'espressività della musica antica, compromessa dalla polifonia; trovare i principî della musica moderna nella scienza degli Antichi, per Zarlino significa invece dedurre le regole del contrappunto da leggi matematico-musicali immutabili. In Vincenzo Galilei e in Zarlino rivivono due miti musicali antichi riscoperti dal Rinascimento; nel primo, il mito umanistico dei "maravigliosi effetti della musica antica", la musica nella prospettiva dell'ascolto; nel secondo, il mito rinascimentale dell'"armonia", la musica nella prospettiva dell'opera.
"Quale musica si canta?": Zarlino risponde "(come si dice) fuori de i Denti, che si canta[va] la sudetta specie Naturale o Syntona Diatonica di Tolomeo, & non l'Antica Diatona o altra specie" (Sopplimenti musicali, p. 9). Galilei concede a Zarlino "che quello che noi hoggi cantiamo, convenga più che con altra Distributione con il medesimo Sintono di Tolomeo" (Discorso intorno all'opere di messer Gioseffo Zarlino da Chioggia, pp. 124-125); il punto controverso è per Vincenzo il termine "naturale", e il suo opposto "artifiziale", che Zarlino usa in relazione alle voci e agli strumenti.
La Natura è il fondamento della teoria musicale di Zarlino. Egli accoglie dalla tradizione peripatetica la concezione dell'oggetto naturale come poíēsis (Creazione), la Natura come principio intrinseco delle cose (natura naturans). Ma Zarlino accoglie anche un'altra concezione della Natura, quella come oggetto della potenza creatrice della mente divina (natura creata), la "Natura è ragione dell'Arte divina imposta alle cose, per la quale si muovono al loro fine" (Sopplimenti musicali, p. 20). In breve, alla concezione aristotelica della phýsis (Natura) come sistema poietico Zarlino sovrappone la concezione platonico-cristiana del demiurgo divino, il Dio geometra e architetto che ordina la realtà naturale in base alle forme intellegibili.
Il sincretismo tra aristotelismo e platonismo cristiano spiega l'affermazione di Zarlino che la musica cantata oggi è "la specie Naturale o Syntona Diatonica di Tolomeo". La musica che ha in mente Zarlino include "le cantilene vocali e naturali", le polifonie sacre prive di accompagnamento strumentale, dette a capella. Queste musiche sono "naturali" perché sono prodotte dalla voce, unità vivente di materia e forma; la voce come materia del canto intona le "Forme" che "Madre Natura, Istrumento del grande Iddio", ha collocato nei corpi affinché l'opera della Creazione fosse perfetta. Ogni cosa creata possiede per Zarlino "la sua Forma & la sua Figura determinata", che nei corpi sonori è la consonanza, forma "secondo una certa & determinata ragione ò proportione" (ibidem, p. 88). Sull'esistenza in rerum natura delle forme universali della consonanza e sulla premessa che "Iddio & la Natura non fanno mai cosa alcuna invano" (ibidem, p. 27) Zarlino giustifica la possibilità della conoscenza. Il sintono diatonico di Tolomeo - cioè la 'giusta divisione del tono' - è il termine di una complessa procedura scientifica fondata sull'analogia tra suono ed estensione, tra altezza della nota e lunghezza della corda che la genera: "Tirrata una corda equale, quella proportione, che si trova da spacio a spacio, quella istessa sia da suono a suono" (Dimostrationi, p. 147). Materia e forma si separano, e i suoni perdono realtà fisica per acquistare lo statuto di 'numeri sonori': l''intervallo' tra la corda e la sua metà, 1:2, è la forma matematica dell'intervallo musicale di ottava, diapason, "Madre & cagione di tutti gli Intervalli" (Sopplimenti musicali, p. 98); da questo "Tutto sonoro divisibile nelle sue parti", Zarlino deduce matematicamente, e verifica con l'esperienza, che le 'forme naturali' delle consonanze ordinate nella scala della 'giusta intonazione' sono i rapporti tra i primi sei numeri della serie naturale, il senario, il numero perfetto (Istitutioni harmoniche, pp. 27-28).
La continuità tra Natura e scienza prepara l'incontro tra Natura e arte. Gli universali musicali in re, esibiti dal senario e ordinati nel 'sintono', sono gli elementi di costruzione dell'edificio della musica, il fondamento delle regole pratiche del contrappunto che il teorico consegna al compositore per la creazione musicale. La creazione artistica, l'opus perfectum è imitazione della poíēsis naturale, l'arte del demiurgo divino celata nella Natura è il paradigma dell'arte umana che assume la Natura come propria norma ideale. La risposta di Zarlino che la musica che si canta oggi è il "sintono naturale" afferma l'identità tra Natura e arte, nel suo duplice significato di scienza (musica theorica) e di composizione e canto (musica practica), perfezione dell'opera musicale come imitazione della Creazione divina del mondo.
Alla ferma fede di Zarlino nell'armonia è speculare lo scetticismo di Vincenzo Galilei, che getta lo scompiglio nell'ordinata sintesi zarliniana. Non c'è elemento dell'edificio teorico di Zarlino che il suo "amorevole discepolo" non tenti di travolgere. Gioseffo idealizza la "stupenda Natura", in cui vede un sistema di forme che l'uomo cerca di comprendere con la ragione e di imitare con l'arte; per Vincenzo la Natura procede "senza cognitione", non offre leggi o modelli da seguire. Gioseffo crede che la musica sia una scienza, per Vincenzo la scienza s'affanna inutilmente coi numeri e le figure a "regolare et proportionare" la musica che si canta. Il senario di Zarlino è per Vincenzo Galilei soltanto una delle tante "Zarlinische impertinenti innouationi", e il "sintono naturale" non è perfetto e non è naturale, ha intervalli dissonanti sui vari gradi della scala, è instabile, inoltre è un prodotto dell'arte, che non imita la Natura ma segue propri disegni. Per Zarlino il fine della Natura e dell'arte è la perfezione dell'opera, per Vincenzo Galilei la musica è comunicazione ("il fine della Musica sia l'esser'udita", scrive nel Discorso), perciò "le regole dei moderni contrapuntisti osservate come leggi inviolabili […] saranno tutte di diretto contrarie alla perfettione" (Dialogo della musica antica et della moderna, p. 81). Se al termine di questa sistematica demolizione è disposto a concedere "che quello che noi hoggi cantiamo, conuenga più che con altra Distributione co'l medesimo Sintono di Tolomeo", non per questo Vincenzo Galilei è un musicista pratico privo di principî, un 'nipote di Rameau'; se la Natura si ritira, lo spazio è occupato dall'arte, e il criterio della perfezione cede alle richieste della comunicazione.
Sul rapporto Natura-arte Vincenzo Galilei orecchia meno la Physica e più le pseudoaristoteliche Quaestiones mechanicae; la Natura segue lo stesso corso senza deviazioni, l'arte umana cambia sempre, è il progettare e far venire all'essere cose che possono essere o non essere, il cui principio è in colui che produce; perciò Natura e arte hanno finalità diverse, e nel perseguire i propri fini particolari l'arte è superiore alla Natura. Un caratteristico orgoglio professionale spinge talora Vincenzo a identificare la Natura con la materia, cui l'arte umana aggiunge dall'esterno la forma; la Natura dà "il suono tanto delle voci quanto delle corde", l'arte attribuisce "la forma di qual sia intervallo tanto consonante quanto dissonante" (Discorso, p. 79). La premessa filosofica di questo atteggiamento è la separazione della teoria dello strumento dalla teoria della Natura, della meccanica dalla physis; alla Natura, ministra dei moti naturali dei corpi, Vincenzo Galilei contrappone l'arte meccanica, la teoria degli strumenti ideati dall'uomo per conseguire un fine diverso dalla Natura, o che la Natura non può conseguire.
I fini dell'arte sono l'espressione ("esprimere con efficacia maggiore i concetti dell'animo") e la comunicazione ("imprimergli secondariamente con pari forza nelle menti de mortali", Dialogo, p. 81). Alla Physica o agli Analytica posteriora di Aristotele e al Commentarius in primum Euclidis Elementorum di Proclo, i testi dei matematici veneti vicini a Zarlino, Vincenzo giustappone il Libro VIII della Politica, la Poetica, la Rhetorica e i Problemata, i testi aristotelici degli umanisti fiorentini e del mentore della Camerata, Girolamo Mei. In una lettera a Vincenzo del 1572 Mei riprende le considerazioni dei Problemata sulla voce umana, che si distingue dalla voce degli animali per "il parlare significante"; la voce umana unisce al grido animale, manifestazione del piacere e del dolore, suoni articolati capaci di esprimere i moti dell'animo e di imprimerli in chi ode. Nel Dialogo Vincenzo Galilei riprende le considerazioni di Mei, e ne fa la premessa della sua polemica musicale antimoderna a favore dell'espressività della musica antica. In altri termini, in Vincenzo Galilei e in Mei la musica è discorso, non scienza del necessario ma arte del possibile. È la musica dalla prospettiva retorica e antropologica della comunicazione e della fruizione, speculare alla musica dalla prospettiva ontologica dell'opus perfectum et absolutum.
Armonia e ascolto musicale
La discussione tra Zarlino e Vincenzo Galilei è un punto di svolta del Rinascimento. La 'Natura' di Zarlino e le 'tecniche' di Galilei sono gli opposti di una sintesi lasciata in eredità alla riflessione posteriore. Metter pace tra Gioseffo e Vincenzo, armonizzare Natura e uomo, scienza e arte, armonia classica e ascolto moderno: le simmetrie enunciate tra Cinquecento e Seicento sono le varianti storiche del problema di cui la musica si fa carico. Paolini cerca di armonizzare aritmetica e poetica, numero e parola, Pitagora e Orfeo; Descartes cercherà di armonizzare ratio e sensus, geometria e ascolto musicale, ordine mentale e piacere sensibile; Kepler moti celesti e moti vocali, armonia delle sfere e fruizione musicale, riconducendo musica mundana, humana e instrumentalis agli stessi principî.
La sintesi di Paolini è dentro la tradizione cabalistica, ermetica e neoplatonica di Ficino e Giorgio Veneto, complicata con Valla, Zarlino, Patrizi e con l'ideale umanistico dell'espressività della musica. La funzione catartica e religiosa della musica - i "maravigliosi effetti" del canto di Orfeo - si trova per Paolini nella razionalità del numero e della parola, nell'aritmetica e nella retorica. A proposito del numero, Paolini nelle Hebdomades (1589) fa propria la distinzione di origine pitagorica tra numeri numerantes, ideali, e numeri numerati, materiali, i primi come archetipi della Creazione divina, i secondi come copie sensibili nella creazione umana. A proposito della parola, invece, Paolini fa proprio il sincretismo tra Platone e Aristotele dei dialoghi Della poetica di Patrizi. Teoria aristotelica dell'imitazione e dottrina platonica dei "furori" sono assimilitate in vista della finalità comune a poesia e musica, catartica e religiosa.
Il ritmo è l'elemento su cui Paolini fonda la scienza musicale aritmo-poetica. Il concetto di ritmo rimanda al duplice statuto del numero, ideale e materiale. Ritmo ideale è quello vocale, attuato nella metrica del verso poetico, ideale perché veicolo di un significato razionale. Ritmo materiale è invece quello strumentale, proprio della musica senza poesia, materiale perché non trasmette significati razionali. Tra Aristotele e Platone, Paolini mette il De musica di Agostino rilanciato da Salinas, che dedica tre dei sette libri del trattato al tempo musicale. La collocazione della musica in posizione intermedia tra matematica e poetico-retorica trova poi un parallelo nell'ideale della composizione musicale enunciato nelle Hebdomades, il canto monodico accompagnato da semplici armonie strumentali, un modello affine a quello della Camerata Fiorentina e dell'Académie de poesie et de musique di Jacques Mauduit e Jean-Antoine de Baïf.
Il problema del ritmo è centrale anche nel Compendium musicae di Descartes. Come ordine del movimento, il ritmo collega direttamente l'oggetto - huius obiectum est sonus (l'oggetto [della musica] è il suono) - al fine della musica - ut delectet, variosque in nobis moveat affectus (affinché diletti e susciti in noi vari sentimenti, Abrégé de musique, p. 55) -, ha quindi in Descartes una priorità ontologica sull'altro attributo quantificabile del suono, l'altezza delle note. È il primato della quantità continua (geometria) sulla quantità discreta (aritmetica), dei valori di durata sui valori di altezza delle note. La dimensione temporale del suono complica lo statuto della musica come scienza del numero sonoro; i numeri sonori derivano dalla natura geometrica del continuo musicale, e la musica è in Descartes scienza della quantità continua e discreta applicata al suono, momento di unificazione delle matematiche nella costituzione dell'oggetto dell'udito.
La nuova ontologia del suono prepara la riforma cartesiana della mente musicale. Tra gli estremi della ratio e del sensus Descartes colloca l'immaginazione, la facoltà temporale dell'anima. L'immaginazione traduce il movimento dei suoni nel tempo in ascolto musicale, attraverso cui prende forma la soggettività dell'ascoltatore come correlato della creazione artistica. Alla dimensione della soggettività si riferiscono i rilievi psicologici dell'ultimo capitolo del Compendium musicae, dedicato alle regole della composizione polifonica. In queste pagine, fondate sul Libro III delle Istitutioni harmoniche, il ventiduenne autore del Compendium musicae sostituisce la perenne Natura di Zarlino con le attese di un'anima attenta ai moti indotti dalle diminuzioni, dalle sincopi e dalle clausole che scandiscono il dinamismo delle voci nel contrappunto.
Il primato cartesiano della quantità continua in musica è in sintonia con la contemporanea demolizione del numero sonoro che è operata da Kepler. I numeri numerantes non hanno secondo Kepler statuto ontologico ed epistemologico autonomo, e sono sostituiti dalle figure geometriche, quantità continua. Esse sono coeterne a Dio ed esistono come copie nella realtà fisica, dove la mente umana, immagine del Creatore, le riconosce. La 'geometrizzazione' della musica, avviata dalle Dimostrationi di Zarlino e dal Compendium musicae di Descartes, è portata a compimento negli Harmonices mundi di Kepler.
Come in Zarlino e Descartes, anche in Kepler la novità epistemologica determina una variante nella tradizione del trattato di musica. Kepler trapianta il trattato musicale in un organismo nuovo, un libro di astronomia che è anche l'enciclopedia delle discipline matematiche, le quali concorrono unitariamente alla spiegazione della segreta armonia del mondo.
A differenza degli umanisti, Kepler non trova la polifonia contraria al diletto umano; identifica anzi la fruizione musicale in brevi aliqua horae parte (in una qualche piccola parte dell'ora) col piacere intellettuale di Dio per le proprie creature. Percepire è mettere proporzione, trovare nelle armonie sensibili la copia delle armonie intellettuali che Dio ha impiantato nella mente di ciascuno, 'secondo il più e il meno', ascoltare la musica è esperire l'opera della Creazione.
Dal numero al suono
La crisi di fondamento del numero sonoro non ha termine con Descartes e Kepler. Se le figure geometriche sono più vicine a Dio dei numeri, è perché la geometria rappresenta meglio il movimento nel tempo, espressione della natura profonda dell'armonia, musicale e non. Nella rifondazione di Descartes e Kepler manca all'appello un aspetto fondamentale del suono: De ipsius soni qualitate, ex quo corpore & quo pacto gratior exeat, agant Physici (Circa la qualità del suono, da qual corpo sia prodotto e in quali condizioni più favorevoli alla sua gradevolezza, è compito dei fisici trattarne, Abrégé de musique, p. 55). La 'qualità' del suono, il suono come realtà naturale, di cui si occupano i fisici, rimane estraneo allo sguardo del matematico, interessato agli aspetti quantificabili del suono. Il passaggio dal numero al suono implica invece una sguardo più deciso dentro il labirinto della Natura, comporta la rinuncia alle 'qualità' che popolano e animano il mondo naturale aristotelico e rinascimentale, e la volontà di spiegare la Natura per quello che essa è o appare, materia e movimento, rifondando sulle sue leggi, matematiche e fisiche, l'antica scienza del numero sonoro.
Terminus a quo verso la fondazione del paradigma musicale moderno è ancora la polemica tra Vincenzo Galilei e Zarlino. Alla "ben'ordinata Natura" di Zarlino, che sussurra all'orecchio dell'uomo "le consonanze nelle lor vere Forme & Naturali", e ha voluto che "col mezo dell'arteficio cotali Forme si trovassero, come registrate nelle cose naturali, à perpetua memoria, collocate per ordine, secondo i Gradi loro ne i loro proprii luoghi; accioche l'Huomo conoscesse, che non fussero state fatte à caso; ma ordinate con gran sapientia & non senza gran misterio" (Sopplimenti musicali, p. 97), Vincenzo aveva contrapposto l'immagine di una Natura che procede "senza cognitione", con principî e fini estranei all'uomo, e contro la Natura di Zarlino aveva eretto la poíēsis umana, l'arte meccanica ideata dall'uomo per conseguire un fine diverso dalla Natura, o che la Natura non può raggiungere. Il figlio di Vincenzo, Galileo Galilei (1564-1642), unifica i principî della Natura e i principî della meccanica che il padre ha diviso, e per la prima volta la meccanica diventa la scienza fisica e matematica del movimento dei corpi, naturali e artificiali. Ed è proprio questa meccanica riformata che elimina dalla Natura le 'qualità' aristoteliche e svela il "gran misterio", costringendola a partorire i numeri sonori celati nel suo grembo con le "sensate esperienze" di Vincenzo e le "harmoniche dimostrationi" di Gioseffo.
La scienza del numero sonoro ha inizio col ritrovamento delle consonanze nell'officina di un fabbro del VI sec. dell'era pagana. Anche il paradigma musicale moderno avrà il proprio apologo, speculare a quello di Pitagora da cui ha avuto inizio la nostra storia. È il commosso apologo dell'uccellatore ne Il Saggiatore (1623), con cui il figlio di Vincenzo rappresenta la condizione dell'uomo di scienza. Un uomo, che non ha altra esperienza sonora che quella del canto dei suoi uccelli (musica irrationalis, musica irrazionale), sente risuonare nella notte note melodiose, e credendo trattarsi di un uccello fa per catturarlo, ma con stupore scopre un pastore che soffia in uno zufolo (musica instrumentalis, musica strumentale). Impressionato, l'uomo s'avventura per il mondo alla ricerca di eventi sonori ignoti e quando già crede di aver conosciuto tutto (musica intellegibilis, musica intelligibile),
trovossi più che mai rinvolto nell'ignoranza e nello stupore nel capitargli in mano una cicala, e che né per serrarle la bocca né per fermarle l'ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore […], e che finalmente, alzandole il casso del petto e vedendovi sotto alcune cartilagini dure ma sottili, e credendo che lo strepito derivasse dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per farle chetare, e che tutto fu in vano, sin che, spingendo l'ago più a dentro, non le tolse, trafiggendole, colla voce la vita, sì che nè anco poté accertarsi se il canto derivava da quelle. (Le opere, VI, p. 281)
Pitagora entra nell'officina sapendo già cosa avrebbe trovato, gli archetipi universali dei suoni; lo sperimentatore moderno si riduce invece "a tanta diffidenza del suo sapere, che domandato come si generavano i suoni, generosamente rispondeva di sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo potervene essere cento altri incogniti e inopinabili".
Galileo Galilei si ricorderà di Pitagora al termine della prima giornata dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. In pagine giustamente famose, Galileo riplasma la tradizionale teoria dei numeri sonori con la sua nuova scienza del movimento riferita al suono. Già nella seconda metà del Cinquecento Giovanni Battista Benedetti (1530-1590) aveva applicato nel Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber (1585) la concezione aristotelica del tempo come misura del movimento alle vibrazioni prodotte nell'aria dalla corda sonora; le proporzioni tra i tempi delle vibrazioni quantificavano le consonanze musicali, che erano spiegate fisicamente attraverso il movimento periodico dei suoni. L'attacco agli 'universali musicali' era poi continuato con Vincenzo Galilei. L'esperienza gli aveva mostrato la dipendenza del numero sonoro dalle condizioni materiali del 'corpo sonoro', tensione delle corde, sezione trasversale, massa del materiale, volume delle canne e così via. Il primato ontologico del movimento e della materia sul numero diventa la premessa della scienza musicale galileiana e moderna. Nei Discorsi Galileo rifonde la teoria fisica di Benedetti e le osservazioni sperimentali del padre in una teoria meccanicistica della consonanza, che nei decenni seguenti sarà il punto di partenza e il modello teorico dello studio della musica nel quadro della filosofia naturale meccanicistica.
di Scott L. Montgomery
Parlare d'illustrazioni 'scientifiche' in età rinascimentale significa porre immediatamente un problema di definizione. A quali generi di diagrammi, disegni o pitture si può applicare questa espressione? O, più esattamente, in che senso intendere il termine 'scientifico' - in quello che corrisponde alla visione dei problemi tecnici propria dei pensatori rinascimentali oppure in un senso più lato in cui includere anche l'accezione odierna del termine?
Un'indagine che si limitasse unicamente alle opere di astronomia, botanica, mineralogia, medicina, ingegneria meccanica, e così via, sarebbe troppo restrittiva. Come hanno sottolineato alcune ricerche recenti, molto spesso gli stessi artisti, nel loro lavoro, si ponevano coscientemente anche obiettivi che oggi saremmo tentati di definire scientifici, in senso lato, o tecnici, in senso più ristretto, ma comunque connessi in qualche modo all'emergere della nuova scienza. Il più importante e influente di questi obiettivi era forse anche il più ovvio; una rappresentazione accurata dei fenomeni fisici e organici, ovvero delle osservazioni effettuate. Esperimenti 'visivi' di vario tipo furono eseguiti in gran numero in diverse discipline. La loro stessa esistenza impone quindi, se si sceglie di applicare il termine 'scientifico' e d'impegnarsi a ricostruire il passato, d'includere le opere d'arte in questa ricerca. Le illustrazioni scientifiche rinascimentali devono essere studiate all'interno del più vasto campo della storia dell'arte rinascimentale.
In effetti, sembra che l'illustrazione scientifica moderna debba tanto all'architettura e alla pittura quanto alla 'scienza' propriamente detta.
Questa tesi è stata recentemente sostenuta da alcuni autori, che hanno analizzato, con sorprendente precisione, l'immaginazione visiva di uomini quali Filippo Brunelleschi (1377-1446), Leonardo da Vinci (1452-1519) e Andrea Vesalio (1514-1564). Il testo che ha maggiormente ispirato questo tipo di analisi è un classico saggio del critico e storico dell'arte Erwin Panofsky, in cui si sostiene che "la nascita di quelle branche particolari della scienza naturale a carattere osservativo o descrittivo - la zoologia, la botanica, la paleontologia, gran parte della fisica e soprattutto l'anatomia - fu una diretta conseguenza della nascita delle tecniche di rappresentazione in età rinascimentale" (Panofsky 1963, p. 140).
A Brunelleschi in particolare si attribuisce il merito di aver perfezionato la "geometrizzazione dello spazio pittorico", attraverso l'uso sistematico della prospettiva lineare a scopi architettonici. Un risultato questo che era stato preparato dalla consapevolezza dello spazio propria di artisti come Giotto e che presumibilmente costituì a sua volta una premessa essenziale per lo sviluppo di quel genere di documentazione visiva fondamentale per la rivoluzione scientifica del XVII secolo.
C'è senza dubbio molto di vero in queste idee, ma anche il rischio di una semplificazione eccessiva. Cosa dire, per esempio, dei diagrammi tecnici che illustravano già le pagine dei manoscritti di geometria, ottica e astronomia tardo-medievali? E cosa degli animali e degli insetti, che saltano o si muovono lungo i margini delle bibbie e dei libri di preghiera fin dal XIII secolo? E delle piante magnificamente riprodotte? E infine, cosa dire dello stupefacente naturalismo delle opere d'arte prodotte nell'Europa settentrionale, in particolare in Olanda, all'inizio del XV sec., nelle quali i fenomeni botanici, geologici e meteorologici sono rappresentati con una precisione raramente, o forse mai raggiunta dai pittori italiani dei due secoli successivi? È certo, dunque, che la feconda interazione tra scienza e arte nel Rinascimento, così marcata nella sua apparente novità rispetto ai secoli precedenti, non costituì un'improvvisa rottura epistemica quanto piuttosto il momento culminante di tendenze iniziate molto tempo prima.
Inizi e contesto
Il massiccio aumento della quantità, della varietà e della qualità delle illustrazioni tecniche verificatosi tra il 1400 e il 1600, non scaturì improvvisamente dalle menti e dalle mani di pochi individui scelti, ma fu anche il risultato di alcuni fattori cruciali, che influirono profondamente sulla produzione delle opere d'arte e sull'evoluzione dell'immaginazione visiva. Tra questi il più importante fu forse la traduzione manoscritta di opere scientifiche del Tardo Medioevo.
Più fattori contribuirono alla nascita di questa tradizione, tra cui il più significativo fu quel grande fenomeno di traduzione - durato oltre un secolo (la cosiddetta 'rinascita del XII sec.') - del grande patrimonio scientifico arabo in latino.
Gli Arabi non si limitarono ad assorbire così com'era questo composito corpus di conoscenze, ma lo adattarono alla propria cultura attraverso una combinazione di processi di riscrittura, insegnamento, commento, correzione ed estensione dei testi originali. La trasmissione alla cultura europea del corpus di conoscenze elaborato dagli Arabi fu accompagnato a sua volta da un analogo sforzo di adattamento, che portò, tra l'altro, alla nascita delle università e a una notevole espansione del numero sia dei lettori sia degli autori. Dal faticoso lavoro d'interpretazione delle opere di Aristotele, Tolomeo, Euclide, Ibn al-Hayṯam, al-ḫwārazmī e altri, che occupò gli studiosi per alcuni secoli, alla nuova e crescente domanda di libri di testo, enciclopedie, libri d'ore (libri di preghiera personali), erbari e così via, l'aumento delle conoscenze produsse un corrispondente incremento del numero degli autori, dei lettori e, naturalmente, dei libri, compresi quelli illustrati.
La crescita dell'importanza e della diffusione delle illustrazioni scientifiche, particolarmente accentuata verso la fine del XIII sec., fu quindi direttamente collegata, in generale, all'aumento del numero e della varietà dei testi in circolazione. Nelle opere a carattere tecnico sono presenti diversi tipi d'illustrazioni; grafici geometrici nei testi di astronomia e ottica; piante e animali, ritratti con incipiente naturalismo nelle opere di botanica e di zoologia; figure teorico-simboliche in quelle di medicina; riproduzioni di macchine e di meccanismi, al tempo stesso fantasiose e realistiche; illustrazioni di tipo concettuale per rappresentare le diverse forme dell'ordine teologico-naturale dell'Universo. La tendenza dominante all'epoca è senza dubbio verso il naturalismo, con il suo sforzo programmatico di fornire una resa accurata dei fenomeni osservati. Possiamo ammirare i primi frutti di questa tendenza, fortemente ispirata e alimentata dai nuovi testi prodotti durante l'età delle traduzioni, negli ornamenti vegetali superbamente scolpiti sui capitelli e sulle colonne delle cattedrali di Reims e Naumburg o miniati nei margini dei manoscritti gotici.
Il nuovo naturalismo fu un fenomeno profondamente radicato e irreversibile, espressione, in un primo momento, di un atteggiamento autenticamente religioso, che sapeva cogliere la bellezza contenuta in ogni aspetto della Creazione divina, soprattutto nella natura organica, almeno in quest'epoca. Più tardi, con lo sviluppo delle città e degli scambi, a questo genere di ammirazione simbolica si unì, in modo instabile, una forma nuova di materialismo, incentrata sul valore della visione e sul 'giudizio dei sensi'; l'intero mondo degli oggetti di uso quotidiano - abiti, alimenti, edifici, gioielli e così via - fu così progressivamente incluso nei confini della rappresentazione artistica. Il prestigio degli artisti si accrebbe grazie alla loro capacità di rivelare il mondo sensibile nella sua immediatezza e di restituire all'esperienza umana una dignità e un valore autonomi. Se si considerano per esempio gli erbari (opere di consultazione sulle piante medicinali), si può notare una progressione dalle rappresentazioni fortemente stilizzate della flora anteriori al XIII sec. alla raffigurazione più realistica delle singole specie, con l'abbandono di ogni simbolismo teologico, che inizia ad affermarsi verso la fine del XIV secolo.
I maggiori progressi in questo senso non furono compiuti dagli autori e dagli illustratori delle opere scientifiche, ma dagli artisti stessi e, nella maggior parte dei casi, non dagli artisti italiani ma da quelli dell'Europa settentrionale. In questi paesi il principale committente delle opere d'arte non era più la Chiesa, come al tempo della costruzione delle grandi cattedrali gotiche e della decorazione dei loro altari, bensì i personaggi più facoltosi, i membri delle famiglie reali o aristocratiche, che commissionavano agli artisti preziosi libri d'ore, nei quali l'immancabile sentimento religioso si combinava con l'espressione di un lusso tipicamente mondano. Tra gli artisti più interessanti in questo campo ricordiamo i miniaturisti Jean Pucelle (attivo tra il 1320 e il 1370), un contemporaneo di Giotto, e i fratelli Limbourg (attivi tra la fine del XIV e l'inizio del XV sec.). Pucelle fu senza dubbio una figura di spicco in quest'ambito, che raggiunse, nella resa naturalistica dei soggetti, risultati di gran lunga superiori a quelli della maggior parte dei miniaturisti gotici. È sufficiente un rapido sguardo al suo Saul e David, contenuto nel Breviario di Belleville (1323-1326), per scoprire una stupefacente varietà di splendide miniature di uccelli, libellule, scimmie e farfalle, oltre a diverse specie di piante, fiori e rampicanti. Quest'attenzione verso i dettagli, ripresa da molti imitatori, fu portata a nuovi vertici dai fratelli Limbourg, che inaugurarono uno stile naturalistico che includeva una vasta gamma di soggetti quali paesaggi, lavori stagionali, feste, scene di vita dei signori e dei loro servi, e molti altri ancora. Tuttavia, per trovare un livello di realismo paragonabile a quello di Pucelle in un erbario illustrato si dovrà attendere il 1400, quando a Padova fu realizzato da Jacopo Filippo il cosiddetto Herbolario volgare, una traduzione di un'opera araba scritta intorno all'Ottocento da un certo Serapione il Giovane.
Ma l'apice di questa tendenza al realismo nella raffigurazione di soggetti naturali fu raggiunto nelle opere del pittore olandese Jan van Eyck (1390-1441). Il naturalismo di van Eyck segna l'affermazione dell'elemento puramente visivo e materiale nel campo estetico, ampliando ulteriormente gli orizzonti dell'Universo rappresentato fino a includervi i fenomeni geologici, meteorologici e astronomici, oltre alla materia organica. Come si può notare nella fig. 18, la raffigurazione degli strati rocciosi è così precisa, e fa seguito a un'osservazione della realtà così accurata, da permettere di effettuare una dettagliata analisi geologica. Van Eyck, che impersonò in modo esasperato le tendenze della sua epoca più che guidarle, è un esempio paradigmatico di come il bisogno di registrare e raffigurare la realtà fisica si fosse trasformato in una vera e propria attività di sperimentazione della capacità osservativa dell'artista. Nelle sue opere si possono cogliere pienamente dispiegati, con un anticipo di dieci anni su Brunelleschi e di ottanta su Leonardo, il potere dell'occhio umano di avventurarsi nel mondo degli oggetti quotidiani e la capacità di archiviare in modo selettivo e con esattezza quasi fotografica le esperienze così raccolte. Ulteriori progressi in questa direzione saranno possibili soltanto nel XVII sec., quando l'invenzione del telescopio e del microscopio amplificherà le capacità visive dell'uomo, consentendogli l'accesso tanto al mondo lunare quanto all'Universo microscopico.
Quest'ultima fase, emblematicamente rappresentata dalle prime osservazioni della superficie lunare effettuate da Galileo Galilei con il cannocchiale (Sidereus nuncius, 1610), può essere assunta come punto di arrivo di un'indagine che deve invece partire dall'opera di Jan van Eyck e di Filippo Brunelleschi. Se van Eyck contribuì all'affermazione di una rappresentazione fortemente naturalistica, e Brunelleschi fornì il modo di strutturare in termini teorici e matematici l'umana visione della realtà, Galileo riuscì a sua volta a contemperare in modo perfetto queste due componenti dell'esperienza visiva, ponendo con successo le tecniche dell'arte a servizio della scienza. I duecento anni che precedettero questa impresa di portata epocale non trascorsero invano; in particolare, i lavori di autori del XVI sec., come Georg Bauer Agricola (1494-1555), Konrad von Gesner (1516-1565), Andrea Vesalio e Johannes Kepler, sono corredati da disegni, xilografie, incisioni e altre illustrazioni che uniscono un'impressionante varietà di contenuti a una profonda competenza estetica. Ma prima di procedere oltre, è necessario soffermarsi brevemente sul ruolo svolto dal libro nella società rinascimentale.
Il ruolo dell'illustrazione rinascimentale e l'origine del libro
L'invenzione della stampa rese possibile la nascita del libro moderno e questo, a sua volta, divenne il terreno su cui si realizzarono i maggiori progressi nella tecnica dell'illustrazione. La transizione non fu immediata; in pieno XVI sec., la tradizione del manoscritto miniato - un oggetto unico, costoso e difficile da realizzare, destinato a pochi estimatori - continuava a sussistere accanto alla produzione dei nuovi libri a stampa illustrati, nient'affatto unici e con il loro "apparato illustrativo riproducibile in modo esatto" (Ivins 1953). Grazie al libro, il numero dei lettori e degli autori salì notevolmente.
Si realizzò così una vera rivoluzione nella 'comunicazione pubblica', uno dei più profondi mutamenti sociali nella storia dell'umanità, che segnò il declino e poi la scomparsa di tutto un sistema di lavoro basato sulla stesura dei manoscritti e la sua sostituzione con una cultura incentrata sulla produzione dei libri. In breve tempo, scrivani e scriptoria lasciarono il posto a editori e negozi di libri stampati; le cartiere e i venditori al minuto furono sostituiti rispettivamente da una vera e propria industria libraria e da un complesso sistema di mercato; gli autori si limitarono alla realizzazione di schizzi, mentre gli illustratori (o miniaturisti) non si divisero più tra grandi artisti e semplici disegnatori, ma si trasformarono in un gruppo di artigiani che fungevano da intermediari tra l'abbozzo iniziale dell'autore e il lavoro finito, fosse esso xilografia, incisione o acquaforte. L'artista non scomparve dal mondo dell'illustrazione scientifica, divenendo anzi, grazie alle sue conoscenze tecniche, ancora più prezioso di un tempo. Ciò anche per fattori concomitanti. Nel corso dei secc. XV e XVI, soprattutto in Italia, furono costruite innumerevoli chiese, battisteri, cappelle private, edifici pubblici e palazzi aristocratici, con un conseguente aumento del numero degli artisti, delle scuole d'arte e della quantità di studenti e di professionisti in cerca di lavoro. Vi era, inoltre, una diffusa consapevolezza del potere dell'arte di commuovere, informare, educare. Essa era considerata, durante il primo Rinascimento, uno strumento indispensabile per ispirare o promuovere l'amore per la verità. Nel XVI sec., in particolare, gli autori di opere a carattere tecnico utilizzarono le illustrazioni per rendere i loro prodotti più accessibili, interessanti e quindi piacevoli. Quanto al ruolo effettivamente svolto nella scienza, l'artista si avviava a divenire qualcosa di simile a un designer; il suo compito non si limitava più alla decorazione o alla visualizzazione del testo, ma si estendeva alla produzione di un universo separato di contenuti.
Insieme all'invenzione della stampa, alla creazione di nuove università e alla crescita impetuosa dell'alfabetizzazione, si verificò anche un aumento dei modi di utilizzazione dei libri di argomento tecnico-scientifico. In effetti, uno degli aspetti più affascinanti della cultura rinascimentale, non ultimo di quella scientifica, è l'eterogeneità che si manifesta "nelle incomparabili e apparentemente inesauribili battaglie concettuali" (Porter 1991, p. 7). In questo contesto i libri, coadiuvati dalle immagini, erano gli strumenti principali e la loro rapida proliferazione causò e impersonò allo stesso tempo il moltiplicarsi dei dibattiti sul mondo naturale. Questa eterogeneità si riflette anche nella gamma delle opere tecniche, che includevano non soltanto libri di testo ed enciclopedie, ma anche manuali adibiti a uso professionale (per es., di medicina o di alchimia), discussioni e trattati specialistici (come nel caso di Copernico), taccuini di appunti (Leonardo da Vinci), cataloghi di invenzioni, mappe (Abramo Ortelio), esposizioni tecniche (Brunelleschi), resoconti di viaggio (John White), per citarne soltanto alcune.
Libri di testo, epitomi e trattati specialistici erano già in uso da tempo, in particolare nell'educazione privata e universitaria. Durante i secc. XIII e XIV era prevalsa la tendenza a utilizzare un unico testo (come la celebre introduzione di Giovanni di Sacrobosco all'astronomia,Tractatus de sphaera) nei corsi universitari e nell'insegnamento privato di tutta Europa. Ma con lo sviluppo di scuole di grammatica, collegi, accademie private, associazioni culturali locali e scuole gestite da diversi ordini religiosi, questo internazionalismo culturale, che mantenne intatto il proprio prestigio nelle università, cominciò a essere sfidato da autori locali, soprattutto professori e insegnanti interessati ad acquisire fama e commissioni presso la nobiltà del luogo. Da questa tendenza al localismo nacque una miscela d'immagini completamente nuova, che riprendeva in parte lavori già esistenti e che, secondo la tradizione della cultura del manoscritto medievale, plagiava intenzionalmente le migliori immagini disponibili. Infatti, per acquisire una fama duratura in un'epoca dominata dai valori estetici, le opere di carattere tecnico dovevano dotarsi delle migliori illustrazioni in circolazione o fornire esse stesse modelli esemplari in questo campo. Questa fu esattamente la direzione verso cui si orientarono le grandi opere scientifiche del XVI sec., nelle quali l'illustrazione fu innalzata, una volta per tutte, al centro del sapere scientifico e le fu consentito di parlare linguaggi diversi, paralleli e, a volte, perfino in conflitto con quelli del testo scritto. Allora, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, il testo privo d'illustrazioni fu giudicato intrinsecamente insufficiente; nell'ottica di von Gesner o di Vesalio, la parola scritta non era più in grado di veicolare da sola il pensiero tecnico.
I tipi d'illustrazione: la gamma dei linguaggi visivi
Le grandi opere illustrate della scienza rinascimentale furono realizzate tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo.
Tra il 1450 e il 1520 circa, si assiste a uno spettacolare incremento del numero d'illustrazioni nei libri di botanica, astronomia e meccanica, soprattutto nel caso di opere divulgative. Può essere utile distinguere a questo proposito due tipi di opere: (a) i libri illustrati veri e propri, e in particolare quelli appartenenti a specifici campi scientifici; (b) i manuali e i libri di testo sulla tecnica del disegno (illustrativo), in particolare quelli riguardanti la prospettiva.
All'interno di quest'ultima categoria, possiamo distinguere alcune opere che esercitarono una particolare influenza, come il De pictura (1435) di Leon Battista Alberti, il De prospectiva pingendi (1474) di Piero della Francesca e la Die Unterweisung der Messung (1525) di Albrecht Dürer. Il testo di Alberti è una sofisticata combinazione di principî ottici, tratti per lo più da fonti arabe come Ibn al-Hayṯam, di geometria teorica derivata da Euclide e di una metodologia generale per la costruzione di piramidi visive. È evidente che l'autore era interessato a diffondere le sue idee a un pubblico ben differenziato, perché scrisse sia una versione latina sia una italiana del testo, la prima con un taglio più tecnico e una terminologia più specialistica, la seconda in uno stile più divulgativo.
L'opera di Piero della Francesca, invece, scritta in latino e diretta a un pubblico specialistico (artisti), prende in prestito molte idee dell'Alberti, di cui approfondisce alcuni aspetti (per es., la tecnica dello scorcio), e ne ricava una procedura a volte laboriosa, ma efficace, che insegna passo dopo passo, perfino punto dopo punto, a rispettare nel disegno le proporzioni necessarie a ottenere l'illusione di uno spazio tridimensionale. L'Unterweisung di Dürer, infine, ha l'aspetto di un trattato matematico, cui segue nella parte conclusiva un metodo per eseguire rappresentazioni prospettiche, ma è in realtà una lunga perorazione, sostenuta da molti schemi, della necessità di conferire alla pittura e al disegno nord-europei una maggiore geometricità. Come nota Kemp (1990), con quest'opera Dürer mirava a fornire "una suprema dimostrazione dell'ars dell'incisore congiunta alla scientia del prospettivista". Alla luce degli sviluppi storici successivi, è estremamente significativo che questo grande artista abbia scelto gli strumenti della xilografia e dell'incisione - mezzi espressivi già adottati dagli illustratori - per produrre la parte più consistente della sua opera.
Le opere di Alberti, Piero della Francesca e Dürer ebbero molti imitatori e contribuirono all'affermazione del primato del disegno prospettico nell'arte e in quella del disegno in particolare. Queste opere, giova ricordarlo, furono la codificazione, o l'apologia, di progressi già avvenuti nell'ars della rappresentazione e se ne facilitarono il successo non furono, tuttavia, esse a determinare il sorgere del nuovo realismo.
Leonardo e Vesalio: espressioni pubbliche e private
Anche nel campo dell'illustrazione scientifica, Leonardo fu un geniale precursore di quanto fu realizzato soltanto nei secoli successivi, ma, dato il carattere sostanzialmente privato delle sue ricerche, il suo influsso rimase piuttosto limitato. I suoi taccuini e i suoi schizzi, soprattutto quelli degli anni 1482-1490 e 1503-1514, mostrano una completa fusione tra i livelli qualitativi più alti dell'osservazione dei fenomeni fisici e di quelli organici, quest'ultima spesso sostenuta dalla pratica della dissezione, e le più raffinate tecniche artistiche disponibili in quell'epoca. La funzione di queste immagini, tuttavia, ne rivela anche i limiti. Esse non erano raccolte dal loro autore secondo un criterio preciso, per illustrare testi dedicati ad argomenti specifici (per es., l'anatomia umana, la formazione delle rocce, ecc.). Leonardo non si preoccupò mai di pubblicarle o di diffonderle in qualche modo. Queste immagini devono essere piuttosto considerate come studi individuali, esperimenti visivi fini a sé stessi, il cui scopo era a volte quello di perfezionare la tecnica del loro autore, ma più spesso quello di esplorare e registrare i risultati della sua sconfinata curiosità. I disegni anatomici di Leonardo mescolano immagini di caratteristiche umane e animali, in un modo che può risultare fuorviante. Leonardo realizzò anche disegni schematici, per esempio disegni geometrici di fenomeni astronomici, schizzi di fiumi, montagne, macchine e altri soggetti. Questo tipo d'immagini è più in linea con il concetto odierno d'illustrazione, ove essa in genere è accompagnata da un testo e intende visualizzare gli aspetti descrittivi delle parole, benché anche in questo caso alcune immagini possano comparire da sole, al di fuori di qualsiasi contesto narrativo.
Prima della diffusione della stampa, questa tendenza a conservare i risultati di esperimenti visivi e concettuali in taccuini, diari e altre carte personali non pubblicate, fu condivisa da molti altri pensatori e artisti del Rinascimento. Questo fu il caso di Filippo Brunelleschi, che sistematizzò la prospettiva lineare, e soprattutto di Francesco di Giorgio Martini (attivo tra il 1460 e il 1480), un artista-ingegnere i cui disegni di fortificazioni, armi e macchine erano di un livello qualitativo così alto da essere plagiati da molti suoi contemporanei, compreso Leonardo, contribuendo a fare del loro autore il più celebre ingegnere europeo fino al XVII secolo. Dopo il 1520, tuttavia, la tendenza di dare alle stampe i propri lavori diviene molto più frequente, e quasi la regola. Era, infatti, molto più facile trovare un editore e la pubblicazione di libri aveva acquistato un peso notevole ai fini della carriera.
Questo fu certamente il caso di Andrea Vesalio, la cui opera maggiore, il De humani corporis fabrica (1543) stabilì i parametri fondamentali di una corretta illustrazione anatomica, rimasti in vigore fino al XX secolo. La parola chiave è, in questo caso, fabrica. L'obiettivo di Vesalio era, infatti, illustrare non soltanto la struttura fisica del corpo, ma anche i suoi processi vitali, le sue modalità di funzionamento. Seguendo una convenzione inaugurata da Jacopo Berengario da Carpi (Commentaria ... super anatomia Mundini, 1521) e da altri, Vesalio fa assumere ai suoi soggetti le pose dei nudi e delle figure della pittura rinascimentale, collocandoli al centro di un'azione o in uno stato di riposo, circondandoli talora di un'aura di nobile sofferenza e immergendoli in uno scenario bucolico completo di rovine romane, dirupi e città sullo sfondo. L'uso di quasi tutte le principali convenzioni artistiche nelle illustrazioni scientifiche implicava che fosse necessario porre lo spettatore di fronte al 'paesaggio' visivo umano nella sua integrità, a ogni livello significativo (pelle, ossa, muscoli, spirito). Vesalio basava le proprie ricerche sulla pratica scrupolosa della dissezione (di cui riferisce nei dettagli tecniche e risultati). La sua è la scienza di un creatore d'immagini, impegnato a documentare in modo rigoroso i risultati delle proprie esperienze. In molte delle sue figure, invece d'identificare le singole parti anatomiche con il loro nome, Vesalio le etichetta per mezzo di piccole lettere maiuscole, un espediente che esalta la percezione dei dettagli obbligando l'osservatore ad avvicinare l'occhio alla pagina. Oggi queste immagini possono apparire un po' ridondanti, caratterizzate da artifici retorici le cui priorità estetiche rischiano di distrarre dal contenuto tecnico. Ma, come è stato osservato da molti studiosi, ciò è perfettamente normale per un trattato anatomico di quell'epoca. Tale estetismo è piuttosto una dimostrazione di serietà, e corrisponde all'immagine della medicina come disciplina umanistica e scientifica al tempo stesso, ereditata dal passato classico, perfezionata attraverso l'osservazione, ma ancora pienamente sensibile e consapevole dei legami esistenti tra corpus e spiritus.
Gesner e Agricola: l'occhio come strumento dimostrativo
Se Leonardo da Vinci scopre l'illustrazione come esperimento, e Andrea Vesalio come strumento didattico avente valore documentario, Georg Bauer Agricola, medico e geologo tedesco, e il suo compatriota dalla cultura enciclopedica, Konrad von Gesner, furono autori di opere rivelatesi fondamentali, nelle quali le immagini esibiscono tutto il loro potere dimostrativo.
Il libro più celebre di Agricola, il De re metallica (1556), è un'opera di ampio respiro che copre tutti gli aspetti principali della scienza e dell'ingegneria mineraria, comprese l'estrazione e la raffinazione dei metalli e la costruzione e il funzionamento delle miniere. Il De re metallica è arricchito da oltre duecento xilografie, la cui produzione richiese un tempo così lungo che la pubblicazione dell'opera fu ritardata fin oltre la morte dell'autore.
Agricola, tuttavia, non nutriva dubbi sulla loro utilità: "riguardo alle vene minerarie, agli strumenti, ai recipienti, ai canali artificiali, alle macchine e alle fornaci, non li ho solo descritti, ma ho anche commissionato a degli illustratori di delinearne le forme, temendo che la semplice descrizione a parole potesse essere fraintesa dai miei contemporanei o creare dei problemi ai posteri" (De re metallica, p. 14). Questo autore, dunque, esprime apertamente l'assunto critico che sta alla base dell'illustrazione rinascimentale, ossia le parole da sole non sono sufficienti, né per il presente né per il futuro.
Come Vesalio e gli anatomisti, Agricola colloca molte delle sue immagini all'interno di paesaggi naturali. Non si tratta più, tuttavia, della dolce campagna dell'Italia centrale, cosparsa di rovine, ma del rude e montuoso territorio della Germania meridionale, dominato dai castelli, e più precisamente dei Monti Hartz, all'epoca un importante centro minerario. Inoltre, in questo caso il paesaggio non svolge il ruolo di semplice scenario in quanto nella fig. 22 si possono notare i ceppi degli alberi utilizzati per la costruzione della miniera e la vena mineraria che attraversa in diagonale l'intera scena. Il realismo dell'immagine è tale che è possibile rendersi conto della difficoltà di distinguere una vena mineraria autentica da un semplice filone della parete rocciosa, un compito questo che richiede una notevole capacità di osservazione. Si tratta senza dubbio di una grande innovazione poiché presentare semplicemente al lettore i disegni delle vene rocciose, come si era fatto fino ad allora, era molto meno efficace che raffigurarle come esse appaiono realmente nell'ambiente naturale, in tutta la sua notevole complessità. Un'immagine di questo tipo non si limita a insegnare, ma dimostra la necessità stessa d'imparare.
La maggior parte delle xilografie contenute nel De re metallica sono illustrazioni molto complesse che permettono diversi livelli di lettura, riguardanti specifici giacimenti e l'attrezzatura collegata all'attività estrattiva. Tra le tecniche utilizzate dagli illustratori dell'opera maggiore di Agricola, già sviluppate in precedenza soprattutto in Italia da autori come Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), figurano lo spaccato, il disegno della struttura interna e la rappresentazione in vista esplosa, in cui un utensile è mostrato nelle sue modalità di funzionamento per poi essere smontato in tutti i suoi componenti, ciascuno dei quali è etichettato e disposto in modo da permettere d'immaginarne un assemblaggio graduale e completo. In alcuni casi, forse per fornire un ulteriore indizio grafico, è aggiunta la figura di un minatore, rappresentato nell'atto di montare il macchinario. Le immagini del De re metallica appaiono di conseguenza piene di vita e di movimento, ove ciò non deriva da un tentativo di registrare fedelmente i fatti, quanto dalla volontà di mostrare nei dettagli ogni procedimento descritto nel testo, che si tratti della scoperta di una vena mineraria o del drenaggio dell'acqua attraverso canali artificiali.
Con von Gesner questa tendenza alla esemplificazione visiva è approfondita ed estesa al regno organico e a quello minerale, includendo talvolta perfino risvolti ipotetici nella rappresentazione dell'oggetto. Von Gesner, un autentico gigante intellettuale della sua epoca, scrisse più di settantadue opere, con cui fornì un contributo fondamentale non soltanto alla zoologia, alla botanica e alla geologia, ma anche agli studi classici e alla linguistica comparativa. Fermamente convinto, con Agricola, del valore e dell'importanza di registrare le osservazioni, ne fece la base delle sue ricerche sul mondo naturale, ricerche culminate nel più noto De natura omni rerum fossilium (1565) e nell'opera postuma in cinque volumi Historia animalium (1551-1587). Nella prefazione alla sua opera sui minerali, von Gesner afferma che il suo intento è stimolare altri a proseguire le ricerche in questo campo e a studiare questi fenomeni per sé stessi, registrando ciascuno le proprie osservazioni; egli conclude confessando di provare un sentimento di piacere nel contemplare le forme e i modelli "in cui la Natura creatrice ha espresso sé stessa, come in un quadro, quasi fosse dotata del pennello di un pittore" (Adams 1938). Von Gesner completa così il quadro dei contributi degli artisti alla scienza rinascimentale, inaugurato da Giorgio Agricola.
La Natura, vista al tempo stesso come un grande libro aperto e un'ampia tela, può essere adeguatamente compresa soltanto da coloro che ne sanno percepire le forme e rappresentarle in parole e immagini. In breve, il mondo naturale è il libro illustrato di Dio e una scintilla di luce divina può dunque essere rinvenuta in tutte le sue manifestazioni naturali, per quanto finite e caduche.
Von Gesner afferma che le sue illustrazioni ritraggono scene di vita, come si può notare in diversi casi. I suoi soggetti, a differenza di quelli di Vesalio, sono ritratti in pose e atteggiamenti che non rispondono soltanto a criteri formali o funzionali, ma esprimono anche una sorta di 'essenza' visiva. Si esamini, per esempio, l'immagine dell'istrice nella fig. 23, ritratto come una specie di rovo vivente, con gli aculei aggressivamente eretti, le mascelle spalancate e i denti scoperti, che lascia intravedere, malgrado tutto, la natura timida e lenta di questo animale nascosta dietro l'aspetto apparentemente aggressivo. L'uso delle immagini come strumenti di propaganda culturale, strettamente intrecciate con la 'teoria' - si sarebbe tentati quasi di dire, riprendendo una celebre espressione, 'cariche di teoria' - può essere considerato un'inevitabile caratteristica di tutte le illustrazioni e i disegni schematici, anche se in misura diversa. La mente che guida prima l'occhio e poi la mano che disegna non potrà mai soddisfare l'ideale di Leonardo che la vorrebbe 'specchio della natura'. Detto questo, la 'teoria', quando è posta intenzionalmente in primo piano, può condurre a un punto in cui la Natura non è più semplicemente adattata o idealizzata, ma corretta. Nel De natura omni rerum fossilium, per esempio, si trova un'illustrazione delle colonne di basalto, basata su un disegno fornito a von Gesner da un suo amico, il noto collezionista di minerali Johann Kentmann. Costui, come molti dei primi studiosi di geologia del Rinascimento, credeva fermamente nella teoria classica che attribuiva un'origine acquatica a tutte le rocce, sia per sedimentazione sia per cristallizzazione.
L'analoga struttura geometrica riscontrata nella forma esagonale di tutte le colonne di basalto (risultato del raffreddamento simmetrico della lava) e la struttura cristallina del quarzo lo avevano profondamente impressionato, tanto da spingerlo a realizzare un'immagine che potesse superare alcuni eventuali 'difetti' presenti nella realtà naturale aggiungendo a ogni colonna una cuspide piramidale (che ne implicava la relativa fragilità), e separandola dalle altre.
Le immagini di von Gesner ci rivelano così fino a che punto le illustrazioni scientifiche fossero coinvolte nel dibattito intellettuale della loro epoca, o meglio, quale raffinato strumento di persuasione fossero una volta congiunte, anche se soltanto a livello retorico, con i principî della fedeltà della riproduzione e del naturalismo. Al di là del suo valore estetico, il naturalismo rinascimentale rispondeva anche a esigenze ideologiche.
John White e il nuovo mondo
Questo carattere 'propagandistico' emerge anche dalle immagini riportate in Europa dagli esploratori del nuovo mondo, con il loro intento programmatico di raffigurarne tutti gli aspetti esotici. John White, uno dei pochi artisti inglesi versati nelle tecniche pittoriche rinascimentali, fu assunto nel 1585 da sir Walter Raleigh per accompagnare l'astronomo e matematico Thomas Harriot nella colonia della Virginia, recentemente fondata, e per documentare tutto ciò che la situazione gli avrebbe permesso di vedere. Raleigh era interessato a tutte le forme di vita indigena, animale, vegetale e umana, e a quanto sembra la missione aveva lo scopo di permettere la realizzazione di un corposo volume, in grado di catalogare, in modo dettagliato, tutte le esperienze e tutti i fenomeni osservabili nel nuovo mondo; un volume che, superando di gran lunga i resoconti degli esploratori spagnoli e francesi, si ponesse come fonte universale delle conoscenze sulla materia in questione. La missione fu interrotta da un terribile uragano, a cui però scamparono, fortunatamente, numerosi disegni di White (oltre a un breve rapporto di Harriot).
Queste immagini costituiscono un documento storico di incomparabile valore, in cui il naturalismo del primo Rinascimento si tinge di classicismo. Nel caso di animali e piante, White si limita apparentemente a disegnare più o meno ciò che vede, in linea con la tradizione di van Eyck, Leonardo e von Gesner. Ma nei ritratti degli indigeni, White non esita a trasformare i propri soggetti e, pur rendendo in ogni dettaglio l'abbigliamento e l'espressione dei volti, fa assumere ai suoi modelli quelle pose un po' decadenti, di stampo ellenistico, che erano il marchio della raffinatezza pittorica nell'Europa del Cinquecento. Come hanno notato diversi studiosi, non si potevano biasimare coloro che, posti di fronte a queste immagini, ne avessero tratto la conclusione che le foreste americane fossero popolate da eroi nudi, parenti stretti degli antichi Greci e Romani. White rivela in modo esemplare, in queste poche immagini, l'atteggiamento tipico degli uomini del Rinascimento nei confronti della favoleggiata età delle esplorazioni. Dagli artisti inviati a esplorare le foreste e le distese della Terra ci si aspettava soprattutto la capacità di riportare in Europa quella realtà più vasta ritratta secondo forme familiari, e di produrre l'immagine di un esotismo rivisitato in chiave occidentale.
Copernico e Kepler: l'illustrazione come teoria
Se a volte le illustrazioni potevano essere contrassegnate da un intento ideologico, in altri casi erano intese come una pura incarnazione della teoria. Ciò è vero soprattutto per quelle immagini che rappresentano costruzioni mentali o fenomeni che non potevano essere direttamente osservati, come nel caso dell'astronomia, a cui apparteneva la venerabile tradizione delle rappresentazioni matematiche o simboliche. Copernico, per esempio, si servì di un genere tradizionale d'illustrazione per visualizzare l'idea più innovativa contenuta nel suo De revolutionibus orbium coelestium (1543), ossia semplici cerchi concentrici, che rappresentano le orbite dei pianeti, contrassegnati ciascuno da un numero e da un nome, uno schema geometrico questo 'pervaso' dal testo, posto com'è nel bel mezzo di una pagina scritta.
Schemi del genere esistevano almeno da ottocento anni, fin dall'epoca carolingia durante la quale furono realizzate, per la prima volta, diverse versioni della Naturalis historia di Plinio (II sec. d.C.) riccamente illustrate. Copernico adottò questo modello senza apportarvi cambiamenti significativi - a parte, ovviamente, risistemare le posizioni dei pianeti e ridefinirne il moto - proseguendo così un'importante tradizione dell'astronomia medievale. La principale differenza tra il suo modello e quelli precedenti è forse la sua dichiarata aspirazione alla veridicità. Gli astronomi medievali si erano sempre preoccupati di seguire la tradizione classica e di 'salvare i fenomeni', producendo modelli apparentemente in grado di spiegare i moti planetari osservati e, auspicabilmente, di prevederli, senza tuttavia pretendere di rappresentare il perfetto ordine divino dell'Universo. Con Copernico le cose cambiano, anche se non nel campo delle illustrazioni, in cui sopravvive ancora la tradizione degli schemi medievali. Ma i suoi successori si adeguarono rapidamente alle nuove esigenze, modificando di conseguenza le proprie rappresentazioni.
Tra costoro il più importante fu Kepler, che in una delle sue prime opere, il Mysterium cosmographicum (1596), si servì di un modello visivo di un genere completamente diverso ma non meno ricco di contenuti teorici. In esso Kepler tentò di fondere la disposizione copernicana degli orbi planetari con la complessa geometria cosmica platonica, basata sui cinque poliedri regolari (v. cap. XI). Kepler afferma nel titolo della sua illustrazione di essersi servito "di una serie di corpi geometrici regolari per evidenziare le distanze relative e le dimensioni degli orbi planetari". Ma in realtà si tratta di un'operazione più complessa. L'idea di Kepler era di visualizzare lo spazio che separava gli orbi planetari tra loro, mediante i cinque poliedri regolari (un cubo tra Saturno e Giove, un tetraedro tra Giove e Marte, ecc.), le cui dimensioni gli permettevano di stabilire una serie di rapporti che avrebbero dovuto costituire l'ordine matematico segreto e quasi mistico celato dietro il mondo delle apparenze. Kepler definì questo modello come un tentativo di svelare il funzionamento della 'macchina celeste' di Dio, di cui l'umanità era alla ricerca. Quest'immagine suggeriva dunque un ordine armonico dell'Universo ed esaltava al contempo il potere dell'intelletto umano.
L'illustrazione dà forma alla visione suprema di Kepler, secondo la quale Dio sarebbe il garante del progresso intellettuale dell'umanità in campo scientifico.
Mappe: i grandi documenti dell'epoca
Le più ricche illustrazioni tecniche del Rinascimento costituiscono allo stesso tempo alcuni dei più importanti documenti prodotti in quell'epoca. Le mappe rinascimentali sono molto più di semplici rappresentazioni grafiche di un territorio e dei suoi confini. In realtà esse combinano elementi appartenenti a tutti i principali campi del sapere quali l'arte, nella ricchezza delle decorazioni; l'architettura, negli elaborati cartigli; la letteratura e la filosofia, nelle citazioni tratte dagli autori più importanti; la matematica, nelle proiezioni geometriche e nel grado sempre maggiore di precisione; la botanica, la zoologia e l'antropologia, nei numerosi disegni di piante, animali e indigeni; l'astronomia, nella rappresentazione occasionale della Luna e delle stelle e, naturalmente, d'intere costellazioni nel caso di mappe celesti. I progressi realizzati nella produzione di mappe furono altrettanto rapidi di quelli verificatisi negli altri campi dell'illustrazione tecnica. Tra le xilografie non elaborate di Sebastian Münster che accompagnavano l'edizione del 1541 della Cosmographia universa di Tolomeo e le incisioni finemente dettagliate, magnificamente decorate e dipinte del Theatrum orbis terrarum (1570) di Abramo Ortelio, si assiste, nel corso di un'unica generazione, a un vero e proprio salto in avanti della qualità e della raffinatezza delle immagini.
I geografi dei Paesi Bassi, patria di Ortelio, furono in effetti gli artefici delle migliori mappe del XVI sec. dal punto di vista scientifico. Come è stato già notato, i più illustri tra questi geografi come Gerardo Mercatore, Jodocus Hondt e lo stesso Ortelio erano insoddisfatti delle inesattezze contenute nelle mappe prodotte in altri paesi e, in particolare, in quelle italiane, che avevano dominato la prima metà del secolo.
I geografi italiani, secondo Mercatore, si sottraevano troppo spesso e con troppa facilità 'al criterio della verità'. Il Theatrum orbis terrarum di Ortelio fu il primo dei grandi atlanti del tardo Cinquecento e rimase a lungo il più popolare; ogni principe, ogni biblioteca universitaria, ogni geografo in Europa ne possedeva almeno una copia. Anche in questo caso, il titolo è significativo in quanto per Ortelio, come per la maggior parte degli esploratori rinascimentali, la Terra era divenuta un vasto palcoscenico, dove si rappresentavano drammi e spettacoli per soddisfare la curiosità del pubblico colto. Le carte geografiche erano la tela su cui era rappresentato questo nuovo 'cosmopolitismo', un luogo singolare in cui l'arte, il testo e i numeri s'intrecciavano tra loro al punto che diveniva difficile distinguere dove finisse l'uno e iniziasse l'altro, mostrando forse più di ogni altro tipo d'illustrazione come i confini tra i diversi campi della conoscenza non fossero ancora definitivamente tracciati.
Problemi e idee
Nel Rinascimento, il valore delle immagini varia da persona a persona e, di conseguenza, anche la loro funzione. La loro pretesa veridicità poteva basarsi su una prova matematica, una testimonianza diretta, sul loro valore dimostrativo, simbolico o sperimentale, oppure provenire dall'imitazione di autorevoli modelli del passato. I maggiori progressi in questo campo si verificarono tra il 1400 e il 1600, cioè nei due secoli in cui la capacità degli Europei di rappresentare visivamente la realtà fece uno straordinario salto in avanti in termini di potenza espressiva e di realismo. Il fatto che tali capacità espressive esistessero già, in forma più o meno embrionale, non basterebbe di per sé a spiegare i risultati raggiunti da figure come van Eyck, Leonardo, Vesalio, von Gesner e molti altri. Con l'avvento del XVII sec., si costituì un nuovo universo di tecniche di visualizzazione, accessibili in gran parte agli studenti universitari, attraverso le classi di disegno, le botteghe degli artisti, e così via. Fu proprio questa accessibilità che permise a Galileo di tracciare nel 1610 un ritratto realistico della superficie lunare, così come gli era apparsa attraverso il cannocchiale, ponendo fine in tal modo alle dispute secolari riguardo la sua natura.
Dobbiamo dunque considerare la capacità di rappresentazione una premessa indispensabile della rivoluzione scientifica, almeno in quei campi basati maggiormente sull'osservazione e la descrizione della realtà, come ha proposto Erwin Panofsky? Non si può negare l'importanza di questa domanda, ancora attuale, a cui non sarebbe possibile rispondere semplicemente con un sì o con un no. La storia dell'arte e del disegno, come mostra l'esempio di van Eyck, indica chiaramente come l'illustrazione naturalistica non dovette attendere la scoperta della prospettiva lineare per raggiungere i suoi massimi livelli. L'applicazione della prospettiva al disegno scientifico, tuttavia, ebbe effetti profondi, tra cui l'universalizzazione delle tecniche di rappresentazione grafica usate tanto nelle discipline 'descrittive' quanto in quelle 'teoriche'. È stato osservato che nei campi orientati più decisamente in senso matematico, questo tipo d'illustrazione ha giocato un ruolo relativamente minore. E in effetti in queste discipline si realizzò la tendenza a utilizzare schemi di tipo euclideo (bidimensionali), che erano ampiamente diffusi già nelle opere che vennero alla luce in quella grande stagione di traduzione dei testi antichi verificatasi nel XII secolo. Tutta la questione merita ulteriori approfondimenti da parte degli studiosi. Ma è importante notare che il nesso tra i progressi nella capacità di rappresentazione e la rivoluzione scientifica, nei termini in cui è stato qui esposto, rimane problematico, basandosi sull'assunto - per diverse ragioni lungi dall'essere dimostrato vero - che l'osservazione e la rappresentazione grafica siano due facce della stessa medaglia. Infatti, l'atto primario dell'osservazione di un fenomeno e quello secondario della conversione di ciò che si è visto in un'immagine destinata al pubblico, sono operazioni profondamente diverse, che richiedono forme differenti di abilità e di attenzione.
A questo punto sorgono però altre questioni, che si estendono in varie direzioni e riguardano aspetti particolarmente importanti della scienza rinascimentale. Per esempio, si presuppone generalmente che le illustrazioni scientifiche siano, per loro natura, subalterne al testo e, di conseguenza, non siano mai progettate indipendentemente da questo. Ma tale atteggiamento ignora la ricchezza dei generi d'illustrazione scientifica e i corrispondenti mutamenti dei rapporti che intercorrono tra l'immagine e il testo, sia all'interno di uno stesso genere, sia tra generi diversi. In alcuni casi, come nelle figure anatomiche di Vesalio o nei disegni di piante di von Gesner, il testo e l'immagine furono pensati per completarsi a vicenda, senza escludere tuttavia, a volte, un tipo di lettura in cui il testo fosse direttamente dipendente dall'immagine; ossia, poiché le immagini acquisirono sempre più, nei secoli successivi, un ruolo funzionale all'interno della scienza, gli atteggiamenti espressivi che Vesalio fece assumere ai suoi modelli o il paesaggio in cui li collocò, finirono sempre più per conferire una precisa e distinta dimensione 'artistica' alle sue illustrazioni, in grado così di trasmettere all'osservatore un complesso d'informazione molto più ampio di quello veicolato dal solo testo. Per il lettore moderno le illustrazioni di Vesalio possiedono un valore estetico pressoché autonomo dall'insieme delle importanti informazioni supplementari che esse comunque aggiungono al testo. Da ciò si può trarre la conclusione che l'interpretazione dell'illustrazione scientifica deve modificarsi col tempo, così come avviene in generale per l'arte e la letteratura.
Un'altra questione importante e irrisolta riguarda il modo in cui le immagini acquisirono una loro autorevolezza e una convincente forza retorica nel campo scientifico.
Naturalmente lo studio di questi problemi dovrebbe partire da un'epoca molto anteriore al Rinascimento, in quanto immagini dotate di prestigio e di autorità intellettuale (non soltanto religiosa o simbolica) iniziano ad apparire già tra l'VIII e il IX sec., sia in Europa sia nel mondo islamico, in campi quali la medicina e l'astronomia. Nel XV sec. esistevano già, come accennato, numerose e consolidate tradizioni di rappresentazione grafica di aspetti specifici del mondo naturale. Nel corso del Rinascimento questo limitato regno della retorica pittorica crebbe immensamente, fino a includere quasi l'intero spettro dei fenomeni organici e inorganici osservabili a occhio nudo. In quest'epoca le immagini acquistarono un nuovo potere di persuasione, in parte a causa del ruolo centrale dell'arte nell'universo culturale, ma in parte anche a causa della loro stessa ampia diffusione e dei progressi così significativi raggiunti dalla tecnica naturalistica, progressi che facevano talora apparire il mondo esterno come un semplice riflesso della visione umana.
Sarebbe un errore ricercare nel nuovo mirabile mondo dell'illustrazione rinascimentale rapporti o significati che travalichino i confini della storia o che siano di carattere del tutto generale. Le immagini scientifiche presentano lo stesso grado di complessità e di evoluzione storica dell'arte, inclusi i loro rapporti con i testi che accompagnano. Questo semplice fatto indica come la feconda collaborazione d'interessi e d'indagini tra la storia dell'arte e la storia della scienza abbia iniziato soltanto ora a esplorare l'intera gamma dei possibili argomenti.
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