Il rinnovamento urbano del primo Cinquecento
La straordinaria forza evocativa della prima rappresentazione prospettica della metropoli lagunare, delineata da Jacopo de' Barbari su sei grandi blocchi lignei e pubblicata da Antonio Kolb proprio all'inizio del nuovo secolo, è stata più volte messa in luce dagli storici della cartografia e della rappresentazione di città (1). Nella sua libertà di costruzione, come somma di accuratissime vedute urbane prese da più angolature, ma organizzate simulando un unico punto di vista, essa assume un carattere dinamico. Ci appare come un'immagine tesa a documentare gli sviluppi di una città che si sta rinnovando nel perimetro d'insieme, nel peso assunto dai luoghi in cui è triangolata la sua struttura di potere e in una serie numerosa di opere puntuali, la cui costruzione è stata avviata all'interno della compagine insediativa.
L'iter rapidissimo con il quale, nel volgere di pochi decenni, si è andata articolando infatti l'immagine dell'edilizia veneziana nelle vedute della città, dall'epoca della sua semplificazione paradigmatica (per esempio nella carta del Rolewink, 1479; o in quella del Foresti, 1486) è sintomo di come magistrati e viaggiatori si soffermino ora sugli emblemi del potere economico e politico e sui cambiamenti in corso (2).
Già altri hanno evidenziato in modo preciso la congruenza del rilievo del de' Barbari con una nuova consapevolezza dell'estensione del tessuto urbano, del suo spazio acqueo, della ricchezza immobiliare che le magistrature veneziane dimostrano di aver acquisito ormai in quegli anni compresi tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento (3).
Perché non c'è dubbio che uno dei fattori di novità di questa fase della storia di Venezia sta anche nell'istituzione di nuovi organi di conoscenza del territorio: le magistrature preposte all'esazione fiscale sui beni immobili (i X savi alle decime), alle acque (i savi e poi gli esecutori), alle fortezze, ai beni inculti (i rispettivi provveditori) si affiancano ad altre di più vecchia nomina e di consolidata esperienza nell'organizzazione urbana (i giudici del piovego, i provveditori di comun) (4).
In questa sede, ciò che mi pare importante sottolineare è che iniziative istituzionali, lavori pubblici, descrizioni ed immagini (non sempre convergenti, talvolta contraddittorie o interrotte, ma tra loro spesso interconnesse di fatto, più ancora che nelle intenzioni) consentono di distinguere una nuova stagione nella storia della città. La celebre "veduta", ma anche altre rappresentazioni successive meno precise e meno scientificamente rilevate, valgono allora come un atto di conoscenza d'insieme, di registrazione della forma dell'insediamento all'interno di un vasto bacino lagunare e come prova della possibilità di controllo dello spazio urbano, in un momento in cui le strutture fisiche e i meccanismi decisionali sono oggetto di trasformazioni consistenti.
Nella scelta del punto di vista e nel rigore con il quale sono disegnati alcuni elementi di dettaglio, la nitida incisione scopre la natura del nucleo insediativo consolidato e delle contrade di margine, rispetto al sistema di isole maggiori o minori che li circonda. Più o meno contemporaneamente, e non può essere un caso, un'altra opera descrittiva della città enuncia in modo chiaro, concreto e, forse, con un certo stupore, i processi selettivi in corso all'interno del tessuto edificato. Marin Sanudo il giovane, nelle prime righe della sua Cronachetta, evoca il principio della città situata "nell'intimo seno del mar Adriatico [...> sopra le acque salse", dove in una sostanziale indifferenza insediativa di isole, polarizzate sì da Rivoalto, ma strettamente relazionate tra loro, "gli habitanti attendevano a far mercantie con loro barchette, a li liti vicini portando sale et pesse". Poi, solo poche pagine più avanti, cantando le lodi di una "terra libera, né mai da niuno subjugata", rileva come attorno al Canal Grande stiano le case patrizie, bellissime, il cui valore supera ormai i 20.000 ducati. "Et quelle sono sopra ditto canal e molte apprexiate, et valeno più de le altre, et massime a presso Rialto o ver San Marco [...> Il terreno è molto caro, val assa' denari" (5).
Che in questa fase della sua storia la "virtù heroica" dell'architettura sia o meno largamente accettata a Venezia; che la rivendicazione della sua supremazia come "scienza di molte discipline e di diversi ammaestramenti ornata" sia davvero accolta ormai da alcuni lustri, da parte dei non pochi che si dilettano di teorie artistiche in laguna, quando Daniele Barbaro insiste sul valore sociale dell'utile e del decoro (6), o che il credo di Marc'Antonio Michiel, di Fra Giocondo, di Sebastiano Serlio sia invece conosciuto solo tra gli addetti ai lavori; non v'è dubbio che gli interessi e le affermazioni di costoro, i loro scritti, stabiliscano uno spregiudicato rapporto dialettico con le ragioni del contesto (7). L'allusione e l'appello esplicito alla qualità veneta ribaditi nei Commentari vitruviani, se sconosciuti forse alla maggior parte dei magistrati e dei proti che da qualche decennio operavano quotidianamente per la manutenzione degli edifici pubblici, delle strade, dei ponti, delle rive, evocano tuttavia l'emergere di una coscienza del territorio, dell'esigenza sentita di una gestione organica in fatto di difese, di bonifiche, di efficienza generale, di una definizione adeguata dei "casamenti" che da parte "delli cittadini per necessità si usano"; in definitiva del bisogno di acquisire tecniche e materiali dai quali non è possibile prescindere e che non sono certo nati in un giorno.
Si direbbe insomma che in questi primi anni del secolo alcune dinamiche si siano andate accelerando. In un certo numero di documenti di diversa origine, ma tra loro congruenti, la città tende a presentarsi finita nella sua forma complessiva, ampliata in relazione al richiamo che da molti decenni esercita nei confronti di popoli d'ogni provenienza e cultura, strutturata e diversificata al suo interno secondo il ruolo internazionale che le è unanimemente riconosciuto.
Nel processo di rinnovamento del tessuto urbano, l'importanza emergente dei siti della tradizione (le due piazze, al di qua e al di là del Canal Grande), della loro duplice centralità e dei valori immobiliari corrispondenti, va di pari passo con i nuovi investimenti effettuati dai privati negli spazi esterni, di margine. Già dalla metà del Quattro e, con maggior frequenza, nei primi decenni del Cinquecento, singoli operatori, in gran parte patrizi, ma anche conventi, hanno infatti recuperato e bonificato, interrando tratti di palude, quantità considerevoli di suolo edificabile nella parte occidentale del sestiere di Cannaregio (San Geremia, San Giobbe) e settentrionale di quello di Castello. In particolare proprio quella che si riferisce all'estremità orientale della città, è una storia di continue espansioni, di permessi che le monache di Santa Giustina o i frati di San Francesco della Vigna chiedono all'ufficio alle acque, e di volta in volta ottengono, "di poter atterrare sopra il paludo" guadagnando terreno sui bassi fondali della laguna (8).
Utilizzando come motivazione la generale "carestia di casa", e per tappe successive, si finisce cioè per allargare l'area urbanizzata; disegnare alcuni allineamenti; costruire sugli orti; favorire lo stabilirsi di destinazioni d'uso del suolo particolari (depositi di legname, di materiali edilizi, cantieri). Con il risultato che, in questo periodo, il perimetro urbano appare più che mai in movimento. Non è frutto di pura fantasia la spregiudicata proposta di Alvise Cornaro, quando nel 1565 sostiene l'opportunità di rassodare le velme tra Santa Marta e Santa Chiara coperte appena di un velo d'acqua, per aver modo di "dar ricetto alle tante anime, che di continuo vanno moltiplicando": lo spunto iniziale per il grandioso progetto, che avrebbe potuto così essere sufficiente "per migliaia d'anni", era dopotutto ciò che già aveva sotto gli occhi. E anche il suo interlocutore nel polemico confronto sull'interramento della laguna, Cristoforo Sabbadino, pur essendo in totale disaccordo sulle procedure e sulla forma chiusa proposta per la città, non può non pensare - lo ha ben rilevato Gaetano Cozzi - che occorre ingrandire l'insediamento, utilizzando le deiezioni di una laguna risanata e bordare le nuove aree con delle fondamenta (9). Era ciò che in parte, in modo disordinato, stava avvenendo.
In molte zone prevalgono ancora le destinazioni ad orto, gli squeri, le terre "vacue". A nord, verso Murano, grandi conventi (quello delle Vergini, o quello di Sant'Alvise) sono dotati di ampi giardini. Nel recinto dell'Arsenale nel quale, come vedremo, si sta proprio allora costruendo una nuova darsena, si accumula lungo i bordi una quantità notevole di terre di riporto. Si vanno progressivamente realizzando, insomma, delle periferie funzionalmente complementari, anche se ancora in buona parte frammentate, eterogenee, disordinate, socialmente commiste. Perché non c'è dubbio che, negli anni di passaggio tra XV e XVI secolo, l'abitazione popolare, gli usi assistenziali dell'edilizia, la presenza manifatturiera, le attrezzature sanitarie, gli insediamenti per gli stranieri, o la concentrazione delle minoranze etniche siano ad un tempo strumento e sintomo di una strategia urbana e lagunare che la Repubblica persegue di fatto da almeno un cinquantennio e oramai senza troppe incertezze.
E non è poco importante ai fini delle considerazioni che stiamo facendo che nel 1501 il consiglio dei X, l'organismo che nel corso di quegli anni si propone sempre più come strumento efficiente dell'azione di governo, istituisca una nuova magistratura, quella dei "savi alle acque", con il compito precipuo di impedire l'interramento lagunare e mantenere le condizioni di navigabilità dei canali interni. Il 19 maggio 1505, poi, i X ritengono necessario rinforzare i poteri del giovane organismo, dandogli maggiori possibilità di prendere decisioni rapide: nominano il "collegio" e nel 1530 affiancano ai primi tre magistrati deputati alla laguna anche gli esecutori. È così che si costituisce - per provvedimenti e aggiunte successive - il "magistrato alle acque" (10). Ciò che vorrei qui sottolineare, insomma, è come le delibere in fatto di politica idraulica e di salvaguardia lagunare scandiscano, e con ritmo sempre più ravvicinato, l'inizio del nuovo secolo, ma anche come esse non siano indipendenti dalla maggiore attenzione per lo sfruttamento dei terreni cittadini di bordo. La nomina di tecnici di grande competenza specifica e settoriale in materia di rilevamento delle dinamiche idrauliche, di diversione dei fiumi, di fortificazione dei lidi e degli argini, di escavo dei canali (alcuni proti) e, contemporaneamente, di ingegneri di grande cultura e ampie conoscenze fisico-matematiche (per esempio, nel 1506 Fra Giocondo) è indicativa di un vasto interesse politico per tutti questi temi (11).
Particolarmente indicativo mi pare il caso "estremo", perché almeno nelle intenzioni eccezionale, in cui si tratta di costruire dei baraccamenti stagionali quando, dopo il raccolto, si radunano contadini per eseguire i lavori di escavo dei canali e della laguna. Sono proprio i savi alle acque a procedere istallando veri e propri quartieri precari per lavoratori, capaci di ospitare fino a 100 persone, lungo i bordi del bacino acqueo.
Se infatti il paesaggio urbano cinquecentesco è fatto ancora in gran parte di edilizia precaria e cadente, se la costruzione in legno è spesso tuttora praticata nei primi anni del secolo, tutto questo è vero soprattutto lungo i margini esterni della città. Capannoni, tettoie in corrispondenza degli squeri, botteghe di lavoro artigiano (nelle quali si segano i tronchi di legno, si taglia la pietra, si raffina lo zucchero, si travasa l'olio, magari si vendono merci ingombranti) si concentrano in modo particolare in corrispondenza dello scarico acqueo e quindi dove ancora c'è spiaggia, per esempio "sopra la marina" di San Giobbe; anche se esistono tratti centrali del Canal Grande, come quello realtino nei pressi dell'Erbaria, il cui profilo non è poi molto diverso.
Ciò che appare evidente in questo periodo è che i modi trovati dalle magistrature di governo per realizzare un programma non scritto nella sua interezza, ma che a poco a poco pare essere accettato dalla mentalità collettiva, non sono mai quelli di uno sconvolgimento radicale, ma quelli di una somma di piccoli cambiamenti significativi, attraverso i quali, gradualmente, l'"età della conoscenza" diventa "età di interventi" e la forma urbana d'insieme si consolida (12).
Dalla fine del Quattrocento, infatti, si assiste contemporaneamente ad un'emarginazione progressiva degli insediamenti lagunari lontani dal corpo della città e alla trasformazione di quelli più prossimi, ad una separazione tra la laguna di Venezia e le altre lagune del golfo adriatico, insomma alla definizione di un terreno privilegiato: lo dimostra una diversa politica di acquisizioni e investimenti seguita da conventi, ospedali, singoli patrizi attraverso trasferimenti di proprietà e atti testamentari; sempre più lasciti e interventi di manutenzione riguardano uno spazio relativamente circoscritto. Tant'è che nel suo trattato sulla laguna, Marco Corner descrive ormai le contrade spopolate di Torcello, quelle di Burano impoverite (13).
Anche l'area portuale cittadina, che pure vede una certa stabilità, perché i lavori pubblici realizzati nel corso del XV secolo avevano in realtà rinforzato le infrastrutture esistenti, sui tempi lunghi dimostra una tendenza alla diversificazione dei percorsi acquei.
Le prime decisioni per l'istituzione di un lazzaretto in una isoletta della laguna, che risalgono al 24 agosto 1423, già erano state un esempio significativo di questi spostamenti. La costruzione nel 1468 di un secondo ospedale detto della "Vigna Murata", in prossimità di Sant'Erasmo, prevedendo uno sdoppiamento della quarantena, aveva accentuato la complessità della morfologia e degli itinerari previsti (14). La direzione delle operazioni da compiere, dal 1485 affidata stabilmente al magistrato alla sanità, comincia appena si ha notizia del morbo: i provveditori incaricati intervengono nei sestieri e nelle parrocchie, cercando di "separare" il più possibile chi potrebbe essere toccato dal contagio, ma si occupano principalmente proprio dei percorsi, dei controlli, dei limiti da prescrivere per chi entra in città (15).
Gradualmente, si modifica anche l'influenza di Venezia centro sulle isole vicine, a mano a mano che esse assumono un ruolo più specifico e destinazioni d'uso prevalenti. La Giudecca si caratterizza come luogo di espansione residenziale del quartiere di Dorsoduro, da cui è separata da un canale largo, ma attraversatile facilmente, oltre che come sede di attività artigianali; la sua trama edilizia lo consente, perché è più aperta di quella posta al di là del canale, ricca di orti e giardini coltivati. Murano, anch'essa vicina, pur caratterizzata da una sua propria rete viaria e da un assetto urbano e istituzionale autonomo, si è andata progressivamente specializzando come sede di un ramo importante e molto attivo dell'industria locale, quello della produzione del vetro. Il Lido, soprattutto dalla parte di San Nicolò, si rappresenta come la vera e propria "bocca di porto" principale: se la struttura portuale veneziana resta articolata e complessa, questioni di difesa, decisioni di politica lagunare, riti hanno finito per privilegiare quell'apertura, come vero e proprio luogo d'accoglimento in città, tra le altre esistenti e utilizzate lungo il cordone litoraneo (16).
Nel giro di mezzo secolo, si verificano più iniziative concomitanti. Per un verso, il senato si preoccupa di allontanare dalla riva marciana le attività considerate pericolose e di influire sulla distribuzione dei mestieri legati allo sbarco e all'accatastamento delle merci pesanti, o voluminose, nonché alla manutenzione delle barche. Il tentativo è quello di sospingere le attività proibite verso le estremità settentrionali e orientali della città, o sul litorale e in alcune isole. Per altro, dopo il 1462 tutta la riva lungo il bacino marciano, a partire dal ponte della Paglia, è restaurata. Vi è stato ampliato l'ospedale della Pietà. Alcuni alberghi, nei pressi del ponte, in aggiunta a quelli localizzati in Piazza, consentono di aumentare la capacità recettiva della metropoli nei confronti dei viaggiatori che vi sbarcano. Nel frattempo i provvedimenti presi nel 1531 dal collegio alle acque, per imporre ai proprietari di terreni prospicienti un canale, "sì ecclesiastici come seculari", la costruzione di rive in pietra viva, o di pali e rinforzi per prevenire l'interramento o il dilavamento delle sponde sabbiose, si muovono oggettivamente nella stessa direzione di un ridisegno della geografia dei confini (17).
Del resto, nei primi decenni del XVI secolo la distribuzione dei luoghi di scarico nelle aree centrali è sostanzialmente consolidata; i pagamenti effettuati all'ufficio alle acque dai portatori della dogana da mare e da terra, o l'incanto del dazio dei burchi e delle altre imbarcazioni che conducono merci a Venezia, lo segnalano con chiarezza. Lo confermano anche le rapide pennellate della descrizione di Marc'Antonio Sabellico (18). In una guida meticolosa e sistematica, sestiere per sestiere, egli menziona le principali strutture pubbliche di servizio e i punti destinati allo sbarco.
Nei vent'anni compresi tra il 1530 e il 1550, poi, gli orientamenti circa la conservazione e l'uso delle aree paludose e dei canali interni al tessuto edilizio sono maturi; lo dimostrano le decisioni relative all'uso dei bacini di colmata, o alla ridefinizione di un profilo rimasto irregolare e considerato causa di interramento.
Non possiamo dimenticare, tuttavia, che i processi che sottostanno a queste iniziative corrispondono ad argomentazioni e provvedimenti messi in atto già a partire dai primi anni del secolo, o ancora in quello precedente (19). Così, l'escavo di tre bacini, ottenuti approfondendo sacche preesistenti (a Santa Chiara, alla Misericordia e tra Santa Giustina e i Crosecchieri), hanno dei precedenti, almeno nelle intenzioni. I provvedimenti necessari ad accogliere i battelli fluviali-lagunari provenienti da Padova e da Vicenza, quelli in arrivo dal Friuli e dal Trevigiano, e i legnami ("zatare") importati dal territorio alpino richiedono infatti alcuni spostamenti e messe a punto successive. E i sette vasti lotti bonificati lungo la sponda lagunare dell'isola della Giudecca, per essere destinati alla cantieristica navale privata, corrispondono alla ridistribuzione su scala urbana di alcune importanti funzioni di servizio, le cui prime tappe sono da cercare in anni lontani.
Del resto, che gli investimenti si fossero da lungo tempo rivolti all'edilizia, e proprio a quell'opera di "ingrandimento" che aveva contemporaneamente saturato alcune parti della città e modificato tratti del suo perimetro, era chiaro perfino al senato della Repubblica. Già il 13 agosto 1457 i pregadi sottolineavano la necessità di un nuovo catasto e di nuove stime, perché "multe earum domorum maxime aucte sunt et multe de novo constructe"; e, tornando sull'argomento due anni dopo, il 31 maggio 1459, insistevano: "assaissime de novo reformade et fabricade, e de acque e paludi, orti e terreni vachui in amplissime habitacion et optime possession convertide" (20).
In sintesi, l'avvenuto "ampliamento" della metropoli, che alcuni studiosi considerano completato proprio a cavallo del secolo, è uno dei presupposti cardine del rinnovamento urbano: il processo è sotto gli occhi di tutti e influisce sui comportamenti individuali (21). Giustamente è stata presa ad esempio di un giudizio ormai acquisito da parte dei nobili veneziani, circa i caratteri e la qualità dei siti, la scelta di due politici illustri, come i due dogi Andrea Gritti e Francesco Donà (22). Con l'erezione della loro dimora di famiglia, nel 1525 a San Francesco della Vigna nella contrada di Santa Giustina, il primo, nel 1610 a San Canciano lungo le Fondamenta Nuove tra la laguna e il rio di Santi Apostoli, il secondo, essi convalidano, a grande distanza di tempo l'uno dall'altro, intenti e programmi di valorizzazione delle periferie che già erano evidenti nei primissimi anni del Cinquecento.
Accanto ai provvedimenti istituzionali adottati per la manutenzione della laguna e dei canali, la Serenissima non trascura quelli relativi alla viabilità pedonale e alle sue infrastrutture di servizio.
Del resto, se è vero che a Venezia l'architettura minore è grandemente influenzata dalla topografia e che lo schema planimetrico della città e dei suoi edifici riflette l'antica configurazione lagunare (23), è certo che anche la trama viaria ed edilizia resta per secoli analogamente relazionata alla stessa matrice. Così i numerosi canali "naturali" che hanno costituito le vie d'acqua cittadine hanno poi determinato anche quelle pedonali, cioè la rete di banchine e fondamenta utilizzate come struttura dei percorsi, oltre che come luogo di sbarco e d'attività. E le variazioni nei modi d'uso sono state spesso vincolanti: ad esempio, lo spostamento di un traghetto (frequente nei primi anni del Cinquecento) ha contribuito a modificare alcuni tragitti.
Inoltre, gli oltre 400 ponti minori stabiliscono i necessari collegamenti trasversali. E il sistema degli slarghi risulta anch'esso fortemente condizionato dalle interrelazioni che si sono via via stabilite tra le isole, sensibile al ruolo che esse rivestono. I "campi" di Venezia, spazi destinati contemporaneamente allo scambio e alla sosta, sono accessibili infatti dal doppio sistema viario, poiché in generale sono rasentati da un rio e attraversati da una o più calli. Di conseguenza, registrano ogni cambiamento nei reciproci rapporti gerarchici, quantitativi e formali.
L'incremento edilizio degli anni a cavallo del secolo non è stato solo planimetrico; in alcuni casi, si è trattato anche di aumento di densità sullo stesso suolo costruito, sotto forma di soprelevazione di vecchie case-fondaco, o di casette a uno o due piani, con un impatto forte sul profilo stradale e sul fronte acqueo. I palazzi Franchetti e Loredan sul Canal Grande, da un lato, il Ghetto degli Ebrei, dall'altro, non sono che due esempi, particolarmente rappresentativi, della straordinaria attività di edificazione che ferve in laguna.
L'interesse architettonico per l'affaccio sul Canale, consolidato da quasi tre secoli di pratica costruttiva, permane tra tardo Quattrocento e primo Cinquecento; risulta anzi arricchito nel prospetto "intelaiato" della casa di famiglia. La persistenza dell'impianto tipologico e volumetrico nell'edilizia abitativa ha infatti presupposti tecnici (dettati anch'essi dalla morfologia insulare), prima che distributivi e di configurazione (24). Ed è chiaramente visibile in alcuni grandi palazzi, in particolare nei casi di rielaborazione o ampliamento di fabbrica bizantina: Ca' Grimani-Giustinian a San Polo, Contarini del Zaffo sul Canal Grande vicino alla Scuola della Carità, Contarini delle Figure a San Samuele, Trevisan-Cappello in rio della Canonica sono tutti esempi efficaci. La loro proposta di monumentalità, del resto, non è solo una sfida politica e di costume, ma corrisponde ad una scelta linguistica e ad una strategia urbana ed ambientale.
All'interno dell'insediamento lagunare restano numerosi anche i giardini e non tutti recintati se, quando vi fa tappa, nel 1494, il pellegrino Casola è stupito di vederne tanti e tanto belli, in una città nella quale - per essere "edificata sopra l'aqua" domina l'artificio. Proprio per questo, anzi, nei visitatori, l'elemento "naturale" non può che destare grandissima ammirazione (25). Ma è anche fonte di diletto per i Veneziani, se nell'isola della Giudecca i Barbaro, i Gritti, i Dandolo, i Vendramin, i Cornaro accanto a "vaghi edifici" s'erano costruiti anche un bel giardino "per culto divino come per uso dei cittadini" (26). E, poco più lontano, a Murano o alle Vignole cercavano riposo o si davano convegno i da Mula, i Mocenigo, i Trevisan, o i protagonisti del dibattito umanistico, come Andrea Navagero, Aldo Manuzio, Giangiorgio Trissino... (27).
Nell'area di Rialto, invece, non ci sono tratti di verde: prevalgono strutture viarie minute, con calli lunghe e strette, perpendicolari al Canale Grande. Insomma, la densità del costruito e la trama viaria restano tutt'altro che omogenee.
Ben 10.000 gondole si muovono per la città; queste barchette "impegolate e di belle forme, vogate da neri saraceni overo altri famegij" costavano circa 15 ducati, cioè più di un cavallo e tuttavia non c'era gentiluomo o cittadino che non ne tenesse una, o più di una (28).
Ciò nonostante, in città, anche nelle aree centrali, il mezzo di trasporto animale arriva ancora: vi allude, nemmeno tanto stupito, nel 1497 Arnold van Harff, cavaliere di Colonia, quando descrive ciò che vede uscendo dal fondaco dei Tedeschi nel quale alloggia. Passando per una strada strettissima (le "Mercerie"), lungo la quale si aprono botteghe di farmacisti, di librai, d'altri mercanti, egli giunge alla magnifica "piazza", ammira il campanile "quadro e altissimo" e non può non osservare che al suo interno c'è una larga rampa, così che fino in cima si può salire anche a cavallo, come del resto aveva fatto nel 1452 l'imperatore Federico III (29). E la cosa non doveva essere poi così eccezionale se, quando nell'aprile 1509 l'esercito veneziano stava preparandosi alla guerra contro la lega di Cambrai, il senato rivolge la richiesta di cavalli "apti a tirar d'artiglieria" non solo alle provincie di Terraferma, ma anche a "questa nostra cità" (30). E se fino ai primi decenni del XVI secolo, gli alberghi intorno a San Marco erano ancora provvisti di stalle per la sosta dei mezzi di trasporto di chi vi alloggiava. Nonostante la situazione fosse da molti ritenuta indecorosa per il prestigio della Piazza, non fu facile modificarla (31).
I portici che corrono paralleli all'asse viario sono assai più rari a Venezia che in altre città del Veneto. Parte integrante delle fabbriche pubbliche, le Procuratie vecchie e la Drapperia realtina, quasi non esistono altrove. In molti esempi di edilizia abitativa veneziana, il problema dell'arretramento del filo della costruzione a livello del terreno, rispetto ai piani superiori, per consentire un passaggio pedonale più agile e protetto, era stato risolto piuttosto con il tipo a "barbacani": un sistema costruttivo due-trecentesco basato sulla presenza di grosse mensole lignee, capaci di sostenere una trave di considerevole spessore e tutto il peso dei muri perimetrali, il quale svincola la distribuzione interna sul fronte strada (in generale a botteghe e magazzini) da quella soprastante, prevalentemente destinata ad alloggi. Con l'esito anche di predisporre una sorta di "riparo" pedonale, attribuendo per intero ai proprietari il compito di conservarlo in buono stato. Al portico "trasversale" si è bensì fatto ricorso in età medioevale come dispositivo capace di risolvere il caso di un passaggio difficile, in condizioni di ristrettezza di spazio. Il "sottoportico", antico collegamento tra corpi di fabbrica separati, spesso ligneo o realizzato con materiali di riporto, inevitabilmente impone, negli anni che ci riguardano, interventi manutentori talvolta complessi. Dirimere le inevitabili controversie tra pubblico interesse e doveri privati, stabilendo l'entità dei contributi da imporre a ciascuno, è compito della magistratura del piovego: questi giudici, che dal 1282 intervengono in modo continuativo non solo in materia di confini lagunari, vigilano attentamente sull'impiego dei materiali e sulla qualità della fabbrica.
Nel fertile clima di interventi edilizi, anche le strade sono spesso oggetto di lavori: si allargano certe callette oscure e sporche; si demoliscono catapecchie male in arnese e che "minacciano ruina". Il 3 febbraio 1532, il senato delibera - e non è che un esempio - di ampliare la via "che va dal ponte del Fondaco di Todeschi a la chiesa di San Zuanne Crisostomo", facendola di circa otto piedi di larghezza: il che sarà "non men ad ornamento de questa cità nostra che ad comodità de tuti queli che fanno transito per essa calle" (32). Il 28 novembre dello stesso anno, è il patrizio Alvise Barbaro che dichiara di "obbligarsi" ad abbattere una muraglia di una sua casa e di volerla rifabbricare a sue spese, per allargare un'altra via, tra San Giovanni Crisostomo e il traghetto di San Felice. E il Sanudo, osservatore attento d'ogni piccola variazione, commenta: "Tanto più che le strade di questa città nostra sono redute più larghe et aperte, tanto maiormente possono essere existimate de ornamento di quella et comodo de li viandanti" (33).
Il voto del senato del 2 settembre 1535 - quello con cui, per volere del doge in persona, si nominavano due gentiluomini cui fosse affidata la cura "de ornar et accomodar" l'intera area urbanizzata (34) - veniva a suggellare anche queste decisioni minute, oltre che i grandi progetti marciani, e il programma non sempre esplicito che le metteva in essere. Ed è evidente che in questa fase, al di là dei contrasti sorti tra le parti politiche e dello sfortunato esito che ha poi avuto questo provvedimento, intenzioni di rinnovo, abbellimenti urbani, rispetto attento per le "antiquità" di cui la città era ancora così ricca costituivano una preoccupazione di governo, del pubblico come del privato; preoccupazione che poteva trovare il suo principale terreno d'applicazione proprio nella rete viaria (35).
Così il decoro della pubblica via doveva corrispondere al decoro degli edifici che la fronteggiavano, cioè della parte visibile dalla strada o dal canale: palazzi ornati facendo uso di materiali differenti, come quelli che danno sul campo San Lio di Giovanni Mansueti, o abbelliti con tappeti preziosi e stoffe colorate appese alle finestre, come quelli mostratici dal Carpaccio e dal Bellini, sottolineano un modo presumibilmente abbastanza diffuso di "guardare" la città. Certo queste intenzioni appaiono con maggior enfasi negli allestimenti posticci realizzati in occasione di cerimonie pubbliche e feste private, ma lo sguardo, e le ambizioni, della vita d'ogni giorno non dovevano essere poi così diversi.
È ben noto ad esempio che il nuovo fondaco dei Tedeschi, appena ricostruito, fu subito affrescato con cavalli, cavalieri, colonne, nicchie, trofei dal celebre Giorgione e da Tiziano. Un ciclo pittorico particolare, per un'opera pubblica d'importanza eccezionale, di cui si conservano poche tracce, e, tra queste, quella di una figura femminile, segno comunque di un'immagine del fronte strada, forse non solo in prossimità della casa teutonica, assai più colorato di quello che oggi possiamo percepire (36). A cui dovevano contribuire spesso anche i privati: qualche mercante, tra quelli stranieri, colti e facoltosi stabilitisi a Venezia, sembra particolarmente sensibile al volto della propria dimora. Marino van der Hanna di Bruxelles, dopo aver acquistato il palazzo sito in prossimità del traghetto di San Benedetto, non si accontenta di intervenire al suo interno con oggetti e dipinti di grande prestigio, ma lo fa decorare in facciata dal Pordenone (37). Analogamente, Andrea Odoni da Milano, avendo deciso di trasferirsi in laguna, dà incarico a Girolamo da Treviso di affrescare l'abitazione che ha comperato su una fondamenta, nella contrada di San Nicolò da Tolentino (38). Ma nemmeno da questo punto di vista la città si presenta come omogenea.
Cosa succede, ad esempio, nelle Mercerie che legano per via di terra i due luoghi mitici di San Marco e Rialto? Quella calle che alla fine del Quattrocento il Sabellico descriveva come "frequentata e ritorta", tutta piena, a destra e a sinistra, "di spiciarie et altre botteghe d'ogni maniera senza alcun ordine poste", nel corso dell'intero secolo successivo continua a restare priva di compiutezza formale: non subisce interventi significativi che ne modifichino l'andamento o le facciate. Eppure sappiamo che ci sono case e botteghe (per esempio nei pressi di San Zulian) che sono vecchie e cadenti e minacciano "ruina"; tuttavia ancora durante tutto il secolo e, non senza qualche incertezza di nuovo nel 1590, si continua a dare la precedenza alle spese da effettuare in "Piazza". Lungo quella via del resto nessuna retorica formale può sovrapporsi ad una funzionalità di incomparabile, quasi mitica ricchezza, la quale consiste proprio nella varietà e reperibilità degli oggetti esibiti e posti in vendita, anziché nell'involucro che li contiene (39). L'uso della strada per comunicare messaggi e segnalare il proprio status, o il proprio ruolo, o la propria funzione, insomma, non è una novità. Le insegne che contraddistinguono una bottega, un'osteria, un albergo sono uno degli elementi di riferimento specifico che, in assenza di numero anagrafico, compare anche nei documenti ufficiali, delibere di demolizione, d'esproprio, o passaggio di proprietà.
Il fondo stradale, soprattutto nelle contrade periferiche, rimane a lungo in terra battuta e pressata; si riduce ad un letto di melma fangosa ad ogni pioggia o eccesso di umidità. Il selciato (per lo più in pietra di Monselice) comincia ad essere usato per lastricare completamente campi, campielli e tutte le calli cittadine solo nei primi anni del XVI secolo. Prendono allora il nome di "salizzade" (cioè appunto selciate) quelle calli larghe e di maggior traffico, nelle quali la finitura viene posta in opera prima che nelle altre. Anche per questo aspetto ci è d'aiuto la precisione di Jacopo de' Barbari. Come li aveva delineati il disegnatore nel 1500, i "campi" veneziani sembravano ancora in buona parte alberati e coperti d'erba. In piazza San Marco, invece, il disegno a riquadri in cotto del pavimento è particolarmente importante, accentrato sulla torre dell'Orologio, quasi ad indicare l'inizio del tortuoso percorso delle Mercerie.
Nello stesso rilievo, la fronte del sestiere di Dorsoduro verso la Giudecca appare ancora attrezzata con frequenti magazzini e pontili in legno. È noto che nel 1519, per consentire la costruzione della riva che, grazie a quella presenza, continuerà a chiamarsi "Zattere", occorrerà espropriare un invadente squero da legnami che vi occupava più di 90 passi (40). Ed è la costruzione di quella banchina ad aprire la strada ad un'opera sistematica, da parte del magistrato alle acque, di realizzazione di "fondamente in pietra in tutti i luoghi aperti della città". La ripartizione delle spese tra pubblico e privato, o l'entità dei rimborsi, resta materia di contrattazione lungo tutti i canali che attraversano le aree più densamente urbanizzate (41). Ma la celebre veduta attira la nostra attenzione anche sulla rete dei canali e sulla trama dei percorsi sovrapposti: essa pone in evidenza, facendole più larghe del reale, molte delle vie d'acqua passanti, come il rio dei Barcaroli che sale fino a San Polo, il rio della Pietà che sfocia nella laguna nord. Dalla piazzetta San Marco fino al rio di Sant'Anna, queste vie d'acqua risultano scavalcate da passaggi, per lo più in pietra, che permettono il transito ininterrotto dei pedoni lungo la riva degli Schiavoni.
Perché anche i ponti "antiquitus de legno, al presente tutti si rinovan de pietra" (42). E se il ponte di Rialto è ancora di fabbrica vecchia, in carpenteria lignea e apribile nel mezzo, come lo rappresenta il Carpaccio nel 1496, sappiamo tuttavia che parecchi ponti minori erano già da tempo costruiti su un arco di mattoni e con finitura in pietra viva, essendo per la verità meno rari di quanto l'affermazione del Sanudo sembri voler suggerire. Ma la frase individua il grado di diffusione e il significato, più che la nascita, di una prassi costruttiva.
Il ponte realtino, dunque, per la sua dimensione, per le difficoltà statiche, per ciò che esso significa ormai nell'immaginario collettivo, non fa testo: dal lato di San Marco esso sfocia in un dedalo di callette, attraverso un sottoportico stretto e cadente, le cui condizioni precarie, del resto, nel 1587 costituiranno un utile pretesto per quelle forze che da molti anni ne rivendicavano la ricostruzione in pietra (43).
La cura delle attrezzature legata alla pubblica via va di pari passo. Non è facile l'approvvigionamento d'acqua potabile, perché "Venezia è in aqua et non ha aqua" osserva il Sanudo (44). Quella piovana viene raccolta nelle cisterne e purificata, con ingegnosi modi di filtrazione, come assicura il medico ravennate Tommaso Rangone intorno alla metà del XVI secolo: ne sono una valida testimonianza anche i brevetti depositati, o le numerose richieste di poter mettere alla prova le proprie invenzioni (45). Il senato del resto autorizza la concessione di aiuti finanziari a chi costruisce nuovi pozzi (non tanto quelli posti all'interno di un cortile privato, ma al centro di una corte o di una pubblica piazza). E la loro importanza è segnalata dallo stemma del promotore scolpito in pietra, o dalle pene a cui era sottoposto chi lo lasciava cadere in rovina. Nella sola piazza San Marco, il 20 aprile 1494, i pregadi decidono di procedere alla costruzione di due nuovi pozzi: non erano passati che cinquant'anni dalla realizzazione dell'ultimo (non certo l'unico) resosi necessario (46).
Negli stessi anni, nei campi di dimensioni maggiori, si procede alla realizzazione di "scoazzere", vere e proprie fosse per la raccolta e l'eliminazione delle immondizie. In parallelo, altri provvedimenti si preoccupano degli abusi e della pulizia "morale" di cui la pubblica via è ancora inevitabile teatro: le disposizioni del senato, tese ad impedire lo svolgersi di scommesse e giochi d'azzardo all'aperto, si succedono a ritmo serrato. In Piazza dove, per tradizione antichissima, le due colonne di Marco e Todaro costituivano un punto di riferimento, o a Rialto sulla piccola riva accanto ai banchi di scritta e al palazzo dei Camerlenghi, occorre impedire il ricorso ai dadi, o l'uso dei "zoni" (47).
Gli studiosi di storia dell'architettura veneziana del Rinascimento hanno spesso trattato delle piazze centrali di Venezia tra gli ultimi decenni del Quattro e la fine del Cinquecento, affrontando soprattutto la questione dell'introduzione in laguna di nuovi linguaggi architettonici.
Il difficile problema delle attribuzioni all'uno o all'altro artefice delle molte fabbriche costruite, o interamente rinnovate in questo periodo, è stato oggetto di una lettura più o meno raffinata, o di un esercizio comparativo di dettagli costruttivi. Una moltitudine di ipotesi - alcune particolarmente attente e accurate - è stata formulata a questo proposito negli ultimi trent'anni, qualche volta in risposta alle tesi sostenute da illustri predecessori, qualche volta muovendo da nuovi studi (48).
Jacopo Tatti, giunto stabilmente in città nel 1527 e poi subentrato a Pietro Bon come proto della procuratoria e incaricato - in toto o in parte - di altri lavori di grande rilievo (la Scuola grande della Misericordia, le chiese di San Francesco della Vigna, San Zulian, San Martino, San Fantin), è stato spesso considerato l'artefice principale del rinnovo dell'area marciana. Ben note sono le vicende che scandiscono l'intera operazione: il progetto della Libreria in sostituzione del complesso di edifici prospicienti la Piazzetta, il disegno della Zecca e della Loggetta alla base del campanile, una serie di interventi all'interno di palazzo Ducale e nelle Procuratie vecchie, la chiesa di San Geminiano, di fronte alla basilica di San Marco, il riordino delle botteghe tra la Libreria e la Zecca e il ponte tra la stessa e i Granai di Terranova (49). Quasi un trentennio, dominato dalle decisioni prese durante il dogado di Andrea Gritti (1523-1538) in cui il "possibilismo" sansoviniano sarebbe stato determinante nell'interpretare i modi del rifacimento, tra intenzioni di rinnovo e volontà di conservazione (50).
Non è opportuno ripercorrere in questa sede un cammino già parzialmente tracciato né, forse, del tutto pertinente al tema di questo saggio. Vale piuttosto la pena qui di porre l'accento sul fatto che esista, in questo arco cronologico, una sensibilità diffusa e riconoscibile da parte delle magistrature veneziane per una riarticolazione delle aree d'uso collettivo nella città: la mia ipotesi è che uno degli obiettivi del governo veneziano sia in questa fase quello di articolare e diversificare lo spazio urbano formalmente e funzionalmente. Non si tratta certo di un programma generale e sempre consapevole; ma non c'è dubbio che nel procedere quasi simultaneamente alla ricostruzione di molti dei suoi edifici pubblici, Venezia riproponga il proprio sistema di piazze, di rive, di percorsi; ridisegni di fatto il rapporto centro/periferia; riorganizzi il proprio tessuto viario ed acqueo secondo mutate gerarchie. Esiste una certa congruenza tra ciò che si sta facendo ai margini della città e ciò che accade nelle aree centrali. Senza sottovalutare allora l'importanza e il ruolo svolto dai singoli (si tratti di anonimi capi-cantiere, di proti ufficialmente nominati, o di grandi architetti) nel processo di riforma, vorrei piuttosto cercare di fermare la mia attenzione su una serie di iniziative non tutte di fabbrica, talvolta piuttosto di cambio di localizzazione, o di diverso uso delle aree non edificate; scelte non sempre tra loro legate, ma in definitiva abbastanza coerenti l'una rispetto all'altra.
Se studiati nella prospettiva geografica dell'intera città e in un'ottica dei tempi lunghi, questi provvedimenti dimostrano come la questione di un disegno urbano complessivo fosse in certa misura presente al governo della Repubblica e come esso venga a maturazione proprio negli anni oggetto di questa nostra analisi, quelli cioè compresi tra la fine del Quattrocento e la morte del doge Gritti. Ciò non significa parlare di un lucido piano urbanistico, né di previsioni architettonicamente formulate fin dall'inizio in modo compatto, ma significa rilevare come tempi e decisioni successive, anche talvolta contraddittorie, sbloccando di volta in volta difficoltà ed ostacoli, soggette quindi anche a ripensamenti e rinunce, lascino tuttavia trasparire un'intenzione selettiva circa la forma della città lagunare e delle sue parti. Si direbbe che per il senato, per i procuratori de supra, per alcuni provveditori, la consapevolezza che esistano aree del contesto urbano tra loro diverse, per sito, carattere e destinazione vada di pari passo con la volontà di proporne un'immagine adeguata e corrispondente, di facilitarne una graduale trasformazione di significati e valori, di precisarne i limiti fisici. In effetti, si verificano alcune analogie e non pochi processi di divaricazione nelle isole di San Marco e di Rialto, a definire il passaggio dagli spazi pubblici medioevali (slarghi variamente commisti e talvolta funzionalmente equivalenti) al di qua e al di là del Canal Grande ad un più chiaro, differenziato e regolare sistema di "piazze" rinascimentali (51).
Se prendiamo in considerazione episodi come quello della ripavimentazione quattrocentesca delle aree prospicienti la basilica di San Marco e la chiesa di San Giacomo, dell'allontanamento della Pescheria vecchia realtina dal pontile per lo sbarco dei nobili e dalla loggia dei mercanti, dei numerosi provvedimenti di sgombero delle rive del Canal Grande, dell'identificazione di punti di riferimento visivo, oltre che di attività (come i "pili" dei vessilli marciani, il "palo" del pesce, la "stadera" pubblica, la "scala" di Rialto, la "pietra" del bando), del rifacimento degli splendidi e complessi congegni meccanici nei due orologi pubblici destinati a scandire le ore di un tempo civile, ci rendiamo conto che un interesse attivo per il decoro dei luoghi urbani centrali d'uso collettivo si colloca già ampiamente nella seconda metà del XV secolo, cioè già prima della stagione cinquecentesca delle nuove costruzioni che ci interessa in questa sede. Un interesse che mi pare leggibile in termini di organizzazione di luoghi "deputati", atti cioè a svolgere e contemporaneamente rendere manifesta la loro attività prevalente (52).
In particolare lungo le rive affollate del Canal Grande, e soprattutto in corrispondenza dei loro slarghi, occorreva fare ricorso ad aggiustamenti parziali, più che ad una radicale trasformazione dei luoghi. Sembrava prevalere un'attenzione per i provvedimenti tecnici (53). Sosta per una o più imbarcazioni, dimensioni ammesse, spazi riservati, tempi consentiti per lo sbarco erano oggetto di regolamentazione precisa, ma infinita, ossessiva quanto inefficace, e differenziata per la riva degli Schiavoni, per il tratto tra le due colonne, per la Pescheria, la Fruttaria, l'Erbaria, la Stimaria del vino e dell'olio, per chi accede alla stadera pubblica, per i mercanti di legname, per chi viene da Padova, da Este, da Monselice. Le magistrature osservavano con apprensione, ma esitavano a compiere scelte troppo radicali. Gli sforzi concomitanti (anche se talvolta tra loro contraddittori) compiuti erano da un lato quello di "sgomberare" e dall'altro quello di incrementare, sia pur "con ordine", gli affari. Erano sentite come un bene prezioso per la Repubblica, infatti, queste rive di San Marco e di Rialto, per le quali era difficile distinguere se era più importante il significato simbolico del luogo o il meccanismo finanziario.
Nella città medioevale, il mercato è costituito da un insieme di aree che può essere sfruttato per il vantaggio della localizzazione e per la pratica della tassa obbligatoria (54); e questo accade ovunque in Europa, ma queste sponde cittadine costituivano da sempre una zona mercantile particolarmente privilegiata, di movimento, di contrattazione, d'esposizione; nella memoria collettiva esse contavano come spazio fisico, i cui punti di riferimento erano facilmente identificabili, anche quando non formalmente compiuti, e come vincolo di comportamento. Erano insomma "luoghi deputati" per eccellenza.
Diventa allora particolarmente importante mettere in relazione la normativa che li riguarda, e gli anni in cui alcune decisioni vengono prese, con gli altri tentativi di controllo delle trasformazioni urbane (55).
Se la documentazione grafica di cui disponiamo per le due aree di San Marco e di Rialto è scarsa, possiamo tuttavia fare uno sforzo di restituzione della configurazione delle due piazze negli anni a cavallo del secolo, a partire dalle descrizioni e dall'iconografia rimasta, intrecciandola con le notizie forniteci dai documenti. In entrambi i casi ci è suggerita un'immagine di spazi aperti non unitari, né regolari per l'altezza degli edifici, per la presenza di portici (parziali e interrotti), per la mescolanza di "stili" diversi, separati da secoli, di elementi decorativi (non continui), per l'esistenza di una normativa evidentemente non troppo rigida circa le sporgenze o l'aggiunta di tende, banchi e stazi precari, o l'inserimento di apparati transitori. Un'immagine che corrisponde del resto ad una tale ricchezza e commistione d'attività, permanenti o saltuarie, da rendere ai nostri occhi del tutto comprensibile lo stupore dei visitatori d'ogni razza e paese e l'entusiasmo degli storici, che nel racconto narrano la confusione, esprimono incertezza su che cosa fermare il proprio sguardo (56).
È probabilmente con la delibera del senato del 3 novembre 1495 circa la nuova torre dell'Orologio in "apposita" fabbrica in "bocca" delle Mercerie, che l'intento di riqualificazione della città si manifesta (forse per la prima volta) in modo diverso che nel cinquantennio che la precede: utilizzando cioè esplicitamente l'architettura (57). Il peso d'immagine di questa vera e propria porta trionfale, che segna da un lato l'allineamento con le mitiche due colonne di Marco e Todaro e il punto di sbarco in bacino, dall'altro l'ingresso dall'ampia platea marciana alle dense contrade mercantili, viene ben presto attenuato. Per i procuratori, l'opera davvero importante è l'orologio in sé, non l'edificio che lo sostiene. E quello conta per la precisione e la delicatezza del suo meccanismo: occorre lavorarvi con la massima "diligenza", farlo controllare dall'artista (Zuanne Carlo de Rezo) di persona, consentire ai collaboratori di intervenire soltanto nelle ultime fasi del lavoro; merita un compenso altissimo (l'usufrutto di due fontegherie) (58). Alla decisione di demolire qualche porzione di edificio rimasta ancora in piedi dal lato di calle del Pellegrino e da quello opposto (1500), per costruire le due ali laterali destinate alle case dei procuratori, si attribuisce minor significato. Ma si inserisce così la torre, non più isolata, nella serie d'archi delle Procuratie (1502-1506) (59).
In questo modo ha inizio una fase (durata quasi un secolo) di rifacimenti importanti in fabbriche pubbliche o d'uso collettivo; una stagione di "accomodamenti" effettuati al di qua e al di là del Canale, che finiscono per trasformare sensibilmente i due insiemi di spazi aperti medioevali. Perché sono proprio le due piazze di San Marco e di San Giacomo e il loro intorno, approfittando forse di eventi tragici (alcuni incendi) o semplicemente forzando le necessità d'ammodernamento, ripulitura e sgombero dove "ruina" e degrado avevano reso la situazione indecorosa, ad essere state trasformate (senza essere interamente ridisegnate) nel periodo che stiamo analizzando.
Se ne vuole divaricare la diversità d'uso, il significato nella città, eliminando via via alcune somiglianze e le troppe commistioni tra aspetti mercantili e di rappresentanza: agli uni e agli altri s'attribuisce un linguaggio architettonico differente. La necessità d'organizzare la città per parti suggerisce un'articolazione delle aree più chiara e, per suo tramite, una separazione degli usi e dei fruitori. Essa costituisce di fatto un'indicazione per il ridisegno geometrico dei luoghi, per la loro conformazione come "piazza". Uno dei criteri guida della riforma dei due sistemi delle piazze di San Marco e di Rialto sta nell'accettare che esistano attività che si rapportano allo spazio costruito in modi radicalmente diversi. Da un lato, funzioni circoscrivibili per intero in edifici destinati allo scambio, o al governo, o alla produzione e deposito di un solo bene (la Drapperia, la Zecca, il palazzo per uffici, il fondaco); dall'altro, operazioni per le quali il massimo grado di definizione possibile è la salvaguardia di uno spazio aperto da abusi ed interferenze (la panetteria, le tettoie per la vendita del pesce, della carne, stazi di salumi, o di formaggi, banchi d'erbe, di frutta).
Come in altre città europee, il principale strumento individuato dalla Repubblica veneta per perseguire un simile modello d'organizzazione è certo quello tradizionale della normativa (orari, privilegi, concessioni, multe e divieti a categorie particolari di cittadini o forestieri). A questo strumento la Signoria non rinuncia, anzi vi fa ricorso in modo più frequente e perentorio che per il passato. Ma la storia cinquecentesca delle piazze veneziane di San Marco e di Rialto - che è anche una storia di rinnovamento di forme e d'architetture - mi pare interpretabile come tentativo di trovare anche nella conformazione dello spazio fisico un mezzo per fissare luoghi privilegiati, dunque per proporre un ordine, una gerarchia e dei "limiti" all'interno della città. La conoscenza dei princìpi divulgati in proposito dai trattati d'architettura e dai disegni d'antichità è, per la maggior parte di coloro cui sono demandate le decisioni, o per quelli cui spetta la loro esecuzione, mediata e indiretta (60). Ciò che decide del "rinnovamento" delle aree centrali, accanto al filtro delle consuetudini, è piuttosto una spinta ad adeguare quel curioso sdoppiamento della città (al di qua e al di là del Canale) che esiste da secoli e da secoli sembra averne retto le sorti civili e politiche, oltre ad averne caratterizzato pesantemente la forma. Accanto alla conferma di comportamenti tradizionali e di modi d'uso delle aree consolidati nel tempo, possiamo cogliere alcuni significativi elementi di novità in una diversa formulazione (accentuata da qualche presenza emblematica) di questa simmetria d'immagini e di destinazioni.
Già altri hanno ricondotto questa attività di rinnovamento edilizio delle aree centrali urbane al lungo dogado di Leonardo Loredan (1501-1521), prima che a quello - di cui spesso si è parlato a proposito di abbellimento urbano - di Andrea Gritti (61). Un'attività che in qualche modo ne fonda e precorre i programmi ma che, al di là della personalità dei due dogi, si direbbe riconducibile a scelte di lungo periodo, sia pur maturate soprattutto nei tre decenni oggetto di questo studio, tra l'altro recepite, anzi poste in essere, anche da alcuni dei successori (Francesco Donà, Nicolò da Ponte, Pasquale Cicogna).
Prendiamo in considerazione l'insieme di piazze che si articola intorno al bacino di San Marco. Alla fine del Quattrocento, il luogo era ancora ingombro di viti, di alberi, di erbacce, di qualche bottega di tagliapietra; v'era chi andava "licentiosamente a far sporcitie et deposito de scouace", tanto che pochi anni dopo il senato ritiene necessario incaricare mastro Giorgio Spavento, ingegnere e proto della procuratoria di San Marco, di sgomberare la Piazza (62). Il campanile medioevale, perno visivo nel sistema di luoghi aperti d'uso pubblico, è quasi una "toraza" - come la definisce il Sanudo - che con la pesante "marangona" scandisce le ore del tempo civile per l'intera città; notifica al popolo l'inizio e la fine del lavoro, eventi tragici, o buone novelle (63). Da secoli, all'intorno del campanile s'organizzano attività minute; banchi e stazi in legno sono accostati ai suoi piedi e ne coprono la base, cosicché non esistono immagini nelle quali risulti libero il suo innesto a terra (64); sappiamo che durante il Cinquecento esso costituisce anche un punto d'appoggio per lo studio umanistico a Venezia (della filosofia, della teologia, della matematica) (65). Colpito più volte da calamità naturali ed artificiali nella torre campanaria, fu danneggiato in modo irreparabile da una saetta il 15 agosto 1489; doveva esserci qualche esitazione sui modi del ripristino, se il non finito alla sommità, che resta a lungo coperta alla meglio da un tetto provvisorio di tavole, è ancora registrato da Jacopo de' Barbari nel 1500; ma sappiamo che la sua cuspide fu interamente rinnovata nella forma e nel sistema costruttivo tra il maggio 1511 e il giugno 1513, ad opera dell'allora proto dei procuratori de supra, Pietro Bon. L'angelo di rame dorato sarà posto in opera il 6 luglio dello stesso anno (66).
Lì accanto la Basilica, simbolo evocativo della storia antica della città e dell'autonomia della Repubblica, doveva invece essere mantenuta, restaurata spesso nella ricca decorazione musiva o nell'ornamento marmoreo, ma non modificata (67). Una chiesa che, come accade in quasi tutte le grandi città mercantili, è ancora un teatro magnificente di traffici profani, poiché assiste alla divulgazione politica, alle ragioni diplomatiche, a riti e celebrazioni di vittorie, a litigi tra i mercanti. Gli spazi "laici" ad essa confinanti, in prossimità della porta principale, contigui ai portici di palazzo Ducale e fino alle due colonne, sono particolarmente ambiti da venditori occasionali e vagabondi che vi si istallano con le loro cose, con la cesta delle uova, o con le casse di verdura, con i salami o i polli appesi, o con i banchi di stracci, o dai "cavadenti" che espongono i loro attrezzi sanitari; qui sono stati "fatti su" (e non solo in occasione della fiera annuale della Sensa) qualche casupola, stazi d'erbe e di frutta, una bottega di tagliapietra, dei cancelli di notai, depositi d'immondizie, una latrina; v'è perfino stato piantato qualche albero... Per quasi tutto il secolo si susseguono martellanti i provvedimenti del senato, del maggior consiglio, dei procuratori de supra, del consiglio dei X, per cercare di sgombrare l'area, per liberare quello che soleva essere per Venezia lo spettacolo più bello "per sito e qualità". Nel 1574, per ricevere degnamente il re cristianissimo di Francia e di Polonia, appare ancora necessario e opportuno eliminare la vendita del pane che, cominciata per concessione provvisoria in seguito all'incendio della Panetteria, continua a "deturpare" la Piazza (68).
In un contesto così vario, l'intervento del parziale rifacimento e della sopraelevazione delle Procuratie bizantine di San Marco, con la lunga serie di portici ad arco, è particolarmente significativo delle modalità d'innovazione. Nella veduta del de' Barbari, esse compaiono ancora con due soli ordini di arcate. Senza stravolgere il secolare rapporto tra botteghe e magazzini e Piazza ad essi prospiciente, che quel portico sottende, il nuovo edificio lo ripropone anzi con forza tutt'intorno, in forma continua e paratattica. Conseguente al fuoco del febbraio 1512, costituisce di fatto il pretesto più importante della prima metà del secolo per "butar abasso il restante, e poi fabricar tutto de novo", come dice il Sanudo (69); di fatto un'occasione straordinaria per un ridisegno complessivo degli accessi alla Piazza per via di terra, oltre che per un incremento sostanziale dei locali disponibili. Come già altri hanno osservato, il nuovo complesso modifica solo in modo marginale le partizioni di facciata e il linguaggio architettonico degli elementi che lo componevano prima del rifacimento; ma se per un verso ribadisce, con l'uniformità che ne caratterizza la lunghissima facciata, l'idea forte di uno spazio urbano progettato e dei suoi riferimenti a Bisanzio, per altro introduce straordinarie invenzioni d'impianto. Molti nomi sono stati fatti, come possibili responsabili dell'esecuzione (Celestro toscano, Guglielmo de' Grigi, Pietro Bon, Pietro Lombardo, perfino il Codussi) e forse nessuno di essi è da escludere del tutto, ma è probabile che il raddoppio del corpo di fabbrica si debba, a San Marco come nelle fabbriche realtine, alla mano del proto al sale Antonio Abbondi (70). La scelta distributiva contraddistingue l'organizzazione degli spazi chiusi e degli accessi e pone, e con forza, il problema della "convivenza" di destinazioni diverse nello stesso manufatto edilizio e di una relativa indifferenza per le partizioni interne, o per la loro variazione nel tempo, a cominciare già dai tempi lunghi della costruzione (71).
Contemporaneamente, suggerisce un'articolazione degli spazi collettivi di sosta e di percorso, di rappresentanza e di servizio, di accesso acqueo o pedonale, più netta di quella preesistente. La nuova fabbrica pare cioè più sensibile della precedente alla specifica localizzazione nella trama viaria, rispetto agli innesti acquei circostanti. Il lungo manufatto è così un filtro che permette, da un lato, di giungere in Piazza da campo Rusolo e dalle calli retrostanti, attraverso tre ponti paralleli, senza interrompere la continuità della facciata; dall'altro, di utilizzare per lo sbarco il rio delle Procuratie. Esso consente inoltre di trasferire sul retro dell'edificio una serie di attività (l'osteria del Cavalletto, in futuro l'Ospizio Orseolo) considerate non compatibili con il decoro della Piazza. Avvia cioè quel processo di sgombero, di svuotamento che solo alla fine del secolo potrà dirsi davvero ultimato.
Successivamente, il "flessibile canovaccio" su cui si muove Jacopo Tatti comincia con il mutare l'allineamento del lato destro della Piazza, prevedendo la demolizione del duecentesco Ospizio Orseolo (realizzata poi solo alla fine del secolo) per far posto alle nuove Procuratie. Ma si specifica soprattutto con la progettazione della Libreria, arretrata rispetto al filo delle botteghe preesistenti e di cui la difficile soluzione del "cantonale" segna i due nuovi allineamenti della Piazza e della Piazzetta. L'isolamento del campanile, divenuto il vero e proprio perno della nuova struttura, sottolinea l'articolazione tra spazi urbani funzionalmente e formalmente legati, contigui e separati, connessi ma aperti e interamente ridisegnati nel fronte verso la laguna. La pluridecennale e contrastata eliminazione di tutto ciò che era ritenuto non decoroso, e comunque non circoscrivibile in un edificio, ora si impone. È un progetto che si fa nel tempo, come segnala Tafuri, quando analizza le possibili fasi del piano sansoviniano; in cui altri tecnici si sono inseriti a distanza di anni (e in modo conflittuale); in cui - ciò nonostante il risultato vincente sarà quello di una congruenza considerevole con le immagini stabilizzate (72).
Nel 1536, il luogo del pubblico erario è ancora un edificio vetusto, posto sul fronte del Canal Grande e di lì visibile al punto da costituirne un tratto importante di facciata; esso è ritenuto facile preda di furti o d'incendi; la sua ricostruzione è stata decisa e avviata nel 1539, in seguito ad un accordo con la procuratia de supra per incorporare nella nuova struttura le molte botteghe di formaggio e di salumi che vi si trovavano e che costituivano un ostacolo all'ingresso fronte laguna. Al terzo piano, variante in corso d'opera dettata da esigenze di spazio e dalla necessità di ovviare alla calura interna ritenuta insopportabile, si dette mano quasi vent'anni dopo, nel 1558 (73). Dunque, una scelta di novità radicale, alla definizione della quale tuttavia si è giunti per gradi. Il che significa che per tutto il XV secolo e durante il primo cinquantennio di quello successivo, la riva degli Schiavoni su cui la fabbrica affaccia (dal ponte della Paglia alla Pescheria) continua a caratterizzarsi come un vasto spazio aperto, affollato e di fatto disponibile ad usi molteplici, come segnalano le rappresentazioni pittoriche.
Un po' più in là, aveva sede il grande deposito pubblico delle farine. Nato in tempi lontani, nel corso del Cinquecento il fondaco di San Marco era analogo a quello realtino nei caratteri distributivi, nelle dimensioni e nella forma; luogo di destinazione protetta e punto consuetudinario di riferimento, condizionò certamente a lungo l'uso, oltre che l'aspetto, delle rive prospicienti. Una facciata quadripartita, severissima, di nudi mattoni, con poche aperture, eretta dinanzi a corpi di fabbrica perpendicolari e profondi, separati (e serviti) da calli ristrette, cui s'accedeva da sottoportici altissimi, con un continuo viavai di sacchi pesanti e di carichi voluminosi.
Lungo il bacino, compresi tra il fondaco e l'antica Zecca e, voltato l'angolo della Piazzetta, verso il campanile, si succedevano in modo abbastanza confuso una pescheria, alcune botteghe di casaroli, una beccheria, una scorzeria, una panetteria, la vendita delle cipolle, di vivande cotte, di cose salate, alcune taverne, con soprastanti osterie. E fino agli anni Sessanta del Cinquecento, tutti questi dovevano essere ancora a San Marco (come del resto a Rialto) mercati particolari, i cui confini erano andati precisandosi solo parzialmente, più nelle intenzioni delle magistrature che nella realtà quotidiana. È ciò che appare nei documenti che li riguardano: prima che le fabbriche sansoviniane giungessero a condizionarne la forma, l'organizzazione, il fronte sull'acqua, cioè a precisarne architettonicamente i limiti, era soprattutto una serie di punti consuetudinari di riferimento che ne definiva lo spazio fisico. Il tratto tra le due colonne era cioè un terreno di riserva predisposto ad accogliere gli ortolani forestieri provenienti da Sant'Erasmo, da Mazzorbo, da Malamocco, da Chioggia, dal Lido, dalla Giudecca con i loro banchi e le loro ceste, accanto al luogo dove si fa giustizia e a quello dove si gioca a dadi o alla "zara", o dove si orina. Proprio la scarsa compiutezza formale, dicibile solo in segni, tracce, confini, opportunità di ripavimentazione, aveva consentito di osservare le concessioni della Signoria. Insomma, una storia di spazi urbani i cui "limiti" per molti decenni non sono stati certo soltanto architettonici.
Le oscillanti risposte dei procuratori de supra a contrasti, abusi, invadenza degli altrui diritti paiono a lungo guidate dalla certezza dei vantaggi di strutture precarie in un mercato necessariamente elastico, sensibile a fattori esterni, al clima, alla temperatura, alle stagioni (74).
Quali sono i processi di trasformazione in atto nel frattempo nell'isola di Rialto? Da entrambi i lati del ponte, in aree mercantili poco edificate, coesistevano in successione il sale, gli olii, le erbe, i pesci, le carni. Ad un'estremità, la banchina terminava con il fondaco delle farine: un immobile vecchissimo, cui perfino le sistemazioni stradali dell'area sembravano essere riconducibili. Sappiamo che esso fu oggetto di reiterate opere di restauro "dentro" e "fuori", senza modifiche radicali, per almeno due secoli. Un impianto massiccio, chiuso, severo, la cui sagoma, nella tela del Carpaccio come nell'incisione del de' Barbari, dominava la facciata della riva del Vino. Dall'altra parte, quell'insieme di tre corpi accostati e di diversa altezza, posto in evidenza nella stessa veduta, è l'unico fragile elemento di definizione architettonica dello spazio mercantile lungo il Canal Grande, prima della sua sostituzione con il palazzo dei Camerlenghi (75).
Anche in questo caso, la ricostruzione dell'area centrale intorno a San Giacomo, cioè delle Fabbriche vecchie realtine dopo l'incendio del 1514, costituisce un'occasione straordinaria per mettere in atto quella separazione permeabile che le magistrature perseguivano da almeno un secolo, tra piazza centrale dei mercanti e dell'alta finanza e campi e rive dei mercati alimentari (Rialto Nuovo, Erbaria, Pescheria). A Rialto il nuovo mercato cinquecentesco è infatti un insieme di luoghi edificati e non, diversamente caratterizzati nell'uso e nella forma, quindi separati, ma concatenati grazie ad archi, passaggi pensili, portici, perché facenti parte dello stesso sistema visivo e d'attività. Qui gli edifici della Drapperia e dei banchi sono differenti dalle Procuratie vecchie nelle finiture, nei dettagli, nei materiali di facciata: un obiettivo di solida semplicità sembra essere stato il criterio architettonico base voluto dai provveditori al sale e seguito dal loro proto, lo Scarpagnino, nell'opera di ripristino. Ma il suo progetto, di un doppio lungo corpo di fabbrica con calle interna, che gira intorno alla piazza dell'antica chiesa dei mercanti, è probabilmente frutto di un ripensamento delle modalità antiche d'insediamento lungo le rive veneziane, più che di una colta reinterpretazione dell'edificio concentrico disegnato da Fra Giocondo per il foro "greco" di Rialto. Sicuramente è molto simile al manufatto marciano dal punto di vista tipologico. Anche qui è presente uno sforzo di ridefinizione geometrica dello spazio. Geometria approssimativa, certo, ma relativamente nuova per Venezia e, forse, la massima accettabile data l'importanza attribuita agli interessi consolidati, ai meccanismi finanziari e alle consuetudini; la massima compatibile con i necessari margini di flessibilità delle funzioni burocratiche e dei luoghi mercantili (76).
Dopo qualche decennio (in modo ancor più definito che a San Marco), le fabbriche sansoviniane vengono a concludere nello spazio e nel tempo un lungo processo di ricostruzione: esse coprono un'area baricentrica dell'isola rimasta inedificata lungo il Canal Grande. Ne seguono l'andamento non rettilineo, costruendone la facciata; "riempiono" un vuoto; riesumano, a distanza di alcuni anni, un proposito vecchio, quello di sostituire botteghe e stazi cadenti che ancora vi restavano. Definiscono nuovi percorsi e nuovi "limiti".
Anche qui, la perimetrazione dell'area e la "distribuzione" della nuova fabbrica operate da Jacopo non sono neutrali rispetto alle decisioni prese molti anni prima dalle magistrature competenti (o forse anzi spingono in questa direzione): si tratta di sgomberare l'area della Pescheria vecchia dagli stazi precari e poco decorosi per l'immagine di Rialto dal Canale, a partire da ciò che in quei luoghi la Signoria aveva da poco ricostruito. Dunque un terreno disponibile vasto, ma lungo e stretto tra Canale e Casaria; l'opportunità di recepire - anche formalmente - i confini, assumendo (criticamente) come interlocutore i preesistenti portici dello Scarpagnino; una destinazione precisata, ma ottimizzabile con il progetto. Il Tatti si attesta sull'Erbaria, scegliendo di chiuderla ad angolo retto con le Fabbriche vecchie, in modo inoltre che il nuovo portico e quello antico, prospiciente San Giacomo (il portico cioè del Banco Giro), risultino - prima ancora che ne fosse deciso il collegamento - quasi segmenti di un medesimo percorso coperto dalla piazza al Canale. All'altro estremo, il limite adottato dal Sansovino è quello della vecchia, vecchissima loggia "aperta e libera", essendo il proto probabilmente consapevole di ciò che le scelte quattrocentesche avevano significato in termini di percorsi e di localizzazioni. Con l'ultimo arco di portico, in corrispondenza d'una delle calli del mercato perpendicolari al Canale, egli costruisce un altro accesso all'acqua. Il Sansovino si trova cioè a riempire uno spazio vuoto, contribuendo a definire le due piazze dell'Erbaria e della Casaria, senza pregiudicarne le comunicazioni trasversali; a riorganizzare gli accessi al Canal Grande, senza mettere in discussione quella separazione elementare delle attività che, da almeno un secolo, costituisce il criterio guida di qualunque intervento di riordino delle attività mercantili.
L'architetto finisce col disporre allora di un lungo appezzamento compreso tra portico del Banco Giro e loggia, disposto lungo il Canal Grande in corrispondenza di un'ansa dello stesso, che egli vuole assecondare.
L'atto successivo è quello di formare la nuova riva. È una scelta di impianto urbano, dunque, quella compiuta dal senato con la realizzazione di questa fabbrica: una scelta d'inserimento nella città, di rapporto consapevole con gli spazi inedificati dell'isola, di ridisegno dei principali percorsi urbani. Un progetto di valorizzazione complessiva dell'area, congruente con il rinnovo dei primi decenni del secolo, che il Sansovino interpreta come architetto vent'anni dopo che le prime inquietudini in questo senso si erano manifestate (77).
Ora, se spostiamo per un momento il nostro punto d'osservazione, tentando di comprendere alcuni aspetti propri delle aree d'uso collettivo di molte grandi città europee dell'età moderna, di valutare cioè quali siano nel funzionamento delle attività mercantili, culturali, di governo, condizioni e vincoli ricorrenti e come essi si modifichino, ci è parso di riscontrare proprio nel bisogno di individuare dei "limiti" una delle categorie di progetto presenti anche altrove con maggior frequenza. Stabilire fino a che punto il concetto di "limite" sia intrinseco allo spazio pubblico urbano del Rinascimento (le piazze cinquecentesche), fino a che punto sia invece suggerito, nella città lagunare, dalla natura dei luoghi e sia quindi specifico della storia degli spazi pubblici veneziani durante i circa trent'anni che stiamo esaminando, è un interrogativo cui non è facile rispondere. Non c'è dubbio che nel caso veneziano la riforma urbana ha avuto quale presupposto alcune distinzioni e non poche espulsioni. Nel caso in cui (a Rialto), trattandosi di un mercato, attività frammentarie e commiste dovevano trovare posto a pieno titolo, si sono comunque operate opportune reciproche separazioni. Mentre a San Marco, sia pure con un processo difficilissimo e di lungo periodo, sono stati accolti nuovi usi (la Biblioteca) e molti ne sono stati espulsi (78): l'Ospizio Orseolo, non poche osterie, la Beccheria, i forni del pane, le rivendite di polli e formaggi, i banchi di cambiavalute, i depositi di tagliapietra, perfino le stalle per i cavalli che, come abbiamo visto, vi si trovavano ancora all'inizio del secolo (79). Quelle attività che più difficilmente potevano essere "limitate", "inquadrate", "fabbricate" sono dunque sospinte altrove.
Per concludere: se è certamente vero che il progetto politico-economico di ristrutturazione di zone fatiscenti, di razionalizzazione della viabilità urbana e di cura per i luoghi della magnificenza statale ha visto maturare una nuova volontà realizzativa alla fine degli anni Ottanta del XVI secolo (80), è anche vero che alcuni elementi di questa strategia erano stati ampiamente predisposti a partire dai primi decenni del Cinquecento.
I difficili rapporti tra novitas e continuità, e il proverbiale realismo che contraddistingue a Venezia le decisioni di rifacimento più delicate, comportano periodi di rallentamento e momenti di accelerazione. Ma nei trent'anni compresi tra il 1495 e il 1538, la quantità di cantieri (se non sempre la loro dimensione) aperti nelle due isole centrali non è da meno di quella degli ultimi due decenni ed è certo che alcuni dei progetti di quegli anni risulteranno condizionare in modo del tutto particolare la forma dei due sistemi di piazze (81). Non solo: criteri di "coerenza" e di continuità con ciò che esiste già in loco, salutato come tradizione, risultano essere vincenti lungo tutto il secolo. La fase cominciata con la torre dell'Orologio, le Procuratie vecchie e l'abbellimento del campanile, da un lato, con il rifacimento della Drapperia e dei prospicienti portici dello Scarpagnino, dall'altro, si è alimentata della ricostruzione di alcune chiese vetuste come San Geminiano e San Giovanni Elemosinario (destinate assai più all'espletamento di feste, cerimonie, riti civili, che alla cura delle anime). È proseguita con la realizzazione dei più importanti monumenti della Venezia del Cinquecento (la Zecca, la Loggetta, la Libreria, da un lato; il palazzo dei Camerlenghi, le Fabbriche nuove, dall'altro). È giunta ad influire pesantemente anche sui grandi manufatti di fine secolo (le Procuratie nuove, le Prigioni nell'area marciana, il Ponte ad un arco in pietra e il suo prolungamento nelle case di San Bartolomeo nell'area realtina) (82). Tra tutte queste opere, nuove o rimaneggiate, sono soprattutto i modi di dividere e comporre il vuoto aperto sull'acqua, da sempre significativi e del tutto caratteristici di Venezia, a modificarne la struttura urbana; essi sembrano non solo salvare temi urbanistici tardoromani, ma svilupparli a fondo, fino poi ad esprimerli con mezzi che sono divenuti di fatto sempre più lontani dalla cultura delle origini (83).
A Venezia si hanno notizie documentarie dell'esistenza di banchi, designati come tabulae cambii o come banchi de scripta, dalla prima metà del Duecento; essi hanno la loro sede sotto i portici della piazza di San Giacomo a Rialto ("sub porticu cambii") o anche, in numero minore, ai piedi del campanile di San Marco e di palazzo Ducale (84). Fino ai primi anni del Cinquecento la situazione non è molto cambiata. È noto infatti che già dal XIII secolo i grandi mercanti veneziani e stranieri tengono un proprio conto presso una delle tavole di scritta esistenti in città.
Ed è facilmente comprensibile che il servizio si sia localizzato negli stessi luoghi del mercato, cioè nelle due piazze al di qua e al di là del Canal Grande. In entrambe le aree hanno giocato un ruolo importante i caratteri del sito e le relazioni con la struttura organizzata delle attività commerciali. Nell'un caso e nell'altro, con ovvia prevalenza a Rialto, ciò che in passato pare essere stato decisivo è il peso dell'isola in termini di incroci obbligati e di relazioni urbane; per contro, risulta quasi impossibile l'identificazione di una sede appropriata all'interno di manufatti edilizi rappresentativi. Che poi per quasi due secoli il sistema bancario abbia continuato a rimanere nelle mani di poche grandi famiglie dell'aristocrazia veneziana è stato più volte rilevato dalla storiografia economica; è stato invece più raramente messo in luce il fatto che esso fosse organizzato su banchetti, o stazi precari, o modeste tavole di legno, ubicate le une accanto alle altre, nel cuore stesso dei due centri mercantili.
La fondamentale importanza di un luogo fisico, in cui si vede ciò che accade (se non materialmente la ricchezza accumulata), si sentono i mormorii della gente, si colgono gli atteggiamenti, è del resto confermata nei momenti di crisi o di pericolo per l'uno o per l'altro dei banchi privati: così la folla dei creditori accorre nei pressi della chiesa di San Giacomo per sapere, o per trovare rassicurazioni, o per ritirare i propri depositi in extremis, prima dell'orario di chiusura, e ciò si verifica anche tra Quattro e Cinquecento, negli anni "bui" descritti dal Priuli nei suoi Diarii (85); d'altro canto, le immediate ripercussioni di un fallimento non si misurano soltanto sulle fortune private ma, in modo ben più clamoroso per la collettività, in fontego e sul regime dei prezzi del pane (86).
Perfino quella parte dell'attività bancaria storicamente concessa agli Ebrei d'origine askenazita, che consiste nell'effettuare prestiti su pegno, pur essendo stata rigorosamente limitata nel tempo e nello spazio e per secoli confinata in terraferma, tenuta fuori cioè dalla città lagunare, vede la sua fase finale effettuarsi anch'essa negli stessi luoghi, sotto gli stessi occhi. Alla vendita all'incanto dei pegni non riscattati è riservata infatti una delle volte realtine.
Ma è nel corso dei primi decenni del XVI secolo, in un periodo che abbiamo visto essere di ridisegno complessivo della geografia urbana secondo nuove strategie di localizzazione e mutate gerarchie, che anche il sistema bancario si riorganizza in modo significativo nella città. Sappiamo ormai che in questa fase l'isola realtina, oltre che come luogo del mercato alimentare, si andava confermando come il centro del mercato internazionale (87). Se le botteghe dei cambiavalute prima, i banchi privati poi avevano per secoli identificato qui la sede principale della transazione finanziaria (88), essi continuano anche ora a rimanere simili alla modesta tavola di legno dipinta dal Carpaccio (89), sulla quale è importante esibire le "prove" di una solidità non sempre certa, cioè il denaro in contanti. In fondo, la loro precarietà fisica è congruente con la loro instabilità economica.
Costituendo la ragione stessa di vita o di decadenza di alcune grandi famiglie, la cui disponibilità di ricchezze è o meno in grado di tranquillizzare, di tacitare il "rumore" della folla, ma costituendo anche un presupposto dell'enorme prestigio internazionale della Repubblica, i banchi sono visti come un segno manifesto, a Rialto, del benessere o delle difficoltà economiche dello Stato e dei privati (90): la notizia di un fallimento è per i cittadini "pegior nuova" della presa di Brescia (91). Dotati spesso di vita breve, o capaci di improvvise rinascite, è proprio la loro fragilità che, ponendo problemi di mediazione tra interessi contrastanti, contribuirà più tardi, a oltre duecento anni dalla prima proposta, alla costituzione del pubblico Banco Giro (92).
Nei primi anni del secolo, il campo di San Giacomo, intorno al quale, pur nel disordine delle funzioni, sono ancora localizzate "a comodo di ciascun negoziante di questa piazza" (93) le attività dei Pisani, Lippomani, Cappello, Garzoni, Priuli, Augustin, Vendramin, sembra sempre più diventare garante della vicinanza e, contemporaneamente, di un'assoluta separazione tra attività mercantile e bancaria nell'isola; è, ad un tempo, luogo fisico importante perché il meccanismo funzioni e sopravviva nella città. Perfino la chiesa, l'antico tempio delle origini diviene un riferimento per la gestione bancaria: luogo profano di messe propiziatrici o di esasperate assemblee di creditori. Per questo il ripristino dei banchi, dopo l'incendio del 1514, fu ritenuto assolutamente necessario ed urgente; per questo si era richiesto l'invio immediato di marangoni, per la costruzione di un riparo provvisorio a ridosso di San Giacomo e nella calle dei Naranzeri; per questo, i banchi compaiono come funzione dominante nella piazza ricostruita, cioè nel ridisegnato luogo d'incontro dei mercanti. Forse anche memoria inconsapevole degli stazi localizzati sotto i portici nei fori degli antichi (94), i nuovi banchi sono di nuovo un'attività economicamente tra le più importanti. Sono una combinazione, cioè, d'usi tradizionali a Venezia e d'analogie con modelli vitruviani, sia pur filtrata attraverso altri esempi di aree urbane e d'architetture recenti (95). Ospitati sì in piccoli locali all'interno di un complesso edilizio a destinazione mista, ma dotati d'una configurazione d'insieme che è quasi divenuta un modello europeo. Ricordano proprio il portico realtino quei viaggiatori che descrivono ammirati le "borse" di Anversa, di Londra, di Amsterdam, di Siviglia...
In piazza San Marco invece, che nel corso degli stessi decenni vede con le nuove fabbriche (la Libreria, la Loggetta, le Procuratie) modificarsi gradualmente le destinazioni d'uso ritenute "compatibili", i banchi a poco a poco scompaiono del tutto. Sono parte di quelle attività di vendita che il senato ritiene non più congruenti con il prestigio di un centro spirituale e luogo di governo, da allontanare quindi dal bacino marciano. Più semplicemente corrispondono a quegli obiettivi, che già si è detto alcuni magistrati ritengono evidentemente perseguibili, di un certo grado di zonizzazione funzionale nelle aree centrali della città.
Nella strategia urbana generale già analizzata, quella cioè di separare progressivamente le destinazioni d'uso mercantili da quelle di governo e di individuare un certo numero di localizzazioni privilegiate, entrano anche i banchi di prestito. Al contrario di quanto avviene altrove in Italia, Venezia è infatti uno dei pochi casi (se non l'unico) in cui il monte di pietà non vincerà mai la competizione con i banchi ebraici (che tra il 1480 e il 1490 si erano diffusi così rapidamente e in modo relativamente omogeneo nel Veneto di Terraferma) (96). A spiegare questa scelta, se la si vuole considerare sui tempi lunghi, c'è da un lato la tradizionale diffidenza dei Veneziani nei riguardi delle opere pie; dall'altro, una forma di cooperazione, quasi di solidarietà, che si era stabilita a questo fine tra governo e comunità ebraica da oltre due secoli. Ma, a giustificare l'opzione, c'è il fatto che dopo tutto gli Ebrei garantivano prestiti rapidi e più versatili. E forse c'è anche l'ambigua questione della loro segregazione fisica e sociale nello spazio urbano. Dopo un lungo, anzi lunghissimo periodo di provvedimenti contraddittori circa la presenza ebraica a Venezia, il senato aveva finito per limitarne la legittimità, non tanto nell'uso degli spazi urbani, quanto nel tempo: aveva cioè impedito una permanenza continuativa dei titolari dei banchi, autorizzandovi soltanto soste di non più di 15 giorni, ad intervalli di almeno 4 mesi, e dal 1496 addirittura una sola volta all'anno (97). Era stata una vera e propria espulsione, durata circa un secolo, non già del servizio, ma di chi lo svolgeva, che aveva corrisposto ad una fase di maggior floridezza economica della Signoria. Le banche avevano finito per insediarsi nella fortezza di Mestre, gli usurai per abitare in Terraferma, a Rialto continuavano però ad arrivare i pegni non riscattati per la vendita all'incanto. Un filo sottile, ma resistente, che la saggezza dei mercanti veneziani del primo Cinquecento non vuole certo tagliare.
Così, durante e dopo la crisi di Cambrai, i banchi costituiscono proprio l'istituzione che modifica radicalmente, o addirittura capovolge, i rapporti della città con la "nazione giudaica". È certo che sulla base di reiterate concessioni fatte in un periodo di bisogni straordinari e di alcune deroghe ai primitivi divieti (98), essi giustificano agli occhi dei Veneziani l'iniziale accettazione e il successivo radicamento degli Ebrei in città (99). Del resto, che il prestito su carta, talvolta per somme importanti di denaro, ad un tasso abbastanza elevato e di media o lunga durata, o più frequentemente su pegno e a breve scadenza, fosse di enorme importanza in una città mercantile, era un fatto assodato. Utilizzato contemporaneamente da chi costruiva sui pochi oggetti posseduti le proprie possibilità di sopravvivenza e da chi invece necessitava di somme cospicue per i propri investimenti, diventa centrale in una fase di maggior precarietà finanziaria, in cui il mercato si regge più che mai sulla compresenza nello stesso luogo di operatori così diversi tra loro.
La piazza di Rialto è in questo senso condizionante. Non senza qualche incertezza, non senza il manifestarsi di contrasti circa l'opportunità di affidare il servizio di prestito e le relative attrezzature a una comunità di stranieri, negli anni Venti del Cinquecento la Repubblica opta per disciplinarne la funzione e per consentire che la città si adegui a questo fine. La scelta consapevole, compiuta con il consenso del doge Andrea Gritti, dal consiglio dei X e da qualche senatore di prestigio come Antonio Grimani nel 1523 si muove in questa direzione: di fronte all'esitazione sulla via da seguire, egli ricorda con enfasi, in seduta pubblica, che gli Ebrei sono divenuti assolutamente necessari ai "poveri" della città (100). In realtà l'operazione è più vasta e più complessa di quanto dicano le sue parole, di una semplice accettazione cioè dello stato di fatto. Trasformare il prestito in struttura assistenziale, sostituendolo ad altre iniziative umanitarie, significa riconoscergli un ruolo di fattore d'equilibrio socio-economico, di servizio fondamentale reso ai ceti meno abbienti, ma anche alla Signoria e ai ricchi mercanti. Il prestito su pegno è teoricamente destinato ai poveri, infatti, perché concesso ad un tasso d'interesse contenuto; in realtà anche i cittadini benestanti ne facevano da sempre un uso frequente. Il compito è sì delegato a stranieri, ma regolamentato nelle clausole, negli orari d'apertura estivi o invernali, nel tipo di merci impegnabili, nelle relazioni con l'attività che essi continuano a svolgere in Terraferma, nelle modalità contrattuali da parte di magistrature deputate: di fatto è una delle attrezzature pubbliche (anche quando delegate a privati) di un grande mercato locale e internazionale (101).
L'istituto è circoscritto nella sua localizzazione, ma aperto. Per questo, dopo la nascita del Ghetto, è capace di attrarre nel quartiere chiuso di Cannaregio larghi strati di popolo; è controllato direttamente dallo Stato ed è quindi uno dei principali strumenti per tener gli Ebrei legati a Venezia, filtrandone l'isolamento fisico, con reciproco vantaggio (102). Costituisce, come dicono gli inquisitori, una "condizione" per la stipula di tutti gli altri accordi. Paradossalmente, e forse con gradi di consapevolezza diversi da parte di alcuni dei proponenti, con la scelta sofferta del rifiuto del monte di pietà, il consiglio dei X aveva fornito un'occasione importante e di lungo periodo di contatto e di permeabilità tra strati di popolazione che in quella fase dichiarava ancora di voler tenere separati. Nelle piazze di quasi tutte le città grandi e piccole del Dominio, era stata realizzata tra Quattro e Cinquecento un'apposita fabbrica per il monte di pietà: un manufatto rappresentativo che talvolta vi aveva costituito anzi un espediente per il rinnovo edilizio dei luoghi centrali di sosta e di percorso (103). Nella capitale invece la Serenissima opta per un atteggiamento conservativo circa le attività, i comportamenti, le localizzazioni. Essa finisce cioè per utilizzare lo stesso prestito ebraico come struttura d'assistenza, non già sostituendolo, ma includendolo nel proprio sistema finanziario anche dal punto di vista della distribuzione delle attrezzature cittadine.
Anche i banchi ebraici, come quelli cristiani, sono soggetti a fallimenti e a conseguenti piccole emigrazioni interne all'area (104). Nella prima metà del secolo, i banchi attivi in Ghetto erano tre (il Banco Rosso, il Verde, il Nero), ma i banchieri potevano dare ad altri la concessione di prestito, e sicuramente altri sportelli si erano aperti qua e là, tutti prospicienti il campo del Ghetto nuovo, ospitati in una o due stanze, stretti tra botteghe e case d'abitazione. Erano siti in tre posizioni strategiche: il primo, lungo il canale di San Girolamo, in prossimità dell'omonimo ponte d'accesso al campo stesso; il secondo, accanto alla Scuola tedesca; il terzo, nei pressi del ponte degli Agudi.
Anche i Cristiani vi facevano investimenti cospicui, traendone vantaggio, ma restando indenni dall'accusa di essere usurai. Nel 1565 i banchi localizzati intorno al campo erano divenuti 5, ma il consiglio degli Ebrei presenta un elenco di 11 società che avevano prestato denaro allo Stato (105).
Quest'attività bancaria, che avrebbe potuto in prima istanza essere in sé redditizia, era divenuta per gli Ebrei un impegno fiscale; si traduce a poco a poco nell'obbligo assoluto per la minoranza giudaica di mantenere i banchi e si giustifica con il fatto che il commercio degli oggetti usati che essa praticava non poteva contribuire alle entrate doganali come le nuove merci. È in definitiva il prezzo che gli Ebrei sono tenuti a pagare per ottenere il rinnovo della condotta e della loro permanenza in laguna.
Il risultato - condizionante sia l'organizzazione economica che la struttura urbana - è che nella prima metà del XVI secolo esistono a Venezia due nuclei riconoscibili di attività bancaria, i quali saranno poi dominati da due sistemi di controllo pubblico: quello della piazza di Rialto e il centro di prestito su pegno in Ghetto (106).
I due poli qualificano entrambi, dunque, in modo determinante una piazza cittadina. Accanto a quelli privati che sopravvivono, delle grandi famiglie nobili veneziane (Priuli, Lippomano, Pisani, Soranzo) a Rialto e di quelle ebraiche più ricche (quondam Anselmo dal Banco, Luzzatto, Calimani) a Cannaregio (nella cui ristretta cerchia ruotano le assegnazioni dei tre banchi principali), sono proprio i due sistemi di cui si è detto a sostituire interamente l'istituzione di carità altrove voluta dagli ordini mendicanti e da una classe dominante fortemente conservatrice (107). Nati per tenere al sicuro denaro o ricchezze, fornendo tutte le possibili garanzie, nell'uno e nell'altro caso interagiscono con l'uso articolato degli spazi di vendita nella città e con la loro relativa specializzazione. La struttura bancaria veneziana (organizzativamente anomala rispetto a quella d'altre città) finisce insomma per identificare un rapporto di collaborazione finanziaria da parte del governo della Repubblica con i prestatori ebrei d'origine tedesca e un uso conseguente di alcuni spazi urbani per interpretarne la polarizzazione (Rialto/Ghetto), secondo destinazioni d'uso prevalenti, tra loro diverse, ma in qualche modo interrelate.
La distribuzione delle manifatture e delle botteghe in cui si svolge il lavoro artigiano contribuisce a disegnare il perimetro e la densità variabile delle periferie cittadine. L'impressione che danno documenti, cronache e descrizioni è che, lungo i bordi della compagine insediativa, vi sia tutto un ribollire di funzioni produttive di varia natura. La Scuola dei tessitori di seta ha sede presso l'Abbazia della Misericordia. Gli incentivi che il senato mette a punto nei suoi confronti alla fine del XV secolo non hanno i loro presupposti nelle ragioni del luogo; hanno a che fare piuttosto con quelle economiche, ma finiscono per influire sulla valorizzazione e sullo sfruttamento edilizio dell'area. L'industria tessile, per la produzione di velluti e damaschi che Venezia in passato esportava in gran quantità, comincia ad essere infatti minacciata dalla moda delle stoffe orientali e richiede provvedimenti protezionistici: così il 4 maggio 1490, un decreto proibisce l'uso dei panni d'oro, argento e seta che non siano fabbricati in città (108). Se nel 1500 la produzione comincia a dare segni di decadimento quanto a pregio artistico, lo stesso non si può ancora affermare né per le quantità prodotte, né per la mano d'opera impiegata, né per il profitto che esse garantiscono.
Dura più a lungo la floridezza dell'Arte della lana, organizzata in più Scuole sparse nella città. Il centro ha sede in fondamenta della Croce, dove si trova anche il magistrato incaricato d'amministrare la giustizia tra gli iscritti all'Arte. Non lontano, a San Nicolò da Tolentino, c'erano le officine dei "lavadori" e nel vicino campo della Lana abitavano gli operai (in gran parte di origine tedesca). Rinomatissima all'estero, l'Arte dei tintori aveva botteghe sparse soprattutto nelle contrade estreme dei sestieri di Cannaregio, Dorsoduro e Castello (a San Geremia, a Santa Lucia, a Santa Croce, all'Angelo Raffaele, a San Giovanni in Bragora, a San Pietro di Castello). All'inizio del Cinquecento, sono ancora frequenti, e in parte coincidono con queste, anche le aree vuote incolte, ampi spazi erbosi parzialmente in via di trasformazione edilizia, utilizzati per stendere al sole (le "chiovere"): ai Biri a San Canciano, a San Giobbe, a San Girolamo (109). Sono zone quanto mai significative dell'organizzazione e delle dinamiche di una periferia manifatturiera, queste, la cui utilizzazione è incompiuta, comunque frammista (un macello, uno squero, una fornace, uno spiazzo in cui si lavora la cera o si pesta la creta, qualche casa popolare abitata dai lavoratori coinvolti nelle stesse attività e da altri artigiani); la cui toponomastica consiste in indicazioni generali di direzione, allusioni vaghe alle caratteristiche naturali, qualche denominazione di proprietà.
Altrove, l'importanza di banchine attrezzate come luogo di lavoro (per il deposito legato alle attività commerciali) è sottolineata con meticolosa sistematicità dal Sabellico: a Dorsoduro gran copia di legname da costruzione tra San Gervasio e il rio di San Basilio; dietro, nell'isola delle monache di Santo Spirito, è un'ampia stanza da navi, con le fornaci di mattoni; il pubblico deposito del sale nei nove saloni contigui verso la punta della Dogana. Nella regione "paolina" il fronte acqueo in prossimità di Rivoalto è tutto un viavai di gente affaccendata, uomini che pesano, trasportano, controllano, accatastano, pagano il dazio, contrattano; e non si occupano certo solo di prodotti da vendere al minuto, in piccole quantità, ma di volumi ingombranti: i sacchi di farina, le botti del vino, o dell'olio, le balle di lana, le pezze di seta e cotone, il ferro, il carbone. Nella regione "olivolense", in un prato prospiciente l'antichissima chiesa di Santa Giustina, si formano le ciurme scegliendo tra i molti in attesa di essere chiamati.
Sulla riva settentrionale, nei pressi di San Giovanni e Paolo, converge per fluitazione il legname, mentre nel borgo vicino entrambi i lati di una lunga calle (detta "Barbaria delle Tole") (110) sono pieni di botteghe che riducono i grossi tronchi in tavole pronte per la vendita. Lungo la riva di San Biagio i pubblici granai e i forni cuociono il pane destinato alle navi in partenza. Un lungo tratto della Giudecca, pari a 31 ettari circa, sarà oggetto di bonifica (già lo si è visto) per destinarlo alla cantieristica navale privata; il necessario presupposto è la sistemazione della nuova riva delle Zattere, che precede l'iniziativa di qualche decennio, e la conversione d'uso degli squeri che vi erano attivi (111). L'Arte degli specchi, che arricchisce l'ormai consolidata produzione vetraria nelle fornaci dell'isola di Murano, raggiunge la perfezione all'inizio del Cinquecento. Il 19 maggio 1507, i fratelli Andrea e Domenico dal Gallo presentano al consiglio dei X una supplica per poter fabbricar "spechi de vero cristalin, cosa preciosa et singular" e ottengono il relativo privilegio (112).
In un contesto dinamico di attività produttive frazionate e di interventi minuti di trasformazione fondiaria ed edilizia, dispersi in un territorio relativamente esteso, emerge - è ben noto - come area di lavoro vasta e accorpata quella dell'Arsenale. In questi anni, l'antico, gigantesco cantiere di Stato è ancora oggetto di modifiche e ampliamenti. Senza entrare in una descrizione di dettaglio delle singole operazioni compiute all'interno del recinto, descrizione che è stata peraltro ampiamente riportata in altro volume di questa stessa opera (113), non possiamo qui non richiamare l'importanza per l'intera città della svolta funzionale verificatasi a partire dall'ultimo quarto del Quattrocento. "Sopra l'Arsenal Vecchio e Nuovo, si va formando la darsena Nuovissima" ricorda puntuale il Sabellico: in base ad una delibera del senato del 1473, essa dovrà essere collegata alle altre mediante un canale, il quale però non sarà completato che nel 1516.
È particolarmente importante la vicenda di questa nuova darsena, e significativa della stagione di rinnovamento che la città sta vivendo: "nuovissimo" assume un significato (culturale, tecnico e di procedure) che va al di là di ciò che fu effettivamente costruito in quest'area; riguarda piuttosto le intenzioni, che non gli effettivi accadimenti. Il programma è quello della realizzazione di una serie di scali coperti "volti in aqua et in terra" che avrebbero dovuto dare riparo a ben settanta galere in più di quante già potevano essere ospitate: è dunque prima di tutto un'operazione di ingrandimento del cantiere. Ma è più di questo. L'opera è parte di una strategia urbana complessiva; risponde infatti all'idea che sia ormai divenuto opportuno dotare la capitale della Serenissima Repubblica di un'attrezzatura bellica permanente e dunque trasformare una parte della città sulla base di questo obiettivo. La costruzione avrebbe dovuto essere eseguita secondo una concezione spaziale e funzionale unitaria; a questo fine, si predispose un disegno e una serie di alternative di progetto (114).
La vicenda sottolinea invece e riassume, con le procedure di fatto seguite, il modo canonico di decidere delle fabbriche pubbliche a Venezia nel Cinquecento e di realizzarle. È rappresentativa di una storia di lungo periodo verificabile non solo all'interno dell'Arsenale, ma nell'intero contesto urbanizzato; comparabile con la cronaca di ciò che è avvenuto nei cantieri edilizi dei suoi più importanti manufatti pubblici. Procedere per aggregazione successiva di interventi parziali, unificati dalla loro localizzazione (in questo caso il circuito murario della Darsena artificiale), è prassi corrente in laguna. Accade così che la contiguità spaziale di alcune iniziative non è sufficiente a rendere davvero correlati atti costruttivi che si dilatano su tempi lunghi, talvolta lunghissimi, rispondendo a decisioni che si modificano di giorno in giorno, adattandosi a nuovi orientamenti e riscoperti bisogni.
Decisa l'opera nel 1473, a distanza di tre anni si sta lavorando alle fondazioni del muro di cinta settentrionale; ma il muro stesso non è ancora ultimato all'inizio del nuovo secolo. La Darsena e i suoi spazi interni restano privi di attrezzature fino alla fine degli anni Venti del Cinquecento. Si edificano poi alcuni cantieri lungo il bordo est del nuovo bacino; ma verso nord si costruisce tra gli anni Trenta e Quaranta e verso sud soltanto negli anni Sessanta. Le cosiddette "Gagiandre" risalgono al 1570. Ben 100 anni sono occorsi per realizzare un edificio non particolarmente complesso, né veramente innovativo sul piano tecnico; individuato viceversa fin dall'inizio come terreno adattabile di decisioni congiunturali, dettate magari più da intenzioni politiche, che da cambiamenti specifici nelle destinazioni d'uso.
Nel 1518, il cantiere si riapre dopo una lunga interruzione: in quel momento - dichiarano esplicitamente i provveditori - terminare i ripari coperti previsti nella Darsena è un lavoro che si giustifica con le scelte di politica sociale allora intraprese dalla Repubblica (affinché "le maistranze habino da lavorar et non siano pagate indarno") (115), assai più che con la funzionalità bellica delle costruzioni da realizzare. Ritroviamo, in definitiva, quello stesso atteggiamento che avevamo visto essere presente nelle decisioni di trasformazione delle due aree centrali; un'attitudine che i proti delle magistrature (Zuanne Celestro toscano, Bartolomeo Bon, Guglielmo de' Grigi, Giorgio Spavento, Pietro Lombardo, Antonio Abbondi, perfino Mauro Codussi o Jacopo Sansovino negli ultimi anni d'attività) hanno fatto propria, per convinzione o per saggezza. E la cosa non può stupire: sappiamo che altrove si costruiva a mano a mano che si espropriava, si demoliva per completare e perfezionare. In tutti e tre i poli in cui si è articolata la struttura dei poteri della Serenissima (quello dogale, quello del grande commercio internazionale e quello delle arti e delle tecniche) è visibile uno sforzo per "rifare" la città, timoroso però di cambiamenti improvvisi e radicali. Accettare l'opportunità, se non la necessità, delle variazioni in corso d'opera, dell'inevitabile verificarsi di sovrapposizioni ed aggiunte, dei vantaggi dell'esperienza accumulata, di una conoscenza acquisita giorno per giorno nelle pratiche quotidiane, e contrapposta all'autonomia del progetto, è la caratteristica più significativa del rinnovamento urbano di questi primi anni del secolo.
Così all'Arsenale, mentre ancora l'obiettivo di partenza sembra lontano, si lavora agli squeri d'acqua e si costruiscono nuove fonderie presso la Tana nella parte occidentale di "campagna"; si acquisisce e si ingloba nel recinto un altro appezzamento di terra, l'isolotto della Celestia, ottenuto da uno dei conventi confinanti, per produrre la polvere da sparo e ricavare dei locali di deposito; questi ultimi potranno poi sostituire quelli disponibili nelle torri dell'Arsenale Nuovissimo. E l'ampliamento non è ancora terminato quando, nel 1564, si predispone l'aggregazione ulteriore di un nuovo terreno per un altro capannone di deposito e un bacino artificiale. D'altra parte, sia pur lenta e contraddittoria, la riorganizzazione del cantiere navale rivela una tendenza alla specializzazione per parti di un complesso capace di aggregare anche i suoi annessi. E anche questo non è un episodio isolato, ma sintomo di processi riscontrabili anche altrove in città.
Obiettivi d'ordine e di controllo delle quantità e dei tempi di lavoro, problemi di rifornimento e di immagazzinaggio dei materiali (in questo caso il legname) implicano necessariamente un'organizzazione dello spazio, che qui viene strutturata su un modello individuale e secondo l'arte del maestro costruttore, anziché su quello della catena di montaggio.
L'immagine vagheggiata dell'Arsenale veneziano come elemento di un potenziale sistema di offesa e di controllo militare della città ci è fornita da Michele Sanmicheli in una sua relazione del 1535 (116). La protezione alla vista di un simile centro di sperimentazione e invenzioni tecniche, nei confronti del tessuto cittadino circostante, non con un muro di cinta (che non sarebbe bene accetto in questa fase), ma mediante canali, fu disposta nel 1539, in un clima politico internazionale che per Venezia sta cambiando rapidamente. Si trattava di presentare la fabbrica al mondo come un luogo serrato, del quale è bene cioè coltivare un'idea di relativa segretezza, ma che, contemporaneamente, si deve esibire perché è importante per l'immagine che la città vuole dare di sé. Aperto, dunque, in alcune sue parti, alla visita dei forestieri, se accompagnati da persone di fiducia: era accaduto ad esempio nel 1517, quando alcuni mercanti avevano accompagnato uno straniero di nazionalità inglese a vedere le galere e i lavori in corso (117).
Nei primi decenni del XVI secolo, accanto ad opere promosse direttamente dalla Repubblica, attraverso le sue magistrature (soprattutto i procuratori di San Marco) e gestite dai provveditori agli ospizi e luoghi pii, di recente istituzione, anche qualche privato interviene in città con iniziative di assistenza. Così, se per festeggiare la liberazione di Scutari dai Turchi, nel 1474 era stata decretata la costruzione di un ospedale intitolato a Gesù Cristo per 40 marinai vecchi, poveri e infermi, a Sant'Antonio di Castello, accade che a distanza di non molto tempo le politiche sociali si vadano articolando (ospizi, case gratuite), estendendo (nelle contrade di margine) e comprendendo un maggior numero di promotori (cittadini, commissarie di nobili, Scuole di carità) (118). Per esempio, dopo che nel 1496 giunge a Venezia la notizia del diffondersi di una malattia nuova e sconosciuta e considerata inguaribile, il "morbo gallico", un Gaetano Thiene di Vicenza nel 1522 fa aprire sulla riva delle Zattere, accanto alla punta della Dogana e ai magazzini del sale, un ospedale in cui saranno poi accolti anche gli orfani, ma inizialmente riservato appunto agli "Incurabili" colpiti dal mal francese (119). E nel 1527, presso San Giovanni e Paolo, viene realizzato, grazie al contributo di ser Bartolomeo di Marco Causidico, ser Alvise, merciaio del Leon Bianco, ser Bartolomeo Boniparte e altri benefattori, un ospedale per i derelitti (120).
La localizzazione di questi complessi non può che registrare le logiche d'espansione e di distribuzione dei valori fondiari già messe in luce nei paragrafi precedenti; anzi contribuisce a disegnare una mappa delle aree ancora periferiche tra quelle comprese nelle isole centrali, insomma conferma alcune delle tendenze in atto.
Non può essere un caso, infatti, che nella stessa zona del menzionato Ospedal del Gesù Cristo la procuratia de citra assegni anche 23 case gratuite, agendo a titolo di commissaria di Marco Michiel; a queste ne aveva aggiunte poi 10 per quella di Marco Formento, 6 di Bartolomio Compagno e altre 8 per lascito di Giovan Francesco Priuli. E proprio nella stessa area, alle scelte dei procuratori si erano affiancate ben presto quelle delle Scuole grandi della Misericordia e di San Giovanni Evangelista, oltre che di altri enti laici e religiosi (121).
Come considerare tutto questo? Un'azione esemplare e trascinatrice, o un meccanismo, peraltro consueto, di competizione tra pubblico e privato? Sta di fatto che nel 1498 il patrizio Nicolò Morosini "homo ricchissimo" fa anche lui costruire 36 case a Santa Ternita, per poi concederle "de bando" a nobili indigenti; e nel 1535 un mercante bergamasco di legnami, Bartolomeo Nordio, decide di fondare un istituto che distribuisca, per carità, pane e denaro a patrizi decaduti e fanciulle da marito (122).
Sta di fatto, soprattutto, che tra la fine del XV secolo e i primi decenni di quello successivo il ruolo che le Scuole grandi hanno assunto a Venezia come committenti di opere edilizie e di imprese artistiche impone di annoverarle tra i protagonisti nel processo di trasformazione della realtà istituzionale, sociale e di quella propriamente fisica cittadina. Di origine antichissima e presenti anche in laguna, come altrove in Europa, accanto alle corporazioni d'arti e mestieri, nella fase che stiamo considerando, le Scuole di devozione stabiliscono nuovi stretti rapporti con lo Stato repubblicano e con le sue magistrature: relazioni commisurate alle loro ricchezze, ai beni immobili e fondiari cui hanno titolo, ai capitali che sono in grado di investire in edilizia, ai prestiti offerti, nonché al numero di confratelli che ne sono membri (123). Strumento di ordine pubblico e di esteso controllo sui comportamenti collettivi, grazie alla loro composita struttura interna e al carattere eterogeneo delle loro funzioni, assumono contemporaneamente il peso di contribuenti di rilievo, di promotori straordinari, di sostenitori di un'immagine della città, della sua celebrazione e consacrazione mitologica. Diventano insomma dei potenti complessi finanziari, immobiliari e fondiari, oltre che assistenziali, culturali e di rito, i quali agiscono nel tessuto cittadino con una serie di interventi di riqualificazione viaria ed edilizia, prevalentemente nelle parti perimetrali della città. La loro importanza pare essere ampiamente riconosciuta anche dal consiglio dei X, che dal 1467 distingue le "scolae magnae" dalle altre confraternite; intende controllarne la crescita e l'esercizio del potere, prescrivendo a molte un numero massimo di membri; non a tutti gli aspiranti concede lo stesso titolo (124), ma autorizza la conduzione da parte loro di piccoli ospedali, ospizi per i vecchi o per i trovatelli o per le vedove, la costruzione di "case amore Dei" per i poveri, l'amministrazione della carità non solo a favore dei loro iscritti ma, entro certi limiti, di tutta la popolazione veneziana (125).
Ai fini della nostra analisi, va sottolineata una distribuzione abbastanza omogenea per sestiere dei loro "alberghi" e la sostanziale coincidenza temporale di una serie di interventi edilizi portati a compimento da queste istituzioni nelle proprie sedi, in particolare in aree cittadine di contorno al fulcro principale dello scambio e del potere civile e religioso.
Se questo è vero in linea di massima, le eccezioni si possono spiegare facilmente. La mancanza di una Scuola nelle contrade orientali di Castello è comprensibile, se si tiene conto che quell'area è dominata dalla presenza dell'Arsenale, cui lo Stato non guarda solo come a un complesso manifatturiero, ma come a uno strumento cardine di politica sociale, destinato a mostrare la stabilità di condizione del popolo artigiano.
Come ha dimostrato, su una base documentaria precisa, la recente analisi del Concina, la dislocazione delle Scuole grandi identifica infatti nel tessuto cittadino "un grande semicerchio", che dalle contrade sud-occidentali della città arriva a toccare quelle settentrionali. Più o meno lontani dai due centri focali di San Marco e di Rialto, i loro siti - quelli degli uffici e dei locali di riunione - definiscono un perimetro significativo ai fini di un ragionamento sul rapporto tra centro e periferia nella città di Venezia nei primi decenni del Cinquecento; un tracciato di punti d'equilibrio tra residenza patrizia e abitazioni popolari. Quando San Teodoro, antica sede della fraterna dei merciai, chiede e ottiene di essere "elevata" al rango di "magna", essa è posta sì nel cuore della città, proprio accanto alla chiesa di San Salvador, ma il sestiere di San Marco è l'unico in cui una Scuola grande ancora non esiste e il fatto avviene soltanto nel 1530, molto tardi, dunque, e per contenere la dimensione delle altre, cui non era permesso accogliere facilmente nuovi iscritti (126).
Assai più articolata è invece la geografia delle loro proprietà immobiliari, acquisite talvolta per lasciti, talaltra per investimento, dove possibile. Non sorprende che il quadro degli alloggi dati ai poveri per carità si sovrapponga alla struttura insediativa delle contrade popolari, con caratteri tipologici diversificati (casette, camere, celle, stanze in ospedaletti, corti organizzate di più appartamenti), in aggiunta a quelle concesse da istituzioni minori, dalle fraterne, commissarie, singoli patrizi. Eppure, anche in questo caso, due grandi aree periferiche (Santa Giustina e Santa Croce) emergono come zone di espansione grazie ai beni fatti propri dalle Scuole nel primo cinquantennio del secolo (127). E a Castello l'abitazione data a chi ne ha bisogno "per amor di Dio", che all'inizio del secolo sembrava imperniata su qualche commissaria e sulle iniziative della procuratia de citra, si espande e si rafforza poi soprattutto grazie alle Scuole di San Giovanni Evangelista e di San Rocco.
Va detto che la politica della Repubblica nei confronti di queste istituzioni, cui è delegato un servizio considerato importante, purché non acquisti un peso sociale ed economico eccessivo, è spesso contraddittoria. Occorre vigilare sull'aumento del numero dei soci, come su quello del patrimonio immobiliare, perché non diventino un pericolo. Qualche facilitazione, vantaggi limitati, contrasti d'opinione tra chi detiene il potere di decidere: così, se alcuni si dichiarano a favore, il nobile Malipiero sarà assolutamente contrario a concedere l'esenzione dal pagamento delle decime sulle case che la Scuola di San Rocco ha acquistato dal parroco di San Pantalon e che intende mettere a disposizione dei poveri di quella contrada (128).
In molti casi, i capitoli delle Scuole grandi veneziane hanno saputo coinvolgere nelle realizzazioni alcuni dei tecnici, degli architetti, degli artisti, incisori ed intagliatori più capaci di innovazione, tra quelli presenti in città nel torno di tempo che ci interessa; hanno dimostrato spesso una cultura raffinata accanto ad un'intelligenza pratica; hanno avviato rifacimenti di vecchie fabbriche e programmi decorativi nelle facciate, nei soffitti delle grandi sale e degli "alberghi", nelle tarsie interne; hanno aperto cantieri che destano stupore e meraviglia nei viaggiatori e nei cronisti dell'epoca. Senza entrare nel merito del linguaggio architettonico dei loro manufatti, accuratamente descritto da Ennio Concina in altro capitolo di questo stesso volume, qui non possiamo non rilevare, tuttavia, che proprio negli anni a cavallo del secolo, che sono anni di crescita, tutte le Scuole grandi veneziane si sono proposte come committenti di interventi edilizi rilevanti anche nei confronti della trama edilizia cittadina.
La Scuola grande di San Giovanni Evangelista, in particolare, è di antica istituzione, ma alla costruzione della nuova sede procede tra il 1420 e il 1498: dopo aver terminato la facciata laterale, intorno alla metà del secolo, e prima che il capitolo affidi all'ormai celebre Mauro Codussi l'incarico di progetto del difficile scalone, tra il 1478 e il 1481 (data scolpita su un architrave in pietra), essa realizza la parte che più interessa i nostri fini, cioè l'ingresso alla chiesa e alla Scuola (129). Il complesso è un manufatto architettonico articolato e di dimensioni importanti, la cui straordinaria invenzione riguarda soprattutto il rapporto con la trama viaria preesistente: con il rinnovo dell'edificio, l'architetto introduce infatti un'assoluta novità per Venezia, una vera e propria "piazza" di forma regolare e simmetrica, contornata da quattro pareti tutte della stessa altezza (130). Si tratta in realtà di un piccolo atrio d'accesso, edificato sottraendo uno slargo tranquillo alla trafficata calle del Caffetier. Lo spazio, che subito prese il nome di "campiello" San Zuanne, non viene privatizzato, ma disegnato e "costruito": un portale posto nel mezzo di una parete trasversale, un setto marmoreo scandito in modo omogeneo con le pareti laterali, con lo stesso zoccolo, le stesse paraste, lo stesso architrave, gli stessi capitelli, viene a chiudere un'area rettangolare allungata compresa tra il fianco della chiesa e la Scuola. Si riduce così la corrente di traffico che passa attraverso i due edifici, le si consente di riallargarsi poi nuovamente in calle della Laca.
A lungo la storiografia ha pensato a Pietro Lombardo, come artefice di un'architettura che è insieme un dispositivo urbano di particolare intelligenza, ma l'attribuzione non è documentabile: non basta certo a confermarla la notizia che nel 1514 lo stesso Pietro fosse "gastaldo" della confraternita. Più di recente, il linguaggio sofisticato e sicuramente conoscitore d'antichità degli elementi costruttivi ha fatto pensare che la Scuola si sia rivolta per il progetto ad un'intera bottega familiare di origine lombardesca.
Ma per tornare alle considerazioni di cui sopra, sta di fatto che un intervento grandemente innovativo, come quello di cui stiamo trattando, si localizza nella parrocchia di San Stin, cui fa capo una componente popolare pari quasi al 60% dei fedeli, comunque a ridosso delle contrade povere e densamente abitate del sestiere di Santa Croce. In prossimità della sede, il patrimonio comprende un ospedale per 6 poveri, 6 case date in uso gratuito ai cappellani o ai confratelli, altre da affittare. Ma il gruppo di alloggi più consistente che la Scuola governa, i 26 avuti in lascito da Andrea Marcello per darli in uso "amore Dei", è localizzato, come già abbiamo visto, nella contrada degli uomini di mare di San Pietro di Castello.
Non troppo lontano dalla prima, la Scuola grande di San Rocco è ubicata lungo un percorso di grande passaggio verso il vasto territorio popolare della parte centro-occidentale di Dorsoduro, dove lavorano i ceramisti, i tintori, i tessitori. Riconosciuta dal consiglio dei X nel 1478, si era poi fusa con un'altra intitolata allo stesso santo e analogamente dedita alla carità e all'assistenza in tempo di peste, insediata presso la chiesa dei Frari. I lavori di costruzione della chiesa dedicata a San Rocco, posta dietro l'abside di quella dei Frari, e di una prima "scoletta" per le riunioni dei confratelli si prolungano per un decennio, tra il 1498 e il 1508, sotto la responsabilità di Bartolomeo Bon (131). Nel 1516, lo stesso fu incaricato di costruire di fronte alla più antica "scoletta", su un terreno di proprietà degli stessi confratelli. Ma in seguito a divergenze, nel 1524, il proto fu rimosso e costretto a passare le consegne a Sante Lombardo, il quale procede senza troppe difficoltà economiche fino al 1527. Dopo le sue dimissioni, sarà il proto al sale, Antonio Abbondi, detto lo Scarpagnino, a subentrare nella direzione di un cantiere ancora aperto, non solo per quanto attiene alle opere interne, e a dirigerlo almeno fino al 1544 (132).
Come nel caso precedente, un certo numero di alloggi da dare in affitto è contiguo alla sede della confraternita. Ma il nucleo assistenziale più importante è costituito dalle 44 case in muratura che essa stessa ha costruito presso Santa Maria Maggiore, per poveri e galeotti (133).
Verso la Scuola della Misericordia gravitano le contrade manifatturiere, e in buona misura popolari, delle periferie urbane nord-occidentali. Realizzata a partire da un primo nucleo trecentesco e successivi lavori, intrapresi tra il 1411 e il 1417 su parte del chiostro dell'abbazia, vede poi compiere una serie di opere interne e la grande sala del primo piano tra il 1453 e il 1465. Tuttavia, è forse lo spirito di emulazione nei confronti delle altre confraternite a farle decidere, il 4 gennaio 1497, di intraprendere una nuova grandiosa costruzione al posto del vecchio ospizio e di una casa contigua. A sua volta, la vecchia sede sarà trasformata in ospizio, ma finirà per essere venduta ai tessitori di seta. In definitiva, nel 1534, dall'estremo occidentale della fondamenta di Santa Caterina, si raggiunge l'edificio della nuova Scuola "forte e massiccia" (134), che sembra quasi ergersi su un podio. L'architetto, Jacopo Tatti, non è neutrale nel suo disegno rispetto allo spazio urbano: il campo antistante la facciata e l'ingresso principale, lungo il canale, è sopraelevato di tre gradini rispetto alla fondamenta, rispondendo anche in questo ad un programma aulico, perché di Stato. Così del resto era stato solo pochi anni prima per le case di Corte Vecchia e per quelle, costruite nel 1505 a Castello, di Corte Nuova: date gratuitamente ai fratelli bisognosi, devono - come sempre a Venezia in questo periodo - cantare le lodi, ad un tempo, "de Dio et de la Virgine Maria et del Serenissimo Principe Misier Leonardo Lauredano et de tuto el suo glorioso Stato"; celebrare insomma la maestà divina accanto al potere temporale della Repubblica (135). Gli altri beni immobiliari della Scuola, case d'affitto, ma in prevalenza dotate di bottega, si concentrano soprattutto nella centralissima contrada di San Zulian.
La crescita fisica della Scuola di San Marco si basa sull'accordo stipulato nel 1437 dai confratelli con i domenicani del convento di San Giovanni e Paolo per l'uso di alcuni fabbricati siti in prossimità della chiesa. Su di essa si riversano le contrade centrali, tra quelle che occupano il margine cittadino prospiciente la laguna nord, aree di residenza prevalentemente manifatturiera e artigiana. La costruzione dei nuovi locali della confraternita all'inizio si realizza rapidamente sotto la direzione di Stefano e Matteo Bon, ma i lavori strutturali e attinenti all'apparato decorativo proseguono poi, anche dopo il solenne trasferimento del 1438. Vi è un continuo passaggio di mano tra i responsabili del cantiere; alcuni sono nomi noti, tra quelli dei periti veneziani della seconda metà del Quattrocento: Bartolomeo Bon, ad esempio, dopo il 1443 e Antonio Rizzo (membro della confraternita) dopo il 1475.
Nel 1480 l'impianto urbano, cioè l'affaccio sul sagrato della chiesa, dominato forse da un colonnato con tetto ligneo sporgente, e il prospetto lungo il rio dei Mendicanti, doveva essere definito. Ma la maggior parte dei lavori e la realizzazione di quella facciata decorata e scolpita che, con la sua silhouette, volutamente allude alla basilica di San Marco, è successiva al 1485. Resa possibile grazie ad un consistente finanziamento deliberato in pregadi, dopo che un drammatico incendio aveva distrutto l'edificio appena ultimato, la rifabbrica avviene ad opera del proto "murer" Gregorio di Antonio da Padova, su terreni concessi dai Domenicani, ripristinando ciò che dell'albergo e della sala terrena si era salvato dal fuoco.
Un incarico di progetto del completamento (per l'apparato decorativo e gli elementi architettonici minori) si impone; e saranno Pietro Lombardo e Giovanni Buora ad ultimare il fronte e il celebre portale. I lavori erano ancora in corso nel 1489, quando i tecnici furono sollecitati a concluderli; i costi parevano troppo onerosi e, probabilmente, eccessive le pretese dei proti; l'anno dopo, nonostante una richiesta di prestito alla Signoria, il rapporto con i Lombardo si interrompe. Sarà Moro de Martin (il Codussi), con la collaborazione iniziale di Antonio Rizzo, a liquidare i lavori precedenti e a completare, tra il 1494 e il 1495, le parti mancanti: lo scalone interno, il coronamento di facciata, il prospetto verso il rio dei Mendicanti (136). Marangoni e intagliatori furono ancora pagati per piccoli interventi di finitura fino al 1504, anche se l'immagine fornitaci da Jacopo de' Barbari è ormai quella a noi nota, di un grande campo a L (uno dei maggiori della città) "conformato" insieme con l'edificio che lo chiude ad angolo retto con la chiesa di San Giovanni e Paolo da un lato, verso il rio dei Mendicanti dall'altro. Pochi anni sono trascorsi dalla messa in opera proprio lì davanti della scultura del Colleoni (1496), che organizza e orienta i percorsi, e dalla pavimentazione della piazza. All'ampliamento dell'edificio si diede mano nel 1523; l'allungamento del fronte sul rio e alcune sue modifiche (precedenti alla ricostruzione settecentesca) sono databili intorno al 1530 (137).
Le 24 case di Corte San Marco a Dorsoduro, nei pressi di Santa Maria Maggiore, furono realizzate dalla Scuola nel 1529, per volere di Pietro Olivieri quondam Baldassarre, in un'area dove ancora esistevano spazi disponibili. Nel suo testamento, stilato quattordici anni prima, il 25 ottobre 1515, egli aveva stabilito che, con i denari rimasti alla sua morte, i commissari comperassero un terreno nel luogo che a loro sarebbe parso opportuno e vi facessero fabbricare tante case quante il suo patrimonio avrebbe permesso a quella data; fissava anche clausole d'affitto, ammontare dello stesso (non più di 5-6 ducati) e destinatari (confratelli poveri, con molti figli e di buone condizioni sociali) (138). Si tratterà di uno degli esempi più chiari di edilizia popolare "a corte", organizzati secondo un sistema modulare intorno ad un recinto chiuso assiale (139). Il complesso, dotato di elementi figurativi e costruttivi semplici e ripetuti in serie continua, da un lato consente una distribuzione di pianta ad alloggi autonomi e strettamente individuali, dall'altro dimostra una straordinaria compattezza e unità d'insieme (140).
1. Jurgen Schulz, Printed Plans and Panoramic Views of Venice, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 7, 1970, pp. 17-22; Id., Jacopo de' Barbari's View of Venice: Map Making City Views and Moralized Geography Before the ϒear 1500, "Art Bulletin", 1978, pp. 425-474.
2. Giuliana Mazzi, La cartografia per il mito: le immagini di Venezia nel '500, e André Corboz, L'immagine di Venezia nella cultura figurativa del '500, in Architettura e utopia nella Venezia del Cinquecento, catalogo della mostra, Milano 1980, rispettivamente pp. 50-58 e 63-70.
3. Ennio Concina, Venezia nell'età moderna, Venezia 1989, pp. 226-227.
4. Marin Sanudo, De magistratibus Urbis Venetae, Venetia 1515 (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 761 [= 7959>).
5. Id., Cronachetta, a cura di Rinaldo Fulin, Venezia 1880, pp. 19, 31; del manoscritto è ora disponibile anche una curata edizione critica: v. Id., De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, pp. 21, 26.
6. Daniele Barbaro, I Dieci libri dell'architettura di M. Vitruvio tradutti et commentati, Vinegia 1556, Proemio e Libro I, pp. 6, 40.
7. Lionello Puppi, La teoria artistica nel Cinquecento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 173-192.
8. Congruente con la soluzione architettonica data alle sue scelte di riedificazione nella contrada dal doge Andrea Gritti, v. Antonio Foscari - Manfredo Tafuri, L'armonia e i conflitti. La chiesa di San Francesco della Vigna nella Venezia del '500, Torino 1983, pp. 25-29.
9. Gaetano Cozzi, Storia e politica nel dibattito veneziano sulla Laguna, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti", 149, 1992, pp. 23-25.
10. A.S.V., Consiglio dei X, Misti, reg. 28, c. 181v; Consiglio dei X, Liber rubeus, 19 maggio 1505, c. 17v. Cf. Catalogo della mostra storica della laguna veneta, Venezia 1970. Riassume criticamente i passaggi salienti della vicenda G. Cozzi, Storia, p. 21.
11. Barbara Mazza, Politica lagunare di Venezia nel Cinquecento e interventi sul territorio, in Architettura e utopia nella Venezia del Cinquecento, catalogo della mostra, Milano 1980, pp. 130-142.
12. E. Concina, Venezia, p. 227.
13. Elisabeth Crouzet-Pavan, Espace, pouvoir et société a Venise à la fin du Moyen Âge, II, Roma 1992, p. 690.
14. Venezia e la peste, catalogo della mostra, Venezia 1979: in particolare Giovanni Caniato, Il lazzaretto nuovo, pp. 343-362.
15. Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, II, Trieste 19733, p. 48.
16. Donatella Calabi, Una città "seduta sul mare", ed Ead., Canali, rive, approdi, entrambi in: Storia di Venezia, Il mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, rispettivamente pp. 135-143 e 761-788.
17. Laguna, lidi, fiumi. Cinque secoli di gestione delle acque, catalogo della mostra, a cura di Maria Francesca Tiepolo, Venezia 1983.
18. Marc'Antonio Sabellico, Del sito di Venezia città [1502>, a cura di Giancarlo Meneghetti, Venezia 1985.
19. Paola Pavanini, Venezia verso la pianificazione? Bonifiche urbane nel XVI secolo, in D'une ville à l'autre. Structures matérielles et organisation de l'espace dans les villes européennes (XIIIe--XVIe siècles), a cura di Jean-Claude Maire-Vigueur, Roma 1989, pp. 485-507.
20. A.S.V., Senato Terra, reg. 4, c. 48; Bilanci generali della Repubblica di Venezia, Venezia 1903, nr. 110, p. 131; e A.S.V., Senato Terra, reg. 4, c. 107; Bilanci generali, nr. 110, pp. 133-135. Cf. Andrzej Wyrobisz, L'attività edilizia a Venezia nel XIV e XV secolo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 307-310 (pp. 307-343).
21. Achille Olivieri, Capitale mercantile e committenza nella Venezia del Sansovino, in AA.VV., Investimenti e civiltà urbana. Secoli XIII-XVIII, Atti della nona settimana di studi dell'Istituto "Francesco Datini", Prato 1977, Firenze 1989, pp. 531-569.
22. E. Concina, Venezia, pp. 105-106.
23. Egle R. Trincanato, Venezia minore, Venezia 1948, p. 35.
24. Paolo Maretto, La casa veneziana nella storia della città dalle origini all'Ottocento, Venezia 1986, pp. 159-172.
25. Pietro Casola, Viaggio a Gerusalemme [1494>, Milano 1855, p. 14.
26. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare con aggiunta di tutte le cose notabili fatte et occorse dall'anno 1580 al presente 1663, Venetia 1663, Libro VIII; Id., Cronico particolare delle cose fatte dai Veneti dal principio della città fino l'anno 1603, Venetia MDCIIII, p. 369.
27. M. Giovan Francesco Straparola da Caravaggio, Vinegia [MDL>, a cura di Giuseppe Rua, Bari 1927; Ortensio Lando, Sette libri di cataloghi a varie cose appartenenti [...>, Venezia 1552, p. 490; Longolii [Cristoforo de Longueil> Epistolarium, Lugduni 1593, lib. I, cc. 108-109.
28. Per il dato sul numero di gondole esistenti in città, cf. F. Sansovino, Venetia, p. 456; per le notazioni sui costi e sulla diffusione del mezzo, vedi M. Sanudo, Cronachetta, p. 32.
29. Alfredo Reumont, Viaggio in Italia del cav. Arnoldo di Harff di Colonia sul Reno, "Archivio Veneto", 11, 1876, p. 394 (pp. 124-146, 393-407).
30. A.S.V., Senato Terra, aprile 1509, reg. 16, c. 98.
31. Donatella Calabi, Le due piazze di San Marco e di Rialto tra eredità medioevali e volontà di rinnovo, "Annali di Architettura", nrr. 4-5, 1992-1993, pp. 190-201.
32. Marino Sanuto, I diarii, a cura di Federico Stefani et al., I-LXVIII, Venezia 1879-1903: LV, col. 435.
33. Ibid., LVII, col. 274.
34. A.S.V., Senato Terra, 2 settembre 1535, reg. 28, c. 187.
35. Manfredo Tafuri, "Sapientia di Stato" e "Atti mancati": architettura e tecnica urbana nella Venezia del '500, in Architettura e utopia nella Venezia del Cinquecento, catalogo della mostra, Milano 1980, pp. 16-39.
36. Michelangelo Muraro, The Political Interpretation of Giorgione's Frescoes on the Fondaco dei Tedeschi, "Gazette des Beaux Arts", ser. VI, 86, 1975, pp. 177-184.
37. Emmanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, I-VI, Venezia 1824-1853: IV, pp. 188-189.
38. Jacopo Morelli, Notizia d'opere di disegno, Bassano 1800, pp. 155-164.
39. A.S.V., Procuratori de Supra, 17 settembre 1590, b. 65, proc. 142, c. 49.
40. Ivi, Savi alle decime, 1537, b. 101, cond. 59.
41. Cristoforo Tentori, Della legislazione veneziana sulla preservazione della laguna. Dissertazione storico-filosofico-critica, Venezia MDCCXV, pp. 137, 142-143.
42. M. Sanudo, De origine, pp. 20-21.
43. Donatella Calabi, La direzione del nuovo Ponte di Rialto e il "negotio" degli stabili di San Bartolomeo, "Bollettino dei Civici Musei Veneziani d'Arte e di Storia", 27, 1982, nrr. 1-4, pp. 55-66.
44. M. Sanudo, Cronachetta, p. 63.
45. Tomaso Giannotti Rangone, Come il Serenissimo Doge Sebastiano Veniero e li veneziani possano viver sempre sani, Vinegia 1577, p. 7.
46. I pozzi di Venezia, a cura di Gustavo Boldrin - Giovanni Dolcetti, Venezia 1910, pp. 147, 151, 158. Alla concessione che il consiglio dei X fa agli ingegneri di scavare pozzi in città, allude ripetutamente M. Sanuto, I diarii, LVIII, aprile 1533, col. 89, e luglio 1533, col. 414. A proposito di privilegi e brevetti per la conduzione dell'acqua, v. Giuseppe Ceredi, Tre discorsi sopra il modo d'alzar acque da luoghi bassi. Per dacquar terreni. Per levar d'acque sorgenti [...>. Per Mandar l'acqua da bere alle città [...>, Parma 1567, pp. 11, 15, 33, 49, 52.
47. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 482; Donatella Calabi - Paolo Morachiello, Rialto: le fabbriche e il ponte, Torino 1987, p. 81.
48. Per il dibattito sulla forma della platea marciana, mi limito a citare lo studio più recente e documentato, quello di Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, pp. 252-272, il quale fa riferimento anche alle ipotesi formulate da Wladimir Timofiewitsch (1964), Wolfgang Lotz (1977), Deborah Howard (1980), John McAndrew (1980), Lionello Puppi (1980), oltre che da Tommaso Temanza (1778), Leopoldo Cicognara (1838-1840), Pietro Selvatico (1847), Pietro Paoletti (1893), Giulio Lorenzetti (1926), Adolfo Venturi (1938).
49. Manfredo Tafuri, Jacopo Sansovino e l'architettura del '500 a Venezia, Padova 1969; Id., "Sapientia di Stato".
50. Donatella Calabi, Un nouvel espace public, in Venise 1500, a cura di Philippe Braunstein, Paris 1993, pp. 72-94.
51. Cf. le ipotesi sviluppate circa i processi in atto tra XV e XVII secolo in alcune grandi città europee, nell'ambito del convegno internazionale Mercato e spazio urbano in Europa, XV-XVII secolo, Venezia, Fondazione Cini, 7-11 novembre 1989.
52. M. Sanudo, De origine, pp. 24-26; Pietro Paoletti, L'architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia, II, Venezia 1893; Roberto Cessi - Annibale Alberti, Rialto: l'isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934.
53. D. Calabi - P. Morachiello, Rialto, pp. 118-141, con riferimento all'enorme quantità di provvedimenti presi in materia dai provveditori al sale e dai savi ed esecutori alle acque.
54. Jacques Heers, La ville au Moyen Âge, Paris 1980.
55. D. Calabi, Canali, rive, approdi.
56. Valgano a puro titolo di pro-memoria le immagini urbane (pitture, disegni preparatori, incisioni di Gentile Bellini, Vittore Carpaccio, Jacopo de' Barbari, altri) riprodotte in AA.VV., Architettura e utopia nella Venezia del Cinquecento, catalogo della mostra, Milano 1980, o riportate in Patricia Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio. I grandi cicli narrativi, Venezia 1992.
57. A.S.V., Senato Terra, 3 novembre 1495, reg. 12, c. 115v.
58. Ivi, Procuratori de Supra, 6 gennaio 1496, b. 64, proc. 141, fasc. 1, c. 2r-v; e b. 66, proc. 141, fasc. I, cc. 6-11, e 27 settembre 1531, cc. 11v-12v.
59. Ivi, Provveditori al Sal, 9 marzo e 21 marzo 1499, reg. 12, b. 60, cc. 32v-33; 11 gennaio 1503 (m.v. 1502) Notatorio, reg. 2, b. 60, c. 53v; Leopoldo Cicognara - Antonio Diedo - Gianantonio Selva, Le fabbriche e i monumenti più cospicui di Venezia, I, Venezia 1838-1840, p. 65, tav. 17; Niccolò Erizzo, Relazione storico-artistica della Torre dell'Orologio di S. Marco in Venezia, Venezia 1866; Ettore Vio, La Torre dell'Orologio, in AA.VV., Piazza San Marco, Padova 1970, pp. 139-142; Loredana Olivato Puppi - Lionello Puppi, Mauro Codussi, Milano 1977, pp. 355-371.
60. Manfredo Tafuri, La norma e il programma: il Vitruvio di Daniele Barbaro, Milano 1987, pp. XIX ss.
61. E. Concina, Venezia, p. 47; "Renovatio Urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1985; Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani, Torino 1982.
62. A.S.V., Senato Terra, 14 marzo 1504, reg. 15, c. 2.
63. M. Sanudo, De origine, p. 25.
64. Valga per tutti la celeberrima Processione in Piazza San Marco di Gentile Bellini del 1496.
65. Martin Lowry, Il mondo di Aldo Manuzio, Roma 1986; Fernando Lepori, La scuola di Rialto, e Carlo Maccagni, Le scienze nello studio di Padova e nel Veneto, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II-III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980-1981: 3/II, pp. 539-605, e 3/III, pp. 135-171.
66. È il Sanuto a dirci che nel marzo 1512 continua alacremente "il lavoro di la cima del campanile" (M. Sanuto, I diarii, XV, col. 541); e successivamente che l'onera è stata comnletata (ibid., XVI, col. 467). Cf. anche Gregorio Gattinoni, Storie del Campanile di San Marco, Venezia 1912, e la tes. di Stefano Mariani, Vita e opere dei proti Bon, Bartolomeo e Pietro, IUAV, a.a. 1982-1983, n. 50.
67. Giovan Battista Soravia, Le chiese di Venezia, Venezia 1824; Leonardo Bressan, La Basilica di San Marco in Venezia, Venezia 1943; Otto Demus, The Church of San Marco in Venice, Washington D. C. 1960.
68. A.S.V., Senato Terra, 14 marzo 1504, c. 17; Procuratori de Supra, 21 maggio 1519, b. 4, proc. 49, fasc. 1, c. 1; Atti, reg. 124, 7 febbraio 1530 (m.v. 1529), cc. 64-65; reg. 125, 22 giugno 1537, c. 16; 13 maggio 1541, c. 95; 11 febbraio 1539 (m.v. 1538), c. 49; 29 gennaio 1543 (m.v. 1542), c. 144r-v; 9 marzo 1544, c. 177; reg. 126, 21 novembre 1546, c. 33; 12 luglio 1549, c. 105; 5 agosto 1550, c. 131; 16 giugno 1551, c. 147v; 27 agosto 1552, c. 2v, pt. I; 10 settembre 1552, c. 5, pt. I, 23 marzo 1553 (m.v. 1552), cc. 165v-I67; reg. 128, 12 novembre 1552 e 14 novembre 1552, c. 6v, pt. 1; 11 dicembre 1552, c. 10; 27 giugno 1553, cc. n.n.; reg. 129, 26 giugno 1561, c. 92r-v; 7 luglio 1562, c. 123v; reg. 131, 15 luglio 1566, c. 12v; 16 giugno 1568, c. 74v; 23 dicembre 1569, c. 114v; reg. 33, 7 luglio 1574, c. 23v; Consiglio dei X, Comuni, 22 settembre 1569, cc. 66v-67; Maggior Consiglio, Diana, Deliberazioni, giugno 1531, reg. 26, c. 138.
69. M. Sanuto, I diarii, XV, coll. 305, 541; A.S.V., Procuratori de Supra, Atti, reg. 124, 7 febbraio 1530 (m.v. 1529), cc. 64v-65.
70. Ettore Vio, Le procuratie vecchie, in AA.VV., Piazza San Marco, Padova 1970, pp. 147-149 (pp. 143-149); ma si v. anche Antonio Foscari, Il cantiere delle "Procuratie Vecchie" e Jacopo Sansovino, "Ricerche di Storia dell'Arte", 19, 1983, pp. 61-76 e Tito Talamini, Le Procuratie Vecchie a Venezia, "Parametro", 15, 1984, nr. 129, pp. 17-43, 61-62, 64.
71. A.S.V., Procuratori de Supra, Atti, reg. 124, 7 maggio 1532, cc. 133v-134.
72. Cf. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 252-272 e relative note; Deborah Howard, Jacopo Sansovino, New Haven (Conn.) 1985, pp. 10-27; Marino Zorzi, La Libreria di San Marco, Milano 1987, con ricca bibliografia.
73. D. Howard, Jacopo Sansovino, pp. 38-47 e riferimenti ai documenti dell'A.S.V.
74. Si considerino le molte delibere dei procuratori de supra prese in proposito tra il 1495 e il 1602, contenute nelle bb. 64 e 65 e in Atti, regg. 124-126: cf. D. Calabi, Le due piazze.
75. A.S.V., Senato Terra, 14 maggio 1465, reg. 5, c. 118v; Domenico Malipiero, Annali Veneti dall'anno 1457 al 1500, a cura di Francesco Longo - Agostino Sagredo, "Archivio Storico Italiano", 7, 1843-1844; M. Sanudo, De origine, p. 27; M.A. Sabellico, Del sito, p. 18; F. Sansovino, Venetia, p. 253.
76. Per la descrizione e localizzazione delle attività presenti a Rialto prima dell'incendio e per la vicenda della ricostruzione, cf. D. Calabi - P. Morachiello, Rialto, pp. 16-40 e 61-78.
77. Idd., Sansovino e le Fabbriche Nuove di Rialto, "Arte Veneta" 38, 1984, pp. 193-201.
78. Wolfgang Lotz, La trasformazione sansoviniana di Piazza San Marco e l'urbanistica del Cinquecento, in Id., Studi sull'architettura italiana del Rinascimento, Milano 1977, pp. 114-122. Vedi anche quanto si sostiene in alcuni trattati d'architettura circa l'opportunità di distinguere e separare piazze "deputate" nella città: Pietro Cataneo, I quattro primi libri di Architettura, Vinegia MDLIIII, pp. 11-12, e Vincenzo Scamozzi, L'idea dell'architettura universale, Venezia 1615, pt. I, lib. II, cap. XX, p. 164.
79. M.A. Sabellico, Del sito, pp. 28-30.
80. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, p. 244.
81. Norbert Huse - Wolfgang Wolters, Venezia e l'arte del Rinascimento 1460-1590, Venezia 1989.
82. M. Tafuri, Jacopo Sansovino; Deborah Howard, The Architectural History of Venice, London 1980, pp. 144-152; Manfredo Tafuri, Tempo veneziano e tempo del "progetto": continuità e crisi nella Venezia del Cinquecento, in Le Venezie possibili, catalogo della mostra, Milano 1985, pp. 23-33; Donatella Calabi, Antonio da Ponte e la costruzione delle Prigioni Nuove di San Marco, in L'architettura a Roma e in Italia (1580-1621), Atti del XXIII congresso di storia dell'architettura, Roma 24-26 marzo 1988, II, Roma 1989, pp. 225-232. Ead., La direzione.
83. Sergio Bettini, Venezia: nascita di una città, Milano 1978.
84. Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961.
85. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. I, a cura di Arturo Segre, 1912-1921, p. 283.
86. Mario Brunetti, Banche e banchieri veneziani nei "Diarii" di Marino Sanudo, in AA.VV., Studi in onore di Gino Luzzatto, II, Milano 1950, pp. 26-47.
87. D. Calabi - P. Morachiello, Rialto, pp. 63-65.
88. Elia Lattes, La libertà delle banche in Venezia dal secolo XIII al secolo XVII secondo i documenti inediti del R. Archivio de' Frari, Milano 1869; Francesco Ferrara, Documenti per servire alla storia dei banchi veneziani, "Archivio Veneto", 1, 1871, pp. 107-155, 332-363; Roberto Cessi, Il problema bancario a Venezia nel secolo XIV, "Atti della Regia Accademia di Torino", 52, 1916-1917, p. 786 (pp. 781-799); Frederic C. Lane, Venetian Bankers, 1496-1533: A Study in the Early Ages of Deposit Banking, "Journal of Political Economy", 14, 1937, nr. 2, pp. 187-206 (trad. it. in Id., I mercanti di Venezia, Torino 1982, pp. 219-236); Felix Gilbert, The Pope, his Banker and Venice, Cambridge (Mass.) 1980.
89. Vittore Carpaccio, La bottega del cambia-valute, particolare della Vocazione di san Matteo, 1502, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia.
90. D. Malipiero, Annali, p. 683; M. Sanuto, I diarii, XVII, col. 468; G. Priuli, I diarii, pp. 122-125, 283, 286-287.
91. M. Sanuto, I diarii, XVIII, coll. 187 ss.; D. Malipiero, Annali, p. 683.
92. Nel 1587, per istanza dei mercanti, il senato ricorda "la rovina che soprasta la piazza di Rialto la priva dell'antico suo costume di trattare li suoi negotii con il mezo dei banchi di scritta" che operano per il beneficio di detti mercanti "congionto col servitio pubblico", A.S.V., Senato Terra, 5 marzo 1587, reg. 57, c. 107; Savi alla mercanzia, 11 luglio 1595, reg. 137, c. 148; 24 gennaio 1597 (m.v. 1596), reg. 139, cc. 130-132v; 20 novembre 1625, reg. 146, cc. 209-210v. Per la nascita del Banco Giro, cf. anche Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Commercio Veneziano (Erario pubblico, Banco Giro, Commercio), ms. it. cl. VII. 2215 (= 9196); inoltre Giovanni Cavalà Pasini, La scuola pratica del Banco Giro della Serenissima Repubblica di Venezia, Venezia 1741; Ugo Tucci, Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, pp. 231-251; Frederic C. Lane, I mercanti di Venezia, Torino 1982, pp. 219-255.
93. Venezia, Museo Correr, Banchi, ms. Gradenigo 164, sec. XVII, c. 2: "Notizie sopra li Banchi di Venezia".
94. Vedi le botteghe dei cambiavaluta situati sotto i portici della basilica nei fori degli antichi, secondo Vitruvio, e la ricostruzione della basilica di Fano di Cesare Cesariano.
95. Antonio Averlino, detto il Filarete, Trattato, II, Libro 8, c. 61, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Pal. 1411. Cf. anche W. Lotz, La trasformazione, pp. 74-92, 117-139.
96. Renata Segre, Banchi ebraici e Monti di Pietà, e Brian Pullan, Jewish Moneylending in Venice: From Private Enterprise to Public Service, entrambi in Gli Ebrei e Venezia, Secoli XIV-XVII, a cura di Gaetano Cozzi, Milano 1987, rispettivamente pp. 565-570 e pp. 671-686. Cf. inoltre M. Sanuto, I diarii, XXVIII, 10 novembre 1519, coll. 63-64; A.S.V., Senato, Secreta, 10 febbraio 1520 (m.v. 1519), reg. 1519-1520, c. 97r-v; 2 marzo 1520, cc. 99-100; Senato Terra, 27 marzo 1523, reg. 23, c. 72r-v; Consiglio dei X, 19-20 aprile 1524, citato in Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia 1500 - 1620, I-II, Roma 1982: I, p. 542.
97. Reinhold C. Müller, Les prêteurs juifs de Venice au Moyen Âge, "Annales E.S.C.", 30, 1975, pp. 1277-1302; A.S.V., Maggior Consiglio, Novella, (1350-1384), 20 febbraio 1382 (m.v. 1381), c. 171r-v; Misc. Cod. di Storia Veneta, 24 novembre 1385 [in Rogatis>, I serie, 116, cc. 5-7; Eliyahu Ashtor, Gli inizi della comunità ebraica a Venezia, "Rassegna Mensile d'Israele", 44, 1978, pp. 683-703; A.S.V., Compilazione leggi, voce Ebrei, 26 settembre 1423; Umberto Fortis, Il ghetto sulla laguna, Venezia 1987.
98. A.S.V., Senato Terra, 3 agosto 1508: la delibera, controfirmata anche dai savi di Terraferma, autorizza gli Ebrei a continuare ad "abitare nelle terre e nei luoghi nostri per i prossimi cinque anni con tutte le loro famiglie e tener case in affitto e i loro soliti banchi di pegno a cittadini e forestieri"; v. inoltre Senato Terra, 21 febbraio 1510 (m.v. 1509), rcg. 16, c. 121v; Giacomo Carletto, Il ghetto veneziano nel '700 attraverso i catastici, Roma 1981, pp. 44-47; Andrea Alvise Viola, Compilazione delle leggi del Maggior Consiglio, Senato, Consiglio dei X, Consiglio dei XL al Criminal, Presidenti sopra gli Offici, Ordini dei Savi e terminazioni di altre magistrature in materia d'officij e banchi del Ghetto, divisa in 5 tomi, Venezia 1786: in particolare tomo V, pt. II; B. Pullan, La politica sociale, II, pp. 498 ss.
99. G. Carletto, Il ghetto, pp. 44-47; A.A. Viola, Compilazione; B. Pullan, La politica sociale, II, pp. 498 ss.
100. Simon Luzzatto, Discorso circa il stato degl'Ebrei, et in particolare dimoranti nell'inclita città di Venetia, Venetia 1638, p. 1; M. Sanuto, I diarii, XXVIII, 10 novembre 1519, coll. 63-64; A.S.V., Senato Terra, 27 marzo 1523; 3 ottobre 1523, reg. 23, c. 60.
101. Ivi, Senato Terra, 13 giugno 1525, reg. 24, c. 12r-v; 16 novembre 1558; 19 febbraio 1567 (m.v. 1566) (in cui si ribadisce che Rialto è il luogo urbano deputato a far ordine in materia di banchi); 16 novembre 1624, reg. 94, cc. 211v-227.
102. Ivi, Senato Terra, 16 novembre 1624; Inquisitori agli Ebrei, 3 febbraio 1672 (m.v. 1671), b. 38, c. 314; Attilio Milano, I banchi dei poveri a Venezia, "La Rassegna Mensile d'Israel", 17, 1951, pp. 250-265.
103. A.S.V., Senato Terra, 27 marzo 1523; cf. anche Le città venete di terraferma nelle vedute del Settecento, a cura di Donatella Calabi, Milano 1990.
104. Francesco Ferrara, Gli antichi banchi di Venezia, "Nuova Antologia", 16, 1871, pp. 177-213, 435-466, con riferimento anche a E. Lattes, La libertà, e M. Brunetti, Banche.
105. B. Pullan, La politica sociale, II, p. 569.
106. A.S.V., Ufficiali al Cattaver, 18 agosto 1595, b. 244, c. 155: per la casa di proprietà di Pietro Pigna, di cui una scrittura depositata nel 1595 al senser dell'ufficio lamenta pericoli di crollo, si chiedono interventi urgenti di manutenzione, perché lì sia il banco pubblico del Ghetto Nuovo. Cf. anche B. Pullan, La politica sociale, II, p. 605.
107. Frederic C. Lane - Reinhold C. Müller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, Baltimore 1985, pp. 76-79.
108. A.S.V., Senato Terra, 4 maggio 1490, reg. 11, c. 9.
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