Il Risorgimento e il paradigma intransigente
La questione degli intransigenti cattolici, caratteristica dell’Ottocento, si inquadra all’interno di una dimensione molto più ampia del Risorgimento, superando di gran lunga i confini della penisola e coinvolgendo, oltre che il campo storico-politico, anche quello filosofico e teologico: al fine di analizzarla, infatti, bisogna guardare non solo ai fatti avvenuti in Italia nel secolo XIX, ma anche tener conto della peculiare visione del mondo proposta dagli intransigenti1. Il fenomeno, dunque, ha una vastità tale che ogni sua rilettura a partire da una prospettiva specifica, quale può essere per esempio il Risorgimento, rischia di comprimerne il significato, di sbiadirne la coloritura, di imprigionarne in rigidi e stereotipati schemi politici la varietà e l’ampiezza delle posizioni. A buon diritto, dunque, la storiografia più avvertita evita attentamente di delimitarne i confini intorno al Risorgimento e fa attenzione a fissarne linee di demarcazione più aperte, non solo in senso cronologico (legandolo alla progressiva scomparsa dell’ancien régime) e alla genesi di nuove articolazioni del complesso rapporto tra Chiesa e mondo, tra religione e politica, tra Stato e istituzioni ecclesiastiche.
In questa linea interpretativa, si spiega anche la critica alla vecchia e monolitica voce ‘intransigenza’, incapace di abbracciare e spiegare una realtà molto più variegata. Al contrario, la sostituzione del termine con il più aperto e dinamico ‘intransigenti’ indica una molteplicità di indirizzi e di personalità, più rispondente alle vicende che si possono addensare, inoltre, intorno al fenomeno.
Da questo punto di vista è chiaro che il rischio di una lettura parziale della complessa realtà degli intransigenti si annida più fortemente proprio nella storia politica tout court, nelle ricostruzioni che toccano (senza penetrarla) la complicata vastità del fenomeno, fermandosi – come è spesso avvenuto nel passato per il Risorgimento – a evidenziarne pressoché esclusivamente le connessioni con le vicende italiane e dimenticando di prenderne in esame le radici, gli sviluppi, gli esiti, che hanno certamente un respiro internazionale. È stato questo, probabilmente, il limite delle prime interpretazioni storiografiche, che si erano soffermate sul difficile e per lo più conflittuale rapporto tra la formazione dell’Unità italiana e la professione della fede cattolica: per diversi studi, partiti da questi presupposti, l’opposizione al Risorgimento e al nuovo assetto istituzionale della penisola, portata avanti dagli intransigenti, sarebbe quindi il risultato di uno scontro politico, consumatosi nella progressiva erosione dei confini dello Stato pontificio fino alla conquista di Roma del 20 settembre del 1870. Inoltre, tale conflittualità nella valutazione ‘politica’ sugli intransigenti si sarebbe già manifestata nella critica cattolica alla legislazione piemontese, poi estesa all’intera penisola, relativamente alla laicizzazione della scuola, all’introduzione del matrimonio civile, all’espulsione e soppressione degli Ordini religiosi e all’incameramento dell’asse ecclesiastico2.
La normativa piemontese, infatti, nata prima del 1860 e al di fuori di qualsiasi prospettiva risorgimentale, faceva riferimento a un nuovo assetto dei rapporti tra Stato e Chiesa che si era andato progressivamente strutturando fin dalla fine del Settecento e che si era codificato, con andamento alterno e spesso contraddittorio all’interno dei regimi liberali, in una sempre più marcata tendenza separatista, che aveva prima criticato ideologicamente e poi abbattuto politicamente l’antica alleanza tra il trono e l’altare, affermando l’indipendenza delle due sfere e il parallelismo delle loro competenze e scardinando poco alla volta la soggezione della cittadinanza terrena a una finalizzazione ultraterrena.
Le nuove idee, riassunte nell’espressione ‘mondo moderno’, avevano provocato una ferma reazione cattolica, che si era esplicitata nella critica sistematica, largamente condivisa da un’opinione pubblica fortemente condizionata anche dalla stampa e da un’ampia e diffusa pubblicistica, ai fondamenti ideologici che erano alla base di proposte politiche volte a spazzare via i presupposti assolutistici che imperniavano intorno alla religione i ritmi della vita civile. Il processo era stato ampio e fin da subito i cattolici lo avevano avvertito come un pericolo, dal momento che essi individuavano nella diffusione delle nuove idee un grave rischio per la vita della fede, la cui difesa, attraverso vari istituti giuridici codificati nel sistema dell’ancien régime, si era inestricabilmente legata all’alleanza fra trono e altare.
Da questo punto di vista, i cattolici, ritenendo non scontata e non sicura la vittoria dei regimi liberali e pensando di poter arginare il movimento in atto, seguendo peraltro le indicazioni magisteriali che chiedevano di resistere alla tempesta che sembrava «cingere la cittadella assediata» della Chiesa, manifestarono un atteggiamento fermo e deciso di rifiuto delle prospettive che il liberalismo andava proponendo e imponendo nei paesi in cui, anche grazie alle rivoluzioni, si affermava. L’opposizione di principio, per questa via, si andava trasformando in una radicale critica rivolta ai nuovi regimi liberali, che ruotava, a livello europeo, intorno ad alcune costanti3.
Il primo elemento portante di questo atteggiamento era costituito da un forte conservatorismo, nel quale si intrecciavano il timore di perdere antichi privilegi, la diffidenza spontanea per il nuovo, un senso rigoroso dell’autorità, la venerazione acritica per le tradizioni, l’incapacità di comprendere la mediazione delle situazioni storiche contingenti4. Questo accentuato conservatorismo spingeva a contrastare il nuovo, avvertendolo come rivoluzione in politica, come errore in filosofia, come eresia in teologia5.
Altro cardine di questa mentalità era una sorta di spirito manicheo, che orientava gli intransigenti a considerare un male quanto non era previamente avallato dall’autorità ecclesiastica. Il pensiero moderno, in questa prospettiva, era ritenuto come l’ultimo portato di una progressiva apostasia dalla religione cattolica, che aveva preso avvio nella Riforma protestante, con la contestazione dell’autorità del papa e con l’esaltazione del libero arbitrio dell’uomo6. Questa concezione dell’altrui pensiero faceva perno sulla convinzione dell’infallibilità del proprio giudizio e portava spesso a una miope interpretazione dei fatti contingenti, che, se da una parte radicalizzava i cattolici nella convinzione della loro opposizione, dall’altra li paralizzava nell’impasse di una lettura provvidenzialistica della realtà, priva di concreto senso storico: in questa luce, i fatti storici considerati negativi erano ritenuti una permissione divina e dovevano condurre a un profondo rinnovamento interiore dei credenti. Lettura, quest’ultima, che aveva come corollario un deciso riduzionismo del progresso scientifico e tecnologico, frutto dei nuovi orientamenti culturali, con la condanna in blocco di novità oggettivamente positive come l’introduzione di nuovi mezzi di produzione, di comunicazione, di trasporto e il rifiuto aprioristico di vantaggiose proposte legislative come la diffusione dell’istruzione7.
Il conservatorismo e la diffidenza verso le novità incidevano direttamente anche sulla valutazione dei rapporti sociali, intesi in un senso strettamente gerarchico dove ciascuno, fin dalla nascita, aveva il suo posto e il suo compito senza grandi possibilità di movimento e di mutamento della propria posizione. L’immobilismo sociale costituiva l’estrema conseguenza di una difesa spesso acritica della tradizione con l’invito costante alla rassegnazione, alla pazienza e alla soggezione.
La forte contestazione dei capisaldi del ‘mondo moderno’, per altro verso, portò alcuni dei suoi più sensibili esponenti a elaborare una critica serrata alle sue lacune e ai suoi errori. In particolare, gli intransigenti negavano la considerazione della ragione umana come criterio unico di verità, affermando l’impossibilità di sottomettere a essa la rivelazione e rifiutando il relativismo. Essi contestavano poi la separazione dell’economia dalla morale e respingevano la considerazione dello Stato, sciolto da ogni legge trascendente o naturale, come fonte del diritto. Gli intransigenti ritenevano inaccettabile, ancora, la limitazione dell’intervento della Chiesa a campi non strettamente religiosi: ciò che ledeva a loro avviso la possibilità di esercitare ogni attività nei tradizionali campi dell’assistenza e dell’educazione.
In tal modo, accanto alla difesa dell’antico sistema di rapporti tra Stato e Chiesa, gli intransigenti andarono via via elaborando, anche con un notevole sforzo intellettuale e con una significativa e ‘moderna’ strategia editoriale, che si serviva largamente della stampa quotidiana e periodica, un ampio apparato di proposte sociali: tale riflessione era orientata in particolare a criticare, correggendole, le storture di un sistema economico, che, originato da un’applicazione illimitata di principi liberisti nell’attività produttiva, aveva determinato il sorgere di una grave questione sociale. Tale interesse ‘sociale’ degli intransigenti deve essere considerato come uno dei primi segnali dell’azione che preparò il clima, all’interno della Chiesa, per la genesi della Rerum novarum8.
Il conservatorismo, lo spirito manicheo, il tradizionalismo, la lettura teologica e provvidenzialistica della realtà e della storia aiutano a comprendere anche l’atteggiamento degli intransigenti nei confronti della politica. Essi, in linea generale, non concepirono la possibilità di una convivenza tra gli uomini distinta dalla societas christiana differente dal sistema dell’ancien régime, dando valore assoluto e difendendo una civitas gerarchicamente ordinata e fondata sul privilegio con la fede cattolica a fungere da collante di ogni assetto sociale: perciò essi si opposero all’emancipazione politica e civile degli acattolici, all’effettiva promozione del proletariato, alla libertà di stampa, al regime parlamentare e difesero i consolidati e tradizionali regimi monarchici contro ogni tentativo rivoluzionario, assumendo una linea marcatamente favorevole all’ordine costituito e opponendosi, di conseguenza, alle aspirazioni delle nazioni oppresse a costituirsi in Stati indipendenti, tendenze che avevano preso piede in America latina e in Europa, incontrando le simpatie e l’appoggio della borghesia intellettuale. Nonostante una certa duttilità che la Santa Sede mostrò nei confronti dei movimenti nazionali, scaturita certamente anche dalla constatazione dell’irreversibilità di alcuni fenomeni, gli intransigenti mantennero un atteggiamento fermo, soprattutto quando i fermenti rivoluzionari si agganciavano a chiare tendenze separatiste, non esenti da forti prese di posizioni anticlericali, considerando in generale le insurrezioni come una grave violazione della legge divina9.
Un ultimo (ma fondamentale) fattore caratterizzante gli intransigenti è di natura ecclesiologica. Esso potrebbe individuarsi nella proposta lanciata nel 1819 da uno dei suoi campioni, il savoiardo Joseph de Maistre, che nel Du Pape, opponendosi decisamente al gallicanesimo ancora diffuso qua e là in Francia ed esaltando l’infallibilità del papa e il suo ruolo benefico nello sviluppo della civiltà, sottolineava quasi esclusivamente l’aspetto giuridico della Chiesa come incarnazione del principio di autorità; ne elogiava quindi la funzione sociale, aprendo la via a una pericolosa strumentalizzazione della religione. Fautore dell’ultramontanesimo, de Maistre condannava ogni rivoluzione senza eccezione, sostenendo che gli abusi erano più tollerabili della ribellione, difendeva l’intolleranza e accettava la tolleranza solo come tattica provvisoria per far recuperare ai cattolici un’influenza sociale per poi opprimere gli avversari, negava energicamente l’uguaglianza dei diritti10.
L’ecclesiologia degli intransigenti, radice ed esito delle loro concezioni sociali e politiche, era rigidamente gerarchica, romanocentrica, imperniata intorno alla devozione al papa, fortemente ultramontanista. La Chiesa gerarchica intesa come societas perfecta rappresentava, in pieno Ottocento e davanti alle sfide dei regimi nazionali e liberali, un modello non solo di un’organizzazione religiosa, ma anche l’espressione di un’istituzione capace di resistere, sorretta dalla Provvidenza agli assalti del male, identificato con il mondo moderno. In questa ecclesiologia risaltava decisamente il papa, che non era solo il capo visibile della Chiesa, ma anche il sovrano dello Stato pontificio. Gli intransigenti, fedeli al papa, si ritenevano i suoi interpreti nelle sfide da sostenere nei confronti degli Stati sovvertitori dell’ordine tradizionale; si sentivano e si consideravano come gli esecutori autentici, sinceri e sicuri delle sue direttive, alle quali intendevano offrire il servigio di un’azione capillare e coraggiosa. Milites papae poteva essere la traduzione dell’antica militia Christi: fede e fedeltà al papa, in tal modo, si identificavano e diventavano un tutt’uno.
In questo quadro piuttosto articolato, è evidente che non si può porre una data di nascita alla realtà degli intransigenti: la varietà stessa delle loro posizioni, che non è possibile passare in rassegna, i numerosi campi in cui si impegnarono, la complessità di alcune posizioni che si mostrano fluide e non facilmente riducibili a univoche letture suggeriscono cautela e inducono a sfumare la possibilità stessa di definire la loro realtà come un vero e proprio ‘paradigma’, vale a dire un modello di riferimento, un termine di paragone stabile e uniforme. In questa luce, utilizzando, come detto, la più ampia accezione di ‘intransigenti’, che immediatamente dà conto di una pluralità di accenti, pur all’interno di una coralità dei nodi essenziali rapidamente illustrati, è possibile accostarsi al serrato confronto che essi intrapresero con il Risorgimento: tale pluralità richiama la necessità di seguire il fenomeno al di là dei decisivi anni 1860-1861 e 1870, con la consapevolezza che le radici intransigenti sono essenziali per la comprensione di numerosi eventi, esaminati in altri saggi, quali la questione romana, l’evoluzione del movimento cattolico, la genesi della Rerum novarum o i rapporti tra Stato e Chiesa. D’altro canto, appare chiaro che la realtà degli intransigenti è documentabile in Italia molto tempo prima del 1848, quando si possono approssimativamente fissare gli esordi della questione nazionale, dopo le embrionali esperienze dei precedenti moti rivoluzionari.
Da quanto si è detto, appare chiaro che, quando il Risorgimento cominciò a muovere i suoi primi passi, gli intransigenti erano già pienamente attivi in Italia. Era già stato tradotto in Italia, e a più riprese, ilde Maistre e aveva pubblicato le sue Le illusioni della pubblica carità il conte Monaldo Leopardi (Lugano 1838). Antonio Capece Minutolo aveva già composto i suoi I piffari di montagna ossia Cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del principe di Canosa e sopra i carbonari: epistola critica diretta all’estensore del foglio letterario di Londra (Faenza 1822), in cui aveva affermato come ai popoli dovevano essere insegnati i doveri e non i diritti e che la scienza del diritto doveva essere esclusivamente per quei saggi, che erano destinati a governare.
Era nata a Napoli, nel 1849, «La Civiltà cattolica», che divenne uno degli organi più importanti del movimento intransigente, nella quale, grazie soprattutto ai padri Taparelli, Liberatore e Curci vennero a essere sistematicamente confutati i regimi liberali, criticati per la laicizzazione e la separazione tra Chiesa e Stato, sia per le conseguenze pratiche, sia soprattutto per i suoi fondamenti erronei, in particolare per la concezione individuale e puramente spirituale della religione11.
E sono tanti ancora gli esempi, solo sul piano della pubblicistica e della stampa quotidiana e periodica, che evidenziano la diffusa presenza della schiera degli intransigenti nella penisola.
Un caso a parte, ma fortemente significativo, è poi rappresentato dagli esponenti più elevati della gerarchia ecclesiastica, sia a livello di Santa Sede che di Chiesa locale, dove l’opposizione intransigente al mondo moderno viene sancita da prese di posizioni contro i fermenti rivoluzionari ovvero dalla difesa a spada tratta della legittimità dei governi costituiti. In particolare, all’interno della Curia romana l’opposizione intransigente incontrava le simpatie dell’ala zelante del Collegio cardinalizio.
Anche il magistero episcopale, convogliato, tra l’altro, nelle lettere pastorali, mostra senza ombra di dubbio che la stragrande maggioranza dei vescovi della penisola si attestava su posizioni sostanzialmente intransigenti, fortemente conservatrici, diffidenti verso il nuovo, romanocentriche, avverse a qualsiasi ipotesi di legislazione separatista, che avesse vita all’interno dello Stato di appartenenza.
È evidente, da questo punto di vista, che sia le prime formulazioni del cattolicesimo liberale italiano, tendenti a conciliare aspirazioni nazionali e sentimenti di fedeltà alla religione e alla Chiesa cattolica, nonché le repliche liberali, spesso assai aspre, alle accuse di matrice cattolico-intransigente, rintracciabili nel periodo intorno al 1848, non fanno altro che confermare la diffusa presenza di un cattolicesimo di opposizione al mondo moderno già prima che il Risorgimento cominciasse a manifestare la sua vitalità.
Ma è chiaro che la complessità della realtà intransigente nei confronti del movimento nazionale trova la sua più forte incisività e presenta la sua maggiore ampiezza allorché, dal 1848 in poi, e soprattutto tra il 1860 e il 1870, il moto risorgimentale prende forma e progressivamente ottiene il raggiungimento delle sue aspirazioni fino alla conquista di Roma e al trasferimento in essa della capitale del giovane Stato. È in questi anni che gli intransigenti passano dalla formulazione di una proposta generale e per così dire ‘sovranazionale’, nella quale hanno la prevalenza le ragioni dell’opposizione ideale al ‘mondo moderno’ nato dallaRivoluzione francese, a una più puntuale ostilità al Risorgimento, calibrata su fatti e vicende prettamente ‘italiane’, con toni, forme e modalità propri, differenti sostanzialmente da quanto, prima e contemporaneamente, l’aveva caratterizzata in altri contesti geografici.
In questa connotazione ‘italiana’ ha chiaramente un ruolo di primo piano la presenza nella penisola della sede del papa. L’esistenza dello Stato pontificio, con la sua estensione dalla Romagna al Lazio meridionale, era il risultato di un articolato processo storico che dal Patrimonium Sancti Petri si era andato progressivamente strutturando e costituiva una realtà con la quale bisognava fare i conti di fronte a qualsiasi prospettiva nazionale. Se lo Stato pontificio era stato ritenuto da molti, a cominciare da Machiavelli12, uno dei principali ostacoli alla realizzazione dell’unità della penisola, alcuni autori cattolici, comeGioberti e Balbo, avevano cercato di coniugare il rispetto per il potere temporale dei papi con le aspirazioni nazionali italiane.
Queste prospettive, provenienti da cattolici liberali, incontrarono subito un deciso rifiuto. Prima ancora che scrittori e uomini d’azione, questa opposizione provenne dal gruppo di cardinali cosiddetti ‘zelanti’, in netta antitesi con i loro colleghi cosiddetti ‘politici’, più aperti e disponibili a una conciliazione. Elettori diLeone XII eGregorio XVI, i cardinali zelanti si rafforzarono durante il lungo pontificato di Pio IX, attraversando insieme con lui la stagione difficilissima e sofferta del tramonto definitivo dello Stato pontificio e della caduta di Roma. Nella lettura della realtà intransigente italiana rispetto al Risorgimento ha, dunque, un ruolo ben definito la Curia romana, anche se occorre dire che in essa si manifestarono, sullo sfondo di un condiviso rifiuto delle aspirazioni nazionali, posizioni variamente articolate. Al categorico rifiuto di ogni sia pur minimo contatto con i patrioti, accentuato dalle modalità con cui si arrivò alla proclamazione del Regno d’Italia e dalla larga ospitalità offerta ai vecchi sovrani spodestati13, si contrapponeva, senza clamore, la collocazione di altri cardinali, che ritenevano possibile, anche per evitare che il processo unitario eliminasse del tutto il potere temporale, forme di avvicinamento agli esponenti più in vista del Risorgimento. Il cardinaleLudovico Altieri, vescovo di Albano, per esempio, che pure aveva ricoperto ruoli di grande rilievo e di guida della città di Roma all’indomani della rivoluzione romana del 1848-1849, non mancò di prospettare momenti di incontro e, appartenendo a un’antica famiglia papalina, mostrò nei fatti come la nobiltà romana, tradizionalmente conservatrice, seppe adattarsi al nuovo stato di cose con una disponibilità e una capacità di mediazione abbastanza sorprendenti14.
Accanto alla posizione del Sacro collegio spicca, poi, la collocazione dei vescovi, espressa nei confronti della realtà risorgimentale: la maggior parte di essi, laddove si escludano rare e clamorose eccezioni, fu sostanzialmente in linea con gli orientamenti della Santa Sede, anche se essi, oltre che con la difesa del potere temporale, dovettero cimentarsi anche con la necessaria valutazione della legislazione liberale, emanata dopo la proclamazione del regno. L’intransigenza dei vescovi italiani si può seguire in particolare attraverso lo studio delle lettere pastorali, volte a condannare la legislazione liberale ispirata al separatismo. Nel recente passato preunitario spicca, quale loro antesignano, la figura dell’arcivescovo di Torino, monsignor Luigi Fransoni, che, per l’appoggio incondizionato al papato e per la resistenza alla laicizzazione dello Stato, venne esiliato dal governo nel 1850, morendo a Lione nel 186115. Raggiunta l’unità, l’opposizione dei vescovi fu contemporaneamente una denuncia della violenza, una presa di distanza dalla mentalità che guidava le nuove autorità dello Stato, un’appassionata difesa del potere temporale del papa defraudato della maggior parte dei propri territori da plebisciti, la cui legittimità era vigorosamente contestata: tale resistenza non fu esente da sofferenze e da ripercussioni sull’azione pastorale e si manifestò in modo diversificato a seconda delle realtà territoriali, anche a partire dal sistema di relazioni tra Stato e Chiesa presente nelle legislazioni preunitarie. È significativo, per esempio, il caso dell’arcivescovo di Napoli, il cardinale Sisto Riario Sforza, che fu per ben due volte esiliato dalla sua diocesi: egli, pur essendo di nobile origine, non vide il Risorgimento come un male ineluttabile e comprese, lentamente, che la Chiesa doveva imparare a convivere con il nuovo Stato, ma non volle mai accettare i presupposti separatisti che ne caratterizzarono alcune leggi16. Poco contò per lui, come per altri vescovi meridionali, il legame alla sconfitta dinastia dei Borboni, sicché, almeno per quanto riguarda l’episcopato, fatte salve poche eccezioni, il legittimismo poco ebbe a che fare con le ragioni della loro opposizione, scaturente invece da motivi che si ritrovavano più profondamente nel codice genetico dell’ostilità al mondo moderno17.
Da questo punto di vista, con le dovute cautele, è possibile affermare che la mentalità intransigente dei vescovi favorì un maggiore impegno per l’interiorizzazione della fede, anche se la declinazione della professione religiosa era venata da uno spirito manicheo e difensivo, che ne avrebbe condizionato anche la capacità ricettiva delle istanze positive provenienti dal mondo moderno, dal pensiero liberale e dal fermento sociale e culturale che era connesso alle trasformazioni e alle sfide che la realtà del nuovo Stato poneva alla Chiesa nel suo complesso. Da questo punto di vista, la mentalità di fondo non favorì da parte dell’episcopato l’assimilazione delle positività provenienti da una cultura liberale, che si andava liberando da una serie di dogmatismi del passato e non consentì, per esempio sul piano culturale, un’intraprendenza capace di impossessarsi degli strumenti critici che la filologia in campo storico e biblico, il positivismo in campo filosofico, la psicologia e la sociologia nel settore dello studio della società contemporanea potevano offrire a un interlocutore attento e libero da pregiudizi. La considerazione negativa delle novità, oltre a far percepire alle autorità ecclesiastiche i limiti delle proposte del nuovo Stato in vari settori del vivere associato, determinò una chiusura in se stessa della Chiesa, orientandola alla supina accettazione delle proposte provenienti dall’alto e spesso, anche in nome di una mortificante uniformità, mettendola in difficoltà nello stare al passo con i momenti più alti e avanzati della cultura laica.
È chiaro che una valutazione del fenomeno intransigente nel suo complesso non può non tener conto del violento attacco che anche il mondo laico portò alla Chiesa, della volontà di non collaborare e di non dialogare, della comprensione esclusivamente ‘politica’ del fenomeno religioso, della considerazione della opportunità di sganciare la società dall’influsso, ritenuto funesto e deleterio, della Chiesa e talora dello stesso cristianesimo18. Non poco influì sulla recrudescenza degli intransigenti l’ostinazione di un certo ‘laicismo’, diffuso nell’ambiente della stampa, dell’università, dell’economia, del mondo del lavoro, della scuola, di rompere una volta per tutte il tradizionale legame della società con la Chiesa presente nella penisola. Non solo e non tanto le leggi del 1866, ma soprattutto una mentalità ostile alla Chiesa cattolica favorirono un atteggiamento di chiusura a oltranza nei confronti di un mondo cattolico, ritenuto portatore di valori oscurantisti e mosso da volontà di potere. In tal modo, ‘massoneria’, ‘anticlericalismo’, ‘laicismo’ affilarono le armi degli intransigenti confermando in loro, con il palese o subdolo attivismo dei loro esponenti, che il Risorgimento era una realtà tendenzialmente antireligiosa e anticattolica19. Fu così che anche nei confronti dei cattolici liberali gli intransigenti ebbero più facilmente partita vinta, giacché li potevano additare alla pubblica opinione come traditori del cattolicesimo, come avversari non solo nell’agone politico ma anche in campo teologico e nella fedeltà all’obbedienza alla Chiesa. Il fenomeno dell’anticlericalismo contribuì, in altri termini, a consolidare la percezione dello stato d’assedio, la sensazione di uno scontro epocale, che andava combattuto senza frontiere e senza tergiversazioni per la stessa sopravvivenza dell’istituzione ecclesiastica.
Questa era la percezione che mosse tanti vescovi, zelanti pastori di anime, attenti alla cura del proprio gregge, sinceramente fiduciosi nella Provvidenza, ricchi di operosa carità nei confronti dei poveri e attivi nella lotta alle nuove povertà, a sintonizzarsi sulle frequenze degli intransigenti, accostandosi al fenomeno dell’unificazione nazionale con un atteggiamento fortemente negativo, con una diffidenza crescente man mano che, consolidata la conquista, le autorità statali cominciavano a deliberare e ad applicare una legislazione ritenuta punitiva nei riguardi della Chiesa. Uomini del tutto alieni da preoccupazioni politiche, immuni da pregiudizi legittimisti, spesso nominati anche in tempi successivi ai ‘fatti compiuti’, si ritrovarono a condividere un’ideologia che era maturata in un’altra epoca e che si rinfocolava anche per la demonizzazione proveniente dalla società civile, alla quale mancava spesso equilibrio di giudizio e a cui faceva da sostegno un’atmosfera impregnata sovente di pregiudizi, di veti, di passioni.
In tal modo, la realtà degli intransigenti, nata e cresciuta in un contesto europeo in tempi di gran lunga antecedenti all’unificazione nazionale, si estese ben al di là del tempo di formazione dell’Unità ed allungò le maglie della sua rete fino all’ultimo decennio del secolo, quando diversi fattori, su cui in questa sede non è possibile trattenersi (la fine del pontificato di Pio IX, l’attenuazione del peso delle leggi di separazione; la progressione interna al movimento cattolico; la sperimentazione della non necessità del potere temporale per l’esercizio del ministero papale, la crescita del fenomeno socialista che avvicinava cattolici e liberali nella individuazione di un comune fronte nemico, la ricostituzione degli Ordini soppressi e la nascita di nuovi istituti religiosi maschili e femminili che consentivano alla Chiesa di riprendere un ruolo decisivo nel delicato settore della beneficenza e dell’assistenza, nonché nella scuola e nell’educazione, ecc.), provocarono un progressivo venir meno delle ragioni che avevano sostanziato e motivato la forza di opposizione portata avanti dagli intransigenti nei confronti del nuovo Stato. Per altro verso, anche da parte liberale si registrava una minore incisività dell’anticlericalismo e cominciavano a maturare le prime riflessioni sulla possibilità di addivenire ad accordi o a relazioni meno critiche e polemiche con la Chiesa cattolica.
In questa parabola della realtà intransigente e al di là del posizionamento della gerarchia ecclesiastica, riveste un suo ruolo specifico l’azione del movimento cattolico, che, con l’Unità nazionale, venne assumendo una fisionomia più matura: esso prendeva le mosse da quell’humus di opposizione, nel quale si erano formati i suoi responsabili e le sue leve. La prima generazione del movimento cattolico, in piena sintonia con le indicazioni magisteriali e con i maestri del pensiero cattolico del primo Ottocento, in prima battuta il de Maistre, attingendo al patrimonio genetico che caratterizzava gli intransigenti a livello europeo, espresse in modo chiaro e netto la sua valutazione negativa rispetto al Risorgimento.
Esso fu valutato come una autentica catastrofe politica, un disordinato progetto di dominio del Piemonte, realizzatosi, al di fuori ogni norma, contro i legittimi sovrani degli Stati preunitari, con la violenza e la sopraffazione, con l’attacco alle autorità della Chiesa e in particolare contro il papa. I cattolici intransigenti avvertirono il dovere di opporsi al nuovo stato di cose e, trovando degli interlocutori sordi e non volendo e non potendo discutere con essi in virtù degli inaccettabili principi ideologici su cui – a loro avviso – il Regno d’Italia si era costituito, maturarono, in tempi e forme diversi a seconda dei vari contesti territoriali e geografici, un’opposizione netta e incondizionata.
Gli intransigenti ricorsero a ogni mezzo per affermare le proprie idee. Svilupparono, in primo luogo, una rete editoriale molto ben organizzata, che aveva lo scopo di diffondere la cosiddetta ‘buona stampa’, con il compito di divulgare autori classici, selezionati, antologizzati, rendendoli appetibili a un pubblico vasto, che andava educato attraverso nuovi percorsi formativi, essendo stati chiusi gli accessi alla cultura cattolica, assicurati precedentemente dalla vasta e capillare presenza di scuole e istituti cattolici. Questa rete editoriale si sviluppò anche nella fondazione, gestione e diffusione di una stampa quotidiana e periodica, tutta sintonizzata sulle frequenze dell’opposizione e del rifiuto ai principi risorgimentali. Un sistema capillare che, se aveva il limite di una stanca ripetitività dei motivi del rifiuto del nuovo Stato, mostrava anche la capacità organizzativa degli intransigenti e la tenacia con cui portavano avanti le proprie idee, cercando di coinvolgere l’opinione pubblica e favorendo quel largo astensionismo dalla vita civile e politica che caratterizzò nei primi decenni i cattolici nell’ambito della realtà politico-istituzionale del paese. In questa direzione, l’emanazione del non expedit all’indomani della conquista di Roma e del rifiuto da parte cattolica della legge delle guarentigie costituisce la naturale conclusione di un confronto polemico con il mondo moderno, cominciato molti anni prima, le cui radici affondano in un terreno europeo largamente e profondamente dissodato da tanti autori della prima metà del XIX secolo. Se è vero, infatti, che il rifiuto di prendere parte attiva e passiva alle elezioni politiche costituiva la drastica risposta del mondo cattolico italiano alla perdita del potere temporale e rappresentava un unicum nel panorama della storia dei movimenti cattolici, è vero altrettanto che, al di là della forma, gli assi portanti degli articoli, dei saggi, delle polemiche, delle stesse novelle finalizzate alla divulgazione popolare20, attingevano sostanzialmente all’armamentario della polemica contro il mondo moderno e il liberalismo, in una riproposizione, priva nella maggior parte dei casi di originalità, di quanto si era andato sostenendo in contesti geografici e politici molto diversificati.
Manca nella stampa quotidiana e periodica quel carattere positivo che scaturisce dalla proposta politica inerente il vivo dibattito parlamentare. Mancano lo spirito pragmatico e la mobilitazione in favore di un’idea da tradurre in proposta politica organica; sono assenti la vivacità e il confronto con i partiti politici e prevale il senso vittimistico o accusatorio germinato dal necessario immobilismo di un’azione che non può essere messa in opera sul piano istituzionale. Prevale – nei giornali e nelle riviste italiane soprattutto nei tempi immediatamente successivi all’Unità – una rigorosa e implacabile critica di tutto quanto si discute in Parlamento, risultato finale del moto risorgimentale. Il concetto che viene di fatto tramandato da questa stampa, capillarmente diffusa in tutto il paese, è quello di uno Stato che non può operare a favore del cittadino, perché le sue radici sono contaminate dal male. La proposta politica cede il passo alla polemica, alla individuazione dei mali che scaturiscono irrimediabilmente da una ideologia che, contraria alla Chiesa cattolica, non può che produrre negatività.
In questa direzione, gli intransigenti – nella loro implacabile e ostinata confutazione della validità e della legittimità del processo risorgimentale – riuscirono effettivamente a cogliere i limiti della società italiana. Volendo difendere la cittadella assediata, essi respinsero quanti non la pensavano come loro e tennero lontano come una peste il cattolicesimo liberale, osservato come un cavallo di Troia pronto a infestare il corpo sano della Chiesa. Essi, dall’altro canto, seppero individuare le conseguenze negative del liberalismo e delle sue proposte economiche sul tessuto sociale e culturale dell’Italia, sottolineando come i nuovi assetti economici del paese ne compromettessero irrimediabilmente la solidità, lo sviluppo e il benessere morale e materiale.
Fin dagli studi di Fausto Fonzi, risalenti ormai agli anni Cinquanta, si è sottolineato in campo storiografico il valore della critica degli intransigenti alla società liberale, che, a contatto con il paese reale e lontano dalla retorica risorgimentalista, erano riusciti a scorgere i limiti del liberismo, il sorgere di nuove e radicali forme di povertà private di ogni assistenza e lasciate ai margini della società da una mentalità priva di ogni attenzione ai deboli e ai poveri. La storiografia più avvertita sul movimento cattolico, rifiutando da una parte la primitiva valutazione degli storici liberali che accusavano i cattolici di un’opposizione motivata dalla perdita del potere temporale21 e di quelli marxisti che spiegavano la sensibilità sociale dei cattolici in chiave antisocialista22, agganciava le ragioni degli oppositori cattolici alle radici intransigenti del primo Ottocento e ne fissava precisamente le origini religiose, favorendo l’accostamento alla problematica in maniera nuova e complessa, comprensiva ma non esclusivamente orientata da ragioni di carattere politico. Ciò, tra l’altro, aiuta a spiegare come mai la sensibilità sociale tipica degli intransigenti, spesso estranea ai cattolici liberali, si connetta a matrici europee e si possa agganciare facilmente a riflessioni e proposte che andavano maturando, in pari tempo, in Belgio, in Francia, in Germania.
È chiaro che questa capacità dei cattolici intransigenti aveva il suo limite nella incapacità di osservare e valutare criticamente quanto si muoveva all’interno del corpo ecclesiale. La considerazione della Chiesa come corpo sano, infatti, costituiva la ragione di un immobilismo di fondo23 di fronte agli abusi e ai limiti di un’istituzione troppo legata ancora alle strutture dell’antico regime, che faceva fatica a comprendere i potenti interrogativi che scaturivano dall’avanzamento della cultura e della società. Anche l’insistenza su un passato da riprendere e riproporre nel mutato e incontrovertibile mondo moderno costituiva una proposta troppo grossolana per essere operativa, sicché non sfugge l’impressione che mancasse a essi una capacità interpretativa globale dei mutamenti in atto, ovverosia un adeguato senso storico, in grado di orientare scelte non sui parametri facilmente percorribili della polemica, ma sui terreni più impegnativi di una proposta strategica in grado di rispondere alle sfide della contemporaneità. Quanto impietosamente, all’inizio del Novecento, le visite apostoliche ordinate da Pio X rivelavano sullo stato delle diocesi e dei seminari italiani metteva a nudo la malattia che stava corrodendo il corpo, erroneamente ritenuto sano, della Chiesa, per il quale c’era bisogno di cure robuste, di antidoti efficaci, di radicali interventi. La prospettiva degli intransigenti, in sé conclusa e completa, mostrava il fianco di una Chiesa che, se si era ritrovata e rafforzata intorno al papa con la proclamazione della sua infallibilità, doveva, invece di ‘leccarsi le ferite’ e di ‘piangere sul tempo che fu’, cominciare un’opera di aggiornamento, alla quale energicamente gli intransigenti si opposero. E quanto il Risorgimento, con i suoi modi e i suoi obiettivi, poteva stimolare, anche involontariamente, in ordine a una nuova evangelizzazione e a una rinnovata presenza ecclesiale in Italia, fu invece colto esclusivamente sotto il profilo polemico: in questa direzione, soltanto pochi cattolici liberali intuirono le potenzialità positive che il moto unitario poteva ingenerare nella Chiesa, ma, sia per la maggioritaria opposizione intransigente sia per la scarsa propensione al dialogo dei vincitori, non riuscirono a immettere le loro proposte in un virtuoso circolo di informazione, formazione e dibattito, incapaci peraltro di parlare al popolo dei fedeli, ai quali i loro avversari sapevano invece accostarsi anche per la più realistica comprensione dei loro bisogni.
Proprio per questa considerazione religiosa di fondo, il dissenso tra cattolici liberali e intransigenti fu molto più duro e violento di quanto possa apparire a prima vista: non mancarono, infatti, contrapposizioni frontali e scontri, con accuse rivolte agli avversari anche in ordine all’obbedienza alle autorità ecclesiastiche; e non mancarono, dall’una e dall’altra parte, interpretazioni spesso arbitrarie e radicali dello stesso magistero della Chiesa.
Gli intransigenti, dunque, seppero cogliere i limiti dei principi liberali e influirono positivamente sulla formazione di un movimento cattolico socialmente critico e attento ai poveri, marginalizzati dall’avanzamento indiscriminato di una società industriale, caratterizzata dall’individualismo e dall’amoralismo economico, da un’applicazione illimitata delle regole del mercato e dall’assenteismo dello Stato. Gli intransigenti contribuirono a individuare le antinomie profonde del Risorgimento e lottarono strenuamente contro la ‘laicizzazione’, specialmente in difesa della scuola cattolica e dell’influsso della Chiesa nella società, rinnegando una visione individualistica della religione racchiusa e delimitata dalla sola coscienza individuale. Certamente, anche in funzione antirisorgimentale, essi contribuirono al rafforzamento della centralizzazione, rendendo più salda, intorno al papa, la compagine ecclesiastica. In tal modo essi, opponendosi al Risorgimento, influirono non poco sulle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, sulla scelta dei vescovi, sul rilascio del regio exequatur per la loro immissione in diocesi, sulla formazione scolastica impartita nei seminari e sulla scelta degli stessi libri di testo, sulla formazione di un movimento cattolico, incarnato nell’Opera dei congressi. Gli intransigenti agirono quasi come una società parallela a quella civile e rafforzarono una presenza organizzata della Chiesa a livello locale, soprattutto nel settentrione e nel centro, che si sganciò spesso dal notabilato avvicinando l’istituzione ecclesiastica alle realtà lavorative e creando reti di solidarietà e di vicinanza al popolo che le restituirono un ruolo non irrilevante nella società italiana.
Nelle maglie delle ragioni intransigenti, dunque, è lecito scorgere le matrici profonde di una stagione molto più lunga e articolata rispetto agli anni della formazione dell’Unità nazionale. L’opposizione cattolica, a contatto diretto con la realtà del paese nelle sue molteplici e differenti ramificazioni, rispecchiava in fondo un pensiero che non si era lasciato coinvolgere dalla sirena della retorica risorgimentale, contribuendo paradossalmente alla costruzione di un’identità nazionale24, molto più complessa e difficile di quella che gli artefici del Risorgimento prospettavano e celebravano. Gli intransigenti, rimarcando la differenza dei cattolici dai cantori del patriottismo, posero l’accento sulla diversità e sulla frammentarietà del tessuto sociale italiano e, a loro modo, a loro insaputa e al di là certamente delle proprie intenzioni, contribuirono a far prendere coscienza dei problemi dell’Italia reale: essa, unificata politicamente, aveva ora bisogno di trovare forti sintonie con la quotidianità di popolazioni abituate a differenti regimi di vita, spesso incapaci di capirsi e incontrarsi se non sul terreno di quel cattolicesimo che gli intransigenti, con la loro fermezza e con la loro ostinazione, avevano reso un argomento centrale, ancorché su un piano polemico, del dibattito politico, culturale e istituzionale.
Accanto a questo dato, che aiuta a collocarli a pieno titolo nella storia d’Italia, gli intransigenti furono caratterizzati da una condanna in blocco delle aspirazioni del mondo uscito dall’Illuminismo e dalla rivoluzione, rifiutando aprioristicamente la libertà, non individuando i vantaggi che potevano derivare sia alla società con il superamento dell’antica concezione del potere assoluto, sia alla Chiesa con la liberazione da quei lacci che l’ancien régime le aveva stretto intorno con raffinata scaltrezza in un’operazione che, se aveva portato vantaggi materiali, ne aveva paralizzato energie profetiche asservendola al potere costituito.
Privi sovente di senso storico e di intuito politico, gli intransigenti si ritrovarono a difendere un mondo ormai superato e, pur lottando per giusti principi, li proposero insieme a istituti irrimediabilmente compromessi dall’avanzare della storia.
Un giudizio equanime sugli intransigenti e il Risorgimento, dunque, prospetta un quadro a luci piuttosto oscure, all’interno del quale si individuano, però, anche intuizioni che conferiscono al ‘paradigma intransigente’ il merito di aver contribuito, sul versante dell’opposizione, con la forza della critica sociale e con la difesa di una tradizione secolare, che non poteva essere cancellata dal vento impetuoso di una rivoluzione politico-militare, a dare voce a una presenza che risultava fondamentale, nonostante i tentativi di cancellarla, nella costruzione di un’identità nazionale.
In questa direzione, la difesa del matrimonio religioso di fronte all’introduzione del matrimonio civile; il richiamo e l’apologia della religiosità popolare contro le tendenze illuministiche e giansenisteggianti di una fede declinata sulle note della ragione; la riproposizione di una santità eroica ancorata ai parametri tradizionali; la vigorosa ripresa della vita religiosa che, superando gli ostacoli legislativi e raccogliendo anche importanti istanze provenienti dal mondo femminile, si espresse in particolare nella fondazione di nuovi istituti; la ripresa della devozione papale e il richiamo romanocentrico; la nostalgica propensione al ritorno alla genuina vita dei campi e la critica al disumanizzante urbanesimo; costituirono manifestazioni importanti di una mentalità che, nel confronto-scontro con il Risorgimento e i suoi ideali, riuscì a dar voce, per molteplici ragioni, non sempre esenti da strumentalizzazioni, a un paese reale che il Risorgimento non era ancora riuscito a conoscere, a interpretare e a immettere virtuosamente all’interno della nuova compagine statale, marginalizzando persone ed energie che nel Regno d’Italia esistevano, ma che stentavano a farsi udire.
1 Per una bibliografia essenziale sul tema si vedano: P. Alatri, Profilo storico del cattolicesimo liberale in Italia, Palermo 1950; L. Bedeschi, I cattolici «disubbedienti», Napoli-Roma 1959; C. Brezzi, Cristiano sociali e intransigenti: l’opera di Medolago Albani fino alla Rerum Novarum, Roma 1971; O. Confessore Pellegrino, Transigenti e intransigenti, in DSMC, I, 1, I fatti e le idee, Casale Monferrato 1981, pp. 20-28; R.F. Esposito, La Massoneria e l’Italia dal 1800 ai giorni nostri, Roma 1969; F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma 1953; F. Gorresio, Risorgimento scomunicato. Il più drammatico contrasto della storia italiana, il dissidio che continuiamo a pagare, Milano 1977²; S. Lener, La formazione dell’Unità d’Italia e i cattolici, Roma 1961; G. Martina, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, III, L’età del liberalismo, nuova edizione, Brescia 1995, pp. 159-188; W. Maturi, Interpretazione del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino 19624; Id., Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, 2 voll., Milano 1961; Questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, a cura di E. Rota, Milano 1951; P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla Democrazia cristiana, Roma 1957; D. Secco Suardo, I cattolici intransigenti: studio di una psicologia e di una mentalità, Brescia 1962; G. Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Firenze 1954; Spiritualità e azione del laicato cattolico italiano, 2 voll., Padova 1970; G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità (1848-1876). Anticlericalismo, libero pensiero e ateismo nella società italiana, Roma-Bari 1981; La rivoluzione italiana. Storia critica del Risorgimento, a cura di M. Viglione, Roma 2001.
2 Su questo versante politico, si può ricordare l’affermazione, non sottoscrivibile, di S. Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa, Milano 1988, p. 202: «L’attacco sferrato alla Chiesa cattolica dai Savoia e dai liberali durante il Risorgimento è uno degli ultimi e più significativi episodi delle cosiddette “guerre di religione”». Sulla stessa linea Id., L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Casale Monferrato 2000, F.M. Agnoli, Scristianizzare l’Italia. Potere, Chiesa e popolo, Rimini 1996.
3 Significativo di questa condanna in blocco quanto scriveva E. Massara, Mons. Speranza, Brescia 1915, pp. 86-87: «Tutti gli errori che produssero la nostra rivoluzione colarono, per fraseggiare con S. Agostino, come in cloaca massima, in quello che vollero chiamare liberalismo [che] s’insinua con blandizie di libertà, di lumi, di progresso, di patria, e coi suoi cento tentacoli finisce di dissanguare i popoli come una piovra, e succhiano l’oro dalle loro tasche, il sangue dalle loro vene, mira all’anima, dalla quale toglie ogni tesoro di cielo, fede, speranza, conforti, per gettarlo in braccio al dubbio, alla disperazione, al suicidio».
4 Esponente tipico può essere considerato Antonio Bresciani, un gesuita che, nato nel 1798 e morto nel 1862, fu chiamato nel 1850 a far parte del primo collegio di scrittori de «La Civiltà cattolica». La sua prosa, decisamente antipatriottica, funse da contraltare alla retorica anticlericale e risorgimentalista del suo tempo. Gramsci ne rilevò, sia pure con toni sprezzanti, l’importanza dell’opera letteraria nella formazione della coscienza culturale italiana, fino a coniare la categoria del «brescianismo». Su di lui cfr. F.M. Iennace, Conservatorismo cattolico in Antonio Bresciani, Roma 1971.
5 Significativa, in questa direzione, è la fortuna dell’opera di Félix Sardá y Salvany, più volte tradotta in italiano. Cfr., per esempio, Il liberalismo è peccato: questioni che scottano del sac. D. Felice Sarda y Salvany, traduzione rifatta sull’originale spagnuolo con approvazione dell’autore, Prato 1888.
6 Fondamentale, da questo punto di vista, l’opera di P. Balan, I precursori del razionalismo moderno fino a Lutero, Parma 1867. Su questo autore, tra gli esponenti più importanti degli intransigenti italiani, cfr. P. Scoppola, s.v. Balan Pietro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, V, Roma 1963, pp. 308-311.
7 Cfr. una lettera del cardinale Luigi Lambruschini al nipote Raffaello del 10 giugno 1833, riportata in L. Manzini, Il card. Lambruschini, Roma 1960, p. 269: «L’amore indiscreto che si mostra oggidì di generalizzare l’istruzione e la coltura mira non a migliorare la società, ma ad infelicitarla. Si accende pur l’orgoglio delle classi ultime (destinate dalla Provvidenza a esercitare arti e mestieri) con un superficial sapere, e si vedrà quali frutti produca un così calcolato sistema!».
8 Interessanti ancora gli spunti presenti in A. De Gasperi, I tempi e gli uomini che prepararono la “Rerum Novarum”, Milano 1931.
9 Ne è significativo esempio quanto scriveva il generale dei Gesuiti, padre Roothaan in una lettera del 7 marzo 1849, riportata in G. Martina, Le censura romana del 1848 alle opere di Rosmini, «Rivista rosminiana», 61, 1968, pp. 24-49: «Da più di un mezzo secolo, le grandi rivolture si fanno con certe parole magiche, buggiarde (sic). Ecco che per l’Italia, ed anche per la Germania, è la nazionalità. Per amor di Dio! Dov’è l’unità di nazione, sia in Italia, sia in Germania? Quanta differenza d’origine, e di genio […] tra le province e le città stesse. Il pretesto di farne una nazione conduce precisamente al contrario, la disunione. Si trova poi quel fantasma di nazionalità direttamente in opposizione collo spirito del vangelo e del cattolicesimo. Questo edifica la Chiesa universale […] quello porta al sistema scismatico di chiese nazionali. E come si sono accesi gli odi […]».
10 De Maistre, tra l’altro, criticava l’idea, propria dei rivoluzionari, che le costituzioni potessero essere scritte a priori, astrattamente. J. de Maistre, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche, Torino 1821: «La costituzione è opera delle circostanze, ed il numero delle circostanze è infinito. Le leggi romane, le leggi ecclesiastiche, le leggi feudali, i costumi sassoni, normanni e danesi; i privilegi, i pregiudizi e le pretese di ogni genere, le guerre, le rivoluzioni, le conquiste, le crociate; tutte le virtù, tutti i vizi, tutte le conoscenze, tutti gli errori, tutte le passioni: tutti questi elementi, dunque confluendo insieme a formare con la loro mescolanza e reciproca unione combinazioni moltiplicate indefinitamente, hanno prodotto, dopo molti secoli, l’unità più complessa ed il più bell’equilibrio di forze politiche che si sia visto nel mondo [...]. Ora, poiché questi elementi proiettati nello spazio si sono disposti in così bell’ordine, senza che tra l’innumerevole folla di uomini che hanno agito in questo vasto campo, uno soltanto abbia mai saputo ciò che faceva in rapporto al tutto, o previsto ciò che ne doveva conseguire, ne deriva che questi elementi erano guidati nella loro caduta da una mano infallibile, superiore all’uomo. La più grande follia del secolo delle follie fu forse il credere che le leggi fondamentali potessero essere scritte a priori; mentre evidentemente sono opera di una forza superiore all’umana, e la stessa scrittura, molto posteriore, è, al paragone, il segno più evidente della nostra negatività».
11 Cfr. F. Dante, Storia della Civiltà Cattolica, 1850-1891: il laboratorio del papa, Roma 1990.
12 Cfr. E. Cutinelli-Rendina, Chiesa e religione in Machiavelli, Pisa 1998.
13 Cfr. F. Leoni, Il governo borbonico in esilio (1861-1866), Napoli 1984.
14 Cfr. U. Parente, Ludovico Altieri cardinale vescovo di Albano (1805-1867), Albano Laziale 2009.
15 Significative le seguenti espressioni contenute in una lettera pastorale del 12 settembre 1854: «Quello che ci sforza oggi a rompere il silenzio, si è il vedere con quale rapidità spaventosa da qualche mese addoppino le più crudeli ferite alla Chiesa coll’aperta violazione della sacra clausura, colla sacrilega dispersione di tante comunità religiose, e colla violenta occupazione dei più cospicui ecclesiastici fabbricati; il tutto preceduto dalla cotanto significativa usurpazione del denaro e dei redditi del nostro metropolitano seminario […]. Né certo può esservi alcuni il quale non capisca, che se riguardo a tanto regolari istituti si calpestano i più sacri diritti, non fu già, come di addusse a pretesti, perché si avesse bisogno delle loro case per urgente pubblico servizio, ma per solo sfogo di odio contro la Religione, a eseguimento del piano ordito dalle società segrete», cit. in P.C. Boggio, La Chiesa e lo Stato in Piemonte, I, Torino 1854, pp. 357-368. Su monsignor Fransoni cfr. M.F. Mellano, Il caso Fransoni e la politica ecclesiastica piemontese (1848-1850), Roma 1964.
16 Cfr. Il cardinale Sisto Riario Sforza arcivescovo di Napoli (1845-1877), a cura di U. Parente, A. Terracciano, «Campania Sacra», 29, 1998, nr. monografico.
17 Cfr., tra gli altri, B. Pellegrino, Chiesa e rivoluzione unitaria nel Mezzogiorno. L’episcopato meridionale dall’assolutismo borbonico allo Stato borghese (1860-1861), Roma 1979.
18 Per una panoramica sull’anticlericalismo cfr. G. Martina, Aspetti dell’anticlericalismo in Europa nell’Otto e nel Novecento, Roma 1995.
19 Il più noto episodio in questa direzione si ebbe quando, il 13 luglio 1881, la salma di Pio IX fu trasportata al camposanto di S. Lorenzo fuori le mura al Verano. Si veda il contento dell’articolo pubblicato dal garibaldino Alberto Mario sul quotidiano «La Capitale», nel quale il carro funebre fu paragonato al «carrettone dell’accalappiacani»: «Si trasportava, ieri, la carogna di Pio IX: la sua salma imbalsamata era deposta nel sepolcro tra i fischi e le baionette dei soldati e senza le baionette dei soldati e le rivoltelle della sbirraglia sarebbe stata gettata dal carro funebre. Egli personificava la Chiesa Cattolica, ormai ridotta a una mostruosa sciocchezza. I clericali di Roma trassero partito dal trasporto di questo Pontefice parricida, pagliaccio; furono fischiati. Applaudiamo a quei fischi; ma noi avremmo applaudito ancor più se le reliquie del grande sciocco fossero state gettate dal Ponte di Sant’Angelo nel Tevere». La citazione in G. Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Milano 1976, pp. 173-175. Noto fu anche l’anticlericalismo di Giuseppe Garibaldi: cfr. Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi, VI, Scritti e discorsi politici e militari, 3, 1868-1882, Bologna 1937, pp. 334-339: «Si chiami egli prete, Ministro, Dervista, Calogero, Bonzo, Papas, qualunque nome egli abbia, a qualunque religione egli appartenga, il prete è un impostore, il prete è la più nociva delle creature, perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli».
20 Le novelle si opponevano all’analoga produzione degli uomini del Risorgimento. Cfr. quanto scriveva Garibaldi in Clelia. Il governo del monaco (Roma nel secolo XIX). Romanzo storico-politico, Milano 19702, pp. 21, 112: «Volendo costoro [i preti] mantenere tutti gli uomini nell’ignoranza – quando emergeva qualcuno che avesse ricevuto da Dio tanta intelligenza da capire le loro menzogne, quell’intelligente era da questi demoni torturato – acciò confessasse che la luce era tenebra – che l’eterno – l’infinito – l’onnipotente – era un vecchio dalla barba bianca seduto sulle nubi – che una donna, madre d’un bellissimo maschio – era una vergine – e che un pezzetto di pasta che voi inghiottivate – era il creatore del mondo che vi passava per le vie digestive – e poi – e poi!!!».
21 Cfr. O. Confessore Pellegrino, Transigenti e intransigenti, cit.
22 Ibidem.
23 Per l’immobilismo degli intransigenti è utile riportare l’affermazione di A. Riccardi, I gemiti della Chiesa di Spagna, ovvero conversazioni interessanti sulle cose ecclesiastiche dei nostri tempi fra il liberale Don Diego e il frate Zamora, Lugano 1845³, p. 91: «L’uomo del progresso, se vuol essere ancora l’uomo della ragione, non deve pensare che in materia di religione possa col tempo, anche dopo il Vangelo, abbandonarsi a migliori e più utili ricerche. Vorrà ben credere che dove si trova la perfezione deve essere immobilità».
24 In questo senso si può rileggere e interpretare in chiave più ampia quanto affermato da E. Galli Della Loggia, Liberali, che non hanno saputo dirsi cristiani, «Il Mulino», 349, 1993, pp. 855-866: «L’Italia è l’unico Paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione del dominio straniero siano avvenuti in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale. L’incompatibilità fra patria e religione, fra Stato e Cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato Nazionale».