Il ritorno del tribalismo
Nazionalismi, xenofobia e razzismo stanno risorgendo in tutta Europa, l’aggressività sopravanza il benessere pacifico e la democrazia. E tra i giovani, la disoccupazione e l’iperdigitalizzazione accentuano le spinte populiste.
Nel 1914 in Europa si attraversavano le frontiere senza particolari documenti.
Eppure l’intolleranza era già ben visibile. Hitler era ancora sconosciuto, ma l’antisemita Karl Lueger era stato borgomastro di Vienna. Per Marinetti la guerra era la sola igiene del mondo e l’ultimo italiano valeva mille stranieri. Allo scoppio del conflitto, gli uffici di reclutamento si disfecero come dighe di cartone sotto la fiumana dei volontari. Cosa era fermentato nell’inconscio collettivo? Si è parlato della noia, del bisogno di eroismo nei giovani maschi. C’è qualcosa di simile nelle ansie di oggi?
Le campagne napoleoniche e le rivoluzioni politiche avevano attraversato la prima parte dell’Ottocento: ma durante il secolo morirono in guerra ‘soltanto’ 5 milioni di persone. Nella seconda metà, il continente trascorse un lungo periodo di pace, con una forte crescita dei commerci. Tutto questo è abbastanza simile a ciò che è accaduto nel Novecento. Certo, con le 2 guerre mondiali i morti furono circa 70-80 milioni: ma dopo il 1945 l’Europa resta a lungo in pace, con un notevole avanzamento tecnico ed economico. Finita la divisione del mondo in 2 blocchi, negli anni Novanta le guerre balcaniche sono state appendici del conflitto 1914-18, ma contemporaneamente si sono ridotti gli armamenti. Intanto, la globalizzazione unificava il mondo nel costume e nei commerci.
Non pochi elementi sono dunque simili a 100 anni fa quando, quasi per ‘stanchezza della civiltà’ (Zivilisationsmüdigkeit), diffidenza e aggressività presero il sopravvento sulla fede nella ragione e nel progresso. Anche oggi avvertiamo segni di una noia di massa, di fronte al benessere pacifico e ai grigi meccanismi della democrazia.
Intascato un benessere frutto dell’abbattimento di frontiere, in ogni paese risorgono movimenti aggressivi, che spiegano ogni male attribuendolo agli ‘altri’ al di là dei confini, o presenti sul territorio nazionale. Più che avanzare proposte politiche, quelle formazioni vogliono celebrare l’antichissimo rito del capro espiatorio. Psicoanalisi e antropologia ci dicono che quando riti e miti esistono da tempi immemorabili, la nostra razionalità difficilmente può abolirli: li fa piuttosto sprofondare nell’inconscio, dal quale nei tempi di crisi tornano a irrompere in forme malate, non immediatamente riconoscibili.
L’Europa potrebbe soffrire di cicli secolari in cui i miti, irrisi e rimossi perché antimoderni, ritornano prepotentemente?
Paragonare la ‘psicologia della disperazione’ di diverse epoche ha però qualcosa di artificiale. Molti elementi decisivi sono nuovi.
Per prima cosa, oggi esistono istituzioni e regole internazionali che frenano i nazionalismi e altre che puniscono il razzismo. Ma la paura e la conseguente aggressività è oggi rivolta soprattutto contro gli immigrati: se l’antisemitismo è divampato malgrado gli ebrei fossero da secoli un pilastro dell’Europa, come impedire la diffidenza paranoica verso chi è ben più visibilmente diverso e non integrato? Bisognerebbe arginare l’immigrazione: ma essa è necessaria alla nostra economia, ed è dovuta a povertà o a guerre civili nei paesi d’origine, cose su cui l’Europa sembra impotente ad agire.
Una seconda diversità sta nella estrema frammentazione dei gruppismi di oggi. Un secolo fa le tensioni sociali si incanalavano nei nazionalismi, stadio finale e politicizzato del movimento romantico. Oggi la globalizzazione da una parte viene sfruttata, dall’altra, proprio perché vi siamo immersi ogni giorno, provoca l’inconscia paura di perdere le proprie radici. Come fa chi si è sporto troppo in avanti, per non cadere ci si butta violentemente all’indietro. Il risultato è un localismo esasperato.
Una terza novità che rende le nuove generazioni ansiose e disponibili ad ascoltare argomenti populisti è la disoccupazione. Essa è diversa da quella degli anni Venti e Trenta.
Con il superamento di una crisi economica, nel Novecento riprendeva l’impiego. Oggi l’economia riprende, ma il lavoro diminuisce: il maggiore successo economico del 21° secolo è finora Facebook, che però ha soltanto circa 3500 dipendenti. La ‘rivoluzione digitale’ porta risparmi al consumatore perché vengono eliminati lavori intermedi. Nessun paese può né vuole invertirla.
Quindi, l’ansia delle nuove generazioni prive di ruolo e di redditi è destinata a restare. Questo ci permette di passare a una quarta novità. Proprio i ‘nativi digitali’ soffrono di una privazione sensoriale: di alterazioni neurologiche non acute e, in genere, non gravi, ma permanenti. In grandi masse l’affettività è alterata. L’uso eccessivo di schermi e di altre tecnologie comunicative disabitua al contatto umano per cui la nostra psiche e il nostro sistema nervoso sono fatti.
Conseguenze tipiche sono insonnia, irritabilità, difficoltà a controllare le emozioni. Dopo la cosiddetta ‘fine delle ideologie’, una generazione simile è particolarmente esposta alla influenza di movimenti che propongono argomenti semplificati, con soluzioni politico-economiche immediate e illusorie. Senza rendersene conto, ha un gran bisogno di aggregarsi in modo non solo virtuale: e anche questo apre nuovi spazi alle sirene populiste.
A tutto ciò esiste qualche contrappeso. Proprio nelle nuove generazioni iperdigitalizzate cresce ogni anno quella che da chi scrive è stata chiamata slow culture. Molti rinunciano all’auto e preferiscono la bicicletta. Sono maestri nell’uso dello smartphone e del computer, ma quando possono scrivono a mano e su carta. Si tratta di un movimento risanatorio spontaneo, non derivato da ideologie. Chi lo costituisce forma una ‘nuova generazione critica’: riformatrice coraggiosa, che non si nota proprio perché molto più silenziosa della vecchia generazione critica, quella degli anni Settanta. Da loro non dobbiamo temere bande, branchi o semplicemente tribù. Sono loro che hanno consentito il successo dei festival culturali: fenomeno italiano in sorprendente controtendenza rispetto alla crisi economica. Il loro problema sta proprio nel fatto che, essendo introversi, sono poco visibili. Così, non ci rendiamo conto della loro consistenza numerica e non sappiamo valorizzarli. Essendo poi per vocazione introversi e parsimoniosi, non si fanno notare né dai mass media né dalle grandi forze che muovono l’economia cercando di promuovere nuovi consumi.
La parola
Tribalismo
Negli studi antropologici, il ritorno nella modernità o in contesti urbani di forme di relazioni e criteri identitari considerati arcaici. Questa ricomparsa non si spiega come sopravvivenza o riproposizione autentica di elementi della tradizione, ma come riformulazione creativa delle appartenenze con l’utilizzo di simbologie e tratti culturali avulsi dai contesti originari. Il tribalismo quindi non è la riproposizione dell’arcaico, ma l’esito identitario di gruppi in lotta per il controllo di risorse nei nuovi contesti contemporanei spesso segnati dalla dissoluzione di ideologie e istituzioni unificanti.