Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Se la galleria dei ritratti si apre in Francia con l’apoteosi dell’assolutismo nel ritratto del Re Sole da parte di Hyacinthe Rigaud, si chiude con le icone della Rivoluzione francese di Jacques-Louis David, le cui immagini di spoglia e incisiva grandezza si impongono ancora nel gusto dell’età imperiale.
Il ritratto di corte nell’interpretazione di Rigaud
La galleria dei ritratti rappresentativi del secolo si apre in Francia nel 1701 con il grande Ritratto di Luigi XIV, eseguito dal pittore catalano Hyacinthe Rigaud. È in questo dipinto che si realizza l’identificazione collettiva della Francia nell’immagine garante del suo sovrano, cui aveva puntato Charles Le Brun dipingendo in pieno Seicento le volte della Grande Galerie di Versailles (1679-1684).
In questo Ritratto di Luigi XIV, senza tradire la cruda verità di un volto segnato dall’amarezza e dagli anni, Rigaud realizza quella che può definirsi la cristallizzazione dell’immagine della regalità.
Infatti da allora e per sempre, nella memoria degli uomini europei, la majesté naturelle del Gran re – quella maestà che gli riconosceva anche lo storico Saint-Simon, che pure non lo amava – rimarrà inscindibile dallo sviluppo abnorme di un manto blu cobalto foderato d’ermellino, dall’invadenza fragorosa di un tendaggio amaranto e dall’esibizione di quelle insegne del Sacre – spada, scettro e corona – che il priore di Saint-Denis prestava regolarmente ai pittori, ma che nessuno mai aveva così teatralmente ambientato. Così le immagini ufficiali dei sovrani destinate a seguire nel tempo – quelle di Luigi XV e quelle di Luigi XVI – sono tutte prigioniere di quest’archetipo trionfalistico.
Il ritratto realizzato da Rigaud è il punto di consacrazione di un lungo discorso celebrativo; l’artista infatti fa coincidere l’immagine della superlativa magnificenza del sovrano con il nuovo peso politico acquisito dalla Francia e riesce a imporre la sua glorificazione quale proiezione del sogno individuale dei suoi sudditi.
Su quell’iperbolico modello del re vogliono essere ritratti anche gli uomini della sua corte, i quali fra “essere” e “apparire” preferiscono “apparire” nella formula spettacolare dello state portrait, il ritratto di parata, sopra le righe, che garantisce l’accesso alla perennità della storia.
Una rigida divisione per classi, difesa a oltranza nella società, si rispecchia anche nel genere del ritratto che vincola gli artisti a una committenza molto precisa.
Rigaud lavora per l’uomo di corte, per il testimone-partecipe dei fasti a Versailles. La sua è dunque un’impresa complessa, una “fabbrica di sogni” per cortigiani ambiziosi, dove lussuose scenografie, allestite da specialisti, costituiscono il marchio dell’atelier.
Nella produzione meno esclusiva – quella non destinata alla cerchia del re – i fiori, le stoffe, gli sfondi di paesi e battaglie sono eseguiti dai collaboratori; mentre per sé il pittore riserva le teste, spesso eseguite su frammenti di tela da applicarsi all’insieme già realizzato.
Jean-Marc Nattier e il ritratto libertino
Ancora nell’ambito del ritratto di corte, un successo emblematico arride a Jean-Marc Nattier che ha “l’audacia di offrire alle principesse quanto fino ad allora era riservato alle attrici”. Tradotta in termini figurativi, questa frase dello storico dell’arte Jacques Thuiller sancisce il trionfo, fino ai più alti livelli aristocratici e di corte, del ritratto allegorico-mitologico, la cui raffinata eleganza riscatta un’attitudine sottilmente licenziosa ed erotica.
Ai vertici della sua fortuna, infatti, Nattier esemplifica una casistica libertina e osée sulle favorite e le figlie di Luigi XV, le otto femmine (due soli i maschi) nate dal matrimonio con la “perennemente gravida” Maria Leszczynska.
Svestite come Diana (Maria Adelaide di Francia come Diana, 1745) o offerte come Flora alle sensuali carezze di Zefiro (Enrichetta di Francia come Flora, 1745, per il cabinet della regina a Versailles), le belle dame espongono la propria infantile nudità, paghe di un piacere tutto epidermico, senza affacciarsi sull’enigma dell’anima. L’esplorazione dei sentimenti non rientra infatti nel cliché di questi ritratti, dove moderne divinità si stagliano sullo sfondo d’incontaminati paesaggi d’Arcadia.
Nicolas de Largillière, ritrattista dell’alta borghesia
Rigaud lavora per l’aristocrazia e per la corte, ma la classe in ascesa dei magistrati, delle belle borghesi e degli artisti di grido trova invece un interprete gratificante e dotato in Nicolas de Largillière. Procedendo come Rigaud dagli aulici modelli di Antonie van Dyck – Largillièrre arriva infatti dallo studio londinese di Sir Peter Lely, allievo di Van Dyck – egli dà risalto anche al temperamento, alla fisicità e al magnetismo di certe presenze vibranti in termini già più moderni (Ritratto di Rousseau, 1718).
Se infatti negli anni di Luigi XIV il fasto designa la condizione e il rango, nel nuovo regno di Luigi XV (dal 1715 al 1764) – che fu anche il “regno” della marchesa di Pompadour – sono piuttosto l’eleganza e lo charme a imporsi quali connotazioni elitarie; si apre così la strada alle varianti individuali in opposizione alle tipologie unificanti, promosse dalla volontà livellatrice del Re Sole.
I ritratti a pastello
Poco più tardi però, col delinearsi di un Settecento positivo e sensista, i turbamenti cominciano ad affiorare anche sulla superficie dipinta che in molti casi ha l’impalpabile leggerezza del pastello.Sull’onda dell’entusiasmo che infiamma Parigi per le iridescenti “istantanee” della pittrice veneziana Rosalba Carriera, accolta in Francia trionfalmente nel 1720-1721, la tecnica rapida e confidenziale del pastello – “simile alla polvere delle Grazie”, scriveranno i fratelli Goncourt – conosce difatti uno straordinario rilancio.
Così, tra i più importanti ritrattisti francesi del Settecento, oltre a Peronneau dobbiamo citare Maurice Quentin de La Tour, pastellista geniale e di razza.
Accusato da Denis Diderot di essere un “meraviglioso costruttore di macchine” e di avere messo a punto un repertorio mimico dove la maschera si confonde con la pelle, La Tour è in realtà pienamente cosciente nello sforzo di cogliere la personalità dei modelli nel lampo momentaneo di un’espressione: “Credono che io non afferri che i tratti del volto, mentre io scendo nel loro profondo e li restituisco tutti interi!”.
Ed è appunto nell’imminenza di un gesto, nella fugacità di un atteggiamento, nell’emozione irripetibile di un attimo di vita, che l’artista restituisce l’intima essenza dei personaggi ritratti. Per definire i suoi pastelli si parlerà, non a caso, di portrait-vérité.
Jean-Etienne Liotard
Nell’ambito di un realismo “speculare”, secondo cui la realtà è quella cristallina e tersa registrata senza additivi dalla retina, non può mancare qualche capolavoro di Jean-Etienne Liotard che, pur non essendo francese (nasce a Ginevra nel 1702), cresce in quella parte della Svizzera fortemente condizionata dall’Illuminismo di Francia – Rousseau e Voltaire vivono allora a distanze ravvicinate. La sua attenzione all’apparenza fenomenica delle cose, quella sospensione incantata e silente impongono una nuova iconografia del modello: immagini nitide, documentarie, come di cronaca o reportage, nel solco del portrait-vérité. La realtà di Liotard è ottica, trasparente, mai idealizzata o convenzionale, come nei ritratti dei figli bambini dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, eseguiti nel 1762. Undici ritratti realizzati su carta – “ritratti da viaggio” o “di presentazione” – che la madre porta nei suoi tours diplomatici per imbastire matrimoni o alleanze dinastiche: bambini veri, per niente ieratici, se pure bambini della corona. Inquieto ed errante, Liotard vive a Vienna, Francoforte, Venezia, Parigi, Londra, Amsterdam e a lungo a Costantinopoli, dove si lega a una giovane turca. Il suo sguardo neutrale, razionalista, immune da etnocentrismi e da facili voghe turchesche sa restituire tutta la fascinazione di un europeo approdato sul Corno d’Oro e conquistato dall’utopia illuminista di una civiltà supernazionale e una fraternità oltre le religioni. I suoi ritratti di saggi ottomani e quelli indimenticabili di dame “franche” – le dame dell’Occidente – sedotte dal cerimoniale turco del bagno (Dama franca vestita alla turca con la sua ancella) si collocano fra i grandi ritratti del Settecento; come pure l’immagine di Mary Cunning, contessa di Coventry, vestita alla turca sul divano a stelline, ai piedi un bizzarro tappeto di Uzak, immagine struggente di un sogno orientale che è ormai nel cuore di molti Europei.
Elisabeth Vigée-Lebrun
Verso la fine del Settecento, alla corte di Francia il ritratto in stile Louis Seize porta la firma di Elisabeth Vigée-Lebrun, pittrice e memorialista incantevole che con la Rivoluzione francese è costretta a emigrare presso altre corti europee, da Napoli a Londra, a San Pietroburgo. Così, se in Francia eterna la sontuosa eleganza della regina Maria Antonietta circondata dai suoi bambini, come chiede la propaganda di corte, più tardi Elisabeth Vigée-Lebrun esegue lusinghieri ritratti dei Borbone alla corte di Napoli, di Caterina II e Paolo I di Russia, dell’Inghilterra di Giorgio III e di tante aristocratiche dame, di cui scrive nei suoi Souvenirs: “[…] se non avevano emozioni […] le dipingevo sognanti e disinvoltamente appoggiate”.
La pittrice Vigée-Lebrun, in sintonia con Angelica Kauffmann – ritrattista anch’essa di grande successo nella cerchia elitaria di Roma – esemplifica dunque tutte le variazioni della tenerezza e dell’affettività, mentre Adélaïde Labille-Guiard – sua rivale all’Académie de Peinture – punta piuttosto al sensazionale e all’eroico, come nell’apparizione teatrale dell’Infanta Louise-Elisabeth, duchessa di Parma (1788), evocata a trent’anni dalla sua tragica fine.
E nel riverbero artificiale, nell’iperrealismo del pappagallo, nel gran falò di colori, questo ritratto postumo, di perturbante evidenza, corrisponde proprio al bisogno di protagonisti in una Francia alle soglie della Rivoluzione.
David e le icone della Rivoluzione
A legittimare la nuova realtà del ritratto rivoluzionario ed eroico è tuttavia la creatività di Jacques-Louis David, la forza esortativa di certe sue immagini, come Bonaparte al valico del Gran San Bernardo , l’ipnotica evidenza dell’Assassinio di Marat, la fissità allucinata della giovane e vulnerabile Madame Trudaine. Con l’ovale diafano ed esangue, i capelli sconvolti su un fondo rosso crudele, Madame Trudaine sembra a un passo dalla ghigliottina che poi le strappa davvero, insieme all’amico e poeta André Chénier, il padre, il marito e il cognato, uomini progressisti del primo tempo della Rivoluzione.
Sono queste le icone di fine secolo, la cui potente icasticità finisce per imporre, anche nel ritratto, immagini di spoglia e incisiva grandezza che resistono ancora nell’età dell’Impero.
Si pensi a Madame Récamier (1800), alla sua interiorizzata bellezza e alla grazia verginale della giovinezza, in cui David esprime un nuovo ideale di femminilità. Drappeggiata nella mussola bianca che esalta la statuaria nitidezza del corpo, Juliette Récamier si allunga sulla méridienne che costituisce l’asse orizzontale del quadro. Lo stelo del tripode in bronzo è, in verticale, il suo contrappeso. Poi quasi niente altro, se non l’incanto di una bellezza intangibile che pone fine alle trasgressioni della Rivoluzione.
Fra i tanti capolavori generati da questa lucida sintassi davidiana – rilievo a sbalzo della figura contro la lastra semplificata del fondo – c’è il Ritratto di Jean-Baptiste Belley, delegato di Santo Domingo dove Girodet, allievo amatissimo di David, esalta, nel contrappunto del vivo e del morto (il nero della pelle contro il bianco del marmo), dell’ex schiavo integrato e del filosofo liberale, i principi egualitari della Rivoluzione.
Nell’irresistibile ascesa di Napoleone che sollecita promozioni per la sua cerchia, il ritratto si piega poi alla celebrazione della corte imperiale, nei dipinti di Antoine-Jean Gros e di François Gérard. Finché la rigorosa stilizzazione di Jean-Auguste-Dominique Ingres attinge ancora, nel ritratto ufficiale, un estremo traguardo quale solo l’altissimo classicismo di Francia è in grado di produrre per sotterranei tramandi.