Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli artisti romantici oppongono all’ideale la realtà e il vero, sostituendo ai modelli normativi e accademici del neoclassicismo l’espressione dei sentimenti, individuali e collettivi. Si diffonde così una pittura di genere e degli affetti che privilegia i temi domestici e a sfondo morale. Ma in età romantica accanto alla pittura di storia assumono un ruolo preminente anche la ritrattistica e la pittura di paesaggio.
Premessa
Le vicende della pittura romantica in Italia compiono un percorso parallelo a quello della letteratura. Come gli intellettuali e gli scrittori romantici, gli artisti oppongono all’ideale la realtà e il vero, sostituendo ai modelli normativi e accademici del neoclassicismo l’espressione dei sentimenti, individuali e collettivi. Alla definizione del bello assoluto essi sostituiscono un concetto di bello relativo e soggettivo.
I pittori romantici pertanto rivalutano la storia e ribadiscono la necessità di imitare fedelmente la realtà. Del passato i romantici rivalutano in particolare il Medioevo, inteso come l’età gloriosa della religione e dell’affermazione di una coscienza nazionale e popolare. Del resto per gli artisti italiani che condividono l’ideologia risorgimentale, nell’Italia sottomessa all’Austria, adottare i temi della storia passata significa sovente sfuggire alla censura. Il romanticismo guarda anche alla realtà contemporanea e, con un’attenzione tutta nuova alla quotidianità, ai sentimenti privati e familiari, riscopre il vero in nome della modernità. Si diffonde così una pittura di genere e degli affetti che privilegia i temi domestici e a sfondo morale.
In età romantica accanto alla pittura di storia assumono un ruolo preminente anche la ritrattistica e il paesaggio. Il ritratto, fino al Settecento riservato ai ceti più elevati, in funzione prevalentemente celebrativa e di rappresentanza, nell’Ottocento si adatta anche alle esigenze dei ceti emergenti, in particolare della borghesia e degli intellettuali. Il ritratto romantico evidenzia infatti il carattere, le doti individuali e il ruolo sociale della persona.
La pittura di paesaggio, anch’essa considerata un genere inferiore nei secoli precedenti, è ora rivalutata in Italia sotto la spinta degli artisti stranieri che giungono nella penisola e compiono le loro ricerche sul paesaggio, ispirandosi alle sue bellezze naturali. Così i pittori italiani, rifacendosi alla tradizione del vedutismo settecentesco, giungono alla rappresentazione sentimentale e lirica della natura, scoprendo nel genere paesaggistico – privo dei condizionamenti formali e accademici della pittura di storia e di figura – la possibilità di una maggiore libertà espressiva.
Il movimento purista
Il riconoscimento di un valore sentimentale e di una finalità etica dell’arte, insieme a un rinnovato interesse per i “primitivi”, i pittori del Trecento e del Quattrocento da Giotto a Raffaello, sono i principi su cui si fondano le proposte avanzate dal movimento purista. Il termine “purismo” è impiegato per la prima volta nel 1833 dal pittore e letterato Antonio Bianchini, che lo prende a prestito dai fautori del fiorentino letterario del Trecento, per indicare l’attività di numerosi artisti europei, tra cui i nazareni, che si ispirano alla pittura toscana del XIV e XV secolo. Bianchini stesso nel 1842 formula le istanze teoriche del movimento in un documento intitolato Del purismo nelle arti, sottoscritto dai pittori Tommaso Minardi e Friedrich Overbeck e dallo scultore Pietro Tenerani.
Il movimento purista in Italia prende le mosse dall’esperienza di un gruppo di allievi dell’Accademia di Vienna, guidati da Overbeck, i nazareni, che a partire dal 1810 si stabilisce nel convento di sant’Isidoro a Roma e fonda una confraternita, la cosiddetta Sankt Lukas Brüderschaft. Overbeck e i suoi compagni praticano una vita comunitaria e ascetica, fondata sugli ideali di eguaglianza, fede e patriottismo, gli stessi ideali che essi si propongono di esprimere nella loro arte. Questi artisti assumono come principale modello Raffaello, di cui imitano fedelmente lo stile con criteri quasi filologici. Le citazioni dalle opere di Raffaello Sanzio, di Dürer e di altri pittori del Quattrocento sono frequentissime, ma essi guardano anche ai grandi maestri della maniera, quali Michelangelo, Bronzino e Pontormo.
I grandi cicli di affreschi eseguiti a Roma da Overbeck, Franz Pforr, Philipp Veit e altri (Casa Bartholdy, 1816-1817; Casino Massimo, 1819-1829) avranno una grande risonanza sulla pittura contemporanea. Tomaso Minardi, pittore faentino, già allievo dell’Accademia di San Luca a Roma, dopo aver dato prova di un precoce romanticismo con l’Autoritratto nella soffitta (1807; Firenze, Galleria degli Uffizi), dal 1825 comincia a dipingere opere di soggetto religioso nello stile neoquattrocentesco umbro, come l’Apparizione della Vergine a san Stanislao Kostka (Roma, Sant’Andrea al Quirinale) e affronta i temi letterari tratti da Dante, Ariosto e Tasso.
Un interesse profondo per l’arte dei primitivi mostra fin dall’inizio anche il più giovane Luigi Mussini (1813-1888), attivo a Firenze e a Siena, dove si dedica prevalentemente all’insegnamento. L’adesione di Mussini al purismo è evidente già nel 1835, quando dipinge Samuele che unge Saul; inoltre tutta la sua produzione successiva - da Musica sacra a del 1840 a Eudoro e Cimodocea del 1854-1855 (Firenze, Galleria d’arte moderna) - e i suoi stessi scritti mostrano un impegno costante nella rivalutazione della pittura duecentesca e trecentesca.
Francesco Hayez
Francesco Hayez è giustamente considerato l’esponente più rappresentativo della pittura romantica in Italia. Allievo a Venezia presso i pittori Francesco Magiotto e Teodoro Matteini, nel 1809 Hayez si trasferisce come pensionato dell’Accademia di Venezia a Roma, dove incontra Antonio Canova e Leopoldo Cicognara, che divengono presto i suoi protettori, ed entra in contatto con i nazareni e i puristi. Nel 1812 Hayez vince il premio dell’Accademia di Brera con il Laocoonte e l’anno seguente espone, riscuotendo enorme successo, Rinaldo e Armida, un dipinto ancora di stampo classicista che risente però dell’esperienza dei nazareni e presenta una tecnica già matura nell’abile impiego del chiaroscuro e nella stesura morbida del colore. Acquistata una discreta notorietà e diversi importanti riconoscimenti – nel concorso del 1815 presso l’Accademia di San Luca supera un concorrente del calibro di Jean-Auguste-Dominique Ingres – nel 1817 Hayez ritorna a Venezia.
Nella sua città natale Hayez comincia a misurarsi con la pittura di storia, innovando un genere ormai in declino e obsoleto nei temi e nel linguaggio. La prima grande composizione storica di Hayez è il Pietro Rossi chiuso dagli Scaligeri a Pontremoli viene invitato dalla Repubblica Veneta ad assumere il comando delle sue forze. La moglie e le figlie tentano di dissuaderlo, eseguita tra il 1818 e il 1820 (Torino, Galleria Bottega di San Luca). Il soggetto è tratto dalla Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo di de Sismondi; il motivo è quello del conflitto tra il dovere patriottico e gli affetti familiari, illustrato con verosimiglianza storica e in toni dimessi, quasi si trattasse di una scena di genere; l’elemento drammatico è rievocato solamente dai gesti di supplica e di dolore delle tre donne e il colorismo adottato è quello dei maestri veneziani, di Giorgione e di Tiziano.
Nei successivi dipinti di soggetto storico Hayez perfeziona l’impianto compositivo e sceglie temi della storia passata e contemporanea che alludono alle aspirazioni patriottiche degli Italiani e mirano a trasmettere una forte carica sentimentale. La grande tela Pietro l’eremita che cavalcando una bianca mula col crocifisso in mano e scorrendo le città e le borgate predica la crociata (1827-1829) ha uno schema estremamente complesso e teatrale, basato sull’orchestrazione delle attitudini dei gesti delle figure e sulla loro disposizione nello spazio, tale da evidenziare la figura del frate che chiama a raccolta gli Italiani per liberare Gerusalemme. Numerose e sottili sono inoltre le citazioni dalle opere dei grandi maestri del passato, come Leonardo, Tiziano e Raffaello.
Nel dipinto I profughi di Parga del 1826-1831 ora alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, Hayez affronta un tema tratto dalla storia contemporanea, quello della Grecia sottomessa alla Turchia, condizione molto simile a quella dell’Italia durante la Restaurazione. Nel 1818, infatti, la città di Parga viene ceduta dall’Inghilterra alla Turchia, secondo una logica che ignora totalmente il sentimento nazionale di un popolo. Il principio seguito dal pittore è anche in quest’opera quello della verosimiglianza nella resa fedele dei costumi, ma il gruppo dolente al centro della scena, così come le figure nello sfondo che affollano la spiaggia, accentuano l’impronta tragica ed epica del soggetto: la donna in basso a sinistra, si rivolge allo spettatore per suscitare la sua pietà e coinvolgerlo intimamente.
Francesco Hayez è un grande innovatore anche nel genere del ritratto, dove raggiunge esiti altissimi – soprattutto nei numerosi ritratti di donne dell’aristocrazia milanese – per l’intensità dell’introspezione psicologica e il rigoroso impianto formale, come dimostra il bellissimo ritratto di Cristina Barbiano di Belgioioso Trivulzio (1830-1831). Hayez usa abilmente lo sfumato e combinazioni di colore estremamente calibrate, ottenendo raffinati effetti mimetici.
La stessa tecnica esecutiva è adottata da Hayez nella serie delle penetranti composizioni allegoriche degli ultimi anni, delle personificazioni di stati d’animo e sentimenti, resi con estrema efficacia mediante un linguaggio verista, come nella Malinconia (1842).
La pittura storico-patriottica
Dopo le prime prove di Hayez, la pittura di storia si diffonde rapidamente al principio degli anni Venti. I temi della storia antica e soprattutto medievale vengono adottati anche da altri artisti italiani, quali il torinese Massimo D’Azeglio e il fiorentino Giuseppe Bezzuoli (1784-1855), per esprimere sentimenti patriottici e ideali risorgimentali.
Massimo D’Azeglio, uomo politico e letterato di nobile estrazione, si dedica costantemente anche alla pittura, accostandosi inizialmente ai paesaggisti francesi, olandesi e tedeschi che risiedono a Roma e praticano una pittura naturalistica, basata sullo studio dal vero. Tuttavia, a partire dal 1825, D’Azeglio abbandona il paesaggio puro per introdurre nei suoi dipinti temi storici e letterari. Il primo esperimento di questo nuovo corso della pittura di paesaggio è La morte di Montmorency del 1825. Quando nel 1831 D’Azeglio si trasferisce a Milano, dove comincia a frequentare intellettuali e scrittori romantici e diviene amico di Alessandro Manzoni, di cui sposa la figlia Giulia, ha già al suo attivo alcune grandi composizioni storico-patriottiche, come la celebre Disfida di Barletta e la Battaglia di Legnano. Il pittore torinese si propone da un lato di rappresentare il vero ed esprimere il sentimento della natura, dall’altro di suscitare l’immaginazione del pubblico e trasmettere concetti elevati. In dipinti come Una vendetta (1835) e Muzio Attendolo Sforza che lancia l’accetta sull’albero (1858 ca.) D’Azeglio realizza pienamente il proprio programma: in entrambe le opere, lo studio dal vero diviene la condizione preliminare per inventare un paesaggio suggestivo e fantastico con una forte carica sentimentale.
Negli stessi anni in cui Hayez rinnova la pittura di storia e D’Azeglio introduce nella pittura di paesaggio i temi storici e letterari, Giuseppe Bezzuoli realizza grandi composizioni di soggetto storico e religioso, tra cui la più importante è certamente l’Ingresso di Carlo VIII a Firenze, commissionata nel 1827 dal granduca di Toscana ora conservata a Firenze alla Galleria d’arte moderna.
Nei suoi dipinti Bezzuoli ricostruisce con filologica precisione gli ambienti e i costumi, impiegando però una tecnica libera e sciolta, basata su effetti cromatici accentuati e brillanti e su chiari e monumentali schemi prospettici.
La pittura di genere
Molto più adeguata al gusto borghese è la pittura di genere, che esprime i sentimenti e gli affetti privati, assumendo talvolta caratteri moralistici e didascalici. Alla rappresentazione dei grandi temi corali storico-patriottici alcuni artisti preferiscono infatti sostituire l’illustrazione di temi familiari e quotidiani.
A partire dalla metà degli anni Quaranta il milanese Domenico Induno – già allievo all’Accademia di Brera del fiorentino Luigi Sabatelli (1772-1850) e di Hayez – e suo fratello Girolamo cominciano a comporre dipinti con scene di genere, ma la loro scelta di temi veristi non implica un linguaggio verista. Domenico non va oltre l’impiego di una tecnica pittorica tradizionale e una resa più naturalistica della luce, mediante colori mossi e vibranti.
Una certa attenzione per gli effetti luministici e il gusto per i temi cronachistici si colgono ad esempio nella Scuola di sartine del 1860 ora alla Galleria civica d’arte moderna di Milano; mentre ancora legata ai temi patriottici e risorgimentali, ma secondo una prospettiva intimistica e familiare è la tela intitolata La medaglia (1860).
Girolamo partecipa direttamente alle campagne garibaldine e alla guerra di Crimea, da cui trae numerosi motivi per quadri di battaglie, giudicati spesso vicini alla pittura francese contemporanea a causa della loro rapida esecuzione per pennellate sommarie. Differenti sono invece i risultati raggiunti nei dipinti di genere – come Povera madre (1855) – che non si discostano però dall’insegnamento del fratello maggiore, sia per la tecnica pittorica che per la scelta dei soggetti.
Più originale e innovativa è la produzione del giovane Federico Faruffini, allievo a Pavia del pittore romantico Giacomo Trécourt (1812-1882).
Faruffini supera l’accademismo hayeziano, cui rimangono in parte legati i fratelli Induno, Domenico e Girolamo, adottando sia nei quadri storici sia nella pittura di genere un linguaggio intenso e vibrante, caratterizzato da un uso ardito del colore, steso quasi a macchia, cui si accompagna la ricerca di particolari effetti luministici. Il dipinto La lettrice del 1864 è costruito interamente senza far ricorso al disegno per definire i contorni, ma impiegando abilmente le variazioni tonali e le giustapposizioni delle campiture di colore.
Il pittore pugliese Gioacchino Toma si distingue per l’impronta sinceramente intimistica e dimessa delle sue composizioni, costruite su schemi spaziali e prospettici calibrati, mostrando una rara abilità nella rappresentazione degli interni. Nel dipinto raffigurante Luisa Sanfelice in carcere (1877), le superfici delle spoglie pareti della cella, dell’ampia gonna che indossa la donna e dell’ordinato giaciglio assumono quasi un valore pittorico autonomo, indipendente dal soggetto, poiché l’impianto prospettico è sostenuto dal solo impiego del colore che varia al variare della qualità della luce e dei riflessi.
La pittura di paesaggio
La pittura romantica di paesaggio in Italia prende le mosse dal vedutismo settecentesco. Già il pittore torinese Giuseppe Pietro Bagetti (1764-1831), formatosi nell’ambito della tradizione topografica e illuminista, nell’ultimo decennio della sua attività si dedica esclusivamente al paesaggio d’invenzione, scoprendo l’intensa carica espressiva della natura. Bagetti ricerca gli effetti più suggestivi delle luci e delle ombre, predilige i panorami ampi, le vedute a volo d’uccello e, mediante una tecnica analitica e una rappresentazione puntuale del dato naturale, coglie gli aspetti sublimi e pittoreschi del paesaggio.
Certamente più originale e feconda è la produzione del pittore napoletano Giacinto Gigante che, avviato alla pittura dal padre Gaetano e dopo aver lavorato nella bottega del vedutista tedesco Wilhelm Huber, nel 1822 entra nello studio del paesaggista olandese Anton Sminck Pitloo. Il confronto con l’arte di Pitloo, di altri artisti olandesi e dell’inglese William Turner – che visita Napoli nel 1814 e nel 1828 – fa maturare in Gigante un nuovo modo di rappresentare la natura, basato sull’accentuazione dei valori luminosi e cromatici. L’artista ignora quasi le ombre e i contorni, che raramente definisce con il disegno, la sua indagine al contrario è tutta rivolta a cogliere le variazioni della luce più intensa e gli elementi del paesaggio sono definiti da pennellate liquide e macchie di colore. Dal dato reale e naturale, reso ancora fedelmente nella prima produzione come si nota ne Il lago di Averno del 1914, ora al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, negli anni Cinquanta Gigante approda a una rappresentazione lirica della natura, di cui esalta le componenti sublimi e pittoresche come nella Campagna di Caserta del 1857.
Intorno a Pitloo e successivamente intorno a Gigante si forma la cosiddetta Scuola di Posillipo che raccoglie numerosi vedutisti napoletani. Questi artisti dipingono i loro bozzetti dal vero e danno grande importanza ai valori luminosi e cromatici del paesaggio, resi “a macchia”.
La Scuola di Posillipo esercita un influsso positivo su due giovani pittori, i fratelli Giuseppe e Filippo Palizzi, che presso l’Accademia di Napoli seguono i corsi di pittura di paesaggio tenuti da Gabriele Smargiassi, esponente di rilievo del vedutismo romantico napoletano. I fratelli Palizzi tuttavia approfondiscono lo studio dal vero e adottano presto un linguaggio realista, basato sull’impiego della “macchia” e del colore puro.
Il dipinto Gli scavi di Ercolano eseguito da Giuseppe prima di trasferirsi a Parigi (1845), è fortemente innovativo per la crudezza del linguaggio pittorico e la scelta del soggetto, di chiara ispirazione sociale. Nel successivo Accampamento degli zingari, esposto al Salon di Parigi (1845), Giuseppe mostra di avere assimilato appieno la lezione dei paesaggisti francesi, da Corot ai pittori della Scuola di Barbizon.
Anche Filippo, influenzato dal fratello – che nel 1854 compie un breve soggiorno a Napoli – dipinge paesaggi interamente veristi con una resa minuziosa quasi fotografica degli oggetti e uno studio analitico della luce naturale come ne La fontana rustica conservata a Napoli presso il Museo di Capodimonte.
Ancora profondamente legato a una concezione sentimentale e romantica del paesaggio è Antonio Fontanesi, un pittore emiliano che trascorre gran parte della sua vita all’estero – in Svizzera, in Francia e in Inghilterra – dove ha modo di conoscere direttamente l’opera dei paesaggisti francesi e inglesi. I suoi paesaggi sono frutto di una concezione idillica e sentimentale della natura, ma l’attenzione al dato reale gli consente di evitare il puro sentimentalismo e la retorica. Mediante la resa degli effetti di luce di particolari condizioni atmosferiche e soprattutto degli spazi ampi e profondi, Fontanesi dipinge luoghi incantati, al tempo stesso reali e fantastici, come nel Mattino (1856-1858) e nel dipinto La quiete (1860), entrambi alla Galleria civica d’arte moderna di Torino.
Giovanni Carnovali detto il Piccio e la scapigliatura lombarda
Giovanni Carnovali detto il Piccio, allievo di Giuseppe Diotti all’Accademia Carrara di Bergamo, si distingue subito per il suo talento e la capacità di rielaborare sapientemente e con originalità la lezione dei grandi maestri del passato e delle più importanti correnti artistiche contemporanee. Nel 1831, insieme al collega Giacomo Trécourt, si reca a Roma per studiare Raffaello e quindi a Parma per ammirare le opere di Correggio e Parmigianino; da questi modelli Carnovali prende spunto per affrontare con inconsueta libertà pittorica i temi mitologici.
La morte di Aminta (1835) è un quadro interamente romantico, in cui ogni elemento, lo sfumato delicatissimo, i morbidi contorni, la resa sensuale delle carni, il tenero abbraccio tra la ninfa e il giovane pastore, concorre a esaltare gli aspetti sentimentali ed emotivi del soggetto. Sempre in quest’opera il paesaggio boschivo che si apre alle spalle del gruppo di figure, nella stesura del colore per velature trasparenti definite da pennellate leggere e mosse, anticipa certe soluzioni che il Piccio adotta nei paesaggi idilliaci che dipinge nei due decenni successivi al suo viaggio a Parigi, avvenuto probabilmente nel 1845; è il caso di Paesaggio (1850 ca.), conservato alla Galleria civica d’arte moderna di Milano.
Anche nella ritrattistica il Piccio si distingue fortemente per la complessità e la novità di linguaggio e per le soluzioni che adotta. Nei suoi ritratti Carnovali predilige il taglio a mezzo busto e la posa frontale leggermente girata, come era in uso nella ritrattistica del Settecento, ma le sue figure sono costruite mediante il solo impiego del colore, cui attribuisce un valore plastico, e senza alcuna idealizzazione; le sue figure al contrario sono ritratte con autentico verismo, soprattutto nelle prime composizioni, quali Il conte Guglielmo Lochis del 1835 e La contessa Anastasia Spini del 1840, entrambe caratterizzate da un’accentuata introspezione psicologica. Ma se in questi primi ritratti Carnovali risente ancora della lezione di Hayez, nelle opere successive – dagli anni Sessanta in avanti – l’esecuzione diviene più ardita e libera e il colore, steso a macchie con brevi tocchi di pennello, infonde le superfici di una vibrante luminosità, come in Busto di donna con fiori (1869) e nell’Autoritratto del 1871.
Alla pittura di Carnovali si ricollegano i pittori della scapigliatura lombarda, tra cui Tranquillo Cremona, Federico Faruffini e Daniele Ranzoni. Il nome del gruppo, che riunisce non solamente pittori, ma anche scultori e scrittori, deriva dal titolo del romanzo di Cletto Arrighi La scapigliatura e il 6 febbraio, pubblicato nel 1862. Gli scapigliati prediligono i generi del ritratto e del paesaggio, coi quali si misurano con estrema libertà, adottando una pittura basata su effetti di sfumato, riverberi e riflessi luminosi che talvolta rendono le immagini quasi evanescenti, come nel dipinto di Tranquillo Cremona L’edera (1878). Nella pittura di Daniele Ranzoni, influenzato dalla lezione del Piccio, il colore vibrante dà rilievo plastico alle figure e crea effetti di luce morbida e avvolgente come ne I figli del principe Troubetzkoy del 1873 circa.