Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il romanzo americano è caratterizzato da alcuni temi che nei secoli hanno subito radicali trasformazioni, pur restando perfettamente riconoscibili. Fin dalle sue origini è evidente la sua tendenza a costruire contraddittorie allegorie e creare complesse dicotomie fra elementi quali natura e civiltà o individuo e società, sempre in bilico fra le esigenze del realismo e quelle di un’immaginazione lasciata libera a se stessa.
Le origini
Quando Matthew Arnold, figura di spicco dell’Inghilterra vittoriana, viene a sapere della pubblicazione di un sommario di letteratura americana, commenta: “Immaginate la faccia di Filippo o di Alessandro a sentir parlare di un Sommario di letteratura macedone! Noi siamo tutti tributari di una sola, grande letteratura: quella inglese”. Eppure, nel momento in cui Arnold manifesta così la sua indignazione, la letteratura americana ha già prodotto capolavori quali La lettera scarlatta e Moby Dick, Mark Twain sta scrivendo Le avventure di Tom Sawyer e Le avventure di Huckleberry Finn, Walt Whitman sta approntando nuove edizioni di Foglie d’erba ed Emily Dickinson compone le sue brevi e intense liriche.
Mark Twain
Tom e Joe giocano con la zecca
Le avventure di Tom Sawyer, Cap. VII
Con quanta più determinazione Tom cercava di concentrarsi sul libro, tanto più i suoi pensieri si facevano errabondi. Per cui, in ultimo, con un sospiro e uno sbadiglio, finì per rinunciare. Gli sembrava che l’intervallo del mezzogiorno non sarebbe più arrivato. L’aria era del tutto immobile. Non spirava un alito di vento. La giornata si trascinava letargica più di qualsiasi altra giornata letargica. Il mormorio cullante dei venticinque scolari intenti a studiare la lezione induceva al sonno l’animo come l’incantesimo celato nel ronzio delle api. Lontano, sotto il sole fiammeggiante, il colle Cardiff si levava con i morbidi e verdi declivi dei suoi fianchi attraverso un baluginante velo di calura, colorato dal viola della distanza, alcuni uccelli si libravano alti nell’aria su ali impigrite; non si scorgeva nessun’altra creatura vivente, a parte alcune vacche, ed erano addormentate.
Il cuore di Tom soffriva anelando alla libertà, o almeno a qualcosa di più interessante da fare per trascorrere quelle ore monotone. Infilò la mano in tasca, per controllarne il contenuto e il viso gli si illuminò, acceso da una gratitudine in qualche modo simile a una preghiera, sebbene lui non se ne rendesse conto. Poi, furtiva, la scatoletta della capsule esplosive saltò fuori. Tom liberò la zecca, e posò l’insetto sopra il lungo e piatto scrittoio. Anche la creatura, con ogni probabilità, si illuminò di una gratitudine in qualche modo simile a una preghiera, in quell’istante, ma tale sentimento era prematuro, perché quando la zecca diede inizio, piena di esultanza al proprio viaggio, Tom la indirizzò da un’altra parte, facendole prendere una nuova direzione.
Accanto a Tom sedeva il suo migliore amico, che fino a quel momento aveva sofferto proprio come lui, e adesso, nel giro di un attimo, si interessò intensamente e con animo grato a quello spasso. Questo amico del cuore si chiamava Joe Harper. I due ragazzi si mantenevano amici per la pelle durante tutta la settimana e diventavano accaniti nemici il sabato. Joe si tolse uno spillo dal bavero della giacca, e incominciò a collaborare nell’operazione di far compiere esercizio fisico alla prigioniera. Il divertimento si faceva di minuto in minuto più interessante. Ben presto Tom disse che si stavano ostacolando a vicenda, per cui nessuno dei due finiva per sfruttare appieno la zecca. Pertanto mise sul banco la lavagnetta di Joe e vi tracciò una linea nel mezzo, dall’alto verso il basso.
"E adesso", disse, "fin quando resterà dalla tua parte tu potrai pungolarla e io la lascerò in pace; ma se la lascerai scappare e arrivare dalla mia parte, sarai tu a doverla lasciare in pace fin quando riuscirò a impedirle di attraversare il confine".
"D’accordo, avanti... comincia tu".
Di lì a non molto la zecca sfuggì a Tom e attraversò l’equatore. Joe la tormentò per qualche tempo, poi l’insetto riuscì a sfuggirgli e riattraversò la linea. Questo cambiamento di campo si verificò spesso. Mentre uno dei ragazzi torturava la zecca con assorto interesse, l’altro stava a osservare con un interesse altrettanto intenso. Le due teste restavano accostate sopra la lavagnetta e gli animi di entrambi rimanevano inconsapevoli di tutto il resto.
In ultimo, la fortuna parve aver deciso di schierarsi dalla parte di Joe. La zecca tentava di andare in questa o in quella o nell’altra direzione e sembrava agitata e ansiosa quanto i ragazzi stessi, ma proprio nel momento in cui si sarebbe detto che Tom avesse la vittoria in pugno, per così dire, e le sue dita cominciavano a fremere, smaniose di incominciare, lo spillo di Joe era solito riuscire con abilità a far cambiare strada all’insetto e a mantenerlo in proprio possesso. Alla fine Tom non riuscì più a resistere. La tentazione era troppo forte. Pertanto tese la mano e intervenne con il suo spillo. Joe si infuriò subito. Disse:
"Tom, lasciala stare".
"Volevo soltanto darle una piccola spinta, Joe".
"No, niente affatto, non è leale; la lasci stare e basta".
"Accidenti, non è che la muova poi tanto".
"Ti ho detto di lasciarla in pace!"
"E invece io la farò muovere!"
"No... si trova dalla mia parte della linea".
"Ehi, stammi a sentire, Joe Harper, di chi è questa zecca?"
"Non me ne importa niente di chi è la zecca... si trova dalla mia parte della linea, e tu non la tocchi".
"Be’, sono pronto a scommettere che la toccherò, comunque stiano le cose. La zecca è mia, e che possa morire se non ne farò quello che cavolo mi piace!"
Una botta tremenda si abbatté sulle spalle di Tom, seguita subito dopo da un’altra botta identica su quelle di Joe e per la durata di due minuti, la polvere continuò a levarsi dalle giacche di entrambi mentre l’intera scolaresca se la godeva. I ragazzi erano stati troppo assorti nel gioco per accorgersi del silenzio sceso nell’aula già da qualche istante mentre il maestro attraversava la stanza in punta di piedi per venire a fermarsi dietro di loro. Aveva osservato buona parte di quell’attività prima di contribuirvi con una personale variante.
Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer, trad. it. di M. Bianchi Oddera, introduz. di S. Campailla, Roma, Newton Compton, 1995
Oggi nessuno mette in dubbio l’esistenza di una letteratura americana, se non eventualmente per evidenziare come essa sia tutt’altro che omogenea. Resta però fondamentale, come hanno fatto alcuni dei migliori critici degli ultimi decenni, cercare dietro la molteplicità e la ricchezza del romanzo contemporaneo americano i fili che lo legano alla tradizione. Si scoprirà allora, come è già successo a Cesare Pavese, “una ricca tradizione secolare in cui almeno una grande rivolta, una grande rinascita era già avvenuta”.
Le origini
Curiosa è la coincidenza sottolineata da Leslie Fiedler: “tra il romanzo e l’America esiste un nesso intimo e tutto particolare. Nuova forma letteraria quello, nuova civiltà questa, i loro inizi coincidono con gli inizi dell’epoca moderna e invero contribuiscono a definirla”. Ma quando è nato realmente il romanzo in America? E quali erano le sue caratteristiche? Relazioni di viaggio più o meno romanzate furono scritte nelle colonie americane fin dall’inizio del XVII secolo, insieme a diari, liriche di argomento religioso, memorie e opere edificanti. Per il romanzo bisogna attendere però il 1789, anno di pubblicazione di The Power of Sympathy, scritto probabilmente da William Hill Brown e ricordato soltanto perché considerato il primo romanzo americano. Il ritardo della forma narrativa si può attribuire in primo luogo a una generica ostilità del mondo puritano nei confronti di opere che trattano argomenti leggeri e si propongono di intrattenere e non di edificare. Non esiste ancora, inoltre, un pubblico di lettori ben definito al quale rivolgersi e ben presto diviene evidente la tendenza a ispirarsi ai generi di maggior successo della letteratura inglese ed europea per trovare un pubblico oltreoceano.
In quest’ambito è di un certo interesse la produzione di Charles Brockden Brown, pur se direttamente ispirata al romanzo gotico europeo. Brown, nato nel 1771 e morto nel 1810, scrive nel giro di quattro anni sei romanzi, quasi tutti in forma epistolare. Nel più famoso di essi, Wieland, si racconta di una serie di omicidi commessi da un uomo affetto da mania religiosa e segretamente ispirato da un malvagio ventriloquo. L’importanza di Brown non si limita al suo influsso su Edgar Allan Poe e sul romanzo nero americano, ma consiste nella sua scelta di un tono melodrammatico, sopra le righe, legato alla realtà, eppure aperto alle irruzioni del fantastico.
Queste caratteristiche dell’opera di Brown precorrono la narrativa americana successiva, in cui la componente fantastica e allegorica è fortissima, e il cui tono dominante scaturisce spesso da una contraddizione irrisolta fra realtà e immaginazione.
James Fenimore Cooper
Un’altra tendenza che caratterizza la narrativa americana è quella del continuo superamento dei confini che nei romanzi di James Fenimore Cooper si fonde con un grandioso senso del paesaggio e della natura. La cosiddetta “letteratura di frontiera” non nasce con Cooper, egli tuttavia – con il ciclo che comprende il famoso L’ultimo dei Mohicani (1826) – si può considerare il maggior esponente di un genere che fornisce alla letteratura americana temi di rilievo, come la comunione fra l’individuo e la natura selvaggia e il rapporto controverso con le popolazioni native.
Cooper è il primo, grande romanziere americano, nonostante i difetti e le inverosimiglianze che Mark Twain avrebbe messo spietatamente in luce. Se fosse stato uno scrittore realista, le sue pecche sarebbero imperdonabili, ma Cooper è uno scrittore romantico che avvolge la realtà in un’aura fantastica e ideale, un Walter Scott americano, come venne definito con suo grande rammarico, dato che parlando di sé egli faceva piuttosto riferimento a Omero.
Cooper, che scrive anche romanzi di argomento storico e marinaro, contribuisce a creare un immaginario originale e autoctono con personaggi di grande spessore mitico, quali ad esempio il cacciatore solitario Natty Bumppo e il nobile indiano Chingachgook, che si aggiungono a Rip van Winkle e alle altre figure che negli stessi anni Washington Irving divulga nei suoi racconti.
Poe e Le avventure di Arthur Gordon Pym
Poe è famoso soprattutto per i racconti di argomento fantastico o poliziesco, ma è autore anche di poesie, vari saggi filosofici e critici, oltre che di un romanzo di grande importanza per la letteratura americana.
Nonostante si possano ritrovare in Le avventure di Arthur Gordon Pym, pubblicato nel 1838, echi di Coleridge e anticipazioni del Moby Dick (1851) di Melville, oltre a citazioni spesso letterali di resoconti di viaggio nell’emisfero meridionale, l’opera di Poe è originale e possente, una sorta di romanzo di formazione che si trasforma in incubo. Anche la costruzione, a tratti goffa, con forzature e digressioni, conferisce alla narrazione un carattere straniante che distacca il lettore dall’aderenza al dato reale, fino a fargli accettare come perfettamente logica e naturale la misteriosa visione con cui il romanzo si chiude.
Edgar Allan Poe
Incipit
Il racconto di Arthur Gordon Pym, Cap. I
Mi chiamo Arthur Gordon Pym. Mio padre era un rispettabile commerciante in articoli marittimi a Nantucket, dove io sono nato. Il mio nonno materno faceva l’avvocato e vantava una buona clientela. Era fortunato in tutto e aveva investito con notevole successo nei titoli di quella che un tempo si chiamava la Edgarton New Bank. Grazie a questo e ad altri mezzi era riuscito a metter da parte una discreta somma di denaro. Credo che fosse affezionato a me più che a chiunque altro al mondo, e alla sua morte speravo di ereditare gran parte dei suoi beni. A sei anni mi spedì alla scuola del vecchio signor Ricketts, un eccentrico gentiluomo che aveva un braccio solo - certamente chiunque sia stato a New Bedford lo conoscerà bene. Frequentai quella scuola fino all’età di sedici anni e poi mi trasferii all’accademia del signor E. Ronald, sulla collina. Lì divenni intimo amico del figlio del signor Barnard, un capitano che d’abitudine solcava i mari alle dipendenze della Lloyd e Vredenburgh - anche il signor Barnard è conosciuto a New Bedford e conta, di questo sono sicuro, molti parenti a Edgarton. Suo figlio, di nome Augustus, aveva quasi due anni più di me. Insieme al padre aveva partecipato a una spedizione sulla baleniera John Donaldson, e mi raccontava sempre delle sue avventure nel Pacifico meridionale. Mi capitava spesso di accompagnarlo a casa e di trascorrere da lui tutta la giornata, e a volte anche tutta la notte. Ci infilavamo nello stesso letto e lui riusciva a tenermi sveglio quasi fino all’alba, raccontandomi storie sui selvaggi dell’isola di Tinian e su altri luoghi visitati durante i suoi viaggi. Finii inevitabilmente col lasciarmi coinvolgere da quei discorsi e a poco a poco mi prese una gran voglia di navigare.
Edgar Allan Poe, Il racconto di Arthur Gordon Pym, trad. it. di R. Cagliero, Milano, Garzanti, 1990
Ma in questo libro ritroviamo anche, trasfigurato dallo stile ipnotico di Poe, il tema tipicamente americano del superamento dei confini, spostato in senso geografico dalla frontiera alle misteriose terre meridionali e legato a una natura che non è quella della prateria, tutto sommato benevola, di Cooper: la natura di Poe ha un lato oscuro, misterioso e spietato, che finisce per travolgere l’esistenza umana. L’uomo, in balia di un cieco destino, è spinto verso l’autodistruzione: come spiegare altrimenti che Gordon Pym si imbarca segretamente su una nave poco dopo aver rischiato la vita, per essere uscito ubriaco nel mare in tempesta? È del resto lo stesso Pym a dirci che cosa lo affascina della vita del mare: “naufragi e fame, morte e prigionia in mezzo a orde barbariche, un’esistenza trascinata tra lacrime e dolori su qualche scoglio grigio e desolato, in un mare inaccessibile e sconosciuto”. Un tono morboso, radicalmente diverso dall’ottimismo di fondo che anima la letteratura della frontiera, pervade Le avventure di Gordon Pym.
Nathaniel Hawthorne
Se Poe mostra, in modo fin troppo aperto, una natura ostile e un senso tragico della vita, in quegli stessi anni il trascendentalismo – corrente di pensiero sviluppatasi nella Nuova Inghilterra che ha come nomi di spicco quelli di Emerson e Thoreau – propone una visione radicalmente diversa e più ottimista del mondo. È curioso, tuttavia, che proprio nell’ambito del trascendentalismo si sviluppi una figura come quella di Hawthorne, che darà forza e maggiore profondità alla visione negativa di Poe.
Nato da una antica famiglia puritana, Hawthorne vive in un periodo in cui alla rigidità morale dei suoi antenati si va sostituendo una società nuova, democratica e più aperta, di cui però egli non è disposto ad accettare la visione tutto sommato ottimistica. La sua matrice puritana lo porta a scandagliare i lati oscuri dell’animo umano, impedendogli di accettare in blocco la visione positiva trascendentalista. L’origine puritana di Hawthorne è evidente anche nei dubbi sulla sua vocazione di scrittore che mette in bocca ai suoi antenati nell’introduzione a La lettera scarlatta, nonché nella sua ricerca incessante di significati spirituali in ogni evento e di allegorie che diano alle sue storie un senso morale. Come intuisce D.H. Lawrence (1923), però, “quel caro, occhicerulo Nathaniel conosceva bene le cose sgradevoli del suo io e metteva ogni cura a mandarle fuori travestite”. E così un romanzo allegorico come La lettera scarlatta, apparente condanna dell’adulterio e della superbia, si trasforma in un romanzo fantastico che si nutre delle proprie lacerazioni e presenta un altro dei grandi temi della narrativa americana, esemplificato fin dall’apertura del romanzo: il rapporto fra il singolo e la comunità, il contrasto fra sincerità e ipocrisia.
Hawthorne inizia la sua carriera di scrittore nel 1828 con un debole romanzo, Fanshawe. Un certo successo gli viene con Racconti narrati due volte, raccolta di racconti pubblicati nel 1837, ma è negli anni fra il 1850 e il 1852 che Hawthorne vive una stagione di grande creatività, scrivendo i suoi romanzi maggiori: La lettera scarlatta, storia di un travagliato rapporto adulterino nell’America del XVII secolo, La casa dei sette frontoni, momento di maggiore equilibrio fra le esigenze dell’allegoria e quelle della narrazione realistica che nel romanzo precedente risultano a volte poco amalgamate.
L’ultimo romanzo di Hawthorne, Il fauno di marmo del 1860, ambientato in Italia e frutto della sua permanenza di qualche anno in questo Paese, è meno riuscito e manifesta un curioso disinteresse per lo scioglimento della trama. Il fauno di marmo affronta però un tema che sarà sviluppato in seguito da Henry James: il rapporto fra Vecchio e Nuovo Mondo, fra la cultura europea, raffinata ma ormai estenuata, e quella americana, volgare ma vitale. Nella prefazione al romanzo Hawthorne, con sottile ironia, finge di svalutare la vita americana rispetto a quella europea, ma in realtà esalta gli scrittori del suo Paese: “Nessun autore può concepire, senza averla provata, la difficoltà di scrivere un romanzo su di un paese dove non c’è ombra, non c’è antichità, non c’è mistero, non c’è errore pittoresco e fosco, non c’è niente al di fuori di una comunissima prosperità, nella chiara e semplice luce del giorno, come è, per fortuna, il caso della mia cara terra natia”.
E del resto, nella sua terra natia, Herman Melville aveva pubblicato pochi anni prima un capolavoro della letteratura mondiale, Moby Dick, dedicandolo proprio a Hawthorne.
Herman Melville
Dopo una giovinezza avventurosa trascorsa in mare, Melville fa il suo esordio in campo letterario nel 1846 con Typee, un romanzo che trae ispirazione dalle sue esperienze fra gli indigeni della Polinesia. Un identico tono autobiografico si può trovare anche nei romanzi successivi – Omoo (1847), Mardi (1849), Redburn (1849) e White Jacket (1850) – che riscuotono tutti un discreto successo di pubblico. Con Moby Dick, tuttavia, pubblicato nel 1851, il favore del pubblico inizia a declinare: il romanzo è troppo complesso ed eccessivo nella descrizione di un’ossessione per compiacere i gusti di lettori abituati a tutt’altro tipo di avventure marinaresche.
Melville si aliena definitivamente i favori del pubblico con il romanzo successivo, Pierre o delle ambiguità del 1852 – storia di un tragico amore incestuoso – e, pur continuando a scrivere fino alla morte, non avrà alcun riconoscimento pubblico per la sua attività letteraria. Fra le opere successive a Moby Dick, di particolare interesse sono i romanzi L’uomo di fiducia (1857) e Billy Budd, pubblicato postumo nel 1924, oltre alle novelle Benito Cereno e Bartleby, lo scrivano, usciti nel 1856, e al poema Clarel (1876) in cui viene descritto un viaggio in Terrasanta.
Moby Dick resta comunque l’apice della produzione di Melville: nonostante la semplice trama, il romanzo è estremamente complesso nella sua simbologia e pervaso da un tono epico che lo apparenta ai grandi capolavori della letteratura classica.
Il romanzo descrive un viaggio compiuto dalla baleniera Pequod lungo gli oceani alla caccia di una leggendaria e immensa balena bianca. La nave è guidata dal capitano Ahab, che ha fatto della distruzione della balena la sua missione di vita, contagiando con la sua ossessione tutto l’equipaggio; tuttavia la caccia, narrata negli ultimi tre capitoli del libro, avrà un tragico epilogo e unico sopravvissuto sarà il narratore, Ishmael, che potrà così raccontare la storia.
Herman Melville
Il capitano Ahab
Moby Dick, Cap. XXVIII
Era uno di quei mattini di transizione, meno cupi e accigliati ma pur sempre grigi e un po’ tristi. Mentre, con un buon vento sull’acqua, la nave fendeva le onde con una sorta di slancio vendicatore e di melanconica rapidità, salii sul ponte per la guardia del mattino, puntando subito gli occhi verso la ringhiera del coronamento, e mi sentii percorrere tutto da brividi presaghi. La realtà superava le apprensioni: il capitano Ahab stava ritto sul suo casseretto.
Non recava alcun segno di normali malanni fisici né di esserne appena uscito. Aveva l’aria di un uomo sottratto al rogo, quando ormai il fuoco gli ha lambito tutte le membra, devastandogliele senza tuttavia bruciarle o portar via anche una sola scheggia della loro robustezza compatta e stagionata. Tutta la sua figura alta e ampia sembrava fatta di solido bronzo e plasmata in uno stampo inalterabile, come il Perseo fuso da Cellini. Aprendosi un varco tra i capelli grigi e proseguendo dritto su un lato del volto e del collo abbronzato e bruciato dal sole, fino a scomparire sotto l’abito, era visibile un marchio sottile come una verga, livido e biancastro. Faceva pensare alla cicatrice che si produce a volte nel tronco diritto e altissimo di un grosso albero, quando dall’alto il fulmine gli saetta contro lacerante e, senza squarciare un solo ramoscello, scortica e scava la corteccia da cima a fondo, prima di precipitarsi nel terreno, lasciando la pianta ancora viva e vegeta, ma sfregiata. Se quel marchio fosse congenito o se invece fosse la cicatrice impressa da qualche ferita disperata, non si poteva dire con certezza. Per un qualche tacito accordo, in tutto il corso del viaggio non venne fatta al riguardo la minima allusione, soprattutto da parte dei secondi. Ma una volta l’anziano di Tashtego, un vecchio indiano di Gay Head che faceva parte dell’equipaggio, asserì con aria superstiziosa che soltanto dopo aver passato i quarant’anni Ahab aveva ricevuto quel marchio e che esso gli era stato impresso non nel furore di una lotta mortale, ma durante uno scontro primordiale in mare. E tuttavia quella selvaggia allusione sembrava smentita indirettamente dalle insinuazioni di un uomo proveniente dall’Isola di Man, un vecchio grigio e sepolcrale, il quale, non essendo mai salpato da Nantucket, non aveva mai posato gli occhi in precedenza sul selvatico Ahab. Le antiche tradizioni marinare e l’immemoriale creduloneria popolare attribuivano comunque a quel vecchio di Man capacità sovrannaturali di discernimento; sicché nessun marinaio bianco lo contraddisse quando lui asserì che se mai il capitano Ahab fosse stato composto in pace - cosa che, mugugnava, era molto improbabile - allora, chiunque avesse reso l’ultimo servizio alla sua salma avrebbe scoperto su di lui un marchio congenito che gli andava dalla radice dei capelli alla pianta dei piedi.
Nel suo complesso l’aspetto sinistro di Ahab, con quel livido sfregio che lo solcava, mi turbò con tanta violenza che, per i primi istanti, quasi non mi accorsi che quella sua aria insopportabilmente truce era dovuta in gran parte alla barbarica gamba bianca sulla quale poggiava parte del proprio corpo. Mi era giunta voce in precedenza che quella gamba d’avorio era stata ricavata in mare dall’osso levigato di una mandibola di capodoglio. "Già, è stato disalberato al largo del Giappone" aveva detto una volta il vecchio indiano di Gay Head. "Ma, come il suo legno disalberato, lui ha imbarcato un altro albero, senza tornare a casa a sostituirlo. Ne ha una faretra piena".
Rimasi colpito dalla posizione strana da lui assunta. Su ciascun lato del casseretto della Pequod, vicinissimo alle sartie di mezzana, c’era un foro di trivella di circa mezzo pollice nel fasciame. Con quella gamba d’osso piantata nel foro e un braccio alzato e stretto a una sartia, il capitano Ahab se ne stava dritto, lo sguardo fisso al largo, oltre il perenne beccheggiare della prua. C’era una fortitudine incrollabile e infinita, un’ostinazione inflessibile e implacabile, in quel suo guardare innanzi con dedizione impavida e assoluta. Non una parola egli disse; e nulla dissero a lui gli ufficiali; pur mostrando chiaramente nei minimi gesti e nelle minime espressioni la consapevolezza imbarazzante, se non addirittura dolorosa, di trovarsi esposti allo sguardo tormentoso del loro padrone. E questo non era tutto. L’ombroso Ahab sfregiato se ne stava ritto davanti a loro come crocifisso in volto, in tutta l’indicibile dignità regale e soverchiante di un dolore possente.
Herman Melville, Moby Dick, a cura di R. Bianchi, Milano, Mursia, 1996
Herman Melville
Ismaele va per mare...
Moby Dick, Cap. I
Ishmael – chiamatemi così. Alcuni anni fa – quanti, esattamente, non importa – trovandomi al verde o quasi, senza che nulla a terra destasse in me particolare interesse, mi venne voglia di andarmene un po’ per mare a vedere la parte equorea del globo. Un modo tutto mio di scacciare lo spleen e normalizzare la circolazione. Appena avverto che l’amarezza mi storce la bocca; appena mi s’insinua in cuore un novembre umido e piovoso; appena mi càpita di sostare senza volerlo davanti a un deposito di casse da morto e di accodarmi al primo funerale che incontro; appena, soprattutto, cado talmente in preda a umori ipocondriaci da dovermi appellare a un forte principio morale per non piazzarmi deciso in strada a far volare metodicamente il cappello dalla testa dei passanti - mi rendo subito conto che è tempo di prendere il mare al più presto. E’ la mia alternativa a una palla di pistola. Catone, con un filosofico svolazzo, si scaglia sulla propria spada; io mi trovo un imbarco, lemme lemme. Nulla di sorprendente, in questo. Magari non lo sanno, ma tutti, più o meno, nutrono prima o poi nei confronti dell’oceano, ciascuno a suo modo, i miei stessi sentimenti. [...]
Ora, quando dico che ho l’abitudine di prendere il mare appena mi si annebbiano gli occhi e prendo eccessivamente coscienza dei miei polmoni, non vorrei che se ne deducesse che prendo il mare come passeggero. Giammai! Per fare il passeggero occorre per forza disporre di una borsa e la borsa è soltanto uno straccio, se dentro non c’è qualcosa. E poi i passeggeri soffrono di mal di mare - finiscono per attaccar briga - non dormono di notte - né, in generale, si divertono molto. No, non m’imbarco mai da passeggero e nemmeno, pur essendo una sorta di lupo di mare, prendo mai il mare come commodoro o capitano o cuoco. Lascio la gloria e il prestigio di tali mansioni a chi ne trae diletto. Quanto a me, detesto ogni onorevole e rispettabile traffico, tormento e tribolazione di qualsivoglia natura. Tutto quello che so fare è badare a me stesso. senza dover badare a navi, brigantini a palo, brigolette, golette e quant’altro. Quanto a salire a bordo come cuoco, ammetto che c’è buona dose di gloria in tale qualifica, giacché in mare il cuoco è una sorta di ufficiale; e tuttavia, non so perché, non ho mai sognato di rosolare volatili - anche se, una volta rosolato, imburrato a dovere e salato e pepato alla perfezione, nessuno più di me parlerà con rispetto, se non addirittura con devozione, di un volatile arrosto. E’ grazie alle manie idolatriche degli antichi egizi per l’ibis alla griglia e l’ippopotamo arrosto che oggi si possono vedere le mummie di siffatte creature nei loro forni giganteschi, le piramidi.
No, quando vado per mare ci vado da marinaio semplice, dritto di fronte all’albero, giù a piombo nel castello di prora, lassù a riva al colombiere dell’alberetto di controvelaccio. Certo, mi danno un bel po’ di ordini e mi fanno saltare da un’asta all’altra, come una cavalletta su un prato maggiolino. E, sulle prime, la cosa è alquanto scocciante. [...]
Ma pure questo passa col tempo.
Chi se ne frega, se un vecchio capitano rompiscatole mi manda a prendere una ramazza e mi fa scopare i ponti? A che cosa assomma tale indecenza – voglio dire, se la si pesa sulla bilancia del Nuovo Testamento? Pensate che l’arcangelo Gabriele modifichi un po’ in peggio l’opinione che ha di me, perché con prontezza e con rispetto eseguo quel particolare ordine del vecchio rompiscatole? Chi non è schiavo? Ditemelo voi. Bene, dunque; per quanto i vecchi capitani possano farmi sfacchinare, per quanto possano farmi correre a spintoni e a manate, ho sempre la soddisfazione di sapere che è tutto in regola; che tutti gli altri, in un modo o nell’altro, sono serviti in egual maniera - da un punto di vista fisico o metafisico, voglio dire; sicché la smanacciata universale fa il giro completo e tutte le mani dovrebbero fregarsi a vicenda le scapole e starsene contenti.
Il prendo sempre il mare come marinaio, anche perché si fanno un punto d’onore di pagarmi per il disturbo, mentre non ho mai sentito dire che diano ai passeggeri anche soltanto un soldo. Al contrario, sono i passeggeri a dover pagare. E tra il pagare e l’essere pagati c’è tutta la differenza del mondo. L’atto del pagare è forse la punizione più scomoda inflittaci dai due ladri del frutteto. Ma l’essere pagati - cosa c’è mai d’eguale? L’urbanità del gesto con cui uno riceve denaro è davvero meravigliosa, tenuto conto del fervore con il quale crediamo che il denaro sia la radice di tutti i mali terreni e che in nessun caso un uomo danaroso possa entrare in cielo. Ah! Con quanta allegrezza ci consegniamo noi stessi alla perdizione!
Herman Melville, Moby Dick, a cura di R. Bianchi, Milano, Mursia, 1996
Uno degli aspetti che maggiormente disturba i contemporanei di Melville è l’impossibilità di inserire Moby Dick nel genere dei romanzi d’avventura marinareschi ed esotici, fra i quali, per la sua trama, si sarebbe dovuto collocare. Si avverte infatti che il romanzo è profondamente allegorico, ma l’allegoria che si cela dietro la trama non è immediatamente evidente, anzi presenta un’ambiguità irrisolta che non è un vizio ma piuttosto un tentativo di cogliere una realtà in sé contraddittoria. La balena bianca, per esempio, cosa rappresenta esattamente? Ha una valenza positiva o è una creatura malvagia? E se l’equipaggio del Pequod è un analogo abbastanza trasparente della società americana e della sua commistione di razze, perché sopravvive solo un marinaio, aggrappato alla bara che il suo amico, l’indiano Queequeg, si è costruito? Moby Dick è dunque molte cose insieme: un viaggio nel cuore della tenebra prima di Joseph Conrad, una storia shakesperiana di morte e resurrezione, un resoconto dell’orrore che si prova di fronte alla natura nei suoi aspetti più sublimi e indifferenti all’uomo, ma anche la storia della solidarietà umana di fronte al destino, visto come cieca tragedia.
La complessità della struttura, la molteplicità e l’ambivalenza dei simboli, la miriade di interpretazioni critiche non devono però far dimenticare l’aspetto più propriamente romanzesco dell’opera: Moby Dick è un libro fondamentale della narrativa americana e mondiale anche perché fonde la profondità allegorica della sua visione tragica con un realismo vigoroso, con una conoscenza della vita sul mare e dei racconti dei marinai che Melville deriva dalla sua esperienza. Quegli stessi racconti che forniranno lo spunto del suo ultimo romanzo, Billy Budd, nel quale la tragedia del protagonista assume i toni e le cadenze di un dramma pacato, ma per questo ancor più terribile.