Il romanzo di consumo
Quando leggere è un piacere
Letteratura popolare, paraletteratura, letteratura di genere, di consumo, di evasione o d’intrattenimento sono tutte definizioni che tendono a limitare la portata e il valore di una produzione editoriale ritenuta ‘minore’, al fine di distinguerla da ciò che una consuetudine secolare considera meritevole dell’etichetta di letteratura. Ogni definizione in questo senso è destinata a rivelarsi inadeguata, se non addirittura fuorviante: letteratura popolare indica una produzione spontanea proveniente dal basso, profondamente pervasa di elementi della tradizione e fatta circolare al di fuori del sistema editoriale. Può esservi compresa la fiaba, ma non il giallo e il rosa. Paraletteratura, invece, richiama qualcosa che ‘sta accanto’ alla letteratura, ma che letteratura non è; che l’accompagna e la integra, assolvendo una funzione gregaria. Definisce piuttosto una sorta di paratesto (le didascalie, la quarta e i risvolti di copertina, le note editoriali), ma non si adatta certo a un romanzo, che mantiene comunque sempre una sua autonomia.
Il romanzo di consumo nacque insieme all’industria: fin dal Settecento furono le nuove tecnologie di stampa a determinare il successo dell’insolita modalità di leggere sistematicamente per piacere, così come sono state le nuove tecnologie a decretarne attualmente il lento declino. Perché ‘consumare’ significa, nel caso specifico della lettura, leggere fondamentalmente per divertirsi, senza fatica e, soprattutto, senza apprendere in misura significativa. Il contenuto è ridondante, privo di ogni qualità innovativa che renda apprezzabile l’informazione.
Il primo dato da valutare è se agli inizi del 21° sec. sia ancora rilevante il consumo del romanzo. Se la contrazione della lettura, osservabile nella società contemporanea, abbia coinvolto anche la risorsa costituita dai romanzi da edicola, riducendola a fenomeno marginale; se il romanzo di consumo non corrisponda sempre più a una fase di passaggio, quasi non necessaria, verso altre forme di intrattenimento: dalla realtà mediatizzata (ossia quella osservata attraverso i reality televisivi) a quella filmica (fiction, video, cinema). Uno spazio ristretto che tende sempre più ad assottigliarsi, per la provata riducibilità del medium scritto. La creazione che si definisce comunemente letteraria è rivolta attualmente a sorreggere la produzione visiva: eserciti di scrittori si muovono professionalmente sui versanti della sceneggiatura. Dalla stesura di canovacci e di testi per gli spettacoli ai dialoghi per la televisione; dagli intricati plot per le telenovelas ai serial televisivi e a ogni altro genere d’invenzione che passi attraverso lo schermo televisivo, il cinema o il computer. Una produzione altamente specialistica che ha il vantaggio di essere regolarmente retribuita: si tratta infatti di una modalità di scrittura creativa che viene riconosciuta economicamente ed è legata a una continuità impiegatizia. Lo scrittore del 21° sec. si rivela essenzialmente una figura non più pubblica, esposta all’attenzione, all’ammirazione e alla curiosità del lettore, ma un oscuro artigiano della penna che lavora al computer come un qualsiasi impiegato. Anonimo e integrato, legato a un contratto di lavoro. Questo è l’aspetto meno conosciuto, inedito, ma socialmente innovativo che lo caratterizza.
La notorietà e il successo sono lasciati agli interpreti, agli attori, ai conduttori e ai protagonisti che incarnano visivamente le loro storie e, soli, sembrano raccogliere il frutto della loro creatività.
Lo scrittore tradizionale, quello che scrive per passione, senza una regolare retribuzione e spera nella fortuna occasionale delle vendite, è in via di estinzione. Una rarità che occasionalmente si presta alla creazione a tavolino del best seller, l’avvenimento editoriale pensato e realizzato dagli esperti di marketing e dagli uffici stampa dei grandi editori. È la fine dell’auctor nella sua forma più affascinante, vero responsabile dell’aumento della conoscenza grazie all’impiego della scrittura creativa, di quel processo iniziato più di ventiquattro secoli fa e di cui Platone aveva intuito la grande potenzialità, ma aveva anche compreso l’inevitabile debolezza.
Se l’autore in generale è una figura in declino, lo scrittore di romanzi di consumo è costretto a muoversi nell’ambito sospeso tra il martello della serialità e l’incudine del personaggio soverchiante, spesso più famoso del suo stesso creatore. Sherlock Holmes o Arsenio Lupin ne sono un chiarissimo esempio. La conseguenza più immediata e comprensibile di tutto ciò è che nessuno vuole essere definito autore di romanzi di consumo. Ogni scrittore che raggiunga un minimo di notorietà e sicurezza del proprio ruolo, pretende di essere riconosciuto come espressione di una auctoritas letteraria che gli permetta di andare in televisione e di sentirsi immagine di riferimento per la cultura del suo tempo.
Essere scrittori di romanzi di consumo significa spesso essere scrittori di nicchia. Trovarsi uno spazio angusto ma specialistico, frequentato da uno stuolo agguerrito di appassionati. Il che garantisce una riconoscibilità sufficiente e offre solidi appigli per la scalata verso vette più alte di popolarità e successo. Lo scrittore di consumo, per sua natura (come ha dimostrato Stephen King), tende al riconoscimento letterario, è gravato da un complesso d’inferiorità latente e avvilente che lo accompagna lungo tutto il corso della sua esistenza e si placa solo con l’esaltazione accademica, l’inserimento del proprio nome nella storia della letteratura universale, il plauso indiscusso e l’approvazione incondizionata della critica.
Il successo di pubblico non basta. Guarire dal complesso d’inferiorità che nacque, come un peccato originale, alle soglie del 18° sec., quando si divisero le strade (fino a quel momento unite) del romance e del novel, può voler dire anche assottigliare le differenze. Far sì che, grazie alla qualità del proprio lavoro e al vasto riconoscimento del pubblico, sia il romanzo di consumo a entrare d’ufficio nel grande mainstream della letteratura ufficiale. Com’è accaduto di recente con il noir, sdoganato dalla condizione di lettura dozzinale, utilizzata per colmare di emozioni i tempi vuoti dei viaggi in treno, e assurta improvvisamente a forma colta di comunicazione, a sua volta inquietante svelatrice di una realtà sociale degradata. I Lucarelli e i Camilleri si sono così imposti come acuti interpreti della società italiana, rappresentando, forse meglio di ogni inchiesta giornalistica, le variegate complicazioni della vita di provincia, con le inevitabili conseguenze legate alle debolezze e alle miserie umane.
Segnare sulla carta l’esperienza, anche quella soltanto immaginata, non è più essenziale. Si è fatta così labile, così sfuggente, così provvisoria nella sua perfetta casualità, da riempire solo lo spazio di una breve apparizione in video, di qualche riga immersa nella rete; testimonianza, sì, ma non univoca, non perenne, non universale. Destinata a esistere solo come riferimento, apporto, condizione relativa da assaggiare velocemente e poi, subito dopo, superare. Senza alcun rimpianto, volti già verso il nuovo, verso il raggiungimento di ulteriori equilibri esistenziali.
Come cambia il consumo del romanzo
Ancora nei primi anni del nuovo secolo circa la metà degli italiani non legge più di un libro l’anno, mentre i lettori ‘forti’, ossia coloro che leggono più di undici libri l’anno, si attestano attorno al 14%. Un dato che non si discosta poi molto dalla media europea, secondo quanto indicato nelle analisi di Tirature, l’annuario che da anni sente il polso dell’editoria italiana. Della significativa tenuta della lettura, malgrado i segnali di disaffezione nei confronti del medium scritto, sono responsabili alcuni fenomeni che interessano, direttamente o indirettamente, il mondo editoriale e che si possono rintracciare proprio nel romanzo di consumo e nella sua radicata vocazione a essere quasi esclusivamente un prodotto da edicola.
Una delle sue caratteristiche più recenti è rintracciabile nella tendenza a uscire da una serialità scontata, cercando di sviluppare piuttosto il testo isolato (single title), che ha il merito di attirare l’attenzione specifica del lettore dandogli l’impressione di avvicinarsi, per la sua struttura autonoma e non ripetitiva, a un testo di pregio. In questo senso la differenza tra letteratura di consumo e mainstream tende sempre più ad assottigliarsi, perdendo alcune delle sue caratteristiche di ‘fidelizzazione’ più note: la serialità, appunto, che – attraverso il ricorso allo stesso personaggio, protagonista di avventure successive – aveva marcato in maniera indelebile tanta parte della produzione editoriale dedicata all’intrattenimento. Il meccanismo della differenziazione è il dato più evidente, anche se resistono sensibili residui di una passata consuetudine – come nel caso della serie di Harry Potter – che sembra ormai aver fatto il suo tempo. L’impostazione della saga di Joanne K. Rowling richiama infatti una modalità tipica degli anni Ottanta e Novanta e la serializzazione, incentrata sulla funzione rassicurante del giovane protagonista (Harry Potter and the deathly hallows, 2007; trad. it. Harry Potter e i doni della morte, 2008), si rivela ancora adatta a un pubblico giovanile.
A questo punto la stessa differenziazione tra romanzo di consumo e non deve essere riconsiderata anche alla luce di nuove abitudini alla lettura e della mutata qualità del prodotto letterario. Quando si parla di romanzo di consumo, infatti, ci si riferisce a un testo destinato esplicitamente a divertire e intrattenere, senza che gli si richiedano particolari qualità letterarie. Quasi un libro ‘usa e getta’ che, per le sue stesse caratteristiche editoriali (prezzo, formato, copertina) non è destinato a durare nel tempo. Di conseguenza quando ci si riferisce al romanzo di consumo ‘classico’ si pensa a opere distribuite soprattutto nelle edicole, lungo il tragitto convenzionale compiuto dal potenziale lettore (operaio, impiegato, studente) tra casa e posto di lavoro, quello che il sociologo francese Robert Escarpit ha definito «circuito popolare» (Sociologie de la littérature, 1958; trad. it. 1994, p. 58). Lo caratterizzano la serialità implicita (l’autore, il genere, la collana) o esplicita (i personaggi, la saga) che lo rendono facilmente riconoscibile. Oltre alla serialità e alla distribuzione capillare, conta la confezione del prodotto che da tempo non consta più di dozzinali fascicoli tascabili da usare e gettare, ma di testi rilegati (hardcovers) anche da conservare.
La produzione destinata alle edicole si è mano a mano differenziata, all’interno di quei contenitori tascabili, facilmente riconoscibili per la loro caratteristica immediatezza, che sono le collane periodiche. Gli editori puntano per lo più su autori di rilievo e su storie non seriali, cercando di uscire dal cliché tradizionale, che voleva lo scrittore di consumo un oscuro artigiano della penna, di origine americana o inglese, costretto a scrivere storie tutte simili, di lunghezza o d’impianto predestinati, per soddisfare l’esigenza di un pubblico modesto, rassicurato dalla ripetitività e dall’immancabile happy end.
Oggi il romanzo di consumo ha assunto una veste editoriale ‘da collezione’, è diventato oggetto unico, caratterizzato da storie autoconclusive e da personaggi problematici destinati a vivere per una sola stagione e poi sostituiti da altri, una moltitudine multicolore e composita che pretende di riprodurre la complessità del reale. E dal momento che anche i classici e i capolavori della letteratura mondiale si vendono ormai in edicola, da soli o come supplemento ai quotidiani, e sono presenti nei supermarket, la distinzione tra romanzo di consumo e non si è fatta più ardua.
Un compito da specialisti, da esperti del mestiere, che appare fondato essenzialmente sulla qualità dell’opera e non più su fattori extratestuali e di mercato. Come tale, produce un giudizio opinabile che lascia prevedere, com’è facile in questi casi, un futuro assai prossimo in cui il romanzo di consumo sarà destinato a dissolversi all’interno di un flusso irregolare di creazioni letterarie, ordinate piuttosto in base ai risultati economici di ogni singolo volume, come già accade per i film. Infatti la questione vitale su cui interrogarsi non verte tanto sui propositi di distinzione tra letteratura di consumo e non, tra letteratura di genere e mainstream, quanto sul futuro stesso della letteratura. Il secolo appena iniziato porterà cambiamenti sostanziali, grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie, delle nuove modalità di comunicazione, della stessa crisi della scrittura come mezzo privilegiato di trasmissione della conoscenza. Cambiamenti talmente importanti da stravolgere il senso di ciò che indichiamo con il termine letteratura.
La costante erosione operata dai generi (giallo, noir, fantascienza, fantastico, rosa) nei confronti della granitica solidità della letteratura alta, nel tentativo di ottenere l’agognato riconoscimento, con il conseguente allargamento dei confini tra ciò che è letteratura e ciò che non lo è, sta portando a un’inevitabile democratizzazione, a un egualitarismo capace di rintracciare nuovi valori pur di non perdere di vista la funzione culturale complessiva.
È giusto definire romanzo di consumo Scusa ma ti chiamo amore (2007) di Federico Moccia o Io non ho paura (2001) di Niccolò Ammaniti? E non di consumo I giorni dell’abbandono (2002) di Elena Ferrante o Caos calmo (2005) di Sandro Veronesi? Tutti hanno avuto successo, stampati da editori primari in collane prestigiose; tutti hanno goduto di una trasposizione cinematografica apprezzata dalla critica e dal pubblico, in certi casi persino entusiasta. Chi decide se questi libri sono da usare e gettare o da tenere in biblioteca, se non altro per consentire una testimonianza del nostro tempo? È lecito ricondurre Moccia al filone del rosa, sia pur rivisitato e attualizzato, e Ammaniti a quello del giallo, per un bisogno insopprimibile di catalogare, seguendo un pregiudizievole impulso definitorio? A ben guardare si tratta soltanto di buoni o di cattivi romanzi, in grado di esprimere in modo più o meno efficace la realtà del nostro tempo, di comunicare qualcosa, magari semplicemente di divertire.
Il più grande successo del primo decennio del nuovo secolo è sicuramente The da Vinci code (2003; trad. it. Il codice da Vinci, 2003) di Dan Brown, che ha venduto oltre due milioni e settecentomila copie in Italia e ha superato i quaranta milioni di copie nel mondo. Certamente ascrivibile ai romanzi di consumo, il libro di Brown è rappresentativo della tendenza che caratterizza la nuova produzione destinata all’intrattenimento: trasversalità dei generi, assenza di serialità, contenitore di qualità (rilegato o paperback), distribuzione intensiva nelle librerie e nelle edicole, immediata riduzione televisiva o cinematografica. L’intento è quello di superare la distinzione tra ciò che è da considerarsi letteratura e ciò che non lo è, spostando i limiti del letterario, anzi dilatandoli a dismisura, per puntare sull’accreditamento presso il pubblico: sono i lettori (e dunque le vendite, il ritorno economico) a decretarne il riconoscimento. La critica è, da questo punto di vista, esautorata; possiede armi spuntate che nulla possono di fronte all’evidenza dei numeri. Sembra sia possibile definire buona letteratura ciò che piace (e dunque viene letto); per contro è considerata cattiva letteratura ciò che resta sugli scaffali oppure, andando a ritroso, ciò che non viene pubblicato per una precisa scelta di marketing.
Contaminazione e trasversalità dei generi
Proseguendo una tradizione ormai consolidata, i vari generi nei quali si identifica il romanzo di consumo si alternano nelle preferenze del pubblico o confermano un’estrema mobilità delle fortune editoriali legate al gusto e alla sensibilità del momento. In questi ultimi anni si è assistito a tendenze ben definite che solo in futuro potranno essere confermate o sconfessate: sale, com’è evidente, il genere noir, con tutte le sue implicazioni e variazioni sul tema. Poliziesco, giallo, detective story la fanno da padroni sull’onda di un’attualità o di una cronaca nera sempre più morbosamente analizzate dai media, con i quali la scrittura creativa deve fare i conti, spesso inseguendo con fatica, più che anticipando, le problematiche del nostro quotidiano. Del successo del noir, che da tempo ha abbandonato la produzione di nicchia, hanno buona parte di responsabilità le fiction televisive (in Italia, da Montalbano ai RIS) e i serial statunitensi, capaci di veicolare il genere in tutte le sue sfumature. Per contro, si assiste a un minor interesse nei confronti dell’horror, che pure con il noir ha un rapporto di stretta parentela, ma che manca della particolarità della detection, l’elemento più intrigante per il lettore attuale, attratto dal desiderio di comprendere meglio una realtà estremamente complessa. L’attuale crisi dell’horror può essere emblematicamente rappresentata dalla minore incidenza di Stephen King sull’immaginario sociale, di cui è stato invece un formidabile esaltatore negli anni Ottanta e Novanta. Per altri versi anche la fantascienza ha perso buona parte del suo smalto di fronte all’accresciuto vigore del fantasy, che conta su un vasto settore di appassionati. Siamo ben lontani dai tempi di Die unendliche Geschichte (1979; trad. it. La storia infinita, 1981) di Michael Ende, ma la nuova produzione si è diversificata, riuscendo a soddisfare un pubblico esigente. Dei generi che continuano a sopravvivere nelle collane specializzate, distribuite principalmente in edicola, due sono quelli che negli ultimi anni hanno compiuto un balzo in avanti, conquistando il grande pubblico e una popolarità che si può giustamente definire inaspettata: il noir e il sentimentale (o new romance), che si discosta dal rosa per diversi aspetti.
Innanzitutto risulta sempre più evidente la tendenza a mescolare i generi, contaminandoli e utilizzandone i canoni in maniera trasversale, in un tentativo di superamento della divisione basata sulle diverse tipologie di trama, sull’ambientazione, sul gusto, sulla qualità del linguaggio, per ottenere una casualità originale che finisce per caratterizzare il singolo titolo e riproduce, nella sua costruzione, quella del romanzo moderno. I diversi elementi del giallo, del mistero, della suspense s’intrecciano volentieri con la denuncia sociale e il discorso intimista; la preconizzazione di un futuro imminente, venato di ombre, si fonde con appassionate storie d’amore vissute dai protagonisti o con l’orrore suscitato dalla mancanza di rispetto per la vita umana, dove entrano in gioco sadismo, perversione, alienazione, violenza.
La contaminazione tra i generi fa parte del novum che caratterizza la produzione del romanzo di consumo nell’ultimo decennio; ma il fenomeno non è comprensibile nella sua totalità se non viene letto alla luce dello stretto rapporto tra questo tipo di letteratura e il cinema e, in generale, i media visivi. Il successo, infatti, del noir e del new romance passa attraverso la trasposizione scenica che il cinema e la televisione realizzano, utilizzando i volti di attori noti e amati dal pubblico pronti a divenire i veri protagonisti dell’immaginario. Il potere di coinvolgimento emotivo del cinema e della televisione è talmente generalizzato da far ritenere che il romanzo, da cui vengono tratti il film o la fiction, sia accessorio: che il successo del libro sia una conseguenza del successo del film, e mai viceversa. Se le vendite del libro registrano impennate dopo l’uscita nelle sale cinematografiche, ciò non autorizza a ipotizzare un ritorno in auge del piacere di leggere in una popolazione, come quella italiana, che alla pratica della lettura ha sempre dedicato uno spazio decisamente esiguo.
Il caso Moccia è esploso non tanto nel 1992 con la pubblicazione di Tre metri sopra il cielo presso la casa editrice Il Ventaglio, quanto nel 2004, quando è stato ripubblicato presso Feltrinelli ed è uscito il film di Luca Lucini con l’attore Riccardo Scamarcio nel ruolo di Step. Anche se il romanzo aveva provocato un fenomeno insolito, che ha precedenti solo nel samizdat («autoeditoria») dell’Unione Sovietica negli anni Sessanta: aveva infatti cominciato a circolare fotocopiato tra i giovani. Ha quindi costituito un fatto di costume, più che un caso editoriale, contraddicendo la prassi che vuole il best seller costruito a tavolino e imposto a una massa di lettori indifferenti. Il successo del film ha indotto lo scrittore a un tentativo di serializzazione che si è ripetuto in uno o più titoli successivi: sull’onda di Tre metri sopra il cielo, Moccia ha infatti pubblicato Ho voglia di te (2006), subito portato sullo schermo nel 2007 per la regia di Luis Prieto, nonché altri romanzi, come Amore 14 (2008), che hanno riproposto la formula del primo best seller.
Così a far nascere e a consolidare il successo del commissario Montalbano di Andrea Camilleri è stata soprattutto la serie televisiva interpretata da Luca Zingaretti. L’immagine si sovrappone alla parola scritta e diviene la sua emergenza sensibile, radicata in un immaginario sociale, sempre più omologato. Il libro è l’appendice, il necessario supporto e complemento: ripreso a posteriori, conservato come una reliquia, raramente letto, se non a sprazzi, tenuto in biblioteca a futura memoria, collezionato quale prova di possesso dell’oggetto culturale, da cui discende il ricordo piacevole dell’esperienza visiva. Non è escluso neppure il suo inserimento maniacale tra i gadget che il successo filmico impone agli appassionati estimatori e si confonde tra i poster, le magliette, gli accessori, tutti oggetti del desiderio di partecipazione e di riconoscimento di sé in quel mondo altro che si muove al di là dello schermo e a cui si anela di appartenere, per insoddisfazione o per scarsa aderenza alla realtà. Modalità facilmente riconducibili alla cultura e ai comportamenti adolescenziali (o immediatamente postadolescenziali) a cui spesso si rivolgono tali prodotti.
Considerata nel suo insieme, la produzione del romanzo di consumo presenta una considerevole diversificazione del target: non è lo stesso pubblico a leggerlo in tutte le sue varianti (il che è abbastanza scontato), ma soprattutto è la sua stessa evoluzione a far parlare di pubblici diversificati, nel senso che alla sua fruizione sono interessati sia un pubblico generico, sia uno di nicchia, composto di appassionati che si dedicano alla lettura di quel genere con assiduità e intensità, sviluppando una conoscenza minuziosa e persino fanatica di autori, temi e personaggi. In questo contesto è frequente che alla lettura sia affiancata una pratica extratestuale: collezionismo, fan club, giochi di ruolo amplificano così l’appartenenza a una cultura specifica e radicalizzano la ‘fidelizzazione’ al genere, ben al di là di una scelta critica basata sulla qualità di ogni singolo testo.
Leggere con sentimento: dal rosaal new romance
Il rosa rappresenta un fenomeno recente di ritorno alla lettura di massa. Ma che ne è stato di quei venti milioni di lettrici che consumavano romanzi standardizzati al ritmo di quattro/sei la settimana? Si sono ricondizionate alla televisione? Negli anni Ottanta ci fu un segnale straordinario di ripresa della lettura proprio tra il pubblico femminile, la cui pars sana, la donna acculturata, impegnata nel lavoro fuori casa, aveva deciso di preferire ai programmi televisivi la lettura, sia pure di romanzi rosa della nuova generazione, caratterizzati da una riscoperta del sentimento romantico innestato nella realtà quotidiana del postfemminismo. Vent’anni dopo, il fenomeno sembra essersi in parte riassorbito e aver provocato un ritorno a un medium più immediato, come quello televisivo. Dove alle atmosfere sognanti del rosa, con la loro introspezione psicologica, la condivisione dei sentimenti e delle emozioni, è succeduto il gusto per la rivelazione di sentimenti autentici, delle esperienze personali, della banalità della vita quotidiana, della cruda esteriorizzazione del privato, rivelato nei reality show, nel convincimento che tutto questo sia più incisivo e autentico di ogni espressione letteraria. Vent’anni sono giusto il tempo di un cambio generazionale e le figlie delle donne di allora hanno rinunciato alla lettura di un’emotività tutta interiore, in favore di un’emotività condivisa, palesata pubblicamente nel tentativo di far valere la propria personalità. Il rosa non è affatto scomparso dalle edicole, ma si è differenziato, adattandosi alle nuove esigenze delle lettrici di oggi. Non più contenuti rassicuranti sull’eternità dell’amore, che si risolvevano in un ripetitivo ritorno a casa, alle gioie familiari, all’educazione dei figli, accanto a un uomo forte e virile, culturalmente in grado di rappresentare quella figura paterna che si era andata perdendo con il tempo, ma storie meno standardizzate e più complesse.
Adesso il rosa da edicola è distribuito anche nei supermercati e negli ipermercati, restando vicino alle lettrici, rendendosi disponibile nei luoghi abituali dello shopping, con un’offerta differenziata e abbondante. Un circuito più ampio dove sono presenti diversi editori, come Sperling & Kupfer, i cui Paperbacks pubblicano scrittrici di successo, come Danielle Steel (The house, 2006; trad. it. La casa, 2008), Sveva Casati Modignani (Singolare femminile, 2007), Mary Higgins Clark (I heard that song before, 2007; trad. it. Ho già sentito questa canzone, 2007).
Seppur lontana dai successi degli anni Ottanta, la produzione sentimentale, indicata anche con l’espressione nuovo rosa (per differenziarla da quella storica di Liala e Delly), è confermata dalla presenza di Harmony, leader di mercato nel settore. Nata nel 1981 dall’unione tra la Mondadori e la canadese Harlequin, Harmony è una casa editrice specializzata in narrativa sentimentale, destinata esclusivamente al pubblico femminile: distribuisce principalmente in edicola, ma di recente si è ricavata uno spazio anche nella grande distribuzione, con serie di maggior formato, come Passion (Susan Andersen, Hot & bothered, 2004; trad. it. Brividi di passione, 2008), Historical (Margo Maguire, Bride of the isle, 2002; trad. it. L’isola della speranza, 2007), Fantaluna (Michele Hauf, Rhiana, 2006, trad. it. La cacciatrice di draghi, 2008; Susan Krinard, Lord of the beasts, 2006, trad. it. Il signore della foresta, 2008), che coniuga il fantastico e l’ambientazione storica.
Chi sono le lettrici di Harmony? Buona parte del pubblico che ha determinato il boom degli scorsi anni è rimasto fedele all’impianto tradizionale di allora: storie romantiche, atmosfere da sogno, sessualità poco esplicita in descrizioni morigerate, inevitabile lieto fine, rintracciabili nelle serie Collezione, Jolly, Destiny e Bianca. L’età media delle lettrici si è alzata notevolmente, confermando la presenza di un pubblico ormai affezionato da lunga data a una lettura d’evasione. Se negli anni Ottanta solo un terzo delle lettrici del nuovo rosa superava i quarant’anni, oggi la maggior parte ha superato i cinquanta/sessanta e oltre. Pervicacemente legata a un genere che offre facili conferme e rassicuranti certezze nel valore dei sentimenti e nell’universalità dell’amore romantico.
Non a caso le serie più intriganti e sessualmente esplicite, Sensual, Passion e Temptation, si rivolgono a un pubblico più giovane, la cui età media è fra i trenta e i quarant’anni. Autrici come Nora Roberts, Penny Jordan, Miranda Lee, Diana Palmer, Jessica Hart, Charlotte Lamb sono divenute le beniamine di molte lettrici che, se non raggiungono le cifre da capogiro degli anni Ottanta (quindici milioni di copie vendute per anno), sono tuttavia rilevanti (otto milioni sono state le copie vendute nel 2002) e significative di un fenomeno che si è rivelato d’importanza sociale e culturale certamente non secondaria.
Da questo fenomeno della lettura sembrano al momento escluse le giovanissime, tentate più da Federico Moccia e dalle sue sapienti incursioni nella cultura e nello slang adolescenziale. Per cercare di superare una distanza che si sta dilatando, la Harmony ha preso una decisione epocale per un editore nato per tradurre testi di provenienza anglosassone: quella di ricorrere ad autrici italiane, in grado di avvicinare la lettrice media al suo quotidiano e renderle più accettabile, facilmente riconoscibile, il contesto di storie finora esotiche, ambientate in luoghi lontani.
Il caso del new romance è emblematico, proprio perché fiorisce in questo contesto e si distingue dal genere rosa, tradizionale sede in cui sviluppare e dilatare l’intreccio sentimentale. Nel rosa – non solo quello di Liala, ma anche nella nuova produzione dagli anni Ottanta in poi – la protagonista è la donna, il romanzo è destinato esplicitamente a un pubblico femminile: scritto da donne per le donne. L’attenzione, come si conviene, è accentrata sulla dinamica dei sentimenti, in vista della realizzazione della vita di coppia (per questo molti romanzi si chiudono con la prospettiva di un matrimonio o almeno di una convivenza). Il new romance, rispetto al rosa, rappresenta la sua generalizzazione, l’evoluzione per così dire ‘impegnata’: alla problematica sentimentale, che resta ancora privilegiata, si aggiungono questioni sociali, esistenziali, politiche, colte nella complessità della vita quotidiana e in grado di denotare in maniera più attuale, più credibile e partecipata, una storia che altrimenti non andrebbe oltre la sostanza del sogno.
Una simile miscela è in grado di trovare rispondenza nell’universo giovanile, in cui le difficoltà della comprensione del mondo adulto si coniugano con l’esigenza di rivalutare (e dimostrare) il valore dei propri sentimenti. La propria qualità ‘umana’, che si rivela attraverso le emozioni, i comportamenti, i desideri, le passioni, i valori di un hic et nunc vissuto intensamente. Il successo dei romanzi di questo tipo si spiega proprio con la duplicità, in apparenza inconciliabile, del loro contenuto: la banalità dell’intreccio e la carica emotiva, strettamente personalizzata. L’attenzione del lettore, infatti, non è rivolta alla storia – il cui sviluppo può apparire persino scontato – ma all’individualità, fortemente caratterizzata, dei protagonisti. Uomini e donne, senza distinzione, osservati nella loro particolarità, nel loro essere unici.
È la loro condizione ‘umana’ ad assumere un’importanza fondamentale, esperita non a caso in un contesto metropolitano, localizzato e riconoscibile. Quasi fotografato. I protagonisti sono persone comuni, condizionate da provenienza sociale, cultura, abitudini, esigenze, che si devono misurare nei rapporti con l’altro in quel ripetitivo accadimento umano che è l’amore. Allora la storia è qualcosa di prevedibile, un déjà vu che assume contorni mitici, il necessario background universale su cui si muove l’esigenza dei giovani destinati a fare i conti con la loro secolarità, con le loro debolezze, la loro forza interiore, la loro capacità di soffrire e di amare.
Qui si svela l’intima relazione di continuità con il mezzo televisivo, laddove programmi ‘poveri’ danno sempre più spazio all’espressione incontrollata del privato di persone ‘comuni’, che acquistano consistenza e visibilità (e quindi un’esistenza televisiva) per la loro capacità di esprimere le emozioni, le difficoltà esistenziali, finalmente autorizzate a raccontare in pubblico il loro male di vivere.
Il giallo d’autore arriva in libreria
La contaminazione del giallo (dal colore delle copertine dei primi romanzi che la Mondadori mandò in edicola nel 1929) è ormai un fatto universalmente accettato. Di questo genere (indicato ormai semplicemente dall’aggettivo sostantivato che di fatto ha sostituito in molti casi le dizioni più corrette di poliziesco, noir, thriller, detective story, mistery) non si può più fare a meno: è divenuto un ingrediente necessario di ogni prova narrativa, capace di attrarre il lettore e tenerlo inchiodato alla pagina per il tempo necessario a risolvere l’enigma. La sua presenza è talmente scontata da essere quasi d’obbligo per il buon esito narrativo, specie da quando Carlo Emilio Gadda, con il suo romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (pubblicato su rivista a partire dal 1946 e in volume nel 1957) gli ha conferito qualità letteraria.
All’inizio del 21° sec. si assiste all’esaltazione di questo genere, ormai snaturato e massificato, a cominciare dallo stesso Camilleri che, con il personaggio del commissario Montalbano, ha ottenuto un successo straordinario, prima editoriale (Sellerio) e poi televisivo. Camilleri utilizza smaccatamente i canoni del giallo tradizionale (i personaggi ricorrenti, la serialità, la sequenza scontata con cui si giunge allo scioglimento finale), con un certo compiacimento nella caratura dei caratteri, piuttosto manierati, quasi caricaturali, per ottenere un cocktail di sicuro gradimento per ogni palato, nell’ambito del quale ha finito per essere accettato anche l’utilizzo di espressioni dialettali, stemperate nella riduzione televisiva e giustificate dalla necessaria collocazione ambientale.
Lontane dalla classica impronta anglosassone, efficiente, razionale, ricca d’azione, le storie di Camilleri hanno imposto un ritmo pacato, che piace proprio perché riassume i difetti, le debolezze e le incertezze di un contesto locale ben riconoscibile, dove le soluzioni arrivano comunque, grazie all’intuizione e al buon senso. Stesso risultato con il minimo sforzo e, soprattutto, senza grande dispendio di mezzi. Un po’ come faceva il malandato tenente Colombo (nella famosa serie televisiva iniziata negli anni Settanta), immerso però nelle atmosfere di un’America indefinibile, fredda e perciò distante.
Se la grande massa dei lettori italiani si entusiasma per le battute di Montalbano, eroe solitario nel moderno far west delle periferie urbane, resiste ancora lo zoccolo duro degli appassionati del giallo tradizionale. Quello rigorosamente ambientato nelle metropoli d’oltreoceano, che segue un preciso schema risolutivo, fatto di piccoli e grandi indizi con cui il lettore è chiamato a confrontarsi, quasi in una gara di abilità logiche con l’autore. Senza deluderne le aspettative. Sono i ‘vecchi’ giallisti, affezionati a una scrittura di genere che passa (e ripassa nelle ristampe) attraverso i periodici in edicola.
Dietro Camilleri, la squadra italiana si va via via ampliando, grazie all’affermazione di Carlo Lucarelli (L’ottava vibrazione, 2008), capofila della scuola di Bologna, Andrea G. Pinketts (Ho fatto giardino, 2006), impegnato a rifare il verso ai ‘duri’ degli anni Trenta, Loriano Macchiavelli (Una bionda di troppo per Sarti Antonio, 2003). Alla generazione di Gianni Biondillo (Con la morte nel cuore, 2005; Il giovane sbirro, 2007), Eraldo Baldini (Halloween, 2006; Melma, 2007), Nicoletta Vallorani (Visto dal cielo, 2004), Massimo Carlotto (Il maestro di nodi, 2002; Mi fido di te, 2007, scritto con Francesco Abate), Marcello Fois (Dura madre, 2001), Grazia Verasani (Quo vadis, baby?, 2004), Giampaolo Simi (Il corpo dell’inglese, 2004), molti dei quali usciti dalla fucina di Luigi Bernardi e approdati nella collana Stile libero di Einaudi, si è aggiunto un manipolo di addetti ai lavori (poliziotti, magistrati, avvocati) che hanno rivelato una vena creativa che si è innestata sull’esperienza professionale: Nino Filastò (L’alfabeto di Eden, 2007), Giancarlo De Cataldo (Romanzo criminale, 2002; Nelle mani giuste, 2007), Maurizio Matrone (Il mio nome è Tarzan Soraia, 2004), Domenico Cacopardo (L’accademia di vicolo Baciadonne, 2006), Piergiorgio Di Cara (Vetro freddo, 2006), Gianrico Carofiglio (L’arte del dubbio, 2007).
Ma il giallo non serializzato, quello che ha velleità letterarie e si presenta nelle vesti di romanzo d’autore, detiene ormai il monopolio pressoché assoluto degli scaffali. I nomi sono quelli di John Grisham (Playing for pizza, 2007; trad. it. Il professionista, 2007), Patricia Cornwell (Book of the dead, 2007; trad. it. Il libro dei morti, 2007), P.D. James (The Lighthouse, 2005; trad. it. Brividi di morte per l’ispettore Dalgliesh, 2006), Michael Connelly (The Lincoln lawyer, 2005; trad. it. Avvocato di difesa, 2008), Scott Turow (Limitations, 2006; trad. it. Prova d’appello, 2007), Ken Follett (World without end, 2007; trad. it. Mondo senza fine, 2007), Frederick Forsyth (The Afghan, 2006; trad. it. L’Afghano, 2006), tutti accomunati sotto l’etichetta di best seller, ai quali si sono poi aggiunti Thomas Harris (Hannibal rising, 2006; trad. it. Hannibal Lecter. Le origini del male, 2007) e D. Brown, autori di romanzi prontamente portati sullo schermo con grande successo.
James Ellroy è l’altro punto di riferimento irrinunciabile, che non a caso preferisce le atmosfere in bianco e nero stile anni Cinquanta e Sessanta, piene d’azione e rapide nello svolgimento, inquietanti ma, allo stesso tempo, in grado di aprire ampi squarci sulla complessità dei rapporti economici, politici e personali della malavita, con una capacità di scrittura che lo accomuna al giornalismo di classe. The cold six thousand (2001; trad. it. Sei pezzi da mille, 2002), Hot-Prowl Rape-O (2005; trad. it. Scasso con stupro, 2005), Jungletown Jihad (2006; trad. it. 2006) sono i titoli più recenti dell’acuto cantore del noir americano, l’erede indiscusso dell’hard boiled, il lirico reporter di un’America torbida, al di là degli schemi largamente abusati del cinema hollywoodiano.
Mass market o category: la produzione per l’edicola
Il termine mass market dà l’idea di trovarci nel cuore della narrativa di consumo nel suo senso più pieno: è il settore editoriale che in Italia Mondadori (quasi in una condizione di monopolio) dedica alla produzione destinata alle edicole. Un settore che sforna oltre 230 titoli l’anno, con tirature che vanno dalle dodicimila alle ventiquattromila copie a volume: un fiume in piena che tuttavia è di gran lunga inferiore alla produzione media di vent’anni fa, che sfiorava le cinquantamila copie per volume. Cifre impensabili per le edizioni destinate alla libreria.
Guidata dal giallista Sergio Altieri, noto con lo pseud. di Alan D. Altieri (Magdeburg – Il Demone, 2007), il mass market della Mondadori copre un ventaglio di generi che vanno dal giallo (Giallo Mondadori e Classici del giallo: quattro uscite mensili) allo spionaggio (Segretissimo: due uscite mensili); dalla fantascienza (Urania: due uscite mensili, più gli speciali dedicati rispettivamente all’horror e al fantasy) al sentimentale (I Romanzi: sette uscite mensili).
Osservare da vicino il mass market è come entrare in un mondo sconosciuto e inatteso, molto lontano da quello consueto dell’editoria libraria così come traspare dalle pagine dei giornali o dai servizi televisivi. La sua principale caratteristica è la scarsa visibilità di un fenomeno che pure assume un’importanza, non solo quantitativa e non solo economica, di grande respiro. Autori per lo più sconosciuti al grande pubblico sono infatti letti da un numero impressionante di lettori: nessuno comprerebbe un romanzo da edicola sull’onda di una moda, senza leggerlo. Il romanzo di consumo, per sua natura, richiede una lettura ‘estensiva’, immediata, fino all’ultima pagina, dal momento che la pratica alla Pennac, di saltare le pagine descrittive o meno interessanti, rischia di far perdere qualche elemento importante, in quanto il romanzo da edicola ha il compito precipuo di divertire il lettore mediante storie ben congegnate, un ritmo sempre sostenuto, un linguaggio attraente.
In questo gli italiani sono bravissimi. Diversamente da quanto accadeva in passato, quando un buon scrittore di genere doveva necessariamente essere anglosassone (con qualche rara eccezione per i francesi) e gli italiani erano drasticamente esclusi dall’editoria da edicola o costretti a scrivere sotto pseudonimo, adesso sono proprio loro a essere preferiti. Oltre ai quattro titoli del Giallo, dall’agosto del 2007 Mondadori dedica un’uscita fissa mensile a un autore italiano, caratterizzata dalla copertina in bianconero: Claudia Salvatori (Il sorriso di Anthony Perkins, 2007, con in appendice il racconto di Barbara Baraldi, Una storia da rubare, vincitore del 33° premio Gran giallo città di Cattolica), Alessandro Defilippi (Locus animae, 2007), Bruno Pampaloni (Nessun male, 2007), Mauro Marcialis (La strada della violenza, 2008), Giacomoni & Ricci (B@cteria, 2008), Stefano Di Marino, Montecristo/1. Un uomo da abbattere (2008) sono gli autori dei primi numeri della nuova serie.
Il mass market può contare su due generazioni di scrittori professionisti che hanno il pregio di sapersi adattare alle esigenze delle collane. A scrivere su commissione, con buoni risultati. Nomi come quelli di Annamaria Fassio, Stefano Di Marino, Franco Forte, Andrea Carlo Cappi, Matteo Bortolotti, Giancarlo Narciso, Gianpaolo Zarini e Andrea Novelli, talvolta ricorrendo a uno pseudonimo, firmano un ventaglio di titoli per le collane del Giallo e di Segretissimo.
Cosa è accaduto nel frattempo? Qualcosa è cambiato dagli anni Settanta, quando l’inserimento di un autore americano, ma di nome italiano (come Bill Pronzini), faceva subito calare le vendite in edicola.
La fantascienza dopo il cyberpunk
L’atmosfera culturale si è modificata radicalmente: non solo perché ha maturato un gusto internazionale, ma soprattutto perché sono cambiate le tematiche della narrativa d’intrattenimento. La fantascienza non tratta più di astronavi, di marziani che sbarcano sulla Terra, così come i gialli non dipingono solo indagini poliziesche nel cuore delle grandi metropoli americane. La tecnologia è entrata nel quotidiano, ha portato il futuro tra noi, ma ha anche reso familiari omicidi e delitti. I temi sono quelli del terrorismo, del totalitarismo, della clonazione, delle droghe, della realtà virtuale: assai più vicini alla cronaca che alla fantasia. Lo stesso modo di scrivere è cambiato: le nuove generazioni hanno recuperato il gusto per la narrazione, prescindendo da descrizioni talvolta eccessive, da introspezioni spesso inutili, per privilegiare l’aspetto romanzesco. Una qualità che, per molto tempo, è stata una prerogativa della produzione americana e che ora è diventata patrimonio comune. Non si tratta di un processo di americanizzazione, ma dell’acquisizione di una modalità di scrittura che risente dell’omologazione della cultura, e si rivela decisamente più adatta a quel villaggio globale che è divenuto il mondo, come aveva intuito Marshall McLuhan.
Dopo la rivoluzione apportata negli anni Ottanta dal cyberpunk, che ha ridato vitalità a un ambiente impoverito, la fantascienza del nuovo secolo non si è sostanzialmente rinnovata, se non introducendo il tema della ‘singolarità tecnologica’, il singolo evento epocale che accelera l’evoluzione umana verso un ‘postumanesimo’. In questo senso si muovono lo statunitense Vernor S. Vinge (The cookie monster, 2003, trad. it. I simulacri, 2005; A fire upon the deep, 1992, trad. it. Universo incostante, 1993, rist. 2007), l’australiano Greg Egan (Schild’s ladder, 2001; trad. it. La scala di Schild, 2004) e l’inglese Charles Stross (Accelerando, 2005; trad. it. 2007).
L’attenzione verso un futuro malato di tecnologia, di disastri ecologici, di mutamenti biologici e sociali, delle possibilità di continuazione della vita su supporti informatici, dei mondi virtuali e dei cervelli biomeccanici, temi attuali accompagnati da una ricerca stilistica originale, fanno capolino dalle opere di nuovi autori che si sono affiancate ai classici della fantascienza tradizionale: Richard K. Morgan (Altered carbon, 2002; trad. it. Bay City, 2004); China T. Miéville (Iron council, 2004; trad. it. Il treno degli dei, 2005); Iain M. Banks (Inversions, 1998; trad. it. Inversioni, 2003, ristampa 2007); Ursula K. Le Guin (Tales from Earthsea, 2001; trad. it. Leggende di Earthsea, 2004, rist. La leggenda di Earthsea, 2007); Ian McDonald (River of Gods, 2006); Robert Charles Wilson (Bios, 1999; trad. it. 2001); Nicola Griffith (Ammonite, 1993, trad. it. 2007; With her body, 2004).
Grande interesse si va raccogliendo attorno ai temi dell’ucronia – termine coniato nel 1876 dal filosofo Charles Renouvier, in analogia con il termine utopia, dal greco ou (non) e chronos (tempo), a indicare un tempo che non esiste –, che sviluppa realtà ipotetiche basate su presupposti storici reali, a partire dal testo cult di Philip K. Dick, The man in the high castle (1962; trad. it. La svastica sul sole, 1963, 20054), dove è preconizzato un dopoguerra sotto la dominazione nazista. Autori come Kim Stanley Robinson (The years of rice and salt, 2002; trad. it. Gli anni del riso e del sale, 2007), Sophia McDougall (Romanitas, 2005; trad. it. 2006), con gli italiani Mario Farneti (Nuovo impero d’Occidente, 2006), Giampietro Stocco (Nero italiano, 2003; Dea del caos, 2005), Massimo Mongai (Il fascio sulle stelle di Benito Mussolini, 2005), Francesco Dessolis (Ingannare il tempo, 2007), Pierfrancesco Prosperi (La moschea di San Marco, 2007) e Gianfranco de Turris, curatore dell’antologia Se l’Italia (2005), raccontano gli incubi di un mondo possibile, che si nasconde sotto i fragili equilibri del presente.
La serie di fantascienza Urania, curata da Giuseppe Lippi, può contare, fra gli italiani, sui nomi di Paolo Aresi (Oltre il pianeta del vento, 2004), Lanfranco Fabriani (Nelle nebbie del tempo, 2005), Valerio Evangelisti (Antracite, 2006), Alberto Costantini (Stella cadente, 2006), Giovanni De Matteo (Sezione π2, 2007), Dario Tonani (Infect@, 2007), Pierfrancesco Prosperi (Incubi per re John, 2008) e sul ritorno di un autore come Vittorio Catani.
In Italia, nel settore fantascientifico si segnalano altri editori specializzati, come l’editrice Nord, che ha allargato i suoi interessi al fantasy e all’horror; la Delos Books, che esce anche in versione on-line e ha ripreso la gloriosa testata di «Robot», diretta da Vittorio Curtoni. La Perseo Libri di Ugo Malaguti ha ceduto il posto a Elara, ma continua a pubblicare autori italiani e due riviste, «Nova sf*» e «Futuro Europa»; quest’ultima ha ripreso con successo la serie «Futuro» fondata da Lino Aldani, Giulio Raiola e Massimo Lo Jacono negli anni Sessanta. Fantascienza e fantasy, con ampie concessioni al giallo, sono frequentati da altri editori, tra cui Alacrán, Armenia, Bietti, Fanucci, Flaccovio, Newton Compton e Tabula Fati.
La paura corre in edicola
L’horror è la narrativa basata sul piacere della paura: si differenzia dal thriller perché non ne ha l’aristocratica leggerezza; alla sottile tensione sostituisce l’ingombro pesante della fisicità della morte e l’odore del sangue. Si direbbe figlio degenere del giallo, ma in realtà è suo cugino e nipote perverso del grande padre della narrativa fantastica, il gothic romance di Horace Walpole e Ann Radcliffe, ma anche di Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft, destinato a diventare, in anni più vicini a noi, la cifra di una società segnata da incomprensibili mutamenti, privata del sacro e destinata alla solitudine. Se il giallo d’antan è legato storicamente agli anni Trenta e Quaranta, con le sue storie liberatorie destinate a un pubblico borghese che ricerca la razionalità dell’esistenza nel sistema delle leggi, l’unico in grado di garantire la prevalenza del bene sul male, l’horror, nella sua ambiguità, è rappresentativo degli squilibri psicologici di una società che non ha punti di riferimento: non più la borghesia benpensante, ma un proletariato urbano, impoverito e disorientato. Se fosse lecito fare un paragone, si potrebbe dire che l’horror è stato per la società della fine del 20° sec. l’equivalente del romanzo d’appendice a forti tinte per il secondo Ottocento. Ogni epoca ha la letteratura d’intrattenimento che si merita e la parte più smaccatamente gratuita dell’horror, lo splatter, con gli spargimenti di sangue, i corpi sezionati, i festini macabri, dove alle armi da fuoco del noir si sostituisce l’emblematica sega elettrica, ha popolato di incubi una intera generazione di giovani lettori fra gli anni Ottanta e Novanta.
Sull’onda di un comune sentire, intriso di paranormale, violenza, sadismo, allucinazioni, si è imposto il successo di autori come Stephen King, Ramsey Campbell, Clive Barker, Peter Straub, Richard Carl Laymon e altri, che hanno avuto il ‘merito’ di trasferire la paura, sentimento primario dell’uomo, finora segregata in uno spazio fantastico senza tempo, nel concreto della vita quotidiana. Di collocare il mostro dietro l’angolo di casa, pronto a ghermire le sue vittime nelle tranquille cittadine di provincia, ben connotate storicamente e culturalmente.
Questa scioccante irruzione della paura nel quotidiano, com’è evidente, rappresenta il bisogno di sublimare altre paure più concrete che attanagliano l’uomo contemporaneo di fronte alle città invivibili, pericolose, stravolte dalla meccanizzazione e dalla sfilacciatura dei rapporti umani. Per un’intera generazione S. King ha rappresentato il centro assoluto dell’immaginario giovanile, stimolando schiere di epigoni e l’affermarsi di un gusto per la paura con un conseguente e inevitabile pullulare di iniziative editoriali e cinematografiche orientate in tal senso.
In Italia la collana Horror della Mondadori e l’inserimento di specifiche serie dedicate a questo genere (come nei Tascabili Bompiani, Gargoyle, Flaccovio o Baldini Castoldi Dalai) hanno confermato la persistenza di un fenomeno che non attira più folle entusiastiche di lettori come negli anni Novanta, ma mantiene comunque un buon numero di appassionati.
In ossequio alla minor quota di mercato, Horror è divenuto un supplemento di Urania, pubblicato tre volte l’anno. Tra gli autori conta Gianfranco Nerozzi (Cry-fly trilogy, 2008) e Robert R. McCammon (They thirst, 1981; trad. it. Hanno sete, 2008). Altri autori sono passati direttamente in libreria: è il caso di Jeffery Deaver (The sleeping doll, 2007; trad. it. La bambola che dorme, 2007), Clive Barker (Cold heart canyon, 2001; trad. it. Il canyon delle ombre, 2003), Patrick McGrath (Trauma, 2007; trad. it. 2007), ma anche di Alda Teodorani, incontrastata regina dell’horror italiano (La vie en rouge, 2006).
Un discorso a parte merita la coppia Douglas Preston e Lincoln Child, etichettati, fin dal loro apparire sulla scena, come ‘la nuova dimensione della paura’. La loro produzione può essere legata all’horror solo incidentalmente (per le scene di sangue che non risparmia al lettore), ma si presta meglio a essere considerata un thriller a sfondo naturalistico o archeologico. Molti dei loro romanzi sono ambientati nel Museo di storia naturale di New York, dove Preston ha svolto per anni l’attività di curatore. Pubblicate in Italia da Sonzogno (poi Rizzoli), le opere di Preston e Child rappresentano la dimostrazione più evidente di una trasversalità dei generi, ormai necessaria per ottenere un buon romanzo di consumo che vada incontro alle esigenze di lettori sempre più esigenti. Still life with crows (2003; trad. it. Natura morta, 2003), The book of the dead (2006; trad. it. Il libro dei morti, 2007), The wheel of darkness (2007; trad. it. La ruota del buio, 2008) portano in scena una figura originale d’investigatore, Pendergast, antieroe dell’ultima generazione che si destreggia con estrema abilità tra lo splatter e la detective story, sottolineando la tendenza a uscire dagli schemi dell’horror e a confonderlo nella generalità del noir o del thriller.
La parabola di King è sintomatica espressione dello sviluppo che ha caratterizzato il passaggio al nuovo secolo: sul finire di quello precedente, l’horror ha perduto il suo appeal, forse perché superato dagli eventi, ben più coinvolgenti, della cronaca nera, oppure soltanto per la scarsità degli argomenti, giunti ormai a un punto di saturazione. Lo stesso King ha annunciato più volte la sua intenzione di smettere di scrivere, e comunque le sue prove più recenti, da The dark tower (2004; trad. it. La torre nera, 2004) a Colorado Kid (2005; trad. it. 2005) sono incursioni nel noir e nel fantasy, laddove Duma Key (2008; trad. it. 2008) recupera il coté paranormale, già presente in The dead zone (1979; trad. it. La zona morta, 1981). Siamo ben lontani dai romanzi-fiume The stand (1978; trad. it. L’ombra dello scorpione, 1983) e It (1986; trad. it. 1987), capaci d’incatenare il lettore alla pagina attraverso le agghiaccianti e meticolose descrizioni dell’eterna lotta fra il Bene e il Male, le minacce incombenti di un’Apocalisse, le paure profonde dell’infanzia che si materializzano in un mondo capovolto.
Il 21° sec. ha visto smorzarsi l’horror come un fuoco fatuo: sbiadito King, che a lungo è stato l’autore di punta della Sperling, si sono rarefatti anche i suoi epigoni. Le simpatie dei lettori, che cercano ancora il diletto nelle forti emozioni, sono indirizzate verso i giochi di ruolo, gli avatar consentiti dalle nuove tecnologie informatiche, dove è ancora possibile virtualizzare il processo morboso della partecipazione in prima persona senza nessun tipo di coinvolgimento diretto.
Il romanzo di consumo oltreconfine
Se si spinge lo sguardo al di fuori dell’Italia, il panorama del romanzo di consumo non cambia sostanzialmente. A cominciare dalla ‘grande madre’ della narrativa di genere, gli Stati Uniti, da cui prendono l’avvio le principali linee di tendenza, destinate ad arrivare anche nel nostro Paese. L’America soffre, prima ancora dell’Italia, della divisione tra produzione di consumo (genre fiction) e letteraria (literary fiction), pur se si tratta di una distinzione sempre più artificiosa. Quella che viene definita literary fiction rischia di trasformarsi in un esercizio sterile, più adatto alle esigenze accademiche. L’ultimo decennio è stato caratterizzato da una forte preferenza per il thriller, coniugato in tutte le sue varianti. Nuovi autori come James Rollins (Black order; 2006; trad. it. L’ordine del sole nero, 2007), Steve Berry (The Alexandria link, 2007; trad. it. Le ceneri di Alessandria, 2007), Gayle Lynds (The collection, 2008), Lee Child (The enemy, 2004; trad. it. Il nemico, 2005), Stuart Woods (Beverly Hills dead, 2008), Karin Slaughter (Skin privilege, 2007) si sono affiancati ad autori ormai classici come John Grisham, Michael Connelly e Jonathan Kellerman, confermando così la fortuna di una tradizione romanzesca che riesce ancora a trovare nel libro il suo strumento più efficace.
Guardando alla Gran Bretagna non si può prescindere dal ‘fenomeno Harry Potter’ (quasi 500 milioni di copie vendute nel mondo), che ha portato J.K. Rowling a essere l’autrice più letta del momento e al contempo ha aperto la strada ad altri scrittori per i giovani, come Philip Pullman (The amber spyglass, 2000; trad. it. Il cannocchiale d’ambra, 2008), gradito anche dal pubblico adulto. Nella fantascienza l’autore più popolare è I.M. Banks, apprezzato soprattutto per i romanzi appartenenti al famoso ‘ciclo della Cultura’ (Matter, 2008), assieme a Christopher Priest (The separation, 2002), M. John Harrison (Nova swing, 2006) e Kazuo Ishiguro (Never let me go, 2005; trad. it. Non lasciarmi, 2006), senza dimenticare la vecchia guardia rappresentata essenzialmente da Brian W. Aldiss, dopo la scomparsa di Arthur C. Clarke (1917-2008) e James G. Ballard (1930-2009). Iain Sinclair, investigatore dei paesaggi urbani, si è invece imposto con il sottogenere del London supernatural fiction (Dining on stones, 2004). Particolare fortuna hanno i romanzi fantastici a sfondo storico (trainati dall’enorme successo di D. Brown) produzione nell’ambito della quale emergono The other queen (2008) scritto da Philippa Gregory e il graphic novel a sfondo fantastico di Neil Gaiman (M is for magic, 2007; trad. it. Il cimitero senza lapidi e altre storie nere, 2007).
La Germania mantiene il primato dei lettori ‘forti’ (oltre un libro la settimana), pari al 22% della popolazione e conferma le preferenze per i generi giallo, horror e thriller. Tra gli autori più amati spiccano in particolare i nomi di Kathy Reichs (Bones to ashes, 2007; trad. it. Skeleton, 2007), Donna Leon (The girl of his dreams, 2008), Daniel Kehlmann (Die Vermessung der Welt, 2005; trad. it. La misura del mondo, 2006) e di altri autori già citati.
In Francia la fantascienza si accontenta di ristampe e non sembra ricercare nuove proposte. L’assenza di riviste specializzate lascia il posto, in edicola, all’intramontabile serie tedesca di Perry Rhodan. Il compito di veicolare romanzi di consumo è assolto dalle edizioni Bragelonne (70 titoli l’anno), specializzate nel fantasy, e da Fleuve noir (145 titoli l’anno), la cui serie Rendez-vous ailleurs spazia in vari settori dell’immaginario. Il thriller e il poliziesco vedono tra i preferiti autori tradotti come Harlan Coben, Andrea Camilleri, Lee Child, Carol O’Connell, ma anche francesi, tra cui Martin Winckler, Virginie Brac, Didier Sénécal e Philippe Carrèse.
Fin dagli anni Ottanta la Spagna ha visto sparire dal mercato il tradizionale bolsilibro e le novelas de a duro (dal prezzo di cinque pesetas, chiamate un duro), cioè dei tascabili economici da edicola. Oltre agli scrittori americani, i nomi su cui punta il romanzo di consumo spagnolo sono attualmente Lorenzo Silva (La reina sin espejo, 2005; trad. it. La regina senza specchio, 2007) per il poliziesco e Laura Gallego García (Dos velas para el diablo, 2008) per il fantasy. Il successo del thriller è dimostrato dal gran numero di titoli in libreria, dove spiccano lo svedese Henning Mankell (Italienska skor, 2006; trad. it. Scarpe italiane, 2008), lo statunitense J. Ellroy e lo scrittore e sceneggiatore francese Jean-Claude Izzo (1945-2000: Le soleil des mourants, 1999; trad. it. Il sole dei morenti, 2000). Quest’ultimo, secondo la ricerca condotta dal Centre Pompidou, Lire le noir. Enquête sur les lecteurs de récits policiers (a cura di Annie Collovald ed Erik Neveu, 2004), è responsabile, assieme a Manuel Vázquez Montalbán (1939-2003), dell’attuale fenomeno del ‘romanzo turistico’, utilizzato come strumento di visita virtuale: Fabio Montale, il protagonista della trilogia di Izzo, descrive minuziosamente le vie di Marsiglia, proprio come Pepe Carvalho, il personaggio di Montalbán, si muove nei ristoranti e nelle calles di Barcellona, trascinando il lettore in un gioco coinvolgente tra realtà e fantasia, non senza provocare un brivido di emozione.
Bibliografia
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