Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del XVIII secolo il romanzo epistolare si impone come nuovo mezzo di comunicazione letteraria, capace di soddisfare il crescente bisogno di verità del lettore moderno. La lettera, infatti, è la forma più adatta a conciliare finzione e realtà, in quanto riflette nella sua immediatezza la dimensione più autentica e intima dell’io, quella dei sentimenti.
Definizione e caratteri generali
Quello epistolare è un particolare genere di romanzo, la cui struttura narrativa è costituita, totalmente o parzialmente, da lettere. I primi tentativi di romanzo epistolare si trovano già nel mondo classico – le Heroides di Ovidio – e nel Medioevo – le Lettere di Abelardo ed Eloisa – ma solo in età moderna esso si impone come genere autonomo, specie a partire dal tardo Seicento, in seguito alla pubblicazione nel 1669, in Francia, delle Lettere di Babet di Edme Boursault e delle Lettere portoghesi di Gabriel Joseph Guilleragues, libro che consegue una vastissima diffusione e che funge da modello di imitazione per diversi autori dell’epoca.
Il Settecento è il secolo d’oro del romanzo epistolare: nel periodo compreso tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XIX ne sono scritti e pubblicati all’incirca un centinaio. Fra i più significativi si ricordano quelli di Montesquieu, Claude-Prosper Jolyot de Crébillon, Samuel Richardson, Jean-Jacques Rousseau, Tobias Smollett, Johann Wolfgang von Goethe, Restif de la Bretonne, Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, Étienne Pivert de Sénancour, Mme de Staël e Ugo Foscolo. I romanzi di questi autori sono molto diversi tra loro, ma possono comunque ascriversi al genere epistolare per alcune caratteristiche specifiche che li distinguono nettamente dalle altre tipologie di romanzo.
Prima di tutto, dal punto di vista formale, il testo si costruisce mediante la giustapposizione e la somma di una serie, più o meno consistente, di lettere, la cui forma è funzionale all’esposizione di questioni private, generalmente riconducibili alla sfera sentimentale ed emozionale. Inoltre, il romanzo epistolare, a differenza di quello tradizionale, restringe il proprio campo di osservazione ai singoli personaggi, sostituendo alla narrazione di fatti ed eventi la rappresentazione di stati d’animo e passioni, colti nel loro svolgersi ed evolversi. In questo senso, esso attinge a generi affini, le cosiddette “scritture dell’io” – che peraltro presentano uno sviluppo parallelo al romanzo epistolare –, come il diario e l’autobiografia, questa particolarmente in voga nello stesso periodo storico (si vedano le Confessioni di Rousseau e la Vita di Alfieri). Tuttavia, a differenza del diario, le lettere del romanzo sono rivolte a un preciso destinatario, che necessariamente condiziona il racconto di sé: non si tratta di un semplice monologo, in cui il personaggio parla esclusivamente a se stesso, ma di un vero e proprio dialogo, dove il destinatario, ancorché muto e fittizio, fa avvertire il peso della propria presenza, limitando in questo modo la libera “confessione” dell’autore.
Un altro carattere costante del romanzo epistolare è la pretesa di verità documentaria. In quest’ottica, il ricorso alla forma-lettera, presentata come documento autentico, soddisfa l’istanza di verità dell’io e dei suoi sentimenti, la cui genuinità non può mai essere messa in discussione. Claude-Joseph Dorat, nel tomo I delle Oeuvres (1776), definisce la lettera “tra tutti i generi letterari, il più vero, il più vicino al colloquio quotidiano, ed il più adatto soprattutto allo sviluppo della sensibilità”. Ma costruendo il testo attraverso le lettere, viene meno la dimensione della narrazione, sia da parte del tradizionale narratore onnisciente che da parte dei personaggi; l’autore da narratore si fa “regista”, compositore e ordinatore dell’opera, in quanto si limita a scegliere ed “editare” le lettere. In realtà, l’eclissi dell’autore non è reale, ma è un sottile espediente per conferire maggior credibilità all’invenzione letteraria, espediente di cui il lettore è pienamente consapevole, ma alla cui illusione, per tacito accordo, finge di credere. In sostanza, per citare Jean Rousset (“Una forma letteraria: il romanzo epistolare”, in Forma e significato. Le strutture letterarie da Corneille a Claudel, Torino, Einaudi, 1976, pp. 81-120), il presupposto di un buon romanzo epistolare è la fiction du non-fictif (finzione del non finto), consistente nell’abolizione del romanzesco e dell’immaginario per produrre un racconto ancor più verosimile della realtà soggettiva di personaggi inventati ma plausibili, in cui ogni lettore, al di là delle differenze contingenti, può riconoscersi.
La forza espressiva del romanzo epistolare risiede in buona sostanza nel rapporto diretto e immediato tra personaggio e azione: questa, infatti, non si colloca mai nel passato, ma si svolge nello stesso tempo in cui il personaggio la racconta. In altre parole, non vi è alcuna sfasatura fra tempo dell’azione e tempo della scrittura: queste coincidono e si collocano sempre nel presente. Di conseguenza, il romanzo epistolare presenta sempre un “personaggio che dice io” – l’autore di ogni singola lettera –, che esprime emozioni e sentimenti nel momento stesso in cui li prova, in maniera analoga al testo teatrale, ma qui con la scomparsa quasi totale dell’autore, che si nasconde dietro al personaggio. La scrittura in prima persona e al presente, comune a tutti i romanzi epistolari, è funzionale al coinvolgimento del lettore e agevola la sua immedesimazione con il mondo interiore del personaggio, anche attraverso la particolare attenzione riservata a dettagli e sfumature, apparentemente insignificanti, ma in realtà rivelatori di pensieri, stati e moti dell’animo.
Tipologie
In base all’architettura narrativa si possono distinguere due tipi di romanzo epistolare. In quello puro, o “senza cornice”, parlano solo le lettere e non vi è nessuna voce fuori campo che riferisca quanto accade oggettivamente all’esterno dei rapporti privati fra i personaggi, come nel caso delle Lettere persiane di Montesquieu. L’altro tipo, al contrario, si costruisce su una mescolanza di lettere e narrazione esterna (cornice), sebbene anche qui avventure e peripezie siano del tutto assenti o godano di uno spazio estremamente ridotto. Le Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo si costruiscono in questo modo, alternando per ampi tratti la voce del narratore (l’amico Lorenzo T.) a quella dei personaggi (Jacopo e Teresa), fino ad unirsi nella seconda parte in un dialogo sempre più incalzante e serrato.
Un ulteriore parametro di variazione è rappresentato dal numero di personaggi-autori delle lettere: si va dall’unica voce delle Lettere portoghesi (quella della monaca protagonista) all’incrocio di lettere di mani diverse di Giulia, o La nuova Eloisa (Julie, ou la Nouvelle Héloïse) di Jean-Jacques Rousseau. Nella lunga e variegata storia del romanzo epistolare è possibile individuare i tratti di un’evoluzione circolare, che porta dalla iniziale voce solitaria alla polifonia, per poi tornare alle origini con Goethe e Foscolo. I primi esempi di romanzo epistolare, infatti, non sono altro che raccolte di lettere di un solo autore, dirette perlopiù a un unico destinatario; la voce del mittente è isolata, in quanto le sue lettere restano senza risposta. L’assenza di ogni contatto tra i due personaggi, se si esclude il tenue filo dell’unilaterale rapporto epistolare, è funzionale a conferire passionalità e carica emotiva al romanzo, come nel caso delle Lettere portoghesi e delle Lettere di una peruviana di Mme de Graffigny. Questa tipologia di romanzo epistolare è per certi versi simile al genere del diario intimo, ma, a differenza di questo, non si risolve in un accorato soliloquio; il destinatario è infatti sempre presente, condiziona la scrittura e, proprio attraverso di essa, viene evocato per tentare di riempire il vuoto prodotto dalla sua lontananza.
Una variante di questa forma è rappresentata dal “duetto a una sola voce” (Russet, op. cit.) dell’ Histoire des amours de Cléante et de Bélise di Anne Bellinzani Ferrand (1751-1825), delle Lettres de la Marquise de M*** au comte de R*** (1732) e delle Lettres de la Duchesse de *** au Duc de *** (1768) di Prosper Jolyot de Crébillon, delle Lettres de Mrs Fanny Butlerd di Marie-Jeanne Riccoboni (1713-1792). In questi romanzi si percepisce sempre la sola voce dell’autore delle lettere, ma egli è in grado di leggere le risposte della persona amata, senza che vengano esibite al lettore. Dunque, non è più un “dialogo unilaterale”, ma un dialogo effettivo, in cui però si sentono solo le parole di uno dei due interlocutori. L’uso di questa formula implica un certo coinvolgimento del lettore nel processo di decifrazione e comprensione del testo, in quanto la realtà raffigurata nelle lettere è soltanto un frammento del quadro completo; per comprendere appieno il senso delle parole del mittente è necessario, infatti, immaginare le possibili risposte del destinatario e, viceversa, saper leggere queste nelle successive lettere del mittente. Insomma, l’autore del romanzo non dichiara tutto, ma parla per allusioni, sottintesi, riferimenti al non detto (o, anche, al non scritto), e questo presuppone un lettore intelligente e curioso, dotato di buona memoria e senso critico, capace di fare gli opportuni confronti, di ricostruire i pezzi mancanti del puzzle e attento a non farsi ingannare dalla visione soggettiva, e quindi deformante, di un unico punto di vista.
La forma di romanzo epistolare appena descritta è quella più in voga nel Settecento, accanto alla tipologia altrettanto fortunata del “romanzo polifonico”, in cui si sommano e si intersecano più voci di corrispondenti. L’iniziatore del genere è Montesquieu con le Lettere persiane del 1721, seguito a ruota da Richardson, Smollett, Rousseau, Dorat, Laclos e Restif (solo per citare i maggiori). La peculiarità della presenza simultanea di più interlocutori consiste nel pluristilismo, cioè nell’adozione sapiente da parte del romanziere di differenti modi di scrittura in relazione ai diversi e spesso contrastanti caratteri dei personaggi. Per ottenere un effetto più forte, in genere vengono accostate lettere scritte da personaggi lontani per indole e sentimenti, oppure si vuole mostrare il cammino interiore di un personaggio, giustapponendo lettere di diverso tono, perché redatte a distanza di tempo l’una dall’altra. Un effetto inevitabile di questo meccanismo è la perdita di unità e di uniformità del tono generale della narrazione, tipiche delle forme classiche, in favore della varietà; la discontinuità temporale, consistente nell’estrema variabilità del ritmo del racconto; infine, la pluralità delle voci e dei soggetti, che si traduce in frequenti malintesi, equivoci e contraddizioni.
Da Rousseau a Foscolo: alcuni esempi di romanzo epistolare
Charles-Louis de Secondat Montesquieu
Lettere persiane, CLV
Lettera CLV. Rossane a Usbek, a Parigi
L’orrore, la notte e lo spavento regnano nel serraglio: un lutto pauroso lo circonda. Una tigre vi sfoga a ogni istante tutta la sua rabbia: ha messo alla tortura due eunuchi bianchi che hanno confessato solo la loro innocenza; ha venduto una parte delle nostre schiave e ci ha obbligato a scambiare fra noi quelle che restavano. Zachi e Zelis hanno subito nelle loro camere, nell’oscurità della notte, un trattamento indegno: il sacrilego no ha temuto di portare su di esse le vili sue mani. Ci tiene chiusa ciascuna nel proprio appartamento, e sebbene vi rimaniamo sole, ci fa vivere sotto il velo. Non ci è più permesso di parlarci, scriverci sarebbe un delitto; di libero non ci resta più che il pianto. Una squadra di nuovi eunuchi è entrata nella notte; il nostro sogno è sempre interrotto dalla loro diffidenza, vera o finta che sia. Quel che mi consola è che queste pene non dureranno molto, finiranno con la mia vita. Essa non sarà lunga, crudele Usbek! non ti darò il tempo di far cessare tutti questi oltraggi.
Dal serraglio di Ispahan, il giorno 2 della luna di Maharram, 1720.
Lettera CLVI. Zachi a Usbek, a Parigi
O cielo! un barbaro mi ha oltraggiato fin nella maniera di punirmi! Egli mi ha inflitto quel castigo che comincia coll’allarmare il pudore; quel castigo che mette nell’estrema umiliazione; quel castigo che riporta, per così dire, all’infanzia.
La mia anima, dapprima annichilita dalla vergogna, riprendeva il sentimento di sé e cominciava a indignarsi, quando le mie grida fecero risuonare le volte del mio appartamento. Mi si intese domandare grazia al più vile degli esseri umani, e tentare la sua pietà a misura che egli era più inesorabile.
Da quel tempo, la sua anima insolente e servile si è elevata al di sopra della mia; la sua presenza, i suoi sguardi, le sue parole tutti i mali vengono a colpirmi. Quando sono sola ho almeno la consolazione delle lacrime; ma quando egli si presenta ai miei occhi, il furore mi invade, mi trovo impotente, e cado nella disperazione.
Quella tigre osa dirmi che si tu l’autore di tutte queste barbarie; vorrebbe togliermi il mio amore e profanare fino i sentimenti del mio cuore. Quando mi pronuncia il nome di colui che amo, non so più lamentarmi, e non posso più che morire.
Ho sopportato la tua assenza, e ho serbato il mio amore con la forza stessa del mio amore. Le notti, i giorni, ogni istante, tutto è stato dedicato a te. Ero superba del mio stesso amore; e il tuo mi faceva qui rispettata. Ma ora... No, non posso più reggere all’umiliazione in cui sono caduta. Se sono innocente, ritorna per amarmi. Ritorna, se sono colpevole, perché spiri ai tuoi piedi.
Dal serraglio di Ispahan, il giorno 2 della luna di Maharram, 1720.
Lettera CLVII. Zelis a Usbek, a Parigi
A mille leghe da me, voi mi giudicate colpevole; lontano mille leghe, voi mi punite. Che un barbaro eunuco porti su di me le tue vili mani, egli agisce per vostro ordine: è il tiranno che mi oltraggia, e non colui che esercita la tirannia.
Voi potete, a vostro capriccio, raddoppiare i cattivi trattamenti; il mio cuore è tranquillo da quando non può più amarvi.
La vostra anima si degrada, e voi diventate crudele. State certo che non siete felice.
Addio.
Dal serraglio di Ispahan, il giorno 2 della luna di Maharram, 1720.
Montesquieu, Lettere persiane, trad. it. di G. Alfieri Todaro-Faranda, Milano, Rizzoli, 1952
Jean-Jacques Rousseau
Giulia, o La nuova Eloisa, Lettera IV
Lettera IV. Di Giulia a Clara
Oh mia cara! In che turbamento m’hai lasciata ieri sera, e che notte ho trascorso pensando a quella lettera fatale! No, mai tentazione così pericolosa mi assalì il cuore; mai non provai tanta agitazione, e mai non vidi meno il modo di calmarla. Un tempo un certo barlume di saggezza e di ragione dirigeva la mia volontà; in tutte le occasioni difficili subito scorgevo la soluzione più onesta e subito la abbracciavo. Adesso, avvilita e sempre vinta, non faccio altro che ondeggiare tra le opposte passioni: il mio debole cuore non può far altro che scegliere i suoi falli, e mi trovo così deplorevolmente accecata che se per caso abbraccio il miglior partito non lo faccio guidata dalla virtù, e ne proverò egualmente rimorso. Sai il marito che mio padre mi destina; sai in che lacci m’ha stretta l’amore. Se voglio esser virtuosa, l’ubbidienza e la fede mi impongono doveri opposti. Se voglio seguire l’inclinazione del mio cuore, chi scegliere, tra un amante e un padre? Ahimè, dando retta all’amore o alla natura, non posso fare a meno di ridurre l’uno o l’altro alla disperazione; sacrificandomi al dovere non posso non commettere un delitto, a qualsiasi partito mi decida bisogna che muoia infelice o colpevole.
Ah! Mia cara e tenera amica, tu che sempre sei stata la mia sola risorsa e che tanto spesso m’hai salvata dalla morte e dalla disperazione, considera l’orrendo stato della mia anima e vedi se mai le tue soccorrevoli premure mi furon più necessarie! Sai come sono ascoltati i tuoi pareri, sai come i tuoi consigli sono seguiti, hai appena visto che a costo della felicità della mia vita sono capace di ascoltare le lezioni dell’amicizia. Abbi dunque pietà dell’abbattimento in cui m’hai ridotta; finisci, poi che hai cominciato; supplisci al mio coraggio esausto, pensa per colei che non pensa più grazie a te. Insomma tu sai leggere in questo cuore che ti ama; tu lo conosci meglio di me.Insegnami dunque che cosa voglio e scegli in vece mia, poiché non ho più la forza per volere né la ragione per scegliere.
Rileggi la lettera di quel generoso inglese; rileggila mille volte, angelo mio. Ah! Lasciati commuovere dal seducente quadro della felicità che l’amore, la pace, la virtù mi possono ancora promettere! Dolce e incantevole unione delle anime! Indicibili delizie, pur in seno ai rimorsi! O Dio! che cosa sareste per il mio cuore in seno alla fede coniugale? E che! La felicità e l’innocenza sarebbero ancora in mio potere? Che, potrei spirare di gioia e d’amore tra uno sposo adorato e i cari pegni della sua tenerezza!... Eppure esito un solo istante, e non volo a riparare la mia colpa tra le braccia di colui che me la fece commettere?... Oh, perché gli autori dei miei giorni non mi voglion lasciar uscire dal mio avvilimento! Perché non possono essere testimoni del modo con cui a mia volta saprei adempiere tutti i sacri doveri che essi hanno adempiuto verso di me!... E i tuoi figli? figlia ingrata e snaturata; chi li potrà adempiere presso di loro, intanto che tu li dimentichi? Forse immergendo il pugnale nel seno d’una madre ti prepari a esser madre a tua volta? Colei che disonora la propria famiglia potrà forse insegnare ai suoi figli a onorarla? Degno oggetto della cieca tenerezza d’un padre e d’una madre idolatri, al rincrescimento di averti fatta nascere; copri i loro vecchi giorni di dolore e di obbrobrio... e godi, se puoi, godi d’una felicità acquistata a caro prezzo.
Dio mio! Quanti orrori mi circondano! Lasciare furtivamente il proprio paese; disonorare la propria famiglia, abbandonare insieme padre, madre, amici, parenti, e te pure! e te, dolce mia amica! E te, prediletta del mio cuore! Te, di cui già da bambina non potevo restar lontana un sol giorno: fuggirti, lasciarti, perderti, non vederti mai più!... ah no!... Giammai... quanti tormenti lacerano la povera tua amica! Che insieme sente tutti i mali tra i quali deve scegliere, sena che nessuno dei beni che le rimangono la possano consolare. Ahimè, mi smarrisco. Tutte queste lotte superano le mie forze e mi turbano la ragione; insieme perdo il coraggio e il senno. Non spero più che in te sola. Scegli, oppure lasciami morire.
J.-J. Rousseau, Giulia, o La nuova Eloisa. Lettere di due amanti di una cittadina ai piedi delle Alpi, trad. it. di G. Bianconi, Milano, BUR, 1992
Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos
Le relazioni pericolose
CXXV. Il Visconte di Valmont alla Marchesa di Merteuil
Eccola dunque vinta, questa donna superba che aveva osato credere di potermi resistere! Sì, mia cara amica, è mia, interamente mia, e da ieri non ha più niente da concedermi. Sono ancora troppo pieno della mia felicità, per poterla apprezzare, ma mi stupisco dell’incanto ignoto che ho provato. Sarebbe dunque vero che la virtù accresce il pregio di una donna perfino nel momento della sua debolezza? Ma releghiamo quest’idea puerile tra le favole delle donnette. Non si incontra quasi sempre una resistenza più o meno ben mascherata, al primo trionfo? E quando mai ho provato prima un simile incanto? E non è nemmeno quello dell’amore, perché infine, se ho avuto, accanto a questa donna sorprendente, dei momenti di debolezza che assomigliavano a questa passione pusillanime, ho sempre saputo dominarli e tornare ai miei principi. E se anche la scena di ieri mi avesse portato un po’ più lontano di quel che pensassi, quando anche avessi condiviso il turbamento e l’ebbrezza che suscitavo, questa illusione passeggera adesso sarebbe dissolta, invece rimane il medesimo incanto. Sarebbe anche dolce, lo confesso abbandonarti a esso se non mi procurasse qualche inquietudine. Sarei dunque, alla mia età, dominato come uno scolaretto da un sentimento involontario e sconosciuto? No, bisogna prima di tutto combatterlo e analizzarlo.
Del resto, forse ne ho già intuito la causa. Almeno mi compiaccio di questa idea e vorrei fosse vera. Fra la schiera di donne con cui ho svolto finora il ruolo e la funzione di amante, non ne avevo mai trovata nessuna che avesse tanta voglia di darsi quanta ne avevo io di costringerla a farlo. Mi ero abituato perfino a chiamare schizzinose quelle che facevano soltanto metà della strada, in confronto a tante altre la cui difesa provocante mascherava a malapena le prime avances che esse stesse avevano fatto.
Qui invece ho trovato all’inizio una prevenzione sfavorevole rafforzata dai consigli e dalle informazioni di una donna che mi odia ma è lucida; un’estrema timidezza fortificata da un pudore occulto, un’adesione assoluta alla virtù che, guidata dalla religione, trionfava già da due anni; infine alcune abili mosse, ispirate a questi differenti motivi, e tutte volte allo scopo di sottrarsi alla mia persecuzione.
Non è quindi come nelle altre avventure, una semplice capitolazione, più o meno vantaggiosa e di cui è più facile approfittare che inorgoglirsi; è una vittoria completa, conquistata con una campagna difficile e decisa da premeditate manovre. Non c’è quindi da stupirsi che quanto successo, dovuto solo a me, divenga più prezioso ai miei occhi. Insomma, il maggior piacere che ho provato durante il trionfo e che ancora adesso risento, non è che la dolce sensazione del sentimento della gloria. Questo modo di giudicare la cosa, mi piace perché mi salva dall’umiliazione di pensare che possa dipendere in qualche modo dalla schiava stessa che mi sono asservita; che io non abbia in me solo, la pienezza della mia felicità, e che la capacità di farmela godere sia riservata a questa o quella donna con esclusione di tutte le altre...
Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose, trad. it. di M. T. Nessi, Milano, Garzanti, 1977
Johann Wolfgang Goethe
I dolori del giovane Werther, 12 dicembre 1771
12 dicembre [1771]
Caro Guglielmo, mi trovo nelle condizioni di quegli infelici che si reputavano un tempo invasati da uno spirito maligno. A volte m’afferra qualcosa che non è angoscia, non è brama... è uno sconosciuto tumulto interno che minaccia di lacerarmi il petto, che mi stringe la gola! Ahi! ahi! E allora vado errando tra le spaventose scene notturne di questa stagione nemica all’uomo.
Ieri sera dovetti uscire. C’era stato uno sgelo improvviso, avevo sentito che il fiume era straripato, tutti i torrenti gonfi, e da Wahlheim in giù la mia cara valle inondata! Uscii dopo le undici di notte. Che tremendo spettacolo, vedere, giù dalle rupi, i flutti furibondi turbinare a lume di luna sui campi, sui prati, sulle siepi; e la valle tutta un solo mare tempestoso sotto il fischiar dei venti! E quando la luna tornò a mostrarsi e posò sulle nubi nere, e il diluvio corse mugghiando davanti a me, in quel tremendo e splendido riflesso, un brivido mi colse, una rinnovata brama! Ahi, stavo a braccia spalancate davanti al baratro, e anelavo al basso, giù, giù! mi perdei nella voluttà di precipitarvi i miei tormenti, i miei dolori! e via spumeggiando come le onde!
Oh!... e non seppi alzare il piede da terra e por fine a tutti i tormenti!
La mia ora non è venuta ancora, lo sento! O Guglielmo! come volentieri avrei dato la mia vita per poter lacerar le nubi con quel vento di tempesta, abbracciar le onde!
Ah! e non sarà forse concessa un giorno questa gioia al carcerato?
Mestamente cercai con l’occhio un posticino dove con Lotte avevamo riposato sotto un salice, passeggiando insieme un giorno caldo... anche quello sommerso, ché appena potei riconoscere il salice! Guglielmo! “E i suoi prati” pensai “i dintorni della casa da caccia! Come sarà rovinata la nostra pergola dalla corrente turbinosa!” pensai. E il raggio del passato tornò a splendere come al condannato un sogno di mandrie, di praterie, di gloria e d’onore!
E me ne stetti lì.
Non mi rimprovero, perché ho il coraggio di morire.
Avessi...
Ora eccomi qui come una vecchierella che raccatta legna lungo le siepi e pane di porta in porta, per sostentare e prolungare d’un momento un’esistenza senza gioia e ormai stremata.
J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, trad. it. di P. Bianconi, Milano, Rizzoli, 1989
Ugo Foscolo
Ultime lettere di Jacopo Ortis, 25 maggio 1798
25 maggio [1798]
Sono salito su la più alta montagna: i venti imperversavano; io vedeva le querce ondeggiar sotto a’ miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e la valle ne rimbombava; su le rupi dell’erta sedeano le nuvole - nella terribile maestà della Natura la mia anima attonita e sbalordita ha dimenticato i suoi mali, ed è tornata alcun poco in pace con se medesima.
Vorrei dirti di grandi cose: mi passano per la mente; vi sto pensando! - m’ingombrano il cuore, s’affollano, si confondono: non so più da quale io mi debba incominciare; poi tutto a un tratto mi sfuggono, e prorompo in un pianto dirotto. Vado correndo come un pazzo senza saper dove, e perché: non m’accorgo, e i miei piedi mi trascinano fra precipizj. Io domino le valli e le campagne soggette; magnifica ed inesausta creazione! I miei sguardi e i miei pensieri si perdono nel lontano orizzonte. - Vo salendo, e sto lì - ritto - anelante - guardo ingiù; ahi voragine! - alzo gli occhi inorridito e scendo precipitoso appiè del colle dove la valle è più fosca. Un boschetto di giovani querce mi protegge dai venti e dal sole; due rivi d’acqua mormorano qua e là sommessamente: i rami bisbigliano, e un rosignuolo - ho sgridato un pastore che era venuto per rapire dal nido i suoi pargoletti: il pianto, la desolazione, la morte di quei deboli innocenti dovevano essere venduti per una moneta di rame; così va! or bench’io l’abbia compensato del guadagno che sperava di trarne e mi abbia promesso di non disturbare più i rosignuoli, tu credi ch’ei non tornerà a desolarli? - e là io mi riposo. - Dove se’ ito, o buon tempo di prima! la mia ragione è malata e non può fidarsi che nel sopore, e guai se sentisse tutta la sua infermità! Quasi quasi - povera Lauretta! tu forse mi chiami - e forse fra non molto io verrò. Tutto, tutto quello ch’esiste per gli uomini non è che la lor fantasia. Dianzi fra le rupi la morte mi era spavento; e all’ombra di quel boschetto io avrei chiusi gli occhi volentieri in sonno eterno. Ci fabbrichiamo la realtà a nostro modo; i nostri desideri si vanno moltiplicando con le nostre idee; sudiamo per quello che vestito diversamente ci annoja; e le nostre passioni non sono alla stretta del conto che gli effetti delle nostre illusioni. Quanto mi sta d’intorno richiama al mio cuore quel dolce sogno della mia fanciullezza. O! come io scorreva teco queste campagne aggrappandomi or a questo or a quell’arbuscello di frutta, immemore del passato, non curando che del presente, esultando di cose che la mia immaginazione ingrandiva e che dopo un’ora non erano più, e riponendo tutte le mie speranze ne’ giuochi della prossima festa. Ma quel sogno è svanito! e chi m’accerta che in questo momento io non sogni? Ben tu, mio Dio, tu che creasti gli umani cuori, tu solo, sai che sonno spaventevole è questo ch’io dormo; sai che non altro m’avanza fuorché il pianto e la morte.
Così vaneggio! cangio voti e pensieri, e quanto la Natura è più bella tanto più vorrei vederla vestita a lutto. E veramente pare che oggi m’abbia esaudito. Nel verno passato io era felice: quando la Natura dormiva mortalmente la mia anima pareva tranquilla - ed ora?
Eppur mi conforto nella speranza di essere compianto. Su l’aurora della vita io cercherò forse invano il resto della mia età che mi verrà rapito dalle mie passioni e dalle mie sventure; ma la mia sepoltura sarà bagnata dalle tue lagrime, dalle lagrime di quella fanciulla celeste. E chi mai cede a una eterna obblivione questa cara e travagliata esistenza? Chi mai vide per l’ultima volta i raggi del Sole, chi salutò la Natura per sempre, chi abbandonò i suoi diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori senza lasciar dietro a sé un desiderio, un sospiro, uno sguardo? Le persone a noi care che ci sopravvivono, sono parte di noi. I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto da braccia amorose, e cerca un petto dove trasfondere l’ultimo nostro respiro. Geme la Natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l’oscurità della morte.
M’affaccio al balcone ora che la immensa luce del Sole si va spegnendo, e le tenebre rapiscono all’universo que’ raggi languidi che balenano su l’orizzonte; e nella opacità del mondo malinconico e taciturno contemplo la immagine della Distruzione divoratrice di tutte le cose. Poi giro gli occhi sulle macchie de’ pini piantati dal padre mio su quel colle presso la porta della parrocchia, e travedo biancheggiare fra le frondi agitate da’ venti la pietra della mia fossa. E mi par di vederti venir con mia madre, a benedire, o perdonar non foss’altro alle ceneri dell’infelice figliuolo. E predico a me, consolandomi: Forse Teresa verrà solitaria su l’alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie, e a dirmi un altro addio. No! la morte non è dolorosa. Che se taluno metterà le mani nella mia sepoltura e scompiglierà il mio scheletro per trarre dalla notte in cui giaceranno, le mie ardenti passioni, le mie opinioni, i miei delitti - forse; non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: Era uomo, e infelice.
U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Milano, BUR, 2011
La Giulia, o La nuova Eloisa di Rousseau è un’opera emblematica per capire il rapporto intercorrente tra la genesi del testo e l’intenzione del suo autore. Le lettere, infatti, preesistono al progetto del romanzo e danno vita esse stesse al romanzo, il quale poi, man mano che va costruendosi, genera nuove lettere e l’ordine necessario alla loro presentazione. Sono illuminanti in questo senso le parole di Rousseau: “Gettai dapprima sulla carta alcune lettere sparse senza seguito e senza legame, e quando decisi di volerle cucire ne fui spesso molto imbarazzato. Ciò che c’è di poco credibile e di molto vero è che le prime due parti sono state scritte quasi per intero in questo modo; senza avere nessun piano ben preciso, e anche senza prevedere che un giorno, sarei stato tentato di farne un lavoro in regola” (Confessions, 1782-1789). Riguardo la struttura, è possibile dividere il romanzo in due parti distinte. Nella prima domina l’amore appassionato fra i due protagonisti, Julie e Saint-Preux, che si riflette nella quasi totale assenza di altre voci che intervengano a turbare l’intimità del rapporto sentimentale. Soltanto verso la fine della sezione il colloquio viene disturbato dall’intrusione sempre più insistente di amici e familiari, che tentano in ogni modo di ostacolare lo sviluppo della relazione, fino a ottenere la separazione fra i due amanti, che caratterizza la seconda parte del romanzo. Ma qui, se all’inizio i due si scrivono ancora e cercano di colmare con la scrittura l’assenza sempre più insopportabile dell’altro, verso la fine i contatti si fanno sempre più radi, lasciando così il posto a varie lettere di terzi. Dunque, la forma scelta e adottata dall’autore è significativa, in quanto è la più confacente al suo intento espressivo: il dialogo epistolare della prima parte corrisponde al dialogo intimo e privato dei due amanti, mentre il carteggio collettivo finale è teso a mostrare l’assorbimento della relazione nella “società”. Al di là dei sentimenti, tuttavia, l’intreccio è quasi inesistente, i personaggi sono assolutamente “normali”, la dimensione prevalente è quella, banale e comune, del quotidiano. Da qui la studiata contaminazione di due distinti livelli stilistici: quello della poesia, nel senso di profondità e sublimità di affetti, e quello, più modesto e dimesso, della prosa.
Se la Nuova Eloisa è il romanzo dell’ordine e dell’armonia, Le relazioni pericolose (Les liaisons dangereuses, 1782) di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos rappresenta uno dei meglio riusciti romanzi epistolari polifonici, in cui il disordine delle voci e dei punti di osservazione è sapientemente e intelligentemente gestito in modo da perfezionare ulteriormente la tecnica epistolare. L’abilità dell’autore è particolarmente evidente nella capacità di far interagire fra loro i personaggi, soprattutto attraverso lo scambio di lettere: in ogni missiva, infatti, non si leggono soltanto le parole del suo autore, ma anche la presenza viva del destinatario. Laclos è consapevole che la lettera è un particolare strumento di comunicazione che implica l’adeguamento del mittente al carattere del corrispondente e al contesto; per questo non si dichiara tutto in modo schietto ed esplicito, come si farebbe, ad esempio, in una pagina di diario. Si veda, a tal proposito, una interessante riflessione metanarrativa inserita da Laclos nella Lettera 105: “... quando scrivete a qualcuno, è per lui e non per voi: dovete dunque cercare di dirgli meno quello che pensate voi, che quello che gli fa più piacere”. La grandezza di Laclos è peraltro visibile nella maniera di organizzare la materia epistolare: le lettere sono in maggioranza brevi e accostate in modo non casuale, bensì sempre studiato e finalizzato alla progressione del racconto. Forse l’unico limite della plurivocità è rappresentato dall’eccessivo grado di conoscenza del lettore dei personaggi e delle loro vicende, che rischia di alleggerire la tensione e di stemperare l’attesa.
Dalla Francia ci spostiamo nella Germania di alcuni anni prima, per dare qualche cenno su un altro romanzo epistolare di ampio successo, I dolori del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang von Goethe. La sostanziale innovazione prodotta dallo scrittore tedesco consiste nel costruire il testo focalizzando l’attenzione su di un unico personaggio ed eliminando la molteplicità di interlocutori. Tutta la vicenda è concentrata sui sentimenti e i pensieri del protagonista, esposti senza ricorrere ad alcun filtro; Werther non deve far altro che mettere se stesso in primo piano, mentre l’amico cui indirizza la lettere è privo di una vera e propria personalità, non è che un espediente letterario che avvicina l’opera al diario intimo.
Qualche anno più tardi, a cavallo fra Settecento e Ottocento, Ugo Foscolo farà proprio il modello del Werther nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) – il primo romanzo “colto” della letteratura italiana –, imitandolo a vari livelli, dall’impostazione grafico-editoriale del libro alla riproduzione del medesimo schema narrativo, dall’espediente delle lettere pubblicate dall’amico-destinatario all’esaltazione dell’eroismo e della passione in quanto tale, sia essa civile o sentimentale, ma apportando anche significative innovazioni, in particolare nella rappresentazione della donna, nella descrizione della genesi e dello sviluppo dell’amore e nella forte connotazione politico-civile e autobiografica del romanzo.