Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Conclusasi l’epoca sanguinosa e inquieta delle guerre di religione, la produzione di romanzi aumenta: nel periodo compreso fra il 1600 e il 1660 vengono pubblicati infatti dai cinque ai sei romanzi all’anno, e ciò non è poco se si considera che solo un’esigua minoranza di persone era alfabetizzata. I grandi autori del romanzo francese secentesco, Honoré d’Urfé, Madeleine de Scudéry, Paul Scarron, Charles Sorel e soprattutto Madame de La Fayette occupano, nella letteratura occidentale, un posto tutt’altro che secondario e possono, in fondo, essere considerati dei “classici”.
Honoré d’Urfé
Honoré d’Urfé, accorto diplomatico, raffinatissimo dilettante della scrittura e moralista stoico-platonico, scrisse il romanzo pastorale più celebre, vasto e riuscito del secolo: l’Astrea, il cui nucleo narrativo è costituito dagli amori del pastore Céladon e della pastorella Astrea; solo dopo mille e mille avventurose peripezie, e altrettante interminabili digressioni, tuttavia, i due protagonisti potranno coronare il loro idillio, trovando la tanto sospirata felicità.
L’Astrea, situata cronologicamente in un remoto e poco credibile V secolo d.C., è ambientata nel Forez (paese d’origine di d’Urfé) e presenta numerosi riferimenti alla biografia dell’autore e alla società dell’epoca. Ai dissoluti e materiali costumi dell’aristocrazia cortigiana, l’Astrea veniva a contrapporre un ideale amoroso naturale, puro e fondato sulla fedeltà.
Honoré D’Urfé
Silvandro non pensa che al suo amore
Astrea
Silvandro lasciò alla propria sinistra Boulieu, il tempio dedicato alla buona Divinità [Diana] in cui ella viene servita con onore e devozione dalle caste Vestali sotto la guida della venerabile Crisante, e si addentrò in un bosco talmente folto che, sebbene la luna si fosse già levata e irradiasse il proprio lume, a malapena poteva vedere il sentiero per cui passava. A onor del vero, non solo lo spessore degli alberi, ma talvolta i suoi stessi pensieri gli impedivano la vista così che, tutto rapito nel pensiero di Diana, egli non vedeva neppure le cose sulle quali i suoi occhi si posavano. E, essendo per caso incespicato sulla radice di un albero, ritornò in se stesso e, volendo riprendere il sentiero dal quale si era allontanato senza accorgersene, giunse in un luogo del bosco in cui gli alberi, più radi, gli permisero di vedere la luna. Il plenilunio era passato da pochi giorni e tuttavia la luna non aveva smesso di risplendere. Il pastore, dimenticando ogni altro disegno, si gettò in ginocchio per adorarla perché la corrispondenza tra i nomi di Diana e della luna gli ordinava di amare questo astro al di sopra di tutto quanto appaia nei cieli. La luna, quasi invitandolo a rimanere ancora in quel luogo, sembrò illuminarsi di nuovo splendore e, poiché prima di partire egli aveva unito il proprio gregge a quello di Diana e ciò lo rendeva certo che la sua cortesia ne avrebbe avuto la necessaria cura, decise di trascorrere, com’era suo costume, parte della notte in quel luogo. Infatti, non di rado, ritraendosi da ogni compagnia per il piacere di trattenersi coi suoi nuovi pensieri, finiva per non accorgersi che, essendosi smarrito di sera in qualche valletta appartata o in qualche bosco solitario, il giorno lo sorprendeva prima ancora che la voglia di dormire lo prendesse e riuniva in questo modo la sera alla mattina coi suoi lunghi e amorosi pensieri. Lasciandosi trasportare a tal punto, non seguendo ormai più il sentiero che i suoi passi incontravano solo per caso, si allontanò talmente dal proprio cammino che, dopo aver formato mille chimere, si trovò infine nel mezzo del bosco senza accorgersene. E, benché incespicasse ad ogni passo in qualche oggetto, nulla poteva distrarlo dai propri deliziosi pensieri. Tutto ciò che vedeva e tutto ciò che si presentava innanzi a lui serviva a trattenerlo nelle sue fantasticherie. Se, come ho detto, inciampava in qualche cosa, diceva: “Trovo ancora qualche opposizione ai miei desideri”. Se vedeva tremare le foglie degli alberi, smosse da qualche soffio di vento: “Oh, che possa tremare di timore”, diceva “quando le sto vicino e le voglio confessare le autentiche passioni ch’ella pensa essere finte”. Se levava talvolta gli occhi al cielo, vedendo la luna, gridava: “La luna in cielo, la mia Diana in terra”.
in G. Macchia, La letteratura francese dal Rinascimento al Classicismo, Milano, Rizzoli, 1992
Limpido, musicale e mai troppo affettato, lo stile di d’Urfé conquista molti estimatori nei salotti preziosi ove, tuttavia, si porteranno sovente all’eccesso certe sue tendenze e maniere. Di fatto, l’influsso di quest’opera sul romanzo (non solo pastorale e galante, ma anche storico, eroico e psicologico) e sul teatro del Seicento europeo è enorme.
Madeleine de Scudéry
Di Madeleine de Scudéry, scrittrice fecondissima e animatrice di uno dei salotti più vivaci della Parigi preziosa, si possono ricordare tre romanzi: Ibrahim, Ciro e Clelia.
Ibrahim è l’avventurosa storia di un gentiluomo di Genova che riesce a diventare un gran Visir del Sultano di Turchia; in esso, l’amore riesce sempre ad avere la meglio su conflitti di passioni e gelosie. Ciro è un testo di dimensioni mastodontiche (ben 10 tomi)in cui sono narrati gli amori e le gesta di Ciro, il celebre conquistatore persiano del IV secolo a.C. L’ampio intreccio di Clelia (anch’esso in 10 tomi) è ambientato in un’inattendibile Roma dei Re; esso è imperniato sulla vicenda di una fanciulla che, data in ostaggio agli Etruschi, diviene l’amante appassionata del figlio del re Porsenna.
La de Scudéry utilizza la storia antica come pretesto per ritrarre i personaggi più in vista del suo tempo e gli abituali frequentatori del suo salotto: anche per questo motivo, naturalmente, i suoi romanzi diventano tra i libri più letti e apprezzati da quel sceltissimo pubblico.
Dai romanzi della de Scudéry traspare un’immagine idealizzata e un po’ leziosa della migliore società francese sotto il regno di Luigi XIII; seppure espressi in uno stile artificioso, monotono e, a lungo andare, stucchevole, questi monumenti del preziosismo hanno il fascino del grandioso e contengono, inoltre, alcune sottili analisi caratteriali.
La principessa di Clèves di Marie Madeleine
Sostenere che La principessa di Clèves di Marie Madeleine de La Fayette precorre per molti versi il romanzo di introspezione moderno non significa necessariamente prendere un abbaglio o fare della vuota retorica. In effetti, il libro, che è il più celebre di questa scrittrice colta e sensibile, pur essendo ancora saldamente vincolato alle consuetudini estetiche e sociali, al gusto e alle tecniche del Seicento, si presenta non solo di una essenzialità allora piuttosto insolita, ma anche di una profondità psicologica tutt’altro che consueta.
La principessa di Clèves, pur adottando come quadro storico di fondo i regni di Enrico II e di Francesco II (XVI sec.), vuole dare un’immagine critica e disvelante della corte di Luigi XIV, che la La Fayette conosceva fin nelle sue pieghe più recondite. Alla corte di Enrico II, la signorina di Chartres (che diverrà poi la principessa di Clèves) colpisce tutti per la sua bellezza soave e discreta. Il giovane principe di Clèves si lascia ben presto conquistare dal suo fascino e riesce a ottenerne la mano, per quanto la fanciulla non provi nei suoi confronti sentimenti forti. Durante un ballo, ella conosce poi il duca di Nemours, che se ne innamora perdutamente; quantunque sia in procinto di sposare la figlia del re, egli tenta di conquistare la bellissima principessa, ma si vede da lei opporre una sia pur interiormente contrastata resistenza. La protagonista decide quindi di confessare questa divorante passione al marito che, pur prestando fede alla sua innocenza, muore consumato dalla gelosia. Nemours torna allora all’attacco, ma la donna, dopo avergli confessato che lo ama, ma che la sua coscienza le impedisce di sposarlo, lo respinge per ritirarsi in convento.
Madame de La Fayette
Il tormento della principessa
La principessa di Clèves, parte 2
Nei giorni seguenti il re e le regine andarono a far visita alla principessa di Clèves. Il duca di Nemours che ne aveva atteso il ritorno con estrema impazienza, e che desiderava ardentemente di poterle parlare da solo a sola, aspettò, per recarsi da lei, l’ora che la gente se ne sarebbe andata e che presumibilmente più nessuno sarebbe venuto. Vi riuscì, e arrivò che le ultime visite si accomiatavano. La principessa era sul letto: faceva caldo, e la visita del duca di Nemours contribuì ad accentuare sul suo volto un rossore che non diminuiva la sua bellezza. Il duca sedette davanti a lei, con quella soggezione e quella timidezza che danno le vere passioni. Rimase qualche tempo senza poter parlare. La principessa non era meno di lui turbata, sicché rimasero assai a lungo in silenzio. Infine il duca di Nemours prese a parlare, e le fece le condoglianze per il suo lutto; la principessa di Clèves, era ben contenta di poter continuare la conversazione su questo argomento, parlò a lungo della perdita che aveva subito, e infine disse che, anche quando il tempo avesse mitigato la violenza del dolore, ne sarebbe sempre rimasta in lei una così forte traccia, che il suo carattere ne sarebbe rimasto mutato. “I grandi dolori e le passioni violente”, rispose il duca di Nemours, “operano grandi cambiamenti nello spirito; e quanto a me non mi riconosco più da poi che sono ritornato di Fiandra. Molti hanno notato questo cambiamento, e la stessa delfina me ne parlava pur ieri”. “È vero”, replicò la principessa, “che lo ha notato; e mi sembra di avergliene udito dire qualcosa”. “Non mi rincresce, signora”, soggiunse il duca di Nemours, “che la delfina se ne sia accorta; ma vorrei che ella non fosse sola ad accorgersene. Vi sono persone alle quali non si osa dare altri segni del nostro amore se non attraverso a cose che non le riguardano; e, non osando mostrare loro il nostro amore, si vorrebbe almeno che vedessero che non vogliamo essere amati da nessuno. Si vorrebbe che sapessero che non esiste bellezza, a qualunque rango appartenga, che non guardiamo con indifferenza, e che non vi è corona che vorremmo acquistare al prezzo di non vederla più. Di solito”, continuò, “le donne giudicano l’amore che portiamo loro dalla cura che ci diamo di ricercarle e di riuscir loro graditi; ma questa non è cosa difficile, per poco che esse siano graziose; quel che è difficile, è di non concedersi il piacere di seguirle; è di evitarle, per timore di lasciar vedere alla gente, e a loro stesse, il nostro sentimento; e ciò che prova ancor più un vero amore, è diventare tutto l’opposto di ciò che si era, e non provare più ambizioni né piaceri, dopo aver speso fino allora la vita nel soddisfare questi e quelle”.principessa di Clèves comprendeva bene quale parte essa aveva in tali discorsi. Le pareva di dovervi replicare, e di non doverli permettere. Le pareva anche di non doverli comprendere, e di non dover mostrare di prenderli per sé: credeva di dover parlare, e credeva di non dover dire nulla. Il discorso del duca di Nemours le piaceva e l’offendeva quasi in ugual modo: vi scorgeva la conferma di tutto ciò che la delfina le aveva fatto sospettare; vi trovava qualcosa di galante e di rispettoso, ma anche qualche cosa di ardito e di troppo evidente. L’attrazione che sentiva per il duca le dava un turbamento del quale non era padrona. Le parole più oscure di un uomo che piace danno maggior turbamento che le aperte dichiarazioni di un uomo che non piace. Dimorava ella dunque senza rispondere, e il duca di Nemours si sarebbe ben avveduto del suo silenzio, dal quale non avrebbe forse tratto cattivo presagio, se il sopraggiungere del principe di Clèves non avesse posto termine alla conversazione e alla visita.
M. de La fayette, La principessa di Clèves, trad. it. R. Debenedetti, Milano, Rizzoli, 1986
Incapace tanto di conoscere se stessa, di penetrare cioè nella propria interiorità, quanto di vivere in una corte ipocrita ove rivalità e foschi intrighi sono all’ordine del giorno, la principessa di Clèves, personalità tormentata e inquieta, pone costantemente l’onore al di sopra di ogni altro valore. Ella ha una forza interiore degna di un’eroina del teatro di Corneille; solo grazie a essa, pur essendo torturata dalla passione amorosa, riuscirà a non cederle.
Attenta lettrice di Cartesio, di Pascal e di La Rochefoucauld (per molti anni suo platonico amante), la La Fayette nelle sue narrazioni (tra le quali La principessa di Montpensier e Zayde) fuse abilmente la lezione dei grandi moralisti del Seicento con la cospicua eredità culturale di un preziosismo che, dopo essere stato alla ribalta per un buon mezzo secolo, cominciava allora a declinare. In un linguaggio ancora squisitamente prezioso, la scrittrice seziona l’anima dei suoi personaggi con un’attenzione già moderna alle ineffabili fluttuazioni della coscienza.
Paul Scarron e Charles Sorel
Paul Scarron, scrittore mordace e satirico implacabile, merita un posto di riguardo nella storia letteraria del secolo non solo per quel capolavoro di realismo acre e disilluso che è il Romanzo comico, ma anche per la cospicua produzione di versi burleschi. Pur non approfondendo lo scandaglio interiore dei suoi bizzarri personaggi, egli offre al lettore un’immagine grottesca e corposa di quella realtà popolana e umile che sempre descrive con piglio suggestivo e divertito nelle sue prose.
Anche Charles Sorel mira a ritrarre in modo realistico e scanzonato il mondo che lo circonda e lo diverte. Egli non si limita a prendere una direzione antitetica, rispetto al gusto sopraffino diffuso, nel delineare i suoi soggetti, ma intende altresì mettere in burla le convenzioni sentimentali e le risonanti ampollosità del romanzo pastorale.
Nel Pastore stravagante, romanzo di sapore chisciottesco, Sorel schizza un’immagine spiritosa della distanza sussistente fra il mondo ideale del pastore protagonista e la dura realtà quotidiana di una Francia paesana. Nella Vera storia comica di Francion, narrazione picaresca fortemente autobiografica, la società parigina viene radiografata nella sua globalità, in maniera acuta, disincantata e senza troppi scrupoli.