Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Genere enciclopedico e moderno, il romanzo italiano secentesco non viene codificato da una sistemazione teorica che ne limiti la capacità espressiva. Vera e propria “macchina stupenda”, esso sperimenta la pura logica narrativa e l’introspezione psicologica, orientandosi alle nostalgie eroico-cavalleresche o prospettando una letteratura “borghese”.
Cronologicamente collocato tra il 1625 e il 1670 circa, il romanzo italiano risente dell’influenza dei modelli europei, spagnoli e francesi in particolare.
Numerose risultano le traduzioni, tra cui assai fortunate quelle di Alexander Barclay e di Jean-Pierre Camus.
Non si può comprendere la peculiarità del genere solo pensando a filiazioni dirette, magari divise tra una Genova iberica e una Venezia gallicana. Senza dubbio Venezia appare inizialmente il centro più vivo di produzione e diffusione, anche per l’atmosfera spregiudicata del contesto sociale e letterario, egregiamente rappresentata dall’Accademia degli Incogniti.
La guerra e l’amore sono i nuclei intorno ai quali si elaborano le situazioni romanzesche, assecondando l’esperienza viva dei lettori. L’analisi della ragion di Stato e della logica del potere avvince chi è abituato a seguire le vicende storiche contemporanee, fornendo una lettura psicologica e sfumata delle personalità dei potenti.
L’ispirazione politica caratterizza la produzione dell’Incognito “virtuoso” e “prudente” Giovan Francesco Biondi, che conosce uno straordinario successo con l’Eromena, romanzo cortigiano di buone maniere e trasgressioni delittuose. La natura analitica dello storico si compiace nel presentare la trama “al rallentatore”, facilitando l’identificazione da parte del lettore che respira atmosfere psicologiche appassionate.
Più decisamente orientato verso la patologia morale, il medico Francesco Pona narra di omicidi, infanticidi, stupri, con gusto necrofilo di una certa efficacia, anche se del tutto frammentario.
Non risulta facile accordare analisi delle passioni e coerenza narrativa; la microscopia psicologica impedisce spesso lo svolgersi dell’azione, la quale non tollera troppi indugi. Essa prevale nell’affastellato ritmo del Cavalier perduto di Pace Pasini, fondato sulla logica combinatoria della metafora analogica in base alla quale le relazioni più o meno casuali tra i personaggi muovono il racconto: entrano in gioco la ricerca d’identità del protagonista e l’inseguimento di un’immagine di cavaliere amante, amico, nemico da parte di una serie di interlocutori dell’eroe.
Giovan Francesco Biondi
Eromena
Ma se è, come dite, qual è la ragione, che pochi siano i felici, ed innumerabili gl’infelici, che restano sempre tali? E se provano mutazione, ella non è sostanziale, ma dal più al meno. Quanti vivono in povertà continua; quanti in carcere perpetua; quanti miserabili in ogni miseria, che per essere infinite, non è di mestiero parlarne? E tuttavia gli accessi al male si sentono in loro, il periodo mai: perché non provarono mai il recesso. E tuttavia i cieli girano a loro, come a gli altri; né le stelle sono più pigre per questi, che per quelli. Circ’a quel che dite del bene, egli è il vero. Non c’è cosa più fugace: anzi, ch’in se stesso egli è tale, che non può rendersi fruibile. Le passioni dell’animo ce’l rendono di poco peso, imperfetto, ed accompagnato, che egli sia, come sempr’è, con l’ansie e co’ timori, divien minore. Anzi viene a non essere quello, ch’egli è, dove pe’l contrario la cupidigia del conservarsi, o più tosto d’avanzarsi nel bene, fa i mali peggiori, i quali instillati dall’immaginazione, nascono a vicenda, a guisa d’erbe cattive in buon terreno, senza coltura, e senza semi, crescendo più fra l’ingiurie, e facendosi perpetui di stagione in stagione, ridonando la terra a cento per uno, quello, che donò già; più liberale, che giusta, e più amica a se stessa, che all’altrui fatiche.
in P. Getrevi, Dal picaro al gentiluomo, Milano, F. Angeli, 1986
L’esercizio analitico caratterizza invece la produzione di Ferrante Pallavicino, più noto forse per la vita trasgressiva e sfortunata che per l’impegno letterario nel conciliare storia e invenzione.
La “scienza del cuore”, requisito fondamentale del romanziere secondo Fontenelle, manca allo storico Maiolino Bisaccioni, al quale non sembra possibile svelare i segreti della verità politica. Alla fine non pare che la vocazione fisiognomica sviluppi la dimensione psicologica del romanzo italiano che tende più alla caricatura che al carattere, almeno nei risultati.
Accanto all’officina veneziana, si colloca la produzione degli scrittori genovesi, attenti elaboratori della logica dell’azione. L’Istoria spagnola di Anton Giulio Brignole Sale sviluppa coerentemente una vicenda complicata d’amore eroico senza appesantire con inutili digressioni il ritmo agile e snello del racconto. Lo stile piuttosto elegante testimonia la volontà letteraria dell’autore, che trascrive la sensibilità stilizzata dell’ambiente aristocratico. Propende per la casistica sentimentale nella Stratonica Luca Assarino che valorizza la sua pensosità disincantata nei Giuochi di fortuna, un viaggio rocambolesco di meditazione sulla relatività dell’esistenza umana.
Il più illustre rappresentante del romanzo italiano secentesco è il genovese Giovanni Ambrogio Marini. Il suo Calloandro realizza pienamente l’aspirazione totalizzante del genere: ripropone la tradizione cavalleresca distesa in una complessa struttura narrativa concepita secondo la legge del parallelismo simmetrico; suscita fantasticherie evasive tra eroismo e patetico, moltiplicate all’infinito dal gioco illusionistico delle duplicazioni; difende la libertà come caratteristica peculiare dell’invenzione. L’amore che è odio e gelosia muove le figure femminili, la ragione di Stato è l’impedimento avanzato dagli uomini, i quali alla fine si riscattano sposando le eroine.
Giovanni Ambrogio Marini
Dubbi d’amore del cavaliere
Il Calloandro fedele
Rimasto solo, il cavaliere di Cupido si mise a spasseggiare per lo giardino, molto confuso. Andava ruminando le cose che avea vedute in sogno ed il volto del cavaliere della Luna veduto co’ suoi due occhi. Sentia di ciò nel cuore disusati moti e stravaganti; onde, meraviglia avendone, tra sé dicea: “Che è ciò, mio cuore? Che sentimenti insoliti? Ho io sognato, o pure ho veduto con gli occhi propri? Pur troppo è vero e l’uno e l’altro; ma non è quegli che m’è comparso avanti un cavaliere? Di che dunque mi dolgo? E quale affetto mi tormenta? che desiderio? Anco nell’amare un amico si pena? E sì fatta pena proverò io solo, che forse anche solo sì pertinacemente i tormenti negava che gli altri per bella donna pur troppo esperimentar debbono. Tale forse sper’io che sia questo giovane cavaliere? Ahi, Amore: se questo fosse, hai vinto; già io milito a te, già sono amante. Ma dove fondo questa speranza? Su ch’egli mi rassomiglia? E che? son io forse donna? Ah, che questo può ben essere, posciaché mi tormenta l’affetto d’un cavaliere. No no, non ho speranza ch’egli sia femina, poiché tale non può esser guerrier sì forte, e chi esser vuol virile con la duchessa. Sì sì, t’ho pur inteso cuor mio: desideri ch’egli sia femina; ma chi vide mai in amore desiderar impossibili, e sentirne passione? Amore, Amore, queste sono stravaganze dello sdegno tuo contro di me; queste sono pene straordinarie mai più poste in opera nel tuo tribunale. Ma mi sottrarrò ben io dalla tua tirannide; saprò ben io schernire l’arti tue. M’hai presentato avanti gli occhi volto simile al mio, perché non ti bastava l’animo d’indurmi ad amare fuor che un altro me stesso; ed io abborrirò a tuo dispetto ogni femina, fuggirò anco l’aspetto di questo cavaliere, e comincierò ad odiar me stesso, per potere odiar lui. E che? m’obbliga forse ad amarlo il vedere ch’egli abbia intrapreso la mia liberazione con tanta prontezza e cortesia? Ah, che non è questa sua tutta carità, sarà amore ver la duchessa. Non sa egli racquistar la sua, fuor che nella mia libertà. Non può imprigionarsi nelle braccia della sua amata Crisanta, che non imprigioni prima sé stesso, in questa camera, in luogo mio. Questa è arte sumministratagli da Amore, ch’è tutto inganni, ed io consentirò che la duchessa sia innocentemente disonorata e tradita, godendo gli amplessi altrui credendoli miei? Io che ostinato mi eleggeva più tosto star qui prigione che compiacerla, permetterò ora che per inganno ella mi goda, benché con la sola imaginazione? No, che nol consente il zelo dell’onor suo e della mia riputazione. Ma che dico zelo? dì pur gelosia ch’altri si goda il mio novello amico, Amore, non più: già m’hai punito a bastanza”.queste confusioni si ritrovava il cavaliere di Cupido, per la forza che sentia di genio così potente. Egli non trovava luogo né quiete; non sapeva ciò che si volesse, ciò che desiderasse, ed andava pel giardino quasi farneticando.
in Romanzieri del Seicento, a cura di M. Capucci, Torino, UTET, 1974
Nel ritrarre il sentimento il Marini semplifica e teatralizza l’avventura nel labirinto interiore. Ogni aspetto della vita appare “strano”, ma non per questo va analizzato; conviene piuttosto assecondare la paradossalità dell’esistenza casuale, intricata, incerta anche nelle questioni d’identità: i personaggi si assomigliano tutti, non mostrano vero spessore psicologico. La poetica dell’irrealtà coinvolge società, storia, etica nella vertigine dell’illusione barocca. La serialità provoca un effetto di solitudine, ma Calloandro non sa soffrire neppure quando dubita sulla propria identità: anche questo un gioco funzionale alla trama, costruito con antitesi ed ossimori.
La propaganda dell’azione appare anche nella variante religiosa del romanzo: per Poliziano Mancini si tratta di evangelizzare il barbaro Oriente con la violenza imperialistica della ragione politico-militare; dal pubblico al privato muove la vicenda di Bernardo Morando, tra protestanti inglesi, musulmani del Mediterraneo e cattolici inclini a mercanteggiare le proprie convinzioni per poi ripiegare in ritirate meditazioni. È la versione mondanamente melodrammatica della spiritualità secentesca, più lacrimosa che filosofica.
Prodotto di mercato, il romanzo italiano secentesco sfrutta abilmente i vantaggi impliciti nella censura: la curiosità del lettore è attirata dal proibito, per cui conviene aspirare a essere colpiti dall’Inquisizione, si legge nell’Anima di Ferrante Pallavicino. Bisogna persuadere il pubblico a comprare e leggere, e dopo la metà del secolo il successo investe il romanzo di costume. Girolamo Brusoni ambienta la sua trilogia nel contesto veneto, ritratto abbastanza realisticamente. Glisomiro rappresenta l’inquieto smarrimento dell’uomo secentesco, senza proporsi come eroe romanzesco sempre uguale a se stesso al modo di Calloandro. Partecipa alla guerra dei Trent’anni col generale Wallenstein, e “conversa” con gli amici veneziani sulla sua esperienza di vita trasformando l’azione in evento, la storia in cronaca, l’etica dell’onore in rispettabilità chiacchierata e provinciale. Sullo sfondo risalta Venezia, la pianura e le cittadine padane, i canali, le ville, la gondola, il carrozzino.
Senza dubbio il romanzo del quotidiano rappresenta la novità più interessante del secondo Seicento. Anacronistico pare il tentativo dell’aristocratico Giuseppe Artale, concettista nostalgico, illustre spadaccino sanguinario e affossatore dell’eroismo cavalleresco.
Dal punto di vista della struttura narrativa il romanzo italiano viene decostruito da Francesco Fulvio Frugoni il quale nel suo Cane di Diogene moltiplica mostruosamente lo spazio delle digressioni, comunicando un senso di soffocamento dell’impulso creativo.
Nell’ultimo trentennio del secolo l’estenuarsi dell’invenzione viene testimoniata dalla massiccia presenza di traduzioni, come pure dalla produzione proteiforme di Gregorio Leti, aperto all’Europa e teorico del valore educativo del “viaggio”. Il movimento dell’azione narrata sembra non soddisfare del tutto il pubblico che vuole provare davvero a cambiare la scena dell’esistenza: la rivoluzione scientifica e filosofica filtra per lo meno come abito mentale di accoglimento del reale. L’esperienza del mondo significa anche straniamento e critica: Giovan Paolo Marana esplora con spirito di tolleranza le contraddizioni della società occidentale. Il limite provincialistico di Girolamo Brusoni e della narrativa italiana secentesca sembra aprirsi a prospettive europee. Qui sembra di cogliere un’origine romanzesca dell’illuminismo settecentesco.