Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il romanzo europeo del Settecento modifica la propria fisionomia rispetto alle convenzioni romanzesche del Seicento e si adegua al vasto panorama di esperienze offerto dalla cultura illuminista: la discussione ideologica e la satira, l’attenta analisi del reale, la scienza delle passioni e dell’interiorità. Data poi la sua natura polimorfa, il romanzo intrattiene uno scambio continuo con altre forme letterarie e in particolare con i generi che più si interrogano sul rapporto tra finzione e verità, quali il teatro e l’autobiografia.
Romanzo satirico e utopico
Tra le forme adatte a diffondere le nuove idee e a riformare le vecchie, la cultura settecentesca privilegia la narrazione del viaggio in un mondo sconosciuto, che consente di rendere noto ciò che ancora non si conosce, ma anche di correggere vecchie abitudini fallaci. Sono le Lettere persiane (1721) di Montesquieu a sancire le regole della satira sociale e sotto il travestimento orientaleggiante un popolo si riconosce osservandosi con occhi estranei.
L’esigenza che il viaggiatore ha di elaborare un nuovo modello di vita in condizioni sconosciute e la curiosità che nasce a contatto col nuovo soddisfano l’atteggiamento negativo verso il “principio stesso della segnicità” che, secondo Lotman, caratterizza la cultura fortemente desemioticizzata dell’Illuminismo: “Il mondo delle cose è reale, il mondo dei segni, dei rapporti sociali è il portato della civiltà falsa. Esiste ciò che rappresenta se stesso; tutto quello che rappresenta qualcos’altro è finzione”. Il romanzo come resoconto di viaggio ha dunque inizio col modello fortemente individualistico del Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe e, ripreso in forma satirica da Jonathan Swift con i Viaggi di Gulliver (1726-1727), si ritrova anche in Francia nel Candido (1759) di Voltaire e in Italia nei Viaggi di Enrico Wanton (1749) di Zaccaria Seriman.
Cambiano, di volta in volta, gli aspetti connessi col tema del viaggio. Vicino alla cultura degli empiristi inglesi, a Defoe interessa sottolineare la capacità dell’individuo di autorealizzarsi economicamente in situazioni anomale. Così, attraverso una serie di avventure concatenate e sviluppabili all’infinito, Robinson lascia la casa paterna, affrontando i pericoli del mare, viene fatto schiavo, ma riesce a fuggire in Brasile dove diventa un agricoltore benestante; riparte poi per la Guinea e naufraga in un’isola deserta dove si ricostruisce una vita civile, qui incontra dopo molti anni un selvaggio (Venerdì) che viene da lui educato, affronta alcuni cannibali e aiuta un capitano inglese a riconquistare la nave in possesso di marinai ammutinati; rientra quindi in Inghilterra dove si ritrova ricco e infine, dopo altri viaggi, fa ritorno nella sua isola.
Daniel Defoe
Prefazione
Robinson Crusoe
Se mai al mondo la storia delle avventure personali di un uomo meritò di essere resa di pubblica ragione, e fu tale da riuscire bene accetta una volta pubblicata, colui che ha curato la redazione di questo racconto pensa che esso abbia quei requisiti.
Le meraviglie della vita di quest’uomo eccedono, egli pensa, ogni altra narrazione esistente, trovando egli assai difficile che la vita d’un solo individuo possa mostrare maggiore varietà.
La storia è raccontata con molta castigatezza e serietà di propositi e una quanto mai pia applicazione delle vicende ai fini cui i saggi sempre le applicano, e cioè per istruzione altrui in forza dell’esempio, e per giustificare e onorare la saggezza della Provvidenza in ogni varietà di circostanze, comunque esse si svolgano.
Colui che ha curato la redazione del racconto crede che esso sia la storia di fatti veramente accaduti, non essendovi in esso apparenza alcuna d’invenzione; e comunque pensa, poiché a tutte queste cose s’è posto mente, che l’efficacia di esso, così per quanto riguarda il diletto che per quanto riguarda l’edificazione del lettore, sia la medesima; e per tale motivo egli è convinto, senza ulteriori parole per ingraziarsi il favore del pubblico, di rendere ad esso un grande servigio con la stampa di quest’opera.
D. Defoe, Opere, a cura di C. Izzo, trad. it. di A. Rizzardi, Firenze, Sansoni, 1958
Al di là della trama, che contiene già le premesse del “romanzo di formazione”, l’immaginario dei lettori ritaglia dal romanzo l’avventura del naufrago che, nuovo Adamo, si trova solo nell’isola deserta a contatto con bisogni elementari ed elabora, con pochi strumenti, modelli di comportamento adatti ad affrontare il caso in tutte le forme sorprendenti e quotidiane (non a caso, nel trattato pedagogico Emilio, Rousseau indica il Robinson Crusoe come vero mezzo per un’educazione libera da pregiudizi). Senza utilizzare lo schema del viaggio, Defoe fornisce anche una versione al femminile del romanzo di educazione con la storia di Moll Flanders (1722), dove la vita di una prostituta viene narrata con un esplicito intento educativo sul “buon uso” da farsi dell’opera: quando per esempio Moll racconta il furto di un orologio, dichiara di farlo per insegnare a difendersi dai borsaioli.
Con I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift lo schema del viaggio e del naufragio in mondi sconosciuti perde ogni intenzione didascalica, per divenire strumento di satira verso le idee del mondo moderno. Gulliver si trova gigante in un popolo di pigmei e poi pigmeo in mezzo ai giganti, conosce l’Accademia degli stralunati sapienti di Lagado e il paese governato da puri e saggi cavalli, gli Huyhnhnms. Ma nel racconto del marinaio avventuroso l’elemento più notevole è l’accentuazione dei fenomeni connessi con la vita del corpo, dalle funzioni sessuali a quelle escrementizie, che connotano la polemica di Swift contro i nuovi valori della razionalità occidentale, continuamente messa in crisi da sussulti corporali. Non è perciò un caso che proprio questo aspetto venga censurato dalla tradizione di lettura del romanzo, che lo ha presto relegato tra le opere della letteratura per l’infanzia. La fortuna di Gulliver inizia nel 1729 con una traduzione in francese di Pierre Desfontaines (che poi scrive anche un seguito, Il nuovo Gulliver) e una italiana di Francesco Mazzoni; questa appartiene al mondo veneziano e influenza, insieme a Micromégas di Voltaire, i Viaggi di Enrico Wanton nei regni delle scimmie e dei cinocefali di Zaccaria Seriman (la prima edizione pubblicata a Venezia nel 1749 ha infatti come titolo Viaggi di Enrico Wanton alle terre incognite australi e al paese delle scimmie – Traduzione da un manoscritto inglese), L’uomo di un altro mondo (1760) di Pietro Chiari e l’ Icosameron (1788) di Giacomo Casanova.
In queste opere la dimensione pedagogica e quella enciclopedica sono unite sempre alla struttura del viaggio con finalità satiriche e utopiche: moderate quelle di Seriman, che si basa sul valore dell’esperienza e cita spesso Montaigne per elaborare una filosofia illuministicamente libera da ogni pregiudizio, fantascientifiche quelle di Casanova, che immagina un viaggio al centro della terra in una società regolata e governata dal protagonista, Edouard, con l’uso di una tipografia e di una fabbrica di armi.
Romanzo sentimentale
Archetipo del romanzo pedagogico in Francia sono Le avventure di Telemaco di Fénelon (“il più bel romanzo del mondo”, secondo il compilatore dell’Encyclopédie); lo scrittore riprende qui i motivi mitologici del viaggio del figlio di Ulisse, inserendo in un’atmosfera decorativa uno spirito sentimentale che sproni il lettore verso la virtù e la giustizia. Ma i due veri modelli del romanzo sentimentale europeo sono Pamela (1740) di Samuel Richardson in Inghilterra e Giulia o la nuova Eloisa (1760) di Jean-Jacques Rousseau in Francia.
Richardson, un maturo tipografo londinese, concepisce un volume di lettere come guida alla scrittura che poi trasforma nel romanzo della passione amorosa, inquadrato all’interno del problema sociale del conflitto di classe ed entro gli schemi di un nuovo codice morale. Nasce così il racconto epistolare di una giovane cameriera insidiata e sedotta dal padrone disonesto e malvagio, indotto però al matrimonio alla fine di lunghe schermaglie amorose.
Samuel Richardson
Lettera al fratello
Pamela, o la virtù premiata
“Caro fratello, sono molto in pensiero per quello che mi hanno detto di te; e, ti piaccia o no, devo dirti tutto quello che penso; ho avuto qui persone che mi hanno pregato di parlarti in proposito, persone che hanno a cuore il tuo onore più di quanto l’abbia tu stesso, mi dispiace di dirlo. Debbo dunque pensare che mio fratello sia fuggito con la cameriera della mia povera mamma, l’abbia fatta prigioniera, allontanandola da tutti i suoi amici, scandalizzando tutti i suoi? Ma io mi ero già accorta che c’era qualcosa sotto, quando non hai voluto che quella povera ragazzina venisse da me... arrossisco per te, ti assicuro. Era una brava ragazza innocente; ma suppongo che ormai sia finita per lei, o che poco ci manchi. Mi domando che cosa vuoi fare. Non puoi che volerla come mantenuta o come moglie. Nel primo caso mi pare che ce ne siano abbastanza in giro, senza andare a rovinare quella povera ragazza che la mamma amava e che era veramente brava e buona; e di questo puoi ben vergognarti. Quanto al secondo caso, spero bene che tu non ci pensi neppure; ma se così fosse, non avresti proprio nessuna scusa. Pensa, fratello, che la nostra famiglia non è nata ora, ma che è antica quanto la migliore famiglia del Regno! Per molte centinaia d’anni nessun membro della nostra stirpe si è diminuito con un matrimonio inadeguato; e tu sai che le migliori famiglie del paese ti hanno fatto offerte matrimoniali. Potrei capirti se discendessi da una famiglia di recente lignaggio o lontana solo di un paio di generazioni dall’immondizia, di cui sembri esserti tanto invaghito. Ma lasciami dirti che io, e tutti i miei, non ti riconosceremo mai più per parente, se sarai capace di diminuirti fino a quel punto; ed io mi vergognerò di essere tua sorella. Bello come sei, pieno di doti di spirito, corteggiato da tutti, proprietario di un chiaro ed illustre patrimonio terriero e inoltre ricchissimo di denaro lasciatoti dai migliori genitori del mondo, con un sangue puro e antico che ti scorre nelle vene! Che proprio tu voglia sprecarti in questo modo, è intollerabile. D’altra parte saresti molto crudele a voler rovinare quella ragazza. Perciò ti prego di restituirla ai suoi genitori, dandole cento sterline o giù di lì, e di farla felice sposandola a qualche bravo giovane del suo stato; questo sarebbe veramente lodevole e basterebbe ad accontentare e tranquillizzare la tua addoloratissima sorella.
Se sono stata un po’ dura, pensa che è solo perché ti voglio bene e perché ti stai attirando addosso tanta vergogna; spero che così avrò su di te l’effetto desiderato”.
È proprio una letteraccia, cari papà e mamma; vedete come i superbi e i ricchi disprezzano la povera gente! Eppure in origine eravamo tutti uguali: e molti di questi signori che parlano tanto del loro antico sangue, sarebbero ben felici di averlo sano e veramente puro come lo abbiamo noi!... Questi superbi certo non pensano mai che la vita non è che una breve tappa e che verrà il giorno in cui, con tutta la loro vanità, dovranno per forza accettare di essere sullo stesso piano nostro. Aveva ragione quel filosofo che, guardando il teschio di un re e quello di un poveraccio, disse che non ci vedeva nessuna differenza. Eppoi, non sanno che i più ricchi principi come i più poveri mendicanti avranno tutti lo stesso grande e terribile Giudice, il giorno del giudizio; che non terrà nessun conto delle circostanze in cui hanno vissuto, ma anzi sarà più severo con loro per aver trascurato tante buone occasioni! Poveretti! Mi fanno proprio pena per tutta la loro superbia!... Dio mio, non farmi mai avere una situazione eccelsa come la loro, se devo anch’io acquistare i loro stessi difetti o convertirmi a un così crudele e illogico disprezzo dei poveri, che essi considerano con tanto disgusto!
Del resto, come fanno questi signori a sapere, anche supponendo che possano risalire con certezza ad uno, due, tre o perfino cinque secoli addietro, che la povera gente, anche se non ha conservato come loro tante elaborate cronache della insipienza degli avi - perché si è trattato quasi sempre di questo - non possiede dei capostipiti anche più antichi dei loro? Come possono avere la certezza che di qui a cento o duecento anni qualcuna di queste famiglie nate ora, che tanto essi disprezzano, non si godrà i loro beni, mentre i loro discendenti saranno ridotti ad occupare le casupole che oggi esse occupano? Ma forse la vanità, la mutevolezza della natura umana è tanta che, a loro volta si glorierebbero delle loro famiglie, disprezzando gli altri!
Stavo pensando a queste cose, resa anche più seria dall’indisposizione del padrone e da questa lettera superba della meschina lady Davers contro la ambiziosa Pamela. Meschina, sì, perché ha potuto cedere a una simile vana superbia; e ambiziosa io, perché spero di non diventare mai tanto superba da agire come lei!... Dopo tutto, non siamo che delle miserabili creature! A malapena sappiamo che cosa siamo, figuriamoci poi se sappiamo che cosa saremo!... Ancora una volta prego il cielo di non farmi diventare superba come i signori.
S. Richardson, Pamela, o la virtù premiata, trad. it. di V. Ottolenghi, Milano, Garzanti, 1953
La tecnica della lettera, che presenta i fatti in diretta, permette uno scavo attento dei sentimenti e Richardson, imitando per quanto gli è possibile lo stile ingenuo del suo personaggio, riesce a creare un nuovo carattere, in cui la debolezza femminile si intreccia con la seduzione, secondo quella che diviene una caratteristica della letteratura settecentesca (non va dimenticato che lo stesso Goldoni ricava un intreccio teatrale dal romanzo, Pamela o la virtù premiata). Qualche anno dopo, con Clarissa (1748), Richardson riprende l’intreccio di moralità e seduzione, creando questa volta l’avventura di una giovane ricca e virtuosa che viene portata, per interessi familiari, dal sommo della virtù all’umiliazione e che solo in punto di morte riacquista la propria dignità.
Tema sociale e tema amoroso sono connessi anche nella Nuova Eloisa di Rousseau, dove viene analizzato il conflitto tra le convenzioni sociali e la natura libera delle passioni. Anche in questo caso attraverso la forma epistolare il romanzo segue la lunga evoluzione dell’amore della nobile Julie per il proprio educatore – che prende il nome fittizio di Saint-Preux – prima attraverso un rapporto tenuto segreto, poi attraverso un tentativo di sublimazione delle passioni, quando a distanza di anni Saint-Preux ritrova la giovane sposata a un saggio amico di famiglia che ha creato con lei un esperimento di azienda agricola fiorente (si sente l’eco delle avventure di Robinson Crusoe) e che vorrebbe veder riuniti i due amanti in un rapporto di affettuosa amicizia.
Anche se nella Eloisa viene analizzato il lungo percorso delle passioni verso la ragione adulta, dall’amore giovanile della protagonista alla condizione di moglie fedele, è proprio alla sua morte, con un’ennesima lettera a Saint-Preux, che si rivela la forza irriducibile del desiderio: “Sì, ho avuto un bel voler soffocare il primo sentimento che m’ha fatta vivere: è concentrato nel mio cuore”. Quest’ultima confessione prospetta così una soluzione conflittuale che mostra tutte le potenziali tensioni inscritte in un’interiorità moderna.
Ben diversa è la fine di un altro famoso romanzo del secolo, Manon Lescaut (1731) di Antoine-François Prévost, inserito nelle più ampie Mémoires et aventures d’un homme de qualité, qui s’est ritiré du monde come “trattato di morale trasformato piacevolmente in azione”. Nel romanzo, un giovane nobile innamorato di una prostituta tenta di tenerla stretta a sé col denaro e infine la segue nella deportazione in America, ma non riesce a realizzare il progetto matrimoniale e anzi, dopo la morte dell’amata, ritorna a Parigi reintegrandosi nell’ordine sociale e morale. Nella storia di Manon, dove qualcuno ha visto il contrasto tragico dell’uomo contro l’imperscrutabile volere divino, elemento fondamentale resta l’alternanza di realismo, melodrammaticità ed erotismo, riutilizzati poi dal codice teatrale ottocentesco: l’amore triviale per una prostituta, dove si uniscono preziosità e realismo quotidiano, si trasforma nel mistero assoluto della passione amorosa.
Anche nel panorama italiano non mancano narrazioni centrate su personaggi femminili e su temi sentimentali. Nella Filosofessa italiana (1753) di Pietro Chiari, attraverso un accumulo di peripezie una marchesa, costretta a vestire abiti maschili per sfuggire alla reclusione in monastero, approda alle nozze desiderate seguendo imperterrita l’“amore del vero” e l’“umana ragione”. Nella terra di Goldoni, infine, una donna può benissimo assurgere al ruolo di sapiente lettrice dello “Spectator”.
Romanzo d’intreccio
Il successo di Richardson è innegabile e nel 1742 il nobile Henry Fielding scrive una parodia di Pamela, Joseph Andrews (ispirato al Don Chisciotte di Cervantes), dove il giovane Joseph viene insidiato dalla sua padrona vedova che, non corrisposta, lo licenzia. Con il successivo Tom Jones (1749), Fielding realizza l’esempio più notevole di romanzo fondato sulla perfezione tecnica dell’intreccio.
La storia del trovatello perseguitato dalla malvagità, ma capace di resistere con ogni mezzo alla sventura, è sostenuta da una macchina narrativa in cui comico e tragico si bilanciano e si azzerano di continuo, in un’alternanza tra bene e male che fa molto discutere fin dall’apparizione dell’opera, caratterizzata anche dalla costante e ironica presenza di un narratore che si interpone sempre tra il lettore e i personaggi, filtrandone le reazioni.
L’ironia regge qui la struttura del romanzo per sottolineare l’imprevedibilità del caso, rendendo quindi relative e meno rigide le idee della morale tradizionale.
In Vita e opinioni di Tristram Shandy (1759-1767) di Laurence Sterne il gioco con le strutture narrative giunge a sovvertire le leggi stesse dell’intreccio. In un continuo movimento di digressioni e commenti autoriali, l’intreccio viene messo in secondo piano fino a fare scomparire il protagonista (il racconto della sua nascita è continuamente dilazionato), per favorire invece figure che dovrebbero essere secondarie e che attirano la bizzarria del narratore e della sua voce pronta a mascherarsi in infinite tonalità.
Laurence Sterne
Considerazioni sulla propria vita
Vita e opinioni del gentiluomo Tristan Shandy, capp. I, II, IV
Capitolo I
Avrei desiderato che mio padre o mia madre, o invero tutti e due, poiché era parimente dovere di entrambi, avessero badato a quel che facevano quando mi generarono. Se avessero debitamente considerato tutto quanto dipendeva da quel che allora erano intenti a compiere, che cioè non solo la creazione di un essere razionale era in giuoco, ma presumibilmente che la felice formazione e costituzione del suo corpo, forse il suo genio, il vero e proprio stampo del suo spirito, anzi, per quanto ne sapessero loro, persino le fortune di tutta la sua casa avrebbero potuto dipendere dagli umori e dalle disposizioni prevalenti in quel momento; se essi avessero debitamente soppesato e valutato tutto ciò e agito in conformità, sono fermamente convinto che nel mondo avrei fatto ben altra figura di quella in cui forse apparirò al lettore. Credetemi, brava gente, questa non è cosa di così poco conto come molti di voi potrebbero essere indotti a credere; voi tutti, suppongo, avrete sentito parlare degli spiriti animali, di come essi siano trasfusi di padre in figlio, ecc., ecc., e di un’infinità di altre cose al riguardo. Ebbene, potete credermi sulla parola che nove parti su dieci della sensatezza o dell’insensatezza d’un uomo, dei suoi successi o insuccessi in questo mondo dipendono dai loro movimenti e dall’energia della loro azione, dai differenti ambienti e ordinamenti in cui li collocate, di modo che, una volta che vengono lasciati mettersi in moto, nella direzione giusta o sbagliata, - e non è una bazzecola, - se ne vanno disordinatamente come pazzi sfrenati; e a furia di battere e ribattere lo stesso percorso, in breve tempo se ne fanno una strada piana e liscia come un viale di giardino, dalla quale, una volta che vi siano avvezzi, neppure il Diavolo in persona sarà talvolta in grado di allontanarveli.
“Scusa, caro”, disse mia madre, “non hai per caso dimenticato di caricare l’orologio?”
“Buon Dio!” gridò mio padre, sbottando in un’esclamazione, ma badando allo stesso tempo di moderare la voce. “Hai mai donna, dalla creazione del mondo, interrotto un uomo con una domanda così sciocca?”
Scusate, che stava dicendo vostro padre?
Nulla.
Capitolo II
Beh, in verità non mi sembra che vi sia nulla di buono o di cattivo nella domanda. Allora, signore, lasciatemi dirvi che fu per lo meno una domanda molto inopportuna, poiché sparpagliò e disperse gli spiriti animali, il cui compito era quello di scortare e di tener per mano l’HOMUNCULUS, per condurlo sano e salvo al posto destinato a riceverlo.
L’homunculus, signore, per quanto vile e ridicola possa essere la luce in cui appare, in quest’epoca di superficialità, agli occhi della follia e del pregiudizio, è dichiaratamente, agli occhi della ragione impegnata nelle ricerche scientifiche, un Essere protetto e circoscritto da diritti. I filosofi più sottili, i quali, sia detto per inciso, hanno l’intelletto più aperto (la loro anima essendo inversamente proporzionale alle loro ricerche), ci dimostrano incontestabilmente che l’Homunculus è creato dalla stessa mano, generato nello stesso corso della natura, dotato delle stesse forze motorie e facoltà di noialtri; che consiste come noi di pelle, capelli, grasso, carne, vene, arterie, legamenti, nervi, cartilagini, ossa, midollo, cervello, ghiandole, genitali, umori e articolazioni; che è un Essere di altrettanta attività e, in tutte le accezioni del termine, altrettanto e così genuinamente nostro simile quanto il mio Lord Cancelliere d’Inghilterra. Può essere beneficiato, può essere offeso, può ottenere riparazione; in una parola, ha tutte le rivendicazioni e tutti i diritti dell’umanità che Tully, Puffendorf e i migliori scrittori d’etica ammettono che promanino da questo stato e da questo rapporto.
Ora, caro signore, che ne sarebbe di lui se gli fosse capitato un accidente nel suo viaggio solitario! O se, per il terrore di questo, naturale in un così giovane viaggiatore, il mio signorino fosse giunto al termine del suo viaggio miserabilmente esausto, col suo vigore muscolare e la sua virilità ridotte a un filo, con i suoi stessi spiriti animali sconvolti oltre ogni dire, e se in questo triste e disordinato stato di nervi fosse rimasto, per nove lunghi, lunghi mesi successivi, preda d’improvvisi sussulti o di una sequela di sogni malinconici e di allucinazioni! Tremo al pensiero delle fondamenta che sarebbero state predisposte per mille infermità così del corpo come della mente, che nessuna abilità di medico o di filosofo avrebbe poi mai saputo guarire definitivamente.
Capitolo IV
So che ci sono al mondo lettori, oltre a tante altre brave persone che non sono affatto lettori, i quali si sentono a disagio se non sono subito messi a parte di ogni segreto, dal primo all’ultimo, intorno a tutto ciò che vi riguarda.
Per pura compiacenza verso questo loro capriccio e per una mia naturale ritrosia a deludere anima viva ho fatto sinora un racconto così particolareggiato. Siccome la mia vita e le mie opinioni faranno probabilmente un certo rumore nel mondo e, se le mie congetture sono esatte, avranno diffusione tra uomini di ogni ceto, professione e confessione, saranno non meno lette dello stesso Viaggio del pellegrino e finiranno col diventare proprio quello che Montaigne paventava per i suoi saggi, cioè un libro da salotto, reputo necessario sentire un po’ il parere a turno di ciascun lettore; e perciò debbo chiedere scusa se procedo ancora un poco allo stesso modo. Ecco perché sono davvero lieto di avere cominciato la storia di me stesso nel modo che ho seguito e d’essere in grado di andar oltre, risalendo per ogni fatto, come dice Orazio, ab ovo.
Orazio, lo so, non raccomanda affatto questa maniera: ma questo signore parla solo del poema epico o della tragedia (non ricordo quale); inoltre, se non fosse così, chiederei scusa al signor Orazio; poiché nella stesura di quanto ho iniziato, non mi sottoporrò né alle sue regole né a quelle di nessun altro uomo che sia mai vissuto.
Comunque sia, a coloro che non desiderano risalire tanto indietro in queste cose non posso dare miglior consiglio se non quello di saltare la rimanente parte di questo capitolo; poiché, lo dichiaro subito, è stato scritto solo per i curiosi e i ficcanaso.
________________________Chiudete la porta_________________________
Io fui generato nella notte tra la prima domenica e il primo lunedì del mese di marzo nell’anno del Signore mille settecento diciotto. Ne ho la massima certezza; ma il fatto ch’io sia giunto a essere tanto informato sul mio conto d’una cosa avvenuta prima ch’io nascessi lo si deve a un altro piccolo aneddoto, noto soltanto nella nostra famiglia, ma che ora rendo di pubblico dominio per meglio chiarire questo punto.
Mio padre, dovete sapere, il quale a suo tempo commerciava con la Turchia, ma aveva smesso ogni attività da alcuni anni per ritirarsi a morire nei possedimenti paterni della contea di..., credo che fosse, in tutto ciò che faceva, si trattasse di affari o di divertimenti, una delle persone più metodiche che siano mai vissute. Citerò come piccolo saggio della sua estrema meticolosità, di cui egli fu in verità uno schiavo, il fatto che da molti anni si era fatta la regola alla prima domenica sera di ogni mese e per tutto l’anno, infallantemente come veniva la domenica sera, di caricare con le proprie mani un grande orologio a pendolo che tenevano in cime alla scala di servizio. Ed essendo, al tempo di cui sto parlando, a un dipresso tra i cinquanta e i sessant’anni d’età, egli aveva parimente un poco alla volta finito col concentrare certe altre intime faccenduole di famiglia nello stesso periodo, allo scopo, come spesso soleva dire allo zio Tobia, di liberarsene in una sola volta e di non esserne più afflitto e ossessionato per il resto del mese.
L. Sterne, Vita e opinioni del gentiluomo Tristan Shandy, Novara, De Agostini, 1986
Lo stesso gioco con la trama, ispirato al modello inglese, troviamo in Jacques il fatalista (1778) di Denis Diderot, storia di due personaggi – servitore e padrone – che viaggiano a cavallo, raccontando e ascoltando avventure di ogni tipo. Anche in questo caso la clarté illuminista e i principi del realismo sono messi in crisi dall’accentuazione della figura del narratore; questi instaura infatti un fitto dialogo col suo lettore, per sottolineare le caratteristiche della finzione e analizzare il sistema di circostanze che determinano ogni minimo avvenimento. Il “fatalismo” del titolo significa appunto analisi continua della forza del Fato. In opposizione al Voltaire di Candido, che aveva sviluppato un’avventura paradossale per parodiare le teorie di Leibniz sulla razionalità dell’universo, Diderot sembra vedere nell’intreccio del caso la sola prova che l’uomo deve riuscire a sostenere per far valere la propria ragione. Dal determinismo più rigido può nascere l’impulso più forte verso la libertà dell’individuo.
Se l’Italia non sperimenta ancora la soluzione del conte philosophique, insieme agli intrecci labirintici del Chiari si possono ricordare quelli del suo successore e quasi continuatore Antonio Piazza, dove l’accumulo di funzioni narrative (racconto nel racconto, digressione, fuga e riconoscimento) sorreggono un’etica pratica all’insegna del denaro e dell’interesse, unici strumenti per fronteggiare i rivolgimenti del caso.
Dall’ambiente più impegnato del “Caffè” vengono invece Le avventure di Saffo (1782) di Alessandro Verri, dove il programma di uno stile medio adatto a un nuovo tipo di romanzo d’analisi si risolve nella mescolanza di patetico e sentimentale, proiettati nel mondo neoclassico di un Winckelmann. Così la passione di Saffo per Faone e il conseguente suicidio dalla rupe di Leucade divengono oggetto per elaborare un’immagine d’uomo la cui “virtù” risiede totalmente nelle reazioni del “cuore”. La fenomenologia amorosa, passando dalla sensibilità alla sensualità e dal desiderio al delirio, sembra anticipare il clima romantico e melodrammatico su fondo neoclassico che viene inaugurato, alla fine del secolo, dalla prima edizione dello Jacopo Ortis di Foscolo (1798). Come previsto da Diderot nell’ Elogio di Richardson, fenomeni fisici e morali rimangono sconosciuti finché l’artista non si assume il compito di disegnarne attentamente la fisionomia, calandola nella concretezza di un carattere e di una situazione: questo il mandato di un genere letterario che nel Settecento si pone compiti descrittivi e analitici quasi senza limiti.