Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dal regno di Nicola I la straordinaria fioritura culturale dell’Ottocento russo si può addirittura circoscrivere a un solo genere letterario: il romanzo. Puškin, Lermontov, Gogol’, Turgenev, Gončarov, Dostoevskij e Tolstoj danno vita a una serie di capolavori unici, capaci di suscitare infuocate discussioni tra i lettori del tempo e di interrogare la coscienza dell’uomo di oggi.
Lo scrittore russo dell’Ottocento
L’Ottocento russo rappresenta un’epoca di eccezionale fioritura intellettuale, pari forse soltanto al Rinascimento italiano. Tuttavia, tale straordinaria e tumultuosa fioritura riguarda la sola letteratura e, a partire dal regno di Nicola I, essa si può addirittura circoscrivere a un solo genere letterario: il romanzo.
Diversi motivi di natura culturale e sociale contribuiscono a determinare la centralità della letteratura e dello scrittore nella vita russa del XIX secolo. Innanzitutto, la grande influenza esercitata dalla filosofia di Schelling, che fa dell’arte l’attività creatrice e sintetica per eccellenza, capace di ricomporre l’originaria armonia tra necessità e libertà, tra sensibilità e razionalità. L’estetica schellinghiana con il suo superamento delle disarmonie della realtà costituisce, accanto alle altre teorie idealistiche, il fondamento culturale comune di circoli culturali e letterari.
La cultura russa di questo periodo è infatti in gran parte cultura di salotti e di circoli culturali: nel corso di riunioni che si tengono a giorni fissi nei salotti delle famiglie in vista, lo scrittore legge le sue opere più recenti, viene corteggiato dal bel mondo, ha la possibilità di saggiare il giudizio del pubblico e di influire sugli ambienti di corte; nei circoli culturali, gli scrittori partecipano a discussioni e a progetti sociali spesso utopistici, si scambiano idee e letture al di fuori del controllo della censura, conoscono la parte intellettualmente più vivace del Paese.
L’eccezionale rilevanza della letteratura nella società russa dell’Ottocento è riconducibile inoltre alle condizioni politiche dello Stato russo. Infatti, la totale assenza di forme di rappresentanza politica, nonché la subalternità della Chiesa russo-ortodossa a un potere civile rigidamente circoscritto allo zar, che pertanto è definito "autocrate", caricano gli ambienti letterari di un ruolo di supplenza che l’autorevolezza e il talento di scrittori e critici finiscono per trasformare in vero e proprio magistero etico.
La conseguenza di tale concezione è stata ben condensata da Isaiah Berlin nella definizione di "scrittore-apostolo"; la vita dello scrittore diventa infatti una vera e propria missione e la sua opera ricerca di verità culturale, etica e sociale, sia che egli tratti “argomenti santi ed elevati”, come vuole Gogol’, sia che all’opposto si faccia "difensore e salvatore dalle tenebre dell’autocrazia, dell’ortodossia e del nazionalismo", secondo la concezione dell’influente critico Belinskij. Per affermare le sue idee, lo scrittore russo deve tuttavia fare i conti con la censura zarista che, se pure non prescrive una linea culturale obbligatoria come avverrà poi con quella sovietica, è ottusamente asfissiante, noiosa, occhiuta e per giunta burocraticamente inefficiente: è capace di censurare i Vangeli, ma non di riconoscere la potenzialità corrosiva del Viaggio da Pietroburgo a Mosca di Radiščev (1790) o delle Lettere filosofiche (1836) di Pëtr Jakovlevič Čaadaev. Date queste premesse, nell’Ottocento la grande letteratura diventa il valore condiviso della società russa e, assai più della politica e della religione, fonte dell’identità nazionale.
Gli inizi del romanzo
La penetrazione della sensibilità preromantica dovuta agli scrittori sentimentalisti, nonché il nuovo atteggiamento verso la storia e la società contemporanea – significativamente Karamzin è sia autore dei primi racconti di tono sentimentale (La povera Lisa, 1792) e sia della prima moderna Storia dello Stato russo (1818-1826) – portano anche in Russia al superamento della rigida divisione in generi letterari propria del classicismo.
Nel 1825 Puškin inizia la pubblicazione di un’opera destinata a lasciare il segno sull’intera letteratura russa, il romanzo in versi Evgenij Onegin (musicato da Čajkovskij nel 1878); con quest’opera straordinaria nasce il realismo russo moderno, quel realismo che – secondo la definizione formulata da Auerbach per la letteratura europea occidentale – ha come basi la trattazione seria della realtà quotidiana, l’allargamento della raffigurazione problematico-esistenziale a ceti socialmente estesi e inferiori, l’inserimento di persone qualsiasi e di avvenimenti quotidiani in un periodo storico riconoscibile. E infatti Evgenij Onegin è un personaggio a tutto tondo, damerino alla moda di San Pietroburgo eppure consapevole della vacuità della sua vita fino a essere roso dalla chandrà, l’equivalente russo dello spleen; Evgenij Onegin è facile agli entusiasmi e contemporaneamente scettico, scapolo dedito alle facili conquiste e tuttavia alla ricerca di un vero amore. Analogamente Tat’jana, la protagonista femminile del romanzo, è sentimentale e forte, orgogliosa e capace di abnegazione, disposta a commuoversi per letture sdolcinate e intensamente partecipe del mondo popolare trasmessole dalla nutrice. Il mondo interiore di questi personaggi – prototipi dell’uomo superfluo e dell’eroina russa – e le caratteristiche della società in cui essi vivono sono rese nel romanzo con verità, ironia e affetto, ma anche – caratteristica essenziale – attraverso la mediazione formale di un verso classico come la tetrapodia giambica. Nel 1836 Puškin si misura con il romanzo storico alla Walter Scott: nasce così La figlia del capitano, ambientato ai tempi della rivolta di Pugacëv e contemporaneo di un’altra potente opera storica, Taras Bul’ba (1835) di Nikolaj Vasilievič Gogol’, in cui il tono romanzesco sconfina spesso nell’epopea del popolo cosacco.
Nel suo Un eroe del nostro tempo (1840), invece, Lermontov dà corpo a un romanzo ciclico dalla trama ancor esile e dalla poetica largamente romantica, capace di profonda penetrazione psicologica. Nei cinque racconti di cui si compone il romanzo, infatti, emerge una pluralità di punti di vista che mostrano e descrivono il carattere del giovane ufficiale Pečorin, eletto a rappresentante di un’intera generazione. Se l’ Onegin porta il sottotitolo di "romanzo in versi", le gogoliane Anime morte (1842) vengono definite dall’autore "poema in prosa". Si tratta di una geniale rielaborazione del romanzo picaresco, il cui protagonista viaggia attraverso una Russia abitata da personaggi disumani con il pretesto di acquistare servi della gleba morti ma ancora registrati come vivi (le "anime morte", appunto). Questo poema-romanzo a cui Gogol’ intende dare un ampio sviluppo è tuttavia rimasto incompiuto, avendo l’autore bruciato la seconda parte proprio alla vigilia della morte. A torto collocato dai critici militanti (Belinskij, Dobroljubov, Černyševskij) alla guida di una presunta scuola naturale, impegnata nello smascheramento delle ingiustizie sociali dello zarismo, Gogol’ presenta nelle sue opere – come non pochi altri scrittori del periodo – vistosi debiti nei confronti del fantastico di ascendenza hoffmanniana; è questo anche il caso del Sosia di Dostoevskij, pubblicato subito dopo il suo primissimo testo, il romanzo epistolare Povera gente (1846). Tra la messe di romanzi di taglio più naturalistico pubblicati a partire dagli anni Quaranta – definito, in seguito, il "magnifico decennio" – meritano di essere segnalati quelli di Dmitrij Vasilevič Grigorovič, Herzen (Gercen, secondo la traslitterazione russa) e Michail Saltykov-Ščedrin.
Nikolaj Vasilievic Gogol’
Il viaggio, l’autore e il suo eroe
Le anime morte
Che forza strana, e ammaliante, e trascinante, e piena d’incantesimo, in questa parola: viaggio! E com’è pieno d’incantesimo esso stesso, codesto viaggiare! Giornata limpida, foglie autunnali, aria fredda... avvoltoliamoci meglio nella mantella da viaggio, cappello sull’orecchie, e rannicchiamoci più stretti, più a nostro agio nel cantone! Per l’ultima volta un rapido brivido è corso per la persona, e già gli succede un gradevole tepore. I cavalli vanno di gran carriera... Con che seduzione irresistibile t’invade la sonnolenza, e ti si chiudono gli occhi, e mentre già t’addormenti ti risuonano all’orecchio "Non le bianche nevi", e lo sbuffar dei cavalli, e il rumorio delle ruote – e già ronfi, pigiando nel cantone il tuo vicino. Ti svegli: cinque tappe sono già passate via; c’è la luna; una città sconosciuta; chiese con le vecchie cupole di legno e le guglie annerite; scure le case di tronchi, bianche quelle di pietra; il chiarore della luna qua e là, come se bianchi fazzoletti di tela fossero stesi ai muri, sul selciato, lungo le vie; a frastagli aguzzi li intersecano ombre nere come il carbone; come di lucente metallo, splendono di scorcio, battuti dalla luna, i tetti di legno; e dappertutto, nemmeno un’anima: tutto dorme. Solo soletto, da qualche finestrella sperduta, tremola sì e no un lumicino: sarà un artigiano della città, che cuce il suo paio di scarpe, sarà un fornaio che s’affaccenda intorno al forno: poco importa! Ma che notte!... Potenze celesti, che notte si sta svolgendo nelle altezze! Che atmosfera, che cielo, lontano, alto, lassù, nell’inaccessibile profondità sua: come si libra incommensurabile, sonoro, limpido!... Ma alita fresco proprio negli occhi il freddo alito della notte, e viene a cullarti; e ecco che già t’assopisci e perdi coscienza e ronfi un’altra volta, – e si rigira rabbiosamente, sentendosi il peso addosso, il povero vicino, schiacciato nel cantone. Ti svegli: e già di nuovo ti stanno innanzi campi e steppe; vuoto dovunque, nulla in nessun luogo: tutto aperto all’infinito. Una colonnetta col numero delle miglia ti passa negli occhi; spunta il mattino: allo sbiancato, gelido orizzonte una pallida striscia dorata: più fresco, più aspro si fa il vento: più stretti nel caldo mantello!... Che freddo magnifico! che incantevole sonno ti sopraffà di nuovo! Uno scossone – e di nuovo sei sveglio. Alla sommità del cielo, il sole. – Più adagio! adagio! – risuona una voce: la vettura sta scendendo giù per un costone: in basso, una diga ben larga, e un largo, limpido stagno, che scintilla come un bacino di rame al sole: un villaggio, colle casupole sparpagliate per il pendio: come una stella, risplende in disparte la croce della chiesa: un vocio di contadini, e un irresistibile appetito nello stomaco... Dio mio! Come sei bella in certi momenti, oh lunga, lunga strada! Quante volte, come un naufrago, come già sul punto d’annegare, io mi sono afferrato a te, e tu ogni volta, magnanima, mi hai tratto su e mi hai salvato! E quanti meravigliosi progetti, quante poetiche fantasie mi sono nate in te; quante stupende impressioni tu m’hai fatto provare! ... Ma anche il nostro amico Cícikov provava in questi momenti impressioni non del tutto prosaiche. Vediamo un po’ che cosa provava.
Da principio non provò nulla, e non faceva che guardarsi indietro, per esser certo che veramente era uscito di città: ma quando vide che la città era ormai dileguata da un pezzo, e fucine, mulini, e tutte l’altre cose caratteristiche dei dintorni delle città, non si vedevano più, e perfino le bianche cime delle chiese di pietra erano da un pezzo tramontate sotto terra, egli cominciò a interessarsi unicamente della strada, e guardare soltanto a destra e a sinistra, e la città di N. fu come se gli fosse sparita dalla memoria, come se ci fosse passato in viaggio tanto tempo fa, quand’era bambino. Finalmente, anche la strada cessò di interessarlo, e cominciò un pochino a socchiudere gli occhi e a piegar la testa sul cuscino. L’autore, a dire il vero, è anzi contento di questo, giacché così gli si presenta il destro di parlare un po’ del suo eroe: fin qui, difatti, come il lettore ha potuto vedere, ne è stato continuamente impedito ora da Nozdrëv, ora dai balli, ora dalle signore, ora dagl’intrighi cittadini, ora infine da quelle mille inezie, che sembrano inezie solo quando s’introducono in un libro, ma finché si svolgono nella realtà, sono considerate faccende di grande importanza. Adesso, però, mettiamo senz’altro tutto da parte, e affrontiamo direttamente l’argomento.
È più che dubbioso che l’eroe da noi scelto sia piaciuto ai lettori. Alle signore non piacerà, questo si può dir di sicuro, giacché le signore esigono che l’eroe sia una perfezione assoluta, e basta che abbia, nell’anima o nel corpo, una qualsiasi macchiolina – apriti cielo! Per quanto profondo sia sceso in lui lo sguardo dell’autore, per quanto abbia reso con più nettezza d’uno specchio la sua immagine, non gliene riconosceranno il minimo pregio. La stessa complessione pienotta e la mezza età di Cícikov gli saranno di grave pregiudizio: la complessione pienotta non verrà a nessun patto perdonata al nostro eroe, e moltissime signore, torcendo il viso dall’altra parte, diranno: – Pfu! com’è detestabile! – Ahimè, son tutte cose che l’autore sa bene; e, nonostante tutto, egli non può scegliere per suo eroe un uomo virtuoso. Ma... chissà, nel corso di questa stessa narrazione, si faranno sentire altre corde, non tocche fin qui; verrà a risaltare la smisurata ricchezza dello spirito russo; apparrà un uomo dotato di virtù sovrumane, o una di quelle prodigiose giovinette russe, come altrove non se ne trovano al mondo, in tutta la stupenda bellezza della sua anima femminile, tutta aspirazioni magnanime e spirito di sacrificio. E morti sembreranno, di fronte a loro, tutti gl’individui virtuosi dell’altre stirpi, com’è morto un libro di fronte alla viva parola! Si solleveranno i moti propri dell’indole russa... e si vedrà quanto a fondo sia penetrato nella natura slava ciò che ha sfiorato appena la natura degli altri popoli... Ma a che scopo parlare di quello che è innanzi? Non si conviene all’autore, che è un uomo educato ormai da gran tempo alla severa vita interiore e alla fredda lucidità della solitudine, lasciarsi trasportare come un giovanotto. A ogni cosa il suo turno, e il suo luogo, e il suo tempo! Ma l’uomo virtuoso, no, non l’abbiamo scelto a nostro eroe. E possiamo anche dire perché non l’abbiamo scelto. Perché è tempo, una buona volta, di concedere un po’ di riposo al povero uomo virtuoso; perché a vuoto gira su tutte le labbra la parola uomo virtuoso; perché hanno ridotto a un cavallo l’uomo virtuoso, e non c’è scrittore che non ci scarrozzi, incitandolo colla frusta, o qualunque altra cosa gli capiti; perché hanno talmente massacrato l’uomo virtuoso, che ormai non c’è più in lui neppur l’ombra della virtù – gli sono restate le coste e la pelle, al posto del corpo; perché ipocritamente si fa venire in ballo l’uomo virtuoso; perché non si rispetta, l’uomo virtuoso. No, è tempo, una buona volta, d’attaccare alle stanghe anche un farabutto. Suvvia dunque, attacchiamo questo farabutto!
N.V. Gogol’, Le anime morte, introduz. di V. Strada, trad. it. di A. Villa, Torino, Einaudi, 1977
Turgenev e Gončarov
In Russia, gli anni Cinquanta segnano l’esordio di Turgenev e di Tolstoj, nonché l’affermazione di Sergej Aksakov e Gončarov.
Cantore dell’atmosfera provinciale russa, con la sua natura (Memorie di un cacciatore, 1852), i saggi contadini e l’agitata e contraddittoria media nobiltà, Turgenev intesse attraverso i suoi romanzi e i suoi personaggi tipici un fitto dialogo con la critica e la società del tempo. Se in Rudin (1856) sviluppa il tipo dell’uomo superfluo, inutile a causa della situazione sociale non meno che per l’intrinseca disarmonia della condizione umana, in Padri e figli (1862) Turgenev presenta con obiettività e imparzialità il ritratto del nichilista. Le vivaci, opposte interpretazioni, volte a determinare le simpatie di un autore quasi impercettibile nel testo, rendono ancor più manifesta la strettissima interdipendenza tra romanzo e società. Nel 1872, con Terre vergini, Turgenev cerca ancora, sebbene con minore successo, di dare voce a una nuova tappa della storia socio-culturale russa, rappresentata dai populisti.
Con Aksakov, organizzatore di un salotto culturale tra i più vivaci di Mosca, il romanzo si volge indietro alle radici della eroica vicenda dei patriarchi russi del Settecento (Cronaca di famiglia, 1856); e la medesima aura patriarcale spira anche nel sogno di Oblomov (1859), il protagonista dell’omonimo indimenticabile capolavoro di Gončarov, dove la mitica e dorata esistenza dell’immota provincia russa diventa il pretesto per la più completa inazione di un personaggio dall’accidia proverbiale. La critica si è interrogata a lungo sulle ragioni – esistenziali o sociologiche – di quella malattia della volontà che nel romanzo stesso viene definita "oblomovismo": Dobroljubov, ad esempio, con caratteristica fusione di fiction e realtà, la riconduce al sentimento di colpa collettiva originato dalla servitù della gleba, l’istituzione che regge il sistema sociale russo e che scompare solo nel 1861.
Ivan Aleksandrovic Goncarov
Oblomovismo
Oblomov
"Continua dunque a dipingermi l’ideale della tua vita... Su via, dei buoni amici intorno; e che altro? Come passeresti le tue giornate?"
"Ecco, mi alzerei la mattina", cominciò Oblomov, mettendo le mani sotto la nuca, mentre sul suo viso si spandeva un’espressione di calma: col pensiero egli era già in campagna. "Il tempo è magnifico, il cielo azzurro, azzurrissimo, neppure una nuvoletta", continuava egli; "da un lato della casa, nel mio piano, c’è un balcone ad oriente, verso il giardino, verso i campi; l’altro lato guarda il villaggio. In attesa che si svegli mia moglie, indosserei la veste da camera e passeggerei nel giardino per respirare l’aria mattutina; lì troverei il giardiniere, insieme con lui innaffierei i fiori, taglierei i cespugli, poterei gli alberi. Farei un mazzo di fiori per mia moglie. Poi andrei nel bagno, o andrei a fare il bagno nel fiume; ecco, ritorno: il balcone è già aperto; mia moglie è in vestaglia, con una leggera cuffietta che si regge appena, per poco il vento non gliela porta via dalla testa... Ella m’aspetta. ’Il tè è pronto’, dice. Che bacio! Che tè! Che poltrona comoda! Mi siedo alla tavola; ci sono i biscotti, la panna, il burro fresco..."
"E poi?"
"Poi indossato un ampio soprabito o una giacchetta qualunque, con un braccio intorno alla vita di mia moglie, m’internerei con lei in un viale scuro senza fine; si camminerebbe lentamente, soprappensiero, in silenzio, o si penserebbe ad alta voce, si sognerebbe, si conterebbero i minuti di felicità, come i battiti del polso; si ascolterebbe come pulsa il cuore e sembra venir meno; si cercherebbe simpatia nella natura... e si arriverebbe senza accorgersene al fiume, ai campi... Il fiume mormora appena; le spighe si agitano al vento, fa caldo... ci si mette in barca, mia moglie voga, alza appena il remo..."
"Ma tu sei poeta, Il’jà!" lo interruppe Stolz.
"Sì, poeta nella vita, perché la vita è poesia. Gli uomini hanno un bel contraffarla! Poi si può andar nella serra", continuò Oblomov, inebbriandosi egli stesso dell’ideale di felicità che aveva dipinto.
Egli traeva dall’immaginazione dei quadri bell’e pronti, già da un pezzo dipinti, e perciò parlava con animazione, senza fermarsi. "Andremmo ad osservare le pesche, l’uva", continuava, "diremmo quali bisogna portare in tavola, poi si tornerebbe per una leggera colazione e si aspetterebbero le visite... poi, ecco che arriva o un biglietto a mia moglie da una certa Mar’ja Petrovna insieme ad un libro o a delle carte di musica, o un ananas che c’è stato mandato in dono; oppure nella serra è maturato un enorme cocomero e lo mandi a un buon amico per il pranzo dell’indomani, e magari ci vai tu stesso... E in cucina intanto tutto bolle; il cuoco, in berretta e grembiale bianco come la neve, si affaccenda, mette una casseruola, ne leva un’altra, qui dà una rigirata, là si mette a impastare, poi butta l’acqua... i coltelli non fanno che battere... tritano la verdura... là preparano il gelato... Prima di pranzo è piacevole dare un’occhiata in cucina, aprire una casseruola, annusare, osservare come si preparano i pasticcini, come si batte la panna. Poi mi sdraierei sopra un sofà: mia moglie legge ad alta voce qualche novità; ci fermiamo, discutiamo... Ma ecco gli ospiti, per esempio, tu con tua moglie."
"Bah, fai pigliar moglie anche a me?"
"Assolutamente! Ancora due o tre amici, sempre le stesse facce. Riprendiamo la conversazione interrotta del giorno prima, si scherza, oppure segue un silenzio eloquente, ci si immerge nei propri pensieri: non per la perdita di un posto, non per una causa in senato, ma per la pienezza dei desideri soddisfatti, per un senso di felicità... Non si sentono filippiche lanciate con la bava alla bocca contro un assente, non si vedono sguardi che ti promettono di far la stessa cosa con te, non appena avrai varcata la porta. Con chi non s’ama, con chi non è buono non si divide il pane e il sale. Negli occhi dei presenti si vede simpatia, nello scherzo si sente un riso sincero, non cattivo... Tutto come detta l’anima! Quel che è negli occhi, nelle parole, è anche nel cuore! Dopo il pranzo il moka, un avana sulla terrazza..."
"Tu mi dipingi la vita che han condotto i padri e i nonni..."
"No, non è quella", ribatté Oblomov, quasi offeso, "dove mai? Che forse mia moglie si occuperebbe di far marmellate e metter funghi sott’olio? Conterebbe essa forse le matasse di filo o misurerebbe la tela? Picchierebbe forse le serve sulle guance? Senti: carte di musica, libri, pianoforte, mobilio elegante..."
"Bene, e tu?"
"Io non leggerei i giornali dell’anno prima, non andrei in calesse e non mangerei taglierini ed oche, ma farei istruire il mio cuoco al club inglese o presso un ambasciatore."
"Bene, e poi?"
"Poi, quando il caldo cadesse un po’, ce ne andremmo in telega col samovàr e del dessert nel boschetto di betulle o in un prato, sull’erba falciata, stenderemmo tra i covoni dei tappeti e ce la godremmo fino all’ora della bistecca e della cotoletta. I contadini tornano dal campo, con le falci sulle spalle; là passa un carico di fieno, che copre e la telega e il cavallo, e in cima vien fuori un berretto di contadino con fiori e una testolina di ragazzo; là una folla di donne scalze, con le falci, che cantano... A un tratto han visto i signori, hanno smesso, s’inchinano. Una di esse, col collo abbronzato dal sole, coi gomiti nudi, con gli occhi timidamente abbassati, ma furbi, si schermisce un pochino, solo per forma, dalla carezza del padrone, ma è felice... tss... che la moglie non veda. Dio scampi e liberi!"
Oblomov e Stolz si sbellicarono dalle risa.
"Fa umido nel campo", concluse Oblomov, "è buio; la nebbia, come un mare che si è rovesciato, copre la segale; i cavalli tremano nelle spalle e battono gli zoccoli: è tempo di tornare a casa. In casa hanno già accesi i lumi; in cucina battono in cinque i coltelli: una casseruola di funghi, cotolette, bacche... poi musica... Casta diva... Casta diva!" intonò Oblomov. "Non posso ricordare a freddo Casta diva", disse, dopo aver cantato il principio della cavatina, "come consuma il suo cuore piangendo, questa donna! Che tristezza è in questi suoni! E nessuno sa niente intorno... Lei sola... il suo segreto l’opprime; ella lo confida alla luna..."
"Tu ami quest’aria? Ne son proprio lieto; la canta magnificamente Ol’ga Il’inskaja. Te la farò conoscere: quella è una voce, quello è un canto! E lei stessa, che deliziosa creatura! Del resto, forse, io non giudico spassionatamente: ho un debole per lei... Non ti distrarre però, non ti distrarre", aggiunse Stolz, "racconta!"
"Be’!" continuò Oblomov, "che cosa raccontare ancora?... Questo è tutto!... Gli ospiti vanno nelle camere loro assegnate, e l’indomani ognuno se ne va per conto suo: chi a pescare, chi a caccia, e chi semplicemente se ne sta in casa..."
"Così, semplicemente, senza aver nulla per le mani?" domandò Stolz.
"Cosa bisogna avere in mano? il fazzoletto per il naso, forse. Non vorresti vivere anche tu così?" domandò Oblomov. "Eh? non è questa la vita?"
"E così tutta l’esistenza?" domandò Stolz.
"Fino ai capelli bianchi, fino alla tomba. Questa è vita!"
"No, questa non è vita!"
"Come, non è vita? Che cosa ci manca? Pensa che non vedresti neppure un viso pallido, sofferente, non conosceresti preoccupazioni, non sentiresti parlar di senato, di borsa, di azioni, di conferenze, di ricevimenti ministeriali, di gradi, di aumento di diarie. Solo conversazioni di tuo gusto! Non avresti mai bisogno di cambiar casa, il che è già di per sé importante. E questa non è vita?"
"Non è vita!" ripeté ostinato Stolz.
"E che cos’è secondo te?"
"E’..." (Stolz si era fatto pensieroso e cercava come chiamare quella vita), "è... oblomovismo", disse egli alla fine.
"Oblomovismo!" ripeté lentamente Il’jà Il’íc, meravigliato di questa strana parola e dividendola in sillabe. "O-blo-mo-vi-smo!"
Guardò stranamente e fissamente Stolz.
"E in che consiste l’ideale della vita secondo te? Non è esso l’oblomovismo?" domandò egli senza slancio, timidamente. "Che non tendono forse tutti a quello che io sogno? Ti prego!", aggiunse egli più arditamente. "Che forse lo scopo di tutto il vostro affaccendarvi, delle vostre passioni e guerre, del vostro commercio e della vostra politica non è il raggiungimento della calma, l’aspirazione a questo ideale di paradiso perduto?"
I.A. Goncarov, Oblomov, introduzione e trad. di E. Lo Gatto, Torino, Einaudi, 1979
Dostoevskij e Tolstoj
Gli anni Sessanta e Settanta segnano il trionfo del romanzo. Fëdor Dostoevskij pubblica Delitto e castigo (1866-1867), L’idiota (1868), I demoni (1871-1872), L’adolescente (1875) e I fratelli Karamazov (1879-1880); negli stessi anni Tolstoj dà alle stampe Guerra e pace (1867-1869) e Anna Karenina (1875-1877), mentre solo più tardi viene pubblicato l’incompiuto Resurrezione (1899). Pubblicati dapprima su riviste di larga diffusione e poi in volume, questi romanzi riscuotono meritatamente un successo senza pari.
Fëdor Michailovic Dostoevskij
Dialogo tra Raskolnikov e Sonja sul delitto dell’usuraia
Delitto e castigo, Parte V
"(...) una volta mi ero proposto un quesito: se, per esempio, al mio posto si fosse trovato Napoleone e non avesse avuto, per cominciare la sua carriera, né Tolone, né l’Egitto, né il passaggio del Monte Bianco, ma, invece di tutte queste belle e monumentali imprese, gli si fosse trovata dinanzi nient’altro che una spregevole vecchierella, vedova di un impiegato del registro, che per giunta si dovesse uccidere per rubarle i denari nel baule (per far carriera, capisci?), ebbene si sarebbe egli deciso a farlo, non avendo altra via di uscita? Non si sarebbe inalberato al pensiero di un’azione così poco monumentale e... e delittuosa? Ebbene, io ti dico che con un simile "quesito" mi torturai per lunghissimo tempo, tanto che mi prese una gran vergogna quando alla fine intuii (d’un tratto) che non soltanto egli non si sarebbe inalberato, ma non gli sarebbe neppur venuta in mente l’idea che la cosa non fosse monumentale... e anzi non avrebbe capito affatto che motivo ci fosse lì di inalberarsi. E purché non avesse avuto altra strada, l’avrebbe soffocata senza lasciarle dire né ahi né bai, e senza pensarci più che tanto! Ebbene anch’io... sono uscito dalle mie meditazioni... e l’ho soffocata... seguendo l’autorevole esempio... Ed è stato così punto per punto! Ti vien da ridere? Ma qui, la cosa più buffa è che forse è stato proprio così..."
Sonja non aveva nessuna voglia di ridere.
"Parlatemi piuttosto chiaramente... senza esempi", ella pregò ancora più timida e con voce appena udibile.
Egli si voltò verso di lei, la guardò con tristezza e la prese per le mani.
"Hai di nuovo ragione tu, Sonja. Tutte queste sono scempiaggini, è quasi una vuota cicalata! Vedi: tu sai pure che mia madre non possiede quasi nulla. Mia sorella ha ricevuto per caso un’educazione ed è condannata ad andare di qua e di là come istitutrice. Tutte le loro speranze non erano riposte che in me. Io ho studiato, ma non potevo mantenermi all’università e sono stato costretto a lasciarla per un certo tempo. Ma anche se si fosse andati avanti a quel modo, tra una diecina, una quindicina d’anni (sempre che le cose si fossero messe bene), avrei potuto sperare di diventare insegnante o impiegato, con mille rubli di stipendio..." Pareva che dicesse cose imparate a memoria. "E intanto mia madre si sarebbe rinsecchita dai crucci e dagli affanni, senza che tuttavia mi riuscisse di darle la tranquillità, e mia sorella... be’, a mia sorella sarebbe potuto capitare anche di peggio!... E che gusto, per la vita intera, passare dinanzi a tutto e rinunciare a tutto, dimenticarsi della madre e sopportare umilmente, per esempio, la vergogna di una sorella! E perché? Forse soltanto per metter su, dopo averle sotterrate, una nuova famiglia, moglie e figli, e lasciar poi anche loro senza un soldo e senza un boccon di pane? Ebbene... ebbene, ecco io decisi che, dopo essermi impadronito dei denari della vecchia, li avrei impiegati, nei primi anni, per mantenermi all’università, senza tormentare mia madre, e per i primi passi da fare dopo l’università; e avrei fatto tutto questo con larghezza, radicalmente, in modo da prepararmi tutta una nuova carriera e mettermi su di una strada nuova, indipendente... Ebbene, ebbene, ecco tutto. Già, si capisce, quanto a uccidere la vecchia, in questo ho fatto male... e adesso basta!"
Come spossato si trascinò sino alla fine del racconto e chinò il capo.
"Oh, non è quello, non è quello..." esclamò Sonja angosciata, "e forse che si può così... no, non è così, no è così!"
"Lo vedi anche tu che non è così... Eppure ti ho fatto un racconto sincero; è la verità!"
"Ma che verità è mai questa! O Signore!"
"Io non ho ucciso che un pidocchio, Sonja, inutile, schifoso, nocivo."
"Ma è una creatura umana quel pidocchio!"
"Ma sì, lo so anch’io che non è un pidocchio", egli rispose guardandola stranamente. "Però io dico degli spropositi, Sonja", aggiunse, "è già un pezzo che ne dico... Tutto questo è un’altra cosa; tu dici giusto. Qui ci sono altre cause, ben diverse!... Era già tanto che non parlavo con nessuno, Sonja... Adesso ho un gran mal di capo".
I suoi occhi ardevano di un fuoco febbrile. Cominciava quasi a delirare; un sorriso inquieto errava sulle sue labbra. Attraverso l’eccitazione del suo spirito faceva capolino una tremenda spossatezza. Sonja capì quanto egli si straziasse. Anche a lei cominciava a girar la testa. Egli parlava in un modo così strano: le pareva di capire qualcosa, ma... "ma come mai! Come mai! O Signore!" Ed ella si torceva le mani disperata.
"No, Sonja, non è quello!" egli rispose, sollevando d’un tratto il capo, come se un improvviso nuovo giro di pensieri lo avesse colpito e di nuovo eccitato, "non è quello! Ma piuttosto... supponi (sì! così infatti è meglio!) supponi che io sia egoista, invidioso, malvagio, abietto, vendicativo, e... magari anche incline alla pazzia. (Tutto questo insieme! Della pazzia si parlava già prima, me n’ero accorto!) Dunque ti ho detto poc’anzi che non potevo mantenermi all’università. Ma sai tu che forse lo potevo anche? Mia madre mi avrebbe mandato di che pagare quel che occorreva, e quanto alle scarpe, ai vestiti e al pane, avrei provveduto col mio lavoro, di sicuro! Lezioni se ne presentavano; mi si offriva mezzo rublo per ciascuna. Lavora pure Razumichin! Ma io m’incattivii e non volli. Per l’appunto mi incattivii (ecco una bella parola!) Allora, come un ragno, mi ficcai nel mio cantuccio. Tu sei stata nel mio canile, hai veduto... E sai, Sonja, che i soffitti bassi e le camere strette opprimono l’anima e l’intelligenza? Oh, quanto odiavo quel canile! E tuttavia non ne volevo uscire. Apposta non lo volevo! Per interi giorni non ne uscivo e non volevo lavorare, e non volevo neppur mangiare, stavo sempre disteso. Se Nastas’ja me ne portava, mangiavo; se non me ne portava, la giornata passava così; apposta, per rabbia, non ne chiedevo! Di notte non avevo lume, stavo coricato al buio, non volevo lavorare per comprarmi delle candele! Bisognava studiare e io avevo venduto tutti i libri; e sulla mia tavola, sugli appunti e sui quaderni, c’è anche adesso un dito di polvere. Preferivo stare sdraiato e pensare. E pensavo sempre. E facevo sempre certi sogni, una quantità di sogni strani, non è il caso di dir quali! Solo che allora cominciò anche a sembrarmi che... No, non è così! Di nuovo non racconto bene! vedi, allora mi domandavo sempre: perché son così stupido da non voler essere più intelligente degli altri, se quelli sono sciocchi, e se io so con certezza che lo sono? Poi ho capito, Sonja, che, a voler attendere che tutti fossero diventati intelligenti, sarebbe stato troppo lungo... Poi ho capito ancora che questo non sarebbe stato mai, che gli uomini non cambieranno e che nessuno li può trasformare, e che non val la pena di sprecar fatica! Sì, è così! E’ la loro legge... Una legge, Sonja! E’ così!... E ora io so, Sonja, che chi è vigoroso e forte di mente e di spirito, quello è il loro dominatore! Chi molto oserà, avrà ragione di loro. Chi è capace di disprezzare più cose, quello è il legislatore, e chi più di tutti è capace di osare, quello ha più ragione di tutti! Così è andato finora e così sarà sempre! Soltanto un cieco non lo vedrebbe!"
Raskòl’nikov, dicendo questo, benché guardasse Sonja, non si preoccupava più s’ella capisse o no. Una febbre l’aveva preso. Egli era in preda a una specie di cupo entusiasmo. (Era veramente troppo tempo che non parlava con nessuno!) Sonja capì che quel tetro catechismo era diventato la sua fede e la sua legge.
"Io indovinai allora, Sonja", egli seguitò con fervore, "che la potenza si dà solo a chi osa chinarsi a prenderla. Qui non ci vuole che una cosa, una sola: basta osare! Mi venne allora, per la prima volta in vita mia, un pensiero che nessuno mai aveva avuto prima di me! Nessuno! D’un tratto mi si presentò chiaro come il sole questo pensiero: come mai neppur uno finora aveva osato né osava, passando dinanzi a tutta questa assurdità, prendere il tutto puramente e semplicemente per la coda e scaraventarlo al diavolo! Io... io ho voluto osare, e ho ucciso... ho voluto soltanto osare, Sonja, ecco l’unica causa!"
"Oh, tacete, tacete!", gridò Sonja, giungendo le mani. "Vi siete allontanato da Dio, e Dio vi ha colpito, vi ha abbandonato al demonio!..."
"A proposito, Sonja, quando io stavo coricato al buio e mi venivano tutti quei pensieri, era il demonio che mi tentava? Eh?"
F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, prefazione di N. Ginzburg, saggio introduttivo di L. Grossman, trad. it. di A. Polledro, Torino, Einaudi, 1947
Lev Tolstoj
Il suicidio
Anna Karenina, Parte VII
Quando il treno si avvicinò alla stazione, Anna uscì nella folla degli altri passeggeri e, allontanandosi da loro come da lebbrosi, si fermò sulla banchina, cercando di ricordarsi perché era arrivata lì e cosa aveva intenzione di fare. Tutto quello che prima le sembrava possibile, adesso era così difficile da considerare, specialmente nella folla rumoreggiante di tutte quelle persone deformi, che non la lasciavano in pace. Ora i facchini accorrevano da lei, offrendole i loro servigi, ora dei giovani, battendo coi tacchi le assi della banchina e discorrendo forte, la esaminavano, ora quelli che venivano incontro si facevano da lato non dalla parte giusta. Ricordatasi che voleva proseguire se non ci fosse stata risposta, ella fermò un facchino e domandò se lì non c’era un cocchiere con un biglietto per il conte Vrònskij.
– Il conte Vrònskij? Per incarico suo sono stati qui or ora. Venivano incontro alla principessa Soròkina con la figlia. E il cocchiere com’è d’aspetto?
Mentre ella parlava col facchino, Michàjla, vermiglio, allegro, con un elegante pastrano turchino e la catena, evidentemente orgoglioso d’aver eseguita così bene la commissione, si avvicinò a lei e le tese un biglietto. Ella dissuggellò, e il cuore le si strinse ancor prima di leggere.
"Mi dispiace molto che il biglietto non m’abbia trovato. Verrò alle dieci", scriveva Vrònskij con calligrafia trascurata.
"Così! Me l’aspettavo!" si diss’ella con un sorriso cattivo.
– Va bene, allora va’ a casa, - proferì ella piano, rivolgendosi a Michàjla. Ella parlava piano perché la rapidità del battito del cuore le impediva di respirare. "No, non ti permetterò di tormentarmi", ella pensò, rivolgendosi con la minaccia, non a lui, non a se stessa, ma a chi le imponeva di tormentarsi, e s’incamminò per la banchina lungo la stazione.
Due cameriere che camminavano per la banchina piegarono indietro il capo, guardandola, facendo ad alta voce qualche considerazione sul suo abbigliamento: "Son veri", dissero dei pizzi ch’ella aveva addosso. I giovani non la lasciavano in pace. Di nuovo le passarono vicino, dandole un’occhiata in volto e gridando fra le risa qualcosa con voce innaturale. Il capostazione, passando, le domandò se partiva. Un ragazzo, venditore di kvas, non le toglieva gli occhi di dosso. "Dio mio, dove devo andare?" ella pensava, andando via sempre più lontano per la banchina. Alla fine si fermò. Le signore e i bambini che erano venuti a incontrare un signore con gli occhiali e ridevano e parlavano forte, tacquero, esaminandola, quand’ella giunse alla loro altezza. Ella affrettò il passo e si allontanò da loro verso l’orlo della banchina. Si avvicinava un treno merci. La banchina si mise a tremare, e a lei parve d’essere di nuovo in viaggio.
E a un tratto, essendosi ricordata dell’uomo schiacciato il giorno del suo primo incontro con Vrònskij, ella capì quel che doveva fare. Dopo essere scesa con un passo veloce, leggero per i gradini che andavano dalla pompa alle rotaie, si fermò accanto al treno che le passava vicinissimo. Ella guardava il basso dei carrozzoni, le viti e le catene e le alte ruote di ghisa del primo carrozzone che scivolava lentamente e cercava di stabilire a occhio il punto di mezzo fra le ruote anteriori e le posteriori e il momento quando questo punto di mezzo sarebbe stato di fronte a lei.
"Là, – ella si diceva, guardando nell’ombra del carrozzone, la sabbia mista col carbone di cui eran cosparse le traverse, - là, proprio nel mezzo, e lo punirò, e mi libererò da tutti e da me stessa".
Voleva cadere sotto il primo carrozzone che giunse col tratto di mezzo alla sua altezza; ma il sacchetto rosso, ch’ella si mise a toglier dal braccio, la tratteneva, ed era già tardi: il tratto di mezzo le era passato accanto. Bisognava aspettare il carrozzone seguente. Un sentimento simile a quello ch’ella aveva provato quando, facendo il bagno, si preparava a entrar nell’acqua, la prese ed ella si fece il segno della croce. Il gesto abituale del segno della croce suscitò nell’anima sua tutta una serie di ricordi verginali e infantili, e a un tratto la tenebra che per lei copriva tutto si lacerò, e la vita le apparve per un attimo con tutte le sue luminose gioie passate. Ma ella non abbassava gli occhi dalle ruote del secondo carrozzone che s’avvicinava. Ed esattamente nel momento in cui il tratto di mezzo fra le ruote giunse alla sua altezza, ella gettò indietro il sacchetto rosso e con un movimento leggero, come preparandosi ad alzarsi subito, si lasciò cadere in ginocchio. E in quell’attimo stesso inorridì di quel che faceva. "Dove sono? che faccio? perché?" Voleva sollevarsi, piegarsi indietro, ma qualcosa di enorme, d’inesorabile le dette una spinta nel capo e la trascinò per la schiena. "Signore, perdonami tutto!" ella proferì, sentendo l’impossibilità della lotta. Un muzicjòk, dicendo intanto qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela con la quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, s’infiammò d’una luce più vivida che non mai, le illuminò tutto quello che prima era nelle tenebre, scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre.
L. Tolstoj, Anna Karenina, prefazione di N. Ginzburg, trad. it. di L. Ginzburg, Torino, Einaudi, 1945
Si tratta di autentici capolavori, opere di pensatori potenti e artisti sensibili, capaci di dar corpo a intrecci complessi e coinvolgenti, e di rappresentare personaggi di grandissimo spessore. Secondo la definizione di Bachtin, Dostoevskij porta a perfezione il romanzo polifonico, all’interno del quale i diversi personaggi sono dotati di una loro concezione del mondo e di una personale parola – indipendenti dal narratore e dall’autore – e presentano un carattere contraddittorio, drammaticamente oscillante tra la caduta volontaria e la resurrezione. Nel genere romanzo Dostoevskij fonde artisticamente elementi letterari eterogenei (lettere, confessioni, saggi, agiografie, storie, poemi), supera il romanzo a tesi con quello di ricerca esistenziale e integra il realismo naturalistico in un realismo superiore, capace di valenze simboliche e profetiche. I suoi personaggi più significativi – Raskol’nikov, Sonja Marmeladova, Myškin, Stavrogin, Ivan e Alëša Karamazov – anticipano di decenni le indagini psicologiche e spirituali della cultura e della letteratura europea del Novecento.
Lev Nikolaevic Tolstoj invece – la contrapposizione è ormai canonica nella critica letteraria – perfeziona il romanzo monologico. In Guerra e pace, la forza vitale dell’autore-narratore onnisciente, la sua implacabile ricerca di un significato dell’esistenza e della storia, e la sua conoscenza amorosa del particolare sono ugualmente "prestati" ai diversi personaggi.
Opera epica e lirica a un tempo, affresco della Russia in guerra con Napoleone, nonché narrazione delle vicende di due famiglie della più alta nobiltà, Guerra e pace rappresenta altresì il messaggio del Tolstoj di quegli anni, della sua fede nel bene, identificato con un panteistico amore universale. In Anna Karenina, centrato sui conflitti tra l’interiorità dell’uomo e la società convenzionale, tra natura e razionalità, la maestria descrittiva e compositiva dell’autore crea addirittura l’illusione di un universo parallelo, un cosmo letterario in cui il "subcreatore" Tolstoj immerge i personaggi.
Con la morte di Dostoevskij (1881) e il passaggio pressoché completo di Tolstoj all’attività predicatorio-pubblicistica si spegne il grande romanzo russo, autentica meta-realtà capace di interpretare, rielaborare, sperimentare e prevedere conflitti, passioni, crisi e speranze della società russa del XIX secolo.