Il ruinismo. Visione e prassi politica del presidente della Conferenza episcopale italiana, 1991-2007
Nell’autunno 1978 Karol Wojtyla riceve, insieme al pallio pontificale, anche la primazia sulla Chiesa italiana. Questo accade in una congiuntura tra le più difficili della trentennale storia repubblicana: Aldo Moro, il protagonista di una lunga e complessa stagione politica, nonché regista delle più recenti evoluzioni del quadro politico, è stato assassinato dalle Brigate rosse dopo un drammatico sequestro. La Dc, il partito a cui da oltre trent’anni la Chiesa ha affidato la tutela dei propri interessi, sta conoscendo una crisi di credito senza precedenti; ne sono sintomi preoccupanti la legge 194/1978 che ha introdotto l’aborto nell’ordinamento legislativo italiano nonché le dimissioni del Presidente della Repubblica Leone, storico esponente democristiano, che cede a una durissima campagna di stampa e a quel giudizio delle piazze che proprio Moro aveva cercato, in ogni modo, di arginare. È sin troppo facile cogliere nelle esequie dello statista democristiano celebrate da Paolo VI in S. Giovanni in Laterano il 13 maggio 1978 un evento che simboleggia uno spartiacque nella vicenda repubblicana: una sorta di funerale del partito cattolico, per di più officiato da chi, più di trent’anni prima, l’aveva tenuto a battesimo. Resta il fatto che molti degli esponenti democristiani che prendono parte a questo rito determineranno ancora a lungo le sorti della politica italiana. Perché è pur vero che l’elezione di un polacco alla cattedra di Pietro sei mesi dopo determinerà uno shock al di qua e al di là della cortina di ferro, stimolando i più svariati vaticini1; ma si diffonderà, anzitutto tra i maggiorenti della Dc, la consapevolezza che l’esperienza pastorale di Wojtyla, proprio perché svolta in una realtà peculiare quale quella d’un paese d’oltrecortina, dovrà per forza di cose essere profondamente rimodulata nel nuovo contesto romano. Un contesto che tra l’altro sta conoscendo evoluzioni fondamentali: certo meno visibili di quelle marcate dalle drammatiche cronache del 1978 e tuttavia suscettibili di determinare una globale ridiscussione di assetti di potere e sistemi di relazioni inconcussi da decenni.
Due settimane prima dell’elezione di Giovanni Paolo II erano riemersi da un ex covo delle Brigate rosse i primi brani del cosiddetto Memoriale del presidente Moro, redatto durante la prigionia, e in uno dei disorganici frammenti che lo componevano, lo statista pugliese aveva offerto spunti di estrema lucidità sulla mutazione in atto nei rapporti tra la Chiesa italiana e la Dc. Moro, valutando la congiuntura del suo partito, riscontrava infatti un «indubbio poderoso cambiamento di personale dirigente a diversi livelli»; «non è detto che tutti siano migliori», aveva proseguito, «sono però nuovi e diversi e portano più modernità, più spregiudicatezza, più laicismo. Infatti», rilevava ancora il presidente della Dc, «il legame con la Chiesa è afflosciato». Per Moro, alla fine degli anni Settanta, stava dunque per nascere una «terza» – o addirittura una «quarta» – Dc, dopo quella «religiosa» e quella «laica», in cui sarebbe definitivamente tramontata quella ispirazione religiosa che di fatto, trent’anni prima, aveva determinato il suo ingresso in politica come quello di tanti altri giovani2. Le riflessioni di Moro verranno respinte come apocrife – soprattutto da parte dei compagni di partito da lui impietosamente messi alla berlina – e resteranno lettera morta. E davvero con Moro, oltre alla stagione della Solidarietà nazionale, inizia a morire anche la capacità della Dc di interrogarsi sul senso della propria presenza nell’Italia contemporanea e sui rischi connessi al processo di laicizzazione che è in atto al suo interno. Affermerà pochi anni più tardi Giuseppe Lazzati: «Morto Moro nel modo in cui è morto, e non per niente è morto lui, oggi non c’è più nulla»3.
Ma il dibattito su cosa fosse diventata la Dc e sul senso del suo ruolo in una società secolarizzata era iniziato da tempo ed era stato indubbiamente accelerato da un evento come il referendum sul divorzio del 1974, che aveva alzato il velo sulle radicali evoluzioni intervenute nella società italiana: anche contro e nonostante i ripetuti interventi della Conferenza episcopale italiana4. Un momento di confronto significativo su questo tema si era avuto con il primo Convegno ecclesiale nazionale dedicato a Evangelizzazione e promozione umana del 1976. È esattamente in questa sede che don Camillo Ruini si ritaglia per la prima volta uno spazio di visibilità a livello nazionale intervenendo nella commissione di studio rivolta all’approfondimento del tema dell’impegno politico dei cattolici. Questo gruppo, coordinato da Pietro Scoppola, già esponente di punta di quei ‘cattolici del no’ che si erano schierati contro l’abrogazione del divorzio, prendeva atto della crisi del partito cattolico così come lo si era concepito per decenni, ma lasciava emergere differenti sensibilità circa le modalità di partecipazione dei cattolici alla vita pubblica: da quelle dello stesso Scoppola, che reputava una «ricchezza» la possibilità di impegno diretto dei cattolici anche al di fuori della Dc, a quelle di chi riteneva che il problema andasse affrontato a monte, intervenendo per un recupero di quei valori che avevano ispirato la nascita del partito, ma non necessariamente per rivitalizzarlo. L’approccio di Ruini era decisamente diverso e manteneva come asse l’imprescindibilità della Dc; la laicizzazione che il partito aveva conosciuto – a suo dire avviata già da De Gasperi – era di per sé un fatto positivo, ma la Chiesa doveva continuare a sostenere il partito, impegnandosi per una «indicazione non vincolante» a suo favore: questo, evidentemente, per non cedere ulteriore terreno di fronte all’avanzata del Partito comunista5. La posizione espressa da don Ruini non si spiegava solo con i fatti più recenti, vale a dire il temuto sorpasso del Partito comunista italiano sulla Dc (che comunque, nel giugno precedente, era stato scongiurato): essa era comprensibile piuttosto nell’economia della storia personale di questo sacerdote, che aveva stabilito sin da giovanissimo una relazione importante con la Dc, ma non solo in un’ottica anticomunista.
Quando Ruini interviene a Evangelizzazione e promozione umana ha quarantacinque anni e il suo curriculum è sostanzialmente assimilabile a quello di tanti altri professori di seminario. Era nato a Sassuolo nel 1931, in una famiglia dove, come ricorderà più tardi, convivevano «una notevole varietà di posizioni culturali e politiche, vivacemente contrapposte»; lui stesso si definisce un «credente […] non molto praticante»: comunque un ragazzo che non poteva certo definirsi «interno» al mondo cattolico6. La sua formazione si era svolta inizialmente all’interno della diocesi di Reggio Emilia, vale a dire in un ambito sociale e culturale fortissimamente plasmato dalla preponderanza del Partito comunista italiano, alla quale il vescovo Beniamino Socche (1946-1965) aveva reagito sviluppando una pastorale segnata da un anticomunismo sferico. Ruini matura la sua vocazione sacerdotale a diciassette anni e tra il 1949, anno in cui fa il suo ingresso in seminario, e il 1957, quando rientrerà a Reggio Emilia, prosegue gli studi a Roma. A quasi sessant’anni di distanza testimonierà che la decisione di farsi prete era avvenuta in modo repentino: «Nei mesi tra la fine dei miei diciassette e l’inizio dei miei diciotto anni di età. L’incontro», aggiungerà Ruini, «fu quello con la realtà della Chiesa. Nel concreto, della parrocchia di S. Giorgio a Sassuolo. In particolare con il sacerdote che seguiva i giovani: si chiamava don Dino Carretti. E con qualcuno di questi giovani. Ero da sempre credente. E avevo letto i Vangeli nel latino della Vulgata che mi era stata regalata da un altro sacerdote quando avevo tredici anni. Ma poi ho avvertito che Dio stava davvero al centro della realtà. E allora ho pensato che la via più ovvia per metterlo al centro della mia vita era dedicarmi a lui per così dire anche “professionalmente”. Poi tutto è proseguito ed è avvenuto in modo molto naturale, in un modo che ancora adesso mi sorprende»7.
A Roma Ruini risiede presso il prestigioso Collegio Capranica, retto all’epoca da Cesare Federici (1882-1970), e frequenta l’Università Gregoriana, dove consegue la licenza in Filosofia e il dottorato in Teologia. Alla Gregoriana stabilisce un rapporto particolarmente intenso con Juan Alfaro, che lo seguirà nella stesura della tesi di dottorato8, con Ludwig Naber, docente di Filosofia già oggetto di censura per un’opera poi ritirata dalla stessa Università romana9, e segue le lezioni di Storia ecclesiastica di Ludwig Hertling10. Degli anni della Gregoriana Ruini rievocherà più tardi le impressioni di un ambiente in cui si respirava un clima più «internazionale» di quanto non potesse apparire all’esterno11; negli stessi anni della sua frequenza l’Ateneo pontificio era stato impegnato in una strenua difesa dell’enciclica Humani generis (1950): «Alla Gregoriana», ricorderà Ruini, «erano molto “romani”: questo mi ha segnato e ne sono grato»12. Gli anni trascorsi a Roma sono però importanti anche dal punto di vista della maturazione di una sensibilità politica. Come tutti i coetanei Ruini vive l’esperienza dell’infuocata campagna elettorale del 1948, ma è solo negli anni immediatamente successivi che si avvicina alla Dc, stabilendo, proprio a Roma, alcuni importanti contatti con esponenti di primo piano del partito. Matura un’attenzione crescente verso la figura di De Gasperi e la «dimensione spirituale e culturale della sua opera e della sua testimonianza di vita»: il leader trentino diventa insomma per Ruini un «punto di riferimento» o ancora meglio di «orientamento» rispetto alle scelte politiche e sociali che si ponevano di fronte al paese13.
Camillo Ruini viene ordinato sacerdote nel 1954 e dopo il rientro a Reggio Emilia inizia una lunga attività di docenza: dapprima Filosofia presso il Seminario diocesano e successivamente Teologia dogmatica presso lo Studio teologico interdiocesano di Modena-Reggio Emilia-Carpi-Guastalla (dove tra il 1968 e il 1977 ricopre l’incarico di preside degli studi) e, tra il 1977 e il 1983, anche presso lo Studio teologico accademico bolognese. All’attività didattica affianca altre mansioni, come l’incarico di assistente diocesano dei Laureati cattolici (1958-66) e successivamente quello di delegato vescovile per l’Azione cattolica (1966-70). Dal 1965 la diocesi reggiana è retta da Gilberto Baroni, già ausiliare del cardinale Lercaro a Bologna, che viene coinvolto anzitutto dall’attuazione dei decreti conciliari14. Si tratta di un impegno a tutto campo, che va dal rinnovamento liturgico, alla pastorale, alla formazione dei seminaristi; un’attività che naturalmente deve misurarsi con le tensioni e le impazienze che percorrono anche il tessuto sociale ed ecclesiale reggiano15. Ruini non si tira da parte e dà il suo contributo anche animando, insieme ad alcuni giovani (tra i quali Romano Prodi), il «Circolo Leonardo», che porta a Reggio alcuni tra le voci più autorevoli del rinnovamento conciliare16. È significativo che egli decida di offrire un proprio contributo, nel giugno 1970, all’incontro organizzato presso la parrocchia del Preziosissimo Sangue dal gruppo degli amici di «Lettere ’70» (tra i quali si trovano David M. Turoldo, Ernesto Balducci e Paolo Prodi), guidati da quel Raniero La Valle che solo tre anni prima era stato dimissionato dalla guida de «L’Avvenire d’Italia»: incontro che verrà immediatamente sconfessato dalla curia reggiana, ma al quale don Ruini interviene per ribadire la congruità della linea pastorale adottata da monsignor Baroni, che miscelava la nuova attenzione verso la società determinata dal concilio Vaticano II con il rispetto di un patrimonio culturale e religioso consolidato17. Il vescovo di Reggio Emilia aveva sentito l’urgenza di migliorare l’ordinamento degli studi teologici della propria diocesi e aveva fondato lo Studio interdiocesano, dove Ruini aveva acquistato una posizione preminente; e sempre Baroni aveva nominato Ruini vicario episcopale per l’apostolato dei laici nonché, alla fine degli anni Sessanta, presidente del Centro culturale diocesano Giovanni XXIII, una struttura che aveva sede presso i locali dell’Azione cattolica cittadina, immaginata anzitutto come scuola di formazione culturale per i laici più sensibili alle tematiche politiche18.
Il prete reggiano, come accade a tanti altri sacerdoti, è visibilmente attratto dall’agone politico e vi si relaziona sviluppando una concezione del ruolo e delle potenzialità della Dc che confliggono frontalmente con quelle elaborate decenni prima da Giuseppe Dossetti – che ne aveva decretato formalmente la crisi – e che a Reggio Emilia avevano continuato a trovare propugnatori anche dopo l’abbandono della scena pubblica da parte dell’ex vicesegretario del partito. Sin dal suo rientro a Reggio Emilia da Roma a metà degli anni Cinquanta, i contatti con gli esponenti della Dc locale si sono fatti via via più intensi. Ruini, che può vantare ottimi rapporti con il conterraneo senatore Giuseppe Medici, interviene attivamente nell’ambito politico: lo fa anzitutto proponendosi come formatore di una nuova leva di quadri – ancorché, ufficialmente, non ci siano agganci col partito –, capaci di rivitalizzare una Dc che ha di fronte a sé sfide sempre più impegnative. Percependo l’enorme disparità esistente rispetto all’impegno profuso dal Pci – e in particolare dalla Federazione giovanile dei comunisti italiani –, Ruini agisce anzitutto sulla leva culturale, coinvolgendo i giovani cattolici reggiani in un fitto calendario di incontri e campi di studio e nell’autunno 1974 ha ufficialmente inizio l’esperienza degli Studenti democratici19. L’organizzazione nasce all’indomani della creazione degli organi collegiali della scuola per contrastare la forza delle liste di sinistra negli istituti superiori, che stanno incamerando anche una porzione sempre più estesa di elettorato cattolico ‘dissenziente’. C’è chi, tra i cattolici più sensibili alla cosiddetta ‘scelta religiosa’, guarda positivamente alla decisione di don Ruini di non affidarsi ad alcun aggettivo confessionale per la nuova organizzazione studentesca: ma l’equivoco – perché di questo si tratta – viene rapidamente dissipato dallo stesso sacerdote reggiano, che chiarisce che tale opzione non era determinata dalla volontà di prendere le distanze dalla Dc, bensì dal fatto che la «priorità era l’unione di tutti gli anticomunisti, a prescindere dall’ispirazione religiosa»20. Ma la costituzione degli Studenti democratici è funzionale anche a contrastare i tentativi di egemonia posti in essere da Comunione e liberazione a Reggio Emilia, verso la quale don Ruini palesa e comunica in questi anni un’avversione strutturale21, sia per le riserve nutrite sulla preparazione culturale e teologica dei suoi aderenti, che non esita a qualificare come «imparaticcia», sia per la convinzione che la strategia neointegralista di questo movimento sia inefficace per una più solida promozione e tutela degli interessi cattolici. Ruini è infatti più propenso a un movimento meno irreggimentato, e l’esperienza degli Studenti democratici è appunto destinata a «ragazze e ragazzi “ben poco ideologizzati” […] e tuttavia disponibili a un impegno che resiste al “riflusso nel privato”»22. Contestualmente a tutto questo don Ruini approfondisce i suoi rapporti con la Dc nazionale: viene coinvolto, tramite Beniamino Andreatta, in una serie di incontri pubblici con l’intelligentsia nel Nord Italia e non sono pochi – tra questi Ciriaco De Mita – coloro che mostrano di apprezzare la lucidità d’analisi e le proposte avanzate dal sacerdote reggiano, anche e soprattutto al di fuori dell’ambito strettamente pastorale.
La nomina a vescovo ausiliare e a co-vicario di Reggio Emilia-Guastalla che giunge il 16 maggio 1983 può apparire così ad un esame esterno il fisiologico sigillo al brillante percorso di questo sacerdote e rispetto ad essa potrebbe anche aver avuto un peso l’apprezzamento di un personaggio di prima rilevanza della Chiesa italiana come il cardinale Carlo M. Martini, che ha già avuto occasioni per avvicinare il sacerdote di Reggio Emilia, l’ultima delle quali nel convegno reggiano del 19-20 marzo 1983 dedicato alla Presenza dei Cristiani nella società civile23. Ma una più attenta considerazione della realtà locale reggiana evidenzia come la crescita d’autorità di Ruini fosse andata di pari passo con un’azione rivolta a porre un freno alle punte più avanzate del cattolicesimo postconciliare operanti nella diocesi, in coerenza con ciò che era avvenuto nel corso della fase conclusiva del pontificato di Paolo VI e nella prima fase di quello di Giovanni Paolo II. Questo posizionamento di don Ruini, di concerto con un interventismo crescente nelle vicende della Dc – che lo vedranno sempre più solidale con gli orientamenti della corrente forlaniana –, risulta particolarmente evidente nel corso della celebrazione del sinodo diocesano che, dopo una lunga fase di incubazione – la prima proposta risaliva al 1973 –, era stato finalmente aperto nel 1984 ed era stato dedicato, sulla scia dei programmi pastorali della Cei degli anni Settanta, al tema dell’evangelizzazione24. La diocesi di Reggio Emilia non era, sino a questo momento, provvista di un ausiliare e la designazione di Ruini, ancorché Baroni la presentasse come l’esaudimento di una sua richiesta25, suscita effettivamente numerosi interrogativi. Di certo c’è che essa viene pubblicamente finalizzata anzitutto al coordinamento della celebrazione sinodale26.
Ruini assume dunque l’animazione del sinodo in una congiuntura particolarmente difficile, perché proprio l’approssimarsi della sua conclusione aveva determinato forti irrigidimenti in tutti i settori dell’assise: da quelli di chi il sinodo l’aveva più sopportato che voluto a quelli di chi presagiva il pericolo di una fase conclusiva discontinua rispetto al lungo e faticoso lavoro preparatorio, tutto rivolto ad una forte implementazione delle acquisizioni conciliari nella Chiesa reggiana. Delle difficoltà emergenti ne aveva avuto sentore certamente don Alberto Altana (1921-1999), il fondatore della Comunità del diaconato in Italia, ma anche uno dei personaggi più impegnati, insieme a don Dino Torreggiani (1905-1983), a rinnovare la vita della diocesi nel senso di una piena assunzione del servizio agli ultimi, a cui Ruini imporrà un defatigante e umiliante – 8 stesure – lavoro di riscrittura del documento preparatorio dedicato alla Chiesa missionaria, infine espunto dagli atti sinodali27. Gli orientamenti profondi dell’ausiliare rispetto al sinodo erano in ogni caso noti da tempo. Ruini aveva affermato già nel 1979 la necessità di trovare «punti d’equilibrio e di sintesi» coerenti con la realtà concreta della Chiesa reggiana, superando le divisioni che continuavano a permanere tra le sue varie componenti; gli era stato replicato a stretto giro che «partiti» ce n’erano già nella comunità cristiana di Corinto e che la comunione era un punto d’arrivo, più che un dato di partenza28. Ma è pur vero che la sinergia tra il vescovo Baroni e l’ausiliare Ruini – facilmente descritto a posteriori come l’affossatore del sinodo reggiano29 – in questa fase conclusiva appare totale: quasi che l’ordinario di Reggio Emilia, volente o nolente, avesse trovato in Ruini quell’altro da sé che gli era diventato ormai indispensabile per chiudere senza imbarazzi personali una tormentosa stagione della vita della Chiesa reggiana30. E di fatto un’analisi attenta dei documenti conclusivi del sinodo evidenzia una singolare oscillazione tra lo sforzo di superare i limiti di un’esposizione generica sui temi della dottrina e della pastorale per giungere ai nodi problematici della vita cristiana e una marcata prudenza su temi sensibili come la condizione dei divorziati, le scuole cattoliche o il sacerdozio universale31.
Mentre il sinodo diocesano entra nella sua fase terminale si produce la svolta fondamentale nella vicenda personale di Ruini, con la sua cooptazione nel comitato preparatorio per il II Convegno nazionale della Chiesa italiana32. Il percorso pastorale del cattolicesimo italiano, anche dal punto di vista del rapporto con il mondo politico, era stato sino a questo momento fortemente determinato dalle linee direttive impostate in età montiniana, sebbene Giovanni Paolo II avesse mostrato piuttosto rapidamente in alcuni interventi pubblici di procedere a una differente lettura della realtà e di prediligere un ben altro modello di presenza ecclesiale. Quello del papa polacco, come è stato efficacemente sunteggiato, è «un cattolicesimo sensibile all’imperativo della visibilità sociale, della presenza pubblica; poco incline alle novità teologiche e semmai orientato dal punto di vista dottrinale verso posizioni moderate e talvolta anche conservatrici»33. In ogni caso la forza d’inerzia del progetto di Paolo VI ha ancora un peso fortissimo. Nel 1979 il presidente della Cei Antonio Poma aveva passato la mano ad Anastasio Ballestrero, designato dopo una consultazione dei presidenti delle Conferenze episcopali regionali34. La Cei di Ballestrero aveva messo mano ad un nuovo piano pastorale, dedicato a Comunione e comunità (1981), che rifletteva indirettamente la difficoltà crescente di rapporti con la Dc, manifestata tra l’altro dal dibattito avviato da Bartolomeo Sorge circa la «ricomposizione» dell’area cattolica in Italia e che lasciava capire come la Dc fosse impegnata ora più che in passato a guadagnarsi l’appoggio della Chiesa35. È davvero una difficile transizione, segnata tra l’altro dal referendum sull’aborto (1981), dallo scoppio dello scandalo del Banco Ambrosiano e dalla conclusione del processo di revisione del Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica (1984), dal quale la Cei viene sostanzialmente estromessa36. La perdita di centralità della Dc diventa un dato acquisito nelle elezioni politiche del giugno 1983, quando il partito subisce la flessione più pesante della sua storia, e questo nonostante gli sforzi della nuova segreteria di De Mita, affermatasi con la parola d’ordine del ‘rinnovamento’. Ballestrero, riconfermato presidente nel luglio 1982, prosegue la linea di alleggerimento della copertura al Partito cattolico, puntando sia su una maturazione del laicato, al quale domanda in varie sedi di attivarsi culturalmente e spiritualmente per assumere un ruolo rigenerativo rispetto alla congiuntura politica, sia su una responsabilizzazione dell’episcopato nazionale37. Questi nuovi orientamenti avevano trovato un’espressione programmatica nel documento del Consiglio permanente dedicato a La Chiesa italiana e le prospettive del paese (1981), dove si enunciava il «primato alla vita spirituale» e, con accenti sorprendenti, i vescovi si riconoscevano inadempienti rispetto ai fattori che avevano condotto il paese alla presente «crisi di senso e di progetti»; una crisi che – ed era un messaggio rivolto esattamente alla Dc – non consentiva più di «dare deleghe in bianco a nessuno»: certamente era auspicabile il mantenimento dell’impegno politico unitario dei cattolici, anche per prevenire lacerazioni e dispersioni di energie, ma il pluralismo delle presenze doveva essere da questo momento «apprezzato e accolto quando è sano e fecondo»38.
Benché siano evidentemente discontinue rispetto alla proposta di impegno politico dei cattolici su cui s’è speso sino a questo momento, don Ruini intende comunicare il suo rapido allineamento alle nuove linee programmatiche della Cei e nell’autunno del 1982 le promuove con la motivazione che l’azione politica aveva una logica propria che finiva per entrare in «tensione» con i contenuti e la prassi del cristianesimo; Ruini asseriva che di questo la Chiesa aveva sempre avuto consapevolezza:
«Perciò», concludeva il sacerdote reggiano, «un’identificazione di fatto tra Chiesa e partito presso l’opinione pubblica avrebbe (ed in parte ha avuto) un costo religioso alla lunga non sopportabile. La più cara [sic] differenziazione (non rottura o indifferenza) tra Chiesa e partito, in atto ormai da anni e in maniera crescente, non è dunque una scelta arbitraria ma, da parte della Chiesa, una necessità pastorale, e a mio giudizio anche un vantaggio per il partito, almeno nel lungo periodo»39.
Ma è pur vero che gli orientamenti espressi dalla Cei sono tutt’altro che condivisi. Da una parte v’è un protagonista di primo piano della Chiesa italiana quale è, dal 1980, l’arcivescovo di Milano, Martini, che si guadagna la fama di capofila del progressismo postconciliare e che pure sembra ostentare una certa simpatia verso le sperimentazioni di De Mita40; d’altro canto Giovanni Paolo II, pur lasciando libertà di manovra al cardinale Ballestrero, inizia a palesare con una certa sistematicità la sua insofferenza verso la proposta politico-pastorale della Cei. La lettura delle Relationes ad Limina dei vescovi italiani che giungono sul suo tavolo e lo stabilirsi di un rapporto con le comunità ecclesiali italiane attraverso le sue visite pastorali sempre più frequenti portano a maturazione una differente visione delle urgenze e delle soluzioni da adottare. Già nel 1980, rivolgendosi all’episcopato riunito, il papa indicava nei vescovi «una forza sociale che ha una responsabilità nella vita dell’intera nazione»; pertanto essi dovevano «essere effettivamente gli animatori attivi e coscienti delle forze che rappresentano, formare il centro di coesione, il vessillo di identità, il punto di riferimento»41. Il papa non si capacita della forza del Partito comunista in un paese come l’Italia – che idealmente accosta alla sua Polonia – del quale non riesce ad accettare come ineluttabile il crescente livello di secolarizzazione; Ballestrero, che certamente non si fa illusioni sulla situazione socio-religiosa della penisola, si trova così a dover mediare tra un episcopato che è in prevalenza impegnato nell’applicazione degli indirizzi della Cei, frutto di faticosissime mediazioni, e un primate d’Italia che verso gli stessi indirizzi non nasconde le sue perplessità42. «Non ci farà diventare tutti polacchi?», sbotta il presidente della Cei dopo che il papa gli ha additato a modello per l’Italia la folla oceanica di fedeli radunata nel piazzale del santuario mariano di Częstochowa43.
Gli impulsi di Giovanni Paolo II non restano però senza conseguenze e fanno presa in quel ventre molle del cattolicesimo italiano che è totalmente indifferente alle sfumature dei vari piani pastorali della Cei e che da decenni conosce come unica forza coagulante l’anticomunismo. Ci sono così settori minoritari ma agguerriti del cattolicesimo italiano che stabiliscono un corto circuito tra la «svolta» conciliare, il calo delle vocazioni, gli abbandoni del clero, la crisi dell’Azione cattolica e il progresso elettorale del Pci: che sognano perciò una revanche cattolica, da attuare anzitutto ricalibrando le strategie della Dc, alla quale la Chiesa dovrebbe rinnovare senza sfumature il proprio appoggio. È primariamente Comunione e liberazione a farsi interprete di questa strategia: il movimento fondato da don Giussani intravede con Giovanni Paolo II la possibilità di riuscire finalmente a conseguire quell’affermazione ecclesiale che papa Montini gli aveva negato e inizia a inserirsi nella dinamica politica svincolandosi dal modello della scelta religiosa operata dall’Azione cattolica. Chi, come Lazzati, aveva coltivato per decenni l’idea di un laicato cattolico finalmente libero da disegni integralisti giudica disastrosa questa scelta e non ha difficoltà a farne risalire la responsabilità a Giovanni Paolo II, un papa che, come dirà a Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, «non si rende conto della situazione italiana chiuso nel modello della sua esperienza polacca e lontanissima da quella del nostro Paese. Non per niente», afferma l’ex rettore dell’Università Cattolica, «appoggia quei movimenti, CL e l’Opus Dei, che in fondo cercano di interpretare quel disegno. E da qui i cortocircuiti fra vita politica e fede, le famose autonomie delle realtà temporali per cui nella fede tutto si assorbe. E la Cei sente che questo non vale per l’Italia, ma contro il papa non ribatte»44.
È questo il clima che fa da sfondo alla preparazione del II Convegno ecclesiale nazionale, annunciato ai vescovi nell’aprile 1983, che viene significativamente dedicato al tema «Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini». Le tensioni che stanno percorrendo la Chiesa italiana accompagnano tutta la fase preparatoria45, anche perché è diffusa la consapevolezza che il Convegno – così com’era avvenuto nel 1976 – segnerà uno spartiacque nel cammino pastorale degli anni a venire, fornendo anche orientamenti fondamentali per ciò che concerne l’attitudine politica dei vescovi italiani46. Ballestrero, vincendo le fortissime resistenze di Comunione e liberazione, che nel 1982 riceve finalmente il riconoscimento pontificio, ottiene la nomina del cardinale Martini alla testa del comitato preparatorio47; ma è il papa in persona che interviene per indurre l’episcopato italiano a dare spazio nell’ambito del convegno a quelle che definisce le «molteplici realtà ecclesiali»48. A Loreto Ruini gioca un ruolo defilato ma prezioso. Dall’autunno 1984, da quando cioè il cardinale Martini l’ha voluto nella segreteria del comitato preparatorio del convegno49, il suo rapporto personale con Giovanni Paolo II è diventato via via più intenso. L’ausiliare di Reggio Emilia-Guastalla si è potuto rendere facilmente conto che il papa, ancorché legato da un rapporto di sincera stima per la memoria di Paolo VI, non ha alcuna intenzione di assecondare oltre lo sviluppo dei programmi pastorali iniziati negli anni Settanta. Il fatto è che Wojtyla è ormai papa da sei anni, ha stabilito un contatto significativo con la Chiesa di cui è primate, sviluppando una precisa politica di nomine episcopali, e ha maturato un proprio giudizio della realtà pastorale italiana: che indubbiamente non coincide né con quello della corrente maggioritaria della Cei né con quello assunto dall’Azione cattolica guidata da Alberto Monticone. Proprio riferendosi a questi primi contatti, Ruini testimonierà molti anni dopo che Giovanni Paolo II, all’indomani della sua elezione, aveva percepito
«la presenza di un convincimento diffuso, […] cioè, che il processo di secolarizzazione fosse irreversibile e che l’unica strategia pastorale, e anche culturale e politica, che avesse speranza di ottenere risultati non effimeri fosse quella di non contrastare tale processo, bensì di accompagnarlo e, per così dire, di “evangelizzarlo”, evitando che esso degenerasse in un “secolarismo” ostile alla fede cristiana»;
ma Giovanni Paolo II, continuava Ruini,
«portava dentro di sé una visione diversa, radicata nella sua esperienza personale, storica ed ecclesiale, nel suo modo di vivere e di intendere la fede come nella sua riflessione antropologica e teologica. Egli pensava cioè che la secolarizzazione non fosse il destino inevitabile della modernità. Riteneva, anzi, che il suo punto culminante fosse ormai alle nostre spalle e che il grande compito della Chiesa oggi fosse l’evangelizzazione intesa in senso forte e pieno, come capacità di portare Cristo al centro della vita e della cultura e quindi anche del divenire della storia»50.
Camillo Ruini non si limita a prendere atto della chiave ermeneutica di Wojtyla, ma si attiva per mostrare a tutti di condividerla, così come in precedenza ha già espresso piena consonanza con le decisioni della Congregazione per la Dottrina della Fede circa la Teologia della liberazione51. Il registro adottato per manifestare questo allineamento è, come in altri casi, composito: ad affermazioni perentorie o vere e proprie parafrasi del magistero si intrecciano locuzioni circonfuse da formule che sembrano preoccupate di attenuare la nettezza mostrata altrove. Già nel 1981, ad esempio, nell’ambito di un ciclo di incontri dedicato al concilio, aveva ricordato come il Vaticano II avesse insistito sull’autonomia dei laici in ambito civile e di come «l’animazione cristiana delle strutture temporali» fosse un loro compito specifico; ma nella stessa sede aveva ricordato come lo stesso concilio avesse offerto «importantissime e organiche indicazioni culturali e politiche» dalle quali nessuno poteva prescindere52. L’anno seguente, riflettendo sul tema Occidente e Concilio, che era anche quello del corso accademico tenuto presso lo Studio accademico teologico di Bologna53, don Ruini addebitava invece ai Cristiani per il socialismo o alla Teologia della liberazione la responsabilità di aver dato un’interpretazione distorcente di quanto il Vaticano II aveva detto sul rapporto tra Chiesa e mondo occidentale, rendendo in questo modo difficile per tanti cristiani la consapevolezza «della vera natura dei regimi comunisti e della minaccia concreta che essi rappresentano, a livello mondiale». Secondo Ruini, infatti, nella Pacem in terris di Giovanni XXIII e nella costituzione Gaudium et spes si trovavano, più che prese di distanza, «aperture ai valori tipici e fondanti della società occidentale»; ma poco oltre aggiungeva che se non rispondeva a verità
«che il Concilio abbia rifiutato l’Occidente, così sarebbe falso pensare che l’abbia “canonizzato”. Mi limiterò a ricordare le forti sollecitazioni per il superamento dell’etica individualistica, in direzione di una cultura della fraternità e solidarietà, ed il primato della destinazione dei beni della terra a favore di tutti gli uomini rispetto al diritto di proprietà privata»54.
Il convegno di Loreto del 1985 rende dunque finalmente evidenti le opzioni che si pongono di fronte alla Chiesa italiana e soprattutto impongono vere e proprie scelte di campo da parte di coloro che vi prendono parte. Ballestrero governa il convegno nella convinzione che sia da esso che proverranno gli indirizzi pastorali per il futuro – e la relazione introduttiva di Bruno Forte, che accenna alla «faticosa dialettica […] fra i cosiddetti cristiani della presenza e i cosiddetti cristiani della mediazione», è decisamente espressiva di questa persuasione55. Ma l’intervento del papa, dietro al quale sappiamo esservi la mano di monsignor Ruini56, ha il sapore di un perentorio invito alla presa d’atto della fine di una stagione a favore di una nuova fase, rivolta esattamente a realizzare quella presenza forte e visibile del cattolicesimo italiano a livello sociale che Wojtyla perorava già da un quinquennio: occorreva perciò lavorare affinché la fede cristiana recuperasse «un ruolo-guida e un’efficacia trainante, nel cammino verso il futuro»; l’impegno unitario dei cattolici veniva ribadito giacché funzionale alle «responsabili e coerenti scelte che il cittadino cristiano è chiamato a compiere»; si legittimava infine pienamente l’opera di Comunione e liberazione, affermando che «associazioni e movimenti costituiscono, in effetti, un canale privilegiato per la formazione e la promozione di un laicato attivo e consapevole del proprio ruolo nella Chiesa e nel mondo»57.
Loreto, in modo differente da quanto si aspettavano molti dei suoi protagonisti, che verranno progressivamente marginalizzati58, rappresenta quindi a tutti gli effetti una svolta. Lo rileva a caldo – quando ancora molti non sono stati capaci di trarne le debite conclusioni – lo stesso Ruini con un denso articolo a commento dell’intervento papale, dal quale emerge soprattutto il rinnovato allineamento dell’ausiliare di Reggio Emilia al pontefice: «si tratta dunque», scrive Ruini, «di un intervento propriamente magisteriale che indica alla Chiesa italiana gli orientamenti decisivi per i prossimi anni, non certo di un semplice contributo alla ricerca»59. La presa di distanza di Ruini da Ballestrero non poteva essere più netta, perché proprio come «contributo» il presidente della Cei aveva accolto e registrato il discorso del papa a Loreto60. L’avvicendamento ai vertici della Conferenza episcopale rende ancora più vivido il senso della discontinuità che si è oramai determinata, ancorché lo stesso Ruini la dissimuli, qualificando il convegno lauretano come una «sintesi» del cammino pastorale iniziato negli anni Settanta61. Neppure in questa occasione si giunge, come già auspicato da numerosi vescovi, all’elezione diretta del nuovo presidente. Il papa designa così il cardinale Ugo Poletti, nominato vicario di Roma da Paolo VI nel 1973. La scelta di Poletti sembra contraddire le indicazioni di Loreto, dal momento che questo prelato si è segnalato recentemente come uno dei più accesi critici della politica democristiana nella capitale62. La decisione di Giovanni Paolo II, più che il frutto di una travagliata consultazione riservata, che pure è stata svolta, appare allora dettata dalla volontà di creare le condizioni per dare un nuovo indirizzo alla Chiesa italiana. Per fare questo Wojtyla ricorre però a un uomo di Montini, certamente non sospettabile, almeno a giudicare dalla sua storia recente, di indulgenze verso i cortocircuiti fede-politica rispetto ai quali numerosi vescovi hanno espresso il loro disagio; un cardinale-presidente che però risiede a Roma: cosa che consentirà finalmente al papa uno scambio più frequente e diretto con il vertice della Cei. È precisamente questa evidente e sinora inedita prossimità del cardinale-presidente al pontefice che fa parlare immediatamente di Poletti come del «commissario» della Cei: e certamente il cardinale-vicario non si nasconde che una ragione forte della sua scelta sta proprio nella volontà del papa di assicurarsi un accesso immediato alla Cei, molto più di quanto non fosse accaduto con Ballestrero63.
Il ricambio dell’organigramma della Cei viene completato nel giugno 1986, quando Camillo Ruini, che l’anno prima era stato anche eletto membro della commissione episcopale della Cei per l’Educazione cattolica, la cultura e la scuola, viene nominato dal papa segretario della Conferenza episcopale. La nomina va anzitutto compresa nell’economia di un rapporto di fiducia personale, nonché di sintonia di vedute e di prospettive, che si è rapidamente instaurata tra il pontefice polacco e il presule reggiano. Ma la designazione di Ruini potrebbe avere anche un’implicazione strumentale non meno importante: come uomo notoriamente simpatetico con l’esperienza della Dc, Ruini poteva rappresentare, al vertice della Cei, un importante bilanciamento rispetto ai limiti che, sotto questo aspetto, presentava una figura come quella di Poletti. L’agenda, comunque, è chiara per tutti: ridefinire la rotta della Chiesa italiana alla luce dei chiari e sempre più intensi segnali dati a questo proposito da Giovanni Paolo II, l’ultimo dei quali era giunto con il discorso pronunciato dal papa al Quirinale il 18 gennaio precedente. In questa sede Wojtyla aveva voluto ricordare al presidente – e ancora democristiano – Cossiga come il patrimonio storico dell’Italia affondasse le proprie «radici nella tradizione cristiana» e come la stessa presenza della sede apostolica costituisse «un perenne richiamo che stimola alla custodia e allo sviluppo di tale bimillenario patrimonio […]. Il popolo italiano», chiosava il papa postulando una vera e propria eccezionalità dell’Italia, «è destinatario e custode privilegiato dell’eredità degli apostoli Pietro e Paolo: un’eredità squisitamente spirituale, vale a dire culturale, morale e religiosa insieme; un’eredità viva, come dimostra non solo una secolare, ininterrotta testimonianza di santità, di carità, di promozione umana, ma anche il creativo inserimento della comunità dei credenti nell’odierna realtà sociale»64.
Quelli in cui Ruini è segretario (1986-1991) sono quindi gli anni del «ri-orientamento» – l’espressione è dello stesso prelato reggiano – da parte del papa degli indirizzi della Chiesa italiana: anni fondamentali, a suo giudizio, forse ancora più di quelli in cui svolgerà la funzione di presidente65. Il ruolo di Ruini, qualificato dallo Statuto della Cei approvato nel 1985, è in ogni caso di prima rilevanza: in un certo senso è proprio l’indeterminatezza dello Statuto a consentire una crescente dilatazione dello spazio d’azione del prelato reggiano66. Gli effetti del cambio al vertice non tardano a farsi sentire, sia dal punto di vista della riorganizzazione degli uffici della Cei, che conoscono una crescita numerica e burocratica vertiginosa67, sia per ciò che concerne il vero e proprio disciplinamento che viene praticato con sistematicità rispetto al variegato universo delle organizzazioni laicali e dei movimenti, al fine di rendere le loro linee operative coerenti con quelle espresse dalla Conferenza episcopale. All’Ac viene quindi imposta, anche mediante un drastico ricambio dei quadri dirigenziali, una profonda rimodulazione della cosiddetta scelta religiosa: agli associati viene indicata ora la necessità di adire la via dell’«evangelizzazione integrale»68. Ruini è parte attiva in questo processo e significativamente è proprio a lui che il Movimento studenti di Ac, quello in cui prevale l’insoddisfazione rispetto all’operato del presidente Monticone, ricorre per cambiare i rapporti di forza interni all’associazione69.
Quale che sia l’effettiva o esclusiva responsabilità di Ruini nella politica di nomine e avvicendamenti al vertice che investe pesantemente l’Ac70, resta il fatto che essa, contrariamente a quanto credono coloro che pensano che sia fatta per compiacere Cl o più in generale gli avversari della ‘scelta religiosa’, è funzionale anzitutto a dissodare il terreno da tutti quegli ostacoli che potrebbero rallentare il «ri-orientamento» ecclesiale. Tant’è vero che il disciplinamento è cosa che riguarda, e pesantemente, anche Cl, che non realizza subito come il riconoscimento ecclesiale da parte della Santa Sede e della Cei implicasse soprattutto una perdita di autonomia rispetto alla stagione fondativa. Gli interventi sul movimento di don Giussani si rendono necessari nel momento in cui alcuni suoi esponenti, certo galvanizzati dalla consapevolezza della simpatia del papa e di numerosi vescovi italiani – e dalle contestuali reprimende all’Ac –, ha portato sempre più a fondo le sue critiche contro la Dc, che pure è una componente essenziale e intangibile nel disegno di rifondazione di una presenza attiva dei cattolici italiani. Le prime avvisaglie dello scarto qualitativo della polemica intrapresa ormai da oltre un decennio da Cl, sia contro l’Ac, sia contro l’esperienza del cattolicesimo democratico71, si erano avute nel 1987, con la pubblicazione sulla rivista ciellina «Il Sabato» di una ricostruzione ad uso e consumo del movimento di Giussani dei tredici anni di storia politica che andavano dal referendum del 1974 in poi. Ma più ancora che la tendenziosità, le approssimazioni o i veri e propri errori di questa ricostruzione72, ciò che doveva colpire il lettore – e forse lo stesso Ruini – era la calda introduzione di Augusto Del Noce: un vero e proprio j’accuse verso la Dc, ritenuta colpevole di essersi dedicata solo all’occupazione del potere politico, tralasciando quello culturale, conseguito invece da altri partiti. L’esito, secondo Del Noce era più che evidente: «una secolarizzazione così piena non era riuscita né ai giacobini, né ai massoni, né ai comunisti e la ragione deve esserci»73. Ma è al Meeting riminese di Cl dell’agosto 1988 che la vis polemica verso la Dc raggiunge il suo culmine, imponendo l’intervento diretto della Cei. Quando infatti il leader del Movimento popolare – vale a dire la componente di Cl più direttamente impegnata nell’attività politica – Giancarlo Cesana esprime pubblicamente l’attenzione e la simpatia del Movimento verso il Partito socialista di Bettino Craxi e contestualmente attacca il «laicismo» della Dc demitiana, i vertici della Chiesa italiana comprendono che occorre riprendere il controllo della situazione, prima che il loro silenzio venga equivocato come un plauso alle posizioni cielline, soprattutto sul versante politico. Ruini confiderà in questi frangenti che le proteste per l’attitudine di Cl provenivano anche da vescovi «insospettabili» – vale a dire generalmente simpatetici con essa – e che «sopra di lui» c’era «molta amarezza» per l’accaduto74: ma è significativo che nonostante questa consapevolezza il segretario della Cei evitasse accuratamente di intervenire sulla vicenda, lasciando che fossero altri a procedere all’intervento sanzionatorio75; e d’altra parte Ruini aveva già rifiutato di esprimersi sulle polemiche innescate dagli articoli de «Il Sabato»76. Le vicende del Meeting sono oggetto delle discussioni del Consiglio permanente della Cei del settembre successivo e stavolta è Ruini che si fa carico di esporre le regole di comportamento che i movimenti ecclesiali – dunque non la sola Cl – avrebbero dovuto adottare, che prevedevano tra l’altro la messa da parte della conflittualità interecclesiale, la docilità alla guida di papa e vescovi, la coerenza in ogni ambito con l’insegnamento morale e sociale della Chiesa e, infine, la distinzione tra realtà ecclesiale e politica77.
La funzione di segretario consente a Ruini di sottrarsi dalla posizione più esposta dal punto di vista politico, che resta di stretta pertinenza del presidente Poletti. Nel corso del suo mandato alla segreteria, Ruini acquista comunque una crescente visibilità, che è il riflesso di una rete di relazioni sempre più estesa – tanto per ciò che attiene gli agganci all’interno della Curia romana, quanto per ciò che riguarda l’ambito politico –, nonché l’effetto di una sempre più ampia capacità di controllo dei meccanismi di funzionamento della Cei. Sono gli anni in cui il nuovo Concordato tra Santa Sede e Stato italiano, firmato nel febbraio 1984, conosce le sue prime forme applicative: non solo il nuovo meccanismo per il sostentamento del clero, che rimpiazza l’antica congrua e che vede i vertici della Cei impegnati a immaginare forme di sensibilizzazione degli italiani – che saranno i finanziatori del nuovo sistema – al problema, ma anche la questione dell’ora di insegnamento scolastico della religione cattolica in un contesto in cui il cattolicesimo ha perso la dignità di «religione di Stato» ma conserva un’innegabile rilevanza sociale. Ma è soprattutto in altre vertenze, apparentemente marginali rispetto a quelle appena ricordate, che si può soppesare la determinazione con cui Ruini sta procedendo nel percorso di «ri-orientamento» della Chiesa italiana: è il caso della riorganizzazione della Caritas, non solo quella romana, ma anche su un piano nazionale, compiuta in modo tale da costituire una evidente censura dell’opera di Luigi Di Liegro, che da anni rappresenta una spina nel fianco per le amministrazioni civili della capitale; ma anche l’intervento d’autorità compiuto presso i padri paolini e comboniani per richiamare le loro linee editoriali a una maggiore consonanza con quelle della Cei esprime la volontà di evitare fughe in avanti da parte di chicchessia78. Ruini, pur rivelando un’attenzione fortissima verso le evoluzioni del dibattito politico, evita di farsi trascinare nella polemica contingente, anche quando, nell’autunno del 1989 è il cardinale Poletti ad essere fatto bersaglio di duri attacchi di varia provenienza per aver qualificato come «ripugnante» la Dc romana alla vigilia delle elezioni amministrative. Non si tratta, evidentemente, di prudenza o pavidità: il fatto è che monsignor Ruini – e la cosa diventerà sempre più chiara – continua a nutrire grande fiducia nel futuro della Dc, anche dopo il collasso del blocco sovietico.
Il segretario della Cei è perciò rapido e drastico nella condanna di quei cattolici impegnati in politica che stanno mettendo in discussione l’utilità dell’impegno unitario sancito da Giovanni Paolo II – e dallo stesso Ruini – a Loreto. Così nel settembre 1990 condivide platealmente la censura espressa dal Presidente della Repubblica, entrato nella fase esternativa del suo mandato79, verso padre Ennio Pintacuda (bollato da Cossiga come «un prete fanatico che crede di essere nel Paraguay del ’600»), esprimendo la contrarietà della Cei a «sconfinamenti di singole personalità religiose ed ecclesiastiche in ambito partitico» e aggiungendo che «l’unità dei cattolici ha una grande storia nel nostro paese e credo che avrà ancora un grande futuro»80. Era evidente come, quantunque non menzionato, il reale obiettivo fosse Leoluca Orlando, ritenuto colpevole, con il suo movimentismo aperto a componenti laiche – e per di più di sinistra –, di minare dall’interno la solidità della Dc siciliana. Anche rispetto al fiorire delle scuole di formazione politica che nel corso degli anni Ottanta sorgono spontaneamente in decine di diocesi – saranno 273 nel giugno 1989 – Ruini si mostra decisamente prudente: erano sorte con l’intento di spronare i cattolici a un nuovo impegno nella vita pubblica, ma nella congiuntura attuale gli effetti potevano andare ben oltre le intenzioni dei vescovi, favorendo piuttosto una diaspora dalla Dc. Così anche queste strutture saranno oggetto di un intervento ad hoc della Cei inteso a definire un programma unitario per tutte le scuole esistenti81, alle quali viene anche fornita un’indicazione operativa difficilmente equivocabile: evitare di ridursi ad essere scuole-quadri dei partiti ma anche nessuna «presa di distanza critica da qualsiasi forza politica», ovvero prossimità alla Dc82.
È la rilevanza del ruolo acquisito da Ruini nell’ambito della Cei a far giudicare la sua nomina alla presidenza dei vescovi italiani, resa pubblica il 7 marzo 1991, tutto sommato fisiologica e prevedibile, ancorché colpisse la rapidità con la quale il prelato reggiano si era infine imposto al vertice della Chiesa italiana: erano trascorsi 8 anni esatti tra la sua consacrazione a vescovo ausiliare di Reggio Emilia e la consegna della berretta cardinalizia. Si trattava anche del primo segretario della Conferenza asceso alla presidenza. La di poco precedente nomina a pro-vicario e quindi, con la subitanea creazione cardinalizia, a vicario di Roma al posto del dimissionario Poletti, viene pubblicamente motivata da Giovanni Paolo II con il richiamo del «singolare impegno e saggezza» manifestato da Ruini nello svolgimento del suo incarico alla segreteria della Cei, caratteristiche che gli avevano consentito, scriveva il papa nella lettera di nomina, «una profonda conoscenza della Nazione Italiana e dei suoi problemi pastorali»83.
Ma pur nell’analogia delle situazioni era evidente che la designazione del nuovo cardinale-vicario a presidente della Cei aveva implicazioni ben differenti da quelle avute sei anni prima con la scelta di Poletti. Ruini, infatti, a questo punto, non era più un elemento di compensazione al vertice della Cei, ma ne diventava, agli occhi del papa, e proprio in virtù della profonda affinità di vedute pastorali che lo univa a Karol Wojtyla, il referente ultimo. Ruini è in tutto e per tutto una creatura di Giovanni Paolo II, molto più di quanto ne sia forse consapevole lo stesso cardinale reggiano o di quanto intuiscano molti osservatori della sua azione, che la giudicheranno a posteriori eccessiva o spregiudicata84. Con la nomina a presidente, Camillo Ruini è piuttosto diventato uno di quegli uomini forti di cui Wojtyla si servirà nel corso del suo lungo pontificato – e ciò vale per lui come per Ratzinger, per Martini come per Casaroli – per controbilanciare le scelte più marcanti della sua azione pastorale, consapevole com’è che il cattolicesimo contemporaneo, e non solo quello italiano, è un vero e proprio universo, in cui convivono istanze e aspirazioni talora profondamente divergenti se non antitetiche.
Ruini inaugura il suo lungo incarico presidenziale in una congiuntura particolarmente complessa per l’assetto politico italiano e di fatto personalmente paradossale per un presidente della Cei che, più di ogni predecessore, è noto per essere disposto a favorire in ogni modo il successo della Dc, prossima però alla propria eclissi. Le forti rivalità interne al pentapartito, già sfociate nelle elezioni anticipate del 1987, non accennano a diminuire ed è anzi diffusa tra i maggiorenti dei partiti la convinzione che il peggio è alle spalle e che solo le elezioni del 1992 consentiranno di capire il reale peso di ciascuno, favorendo finalmente il raggiungimento di un accordo di lungo periodo. I segnali di insofferenza dell’elettorato sono però evidenti e diffusi e trovano un canale espressivo anche nel voto che inizia a indirizzarsi verso le Leghe. La Cei, più recentemente, si era preoccupata di rimarcare l’aumento dei segnali d’allarme sulla situazione del paese, sia in termini generali sia per quello che atteneva la grave congiuntura occupazionale in cui versava l’intero meridione del paese, afflitto anche dalla piaga di una criminalità diffusa85. Le soluzioni genericamente prospettate per superare tali problemi erano quelle di un recupero del senso della legalità e di un incitamento al laicato verso un’assunzione di responsabilità nella vita pubblica; contestualmente a ciò si ribadivano gli ormai ultradecennali vincoli posti ai cattolici attivi in politica, riassumibili nella indicazione, mai diretta ma inequivocabile, della Dc come unico spazio possibile in cui dispiegare tale azione.
Ruini insiste su questa opzione sin dai suoi primi interventi al Consiglio permanente, indicando come la fine del comunismo non avesse affatto svuotato di senso l’esperienza del partito cattolico, ma come essa fosse più che mai necessaria per la promozione e la difesa dell’etica cristiana, la sola che potesse garantire, nell’ottica del presidente della Conferenza episcopale, il bene comune86. La Cei si era già pesantemente esposta in questo senso con gli orientamenti pastorali per gli anni Novanta, dedicati a Evangelizzazione e testimonianza della carità, laddove, accanto alla questione di come soddisfare e indirizzare l’ampia domanda di religiosità emergente nel paese, si erano indicati alcuni grandi valori attorno ai quali, a detta dell’episcopato italiano, non poteva «non realizzarsi la convergenza e l’unità di impegno dei cristiani», quali «il primato e la centralità della persona, il carattere sacro e inviolabile della vita umana in ogni istante della sua esistenza, la figura e il contributo della donna nello sviluppo sociale, il ruolo e la stabilità della famiglia fondata sul matrimonio, la libertà e i diritti inviolabili degli uomini e dei popoli, la solidarietà e la giustizia sociale a livello mondiale»; un’agenda di per sé impegnativa, resa oltremodo tale dalla postilla che si trattava di un blocco inseparabile e quindi sostanzialmente indisponibile all’azione mediatrice dei partiti87.
Diventa quindi sempre più evidente che l’appoggio che Ruini vuole continuare a garantire alla Dc non è il riflesso di un moto inerziale, quasi la prosecuzione di un’attitudine pluridecennale di un episcopato incapace di pensare altre vie. Il cardinale reggiano ha invece un preciso progetto: fare del partito fondato da De Gasperi una leva a disposizione dell’autorità episcopale per tutelare valori giudicati irrinunciabili, il più delle volte compendiati nella formula della promozione della dottrina sociale della Chiesa. Lo scarto rispetto all’esperienza storica della Dc era evidente, giacché implicava il superamento definitivo del concetto di partito cristiano come luogo in cui il laicato cattolico realizzava una mediazione tra la fede cristiana e le istanze fissate dalla Costituzione del 1948 a favore di un rapporto che, osservato dall’esterno, appariva meramente strumentale. Ruini, in ultima analisi, sviluppava un attacco diretto a quella componente cattolico-democratica del partito che si era sempre distinta nella richiesta della distinzione dei ruoli tra l’autorità ecclesiastica e quella politica. Così nel maggio 1992, contrapponendosi al cardinale Martini, aveva rivendicato per la Cei il compito di dare un orientamento ai laici fondato su una base «etica»88.
Ciò che in ogni caso risulta chiaro è che Ruini, anche di fronte all’aggravarsi della situazione giudiziaria del partito determinata dalle inchieste di Tangentopoli, non concepisce altre modalità di relazione con esso: si può anzi affermare che il presidente della Cei è fondamentalmente persuaso che la crisi che investe la Dc è momentanea e che essa possegga le risorse e gli uomini per superarla89. Ai vescovi italiani riuniti in Assemblea generale nel maggio 1992, un mese dopo le elezioni che avevano visto il partito toccare il suo minimo storico non raggiungendo neppure il 30% dei voti, il cardinale presidente riferiva, dimostrando un vero e proprio vuoto progettuale, che
«se il partito attuale a un certo punto decade, o se è già avviato verso il decadere, dobbiamo accettare l’idea che per un periodo abbastanza lungo non avremo alternative paragonabili. Non può il mondo cattolico, per quarantasette anni, avere occupato una posizione di grande rilievo attraverso uno strumento e poi, se viene meno quello strumento, pretendere di occupare egualmente una posizione di grande rilievo immediatamente attraverso altri strumenti. Ci vorrebbe senz’altro un tempo di maturazione»90.
Le opinioni dell’episcopato italiano a questo riguardo sono sempre più divergenti e riescono anche a trovare occasionali sponde all’interno della Segreteria di Stato vaticana91, ma Ruini resta attestato sulla sua scelta, anche dopo che le amministrative del giugno 1993 hanno confermato la crisi della Dc e contestualmente reso evidente come il voto cattolico, a dispetto dei moniti della Cei, abbia iniziato ad indirizzarsi verso altri soggetti politici, inclusa quella Lega rispetto alla quale i vertici della Chiesa italiana – ma anche lo stesso Giovanni Paolo II92 – hanno già manifestato forti preoccupazioni.
Nel vigore impiegato dal cardinale-presidente per ribadire la tradizionale posizione della Chiesa sull’impegno politico unitario dei cattolici, definito «permanente» e motivato ora anche come un «valore pastorale» o «sociale»93, sembra però pesare in maniera irriflessa un’altra preoccupazione: e cioè che la fine dell’unità politica dei cattolici, che nella percezione comune è più l’effetto del disgusto collettivo per le malversazioni svelate dalla magistratura che non dell’estinzione del comunismo, segni contestualmente una critica radicale dell’attitudine mantenuta per decenni dall’episcopato italiano a difesa della Dc. Ruini cerca di tutelare la Cei da questo rischio in un duplice modo: in primo luogo insistendo sul fatto che la responsabilità degli illeciti compiuti dai politici democristiani era personale e che questi, in nessun modo, potevano offuscare «il bene grande e prevalente» compiuto dagli uomini della Dc dal dopoguerra in poi94; in seconda battuta il presidente della Cei ritornava sul discorso-manifesto pronunciato da Giovanni Paolo II a Loreto nel 1985, per ricordare come ben prima della crisi che aveva investito il sistema partitico italiano il papa avesse indicato come l’impegno unitario dei cattolici andasse in ogni caso commisurato alla «libera maturazione delle coscienze cristiane»95: quasi che il papa, già prima di Tangentopoli, avesse lasciato intravedere la possibilità di un impegno diversificato dei cattolici in politica. In realtà Giovanni Paolo II si era semplicemente richiamato agli insegnamenti del concilio Vaticano II e la forzatura della lettura ruiniana era evidente: tanto più che confliggeva frontalmente con gli orientamenti espressi in modo costante dallo stesso presidente della Cei.
Mentre Mario Segni, forte del risultato della battaglia referendaria, consuma la sua definitiva rottura con la Dc, il cardinale Ruini sostiene anche il tentativo di rifondazione del partito posto in essere da Mino Martinazzoli (incluso l’appoggio a una eventuale candidatura di Giuseppe De Rita a sindaco di Roma contro il verde Francesco Rutelli)96, ma deve prendere atto che la blindatura del voto cattolico attorno ad esso non è più realizzabile e che la strategia delineata a Loreto è giunta al suo epilogo. È sempre il papa a sancire la nuova svolta nel discorso tenuto nel maggio 1993 all’Assemblea generale della Cei, dove al tradizionale richiamo all’impegno unitario subentra un’esortazione alla «tensione unitiva»97.
Il presidente Ruini poteva in questo modo apparire ancora una volta – e davvero senza alcun imbarazzo – come l’esecutore del volere papale, ancorché tutto fosse radicalmente mutato. Ai vescovi italiani comunica perciò nell’autunno 1993 che «la Chiesa rispetta e rispetterà con intima convinzione la legittima autonomia di quanti agiscono sul terreno civile e la doverosa distinzione delle competenze e delle responsabilità»; ma significativamente aggiungeva che «distinzione non è separazione, né la fede può essere ricondotta a un ambito puramente privato»; perciò la Chiesa non avrebbe potuto mai «rinunciare a proporre il suo insegnamento morale e sociale, anche per quanto riguarda l’ordine politico»98.
Il presidente della Cei lasciava dunque intendere che la fine della Dc non avrebbe interrotto l’interventismo dell’episcopato italiano e, nel gennaio 1994, trovava una conferma fondamentale nella Lettera inviata da Giovanni Paolo ai vescovi italiani. Non era difficile intuire l’apporto di Ruini a questo testo, soprattutto in quei passaggi in cui il ruolo dell’episcopato italiano nell’ambito pubblico veniva potentemente rilegittimato con un richiamo allo statuto speciale di cui godeva l’Italia, nazione che avrebbe d’ora in poi dovuto assolvere anche al «compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo»; nella stessa sede, sebbene non parlasse più di impegno unitario, il papa si esprimeva a favore della permanenza di una «forza di ispirazione cristiana» che, esattamente come aveva affermato in precedenza il presidente della Cei, era «necessaria per esprimere sul piano sociale e politico la tradizione e la cultura cristiana della società italiana»99.
È al Partito popolare italiano, sorto dalle ceneri della Dc nel gennaio 1994, che Ruini volge primariamente la sua attenzione per adempiere a questa missione, ma tanto il presidente della Cei quanto il segretario Martinazzoli, differentemente dalla coalizione progressista e da quella guidata da Silvio Berlusconi, non realizzano nell’immediato come il sistema elettorale maggioritario non consentisse più l’esistenza di un ‘centro’, inteso come cabina di regia degli assetti politici italiani100. La vittoria di Silvio Berlusconi, che può legittimamente essere letta come il simbolo della fine del movimento cattolico italiano101, impone quindi un rapidissimo riposizionamento della Cei e Ruini, non senza generare malumori tra i vescovi, manifesta la disponibilità della Conferenza episcopale «ad apprezzare consonanze o adesioni anche parziali, purché anch’esse concrete ed effettive, sui temi dell’insegnamento sociale cristiano»102. Si trattava di qualcosa di più di una pragmatica apertura alla coalizione vincente: essa determinava infatti una vera e propria legittimazione da parte della Chiesa italiana di un’alleanza governativa formata da partiti che, per la prima volta nella storia repubblicana, non avevano preso parte alla redazione della Costituzione; una coalizione che si era costituita in alternativa al Ppi, sostenuto dalla Cei, e che per di più includeva la Lega Nord, già duramente sferzata dai vertici della Cei e della Santa Sede. Chi certamente coglie la profondità delle implicazioni dell’apertura della Cei di Ruini, reputandole di una gravità inaudita, è Giuseppe Dossetti che coglie una similitudine tra l’atteggiamento della Chiesa che ha accolto la vittoria di Berlusconi e quella che settant’anni prima aveva spalancato le braccia al regime fascista. L’ex deputato reggiano rivolge perciò un invito alla difesa del «Patto» costituzionale, dedicando gli ultimi due anni della sua vita a questa battaglia, sistematicamente ignorata, quando non osteggiata, dal presidente della Cei103, che indubbiamente, più ancora che l’assalto alla Costituzione, teme la contiguità di cattolici ed ex comunisti in un medesimo schieramento, emblematizzata dall’immagine di Giuseppe Dossetti e Nilde Jotti che fianco a fianco parlano ai Comitati per la difesa della Costituzione riuniti all’Abbazia di Monteveglio nel settembre 1994104. Ruini si preoccupa anzi di lanciare da subito messaggi rassicuranti, convinto com’è che la democrazia italiana abbia «salde radici» e che «non sarebbe facile a nessuno, se mai lo volesse, manomettere i nostri diritti costituzionali»105.
La nuova scissione che subisce il Ppi nel marzo 1995 ad opera del segretario Rocco Buttiglione, determinato a condurre il partito entro lo schieramento di centro-destra, persuade definitivamente Ruini della fine dell’esperienza politica unitaria dei cattolici106. Gabriele De Rosa è netto nel richiamare le pesanti responsabilità del presidente della Cei in questo drammatico passaggio per il partito: «Il clero», scrive sul proprio diario, «dopo essersi immischiato nelle faccende del Ppi, ora si ritira, esibisce la tunica bianca, finge equidistanza […]. Berlusconi attende solo di divorare il boccone, già stantio, che gli offre Rocco [Buttiglione]; Fini gode dello spettacolo che si offre a piazza del Gesù, il cardinale Ruini si lava le mani»107. Il presidente della Cei è in ogni caso lucidissimo nel comprendere che questo passaggio pone il problema dell’apertura di canali di comunicazione con i nuovi interlocutori politici, ai quali sottoporre l’agenda delle priorità della Chiesa italiana; ma è pur vero che la congiuntura è tale da rendere ancora difficile comprendere se quella avvenuta nel 1994 è una reale svolta o è piuttosto l’ennesima tappa della crisi che sta stravolgendo gli assetti di potere. La linea di condotta generale viene espressa ancora una volta da Giovanni Paolo II, che intervenendo nel novembre 1995 al III convegno ecclesiale di Palermo indica che «la Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico e di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o per l’altra soluzione istituzionale, o costituzionale, che sia rispettosa dell’autentica democrazia»108. Quella che appare come una inedita scelta di estromissione dall’ambito politico rappresenta in realtà la premessa teorica per potervi intervenire in modo ancora più diretto e pragmatico, e questo appunto a prescindere da ogni valutazione sulla qualifica morale e confessionale dei propri interlocutori. È un’opzione a cui si oppone frontalmente il cardinale Martini, che a Milano aveva potuto sperimentare personalmente gli attacchi leghisti e che indica alla Chiesa italiana una direzione da seguire affatto differente da quella intrapresa dalla Cei: «Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio», afferma Martini durante l’omelia per s. Ambrogio,
«Non basta dire che non si è né l’uno né l’altro, per essere a posto; non è lecito pensare di poter scegliere indifferentemente, al momento opportuno, l’uno o l’altro a seconda dei vantaggi che vengono offerti. È questo un tempo in cui occorre aiutare a discernere la qualità morale insita non solo nelle singole scelte politiche, bensì anche nel modo generale di farle e nella concezione dell’agire politico che esse implicano. Non è in gioco la libertà della Chiesa, è in gioco la libertà dell’uomo; non è in gioco il futuro della Chiesa, è in gioco il futuro della democrazia»109.
Ruini persegue in ogni caso la sua strategia ponendosi il problema degli strumenti con i quali garantire al cattolicesimo di poter continuare a rivestire quella rilevanza pubblica che, a prescindere dalla scomparsa della Dc, resta l’obiettivo di fondo tanto del papa quanto del capo dei vescovi italiani. Anche la commemorazione del cardinale Lercaro tenuta a Bologna nel febbraio 1992 diventava occasione per ribadire questa premura e nel profilo tutto personale e attualizzante tracciato da Ruini, Lercaro diventava il modello di vescovo cristiano che «in ogni circostanza – anche la più minuta e banale – », insisteva sull’«affermazione dello “specifico cristiano” che vi dà contenuto, motivazione e senso»; Lercaro, proseguiva Ruini, muoveva dalla convinzione «che la fede non ha un ruolo racchiuso soltanto nell’intima esperienza della coscienza, ma possiede in sé una forza ricca di potenzialità dinamiche che, senza forzature non ammissibili in una società pluralistica, debbono essere giocate anche nella storia collettiva degli uomini»110.
Tra il 1994 e il 1995 il presidente della Cei lancia così l’idea di un «Progetto culturale» per la Chiesa italiana, il cui scopo viene inizialmente indicato in modo sommario nell’«inculturazione della fede» e nell’«evangelizzazione della cultura»111. I successivi riferimenti del cardinale Ruini consentiranno di mettere sempre meglio a fuoco la finalità ultima del Progetto, che appare essenzialmente quella di pervenire, nel lungo termine, mediante una serie di attività e l’impianto di una rete di strumenti informativi disseminati sul territorio nazionale, ad una sorta di egemonia valoriale cattolica, in grado da un lato di consentire ai cattolici impegnati in politica nei vari schieramenti significativi momenti di convergenza su alcuni punti-chiave; dall’altro di radicare al livello sociale più produttivo e ficcante, appunto quello culturale, alcuni valori – la famiglia, l’educazione, la difesa dalla vita dal concepimento alla morte naturale – che sono essenziali nell’ottica del magistero, ma che, nell’auspicio di Ruini, possono, per la loro portata antropologica, trovare spazi di condivisione da parte del mondo laico. Il cardinale-presidente, riallacciandosi a una riflessione che aveva in lui antiche radici112, si concentra sulla cultura perché sa che essa si dilata
«dalle convinzioni più profonde riguardo al significato e al destino della nostra vita e dell’intera realtà fino ai comportamenti più minuti e concreti, avendo come suo snodo essenziale quel complesso di valori e di modelli di comportamento che sono per lo più condivisi e accettati da una popolazione o da un gruppo sociale. La cultura»,
conclude Ruini,
«costituisce pertanto il terreno fondamentale di crescita, o invece di alienazione e deviazione, delle persone e delle comunità, e così anche lo spazio privilegiato di incarnazione del Vangelo e di confronto con altre e diverse visioni della vita»113.
Il Progetto si affianca ed intreccia con le linee pastorali adottate dalla Cei, ma è indubbia la maggiore visibilità che acquista il primo rispetto alle seconde. Così com’è altrettanto indubbia la crescita d’autorità e di visibilità che il passaggio alla ‘seconda Repubblica’ determina per Camillo Ruini. Ancor più che in precedenza le prolusioni del presidente vengono scrutate attentamente per saggiare gli orientamenti della Chiesa rispetto all’evoluzione del quadro politico, acquistando un’importanza che travalica ogni atto della Cei114. Ruini diventa a tutti gli effetti un interlocutore politico che non disdegna un utilizzo professionale dei mass media per far conoscere il pensiero della Cei; matura un proprio stile, che rievoca quello dei vecchi democristiani dorotei: in poche e misurate espressioni il porporato reggiano è capace di comunicare il consenso o il dissenso della Conferenza episcopale sull’agenda politica italiana. La distanza con il modello presidenziale del cardinale Poma, pressoché refrattario alla politica, è davvero abissale115: Ruini, piuttosto, sembra ispirarsi alla figura di Giovanni Benelli (1921-1982), storico sostituto della Segreteria di Stato di Paolo VI, che aveva appunto connotato il suo ufficio dispiegando una vastissima rete di relazioni con il mondo politico italiano.
Ma è anche la nascita dell’Ulivo, cioè di un’alleanza politica organica che include tra gli altri gli eredi del Pci e il Ppi, a determinare uno scarto ulteriore nel coinvolgimento del presidente della Cei – riconfermato dal papa per un secondo quinquennio nel marzo 1996 – nella dialettica politica. L’Ulivo, inteso come luogo di confluenza di differenti culture politiche – dunque anche di quella postcomunista – e di mediazione valoriale, rappresenta agli occhi di Ruini l’esatta antitesi della proposta pastorale portata avanti dalla Cei mediante il Progetto culturale. Ancora di più la nuova coalizione di centrosinistra disturba il progetto politico accarezzato da sempre da Ruini, vale a dire quello di una formazione centrista autonoma. E indubbiamente il fatto che sia proprio Romano Prodi a guidare questa coalizione, l’uomo che più recentemente gli ha opposto un rifiuto alla richiesta di assumere la guida del Ppi dopo le dimissioni di Martinazzoli116 e col quale Ruini ha condiviso nei decenni precedenti importanti esperienze culturali, politiche e personali – nonché la medesima critica circa l’idealizzazione positiva dell’esperienza delle democrazie popolari prodotta in alcuni settori del cattolicesimo italiano117 – rappresenta un fattore che pregiudica ulteriormente la teorica equidistanza che la Cei si era impegnata a mantenere rispetto agli schieramenti politici. Nella durezza del giudizio tracciato dal quotidiano della Conferenza episcopale all’indomani della vittoria dell’Ulivo nelle politiche del 1996, oltre alla preoccupazione per la presenza al governo – per la prima volta dal 1947 – di forze che si ispirano all’ideologia comunista («nella coalizione premiata dalle urne, pesano in maniera massiccia partiti caratterizzati da una mappa antropologica assai diversa da quella con cui si orientano i cattolici»118), gioca un ruolo tutt’altro che marginale la preoccupazione/irritazione dei vertici della Cei per la consapevolezza che una componente essenziale dell’Ulivo esprime quella tendenza alla separazione degli ambiti politico e religioso e alla promozione del laicato cattolico che sono tenute sotto scacco da Ruini da almeno un decennio e che desiderano finalmente esprimere le loro potenzialità. In un simile contesto politico le richieste avanzate dalla presidenza della Cei attraverso le prolusioni (la parità scolastica, l’immissione in ruolo dei docenti di religione, la revisione della legge sull’aborto…)119, acquistano inevitabilmente il sapore di sfide alla componente cattolica dell’Ulivo a saper qualificare la propria adesione confessionale attraverso un pronto esaudimento di ciò che l’autorità ecclesiastica indica come irrinunciabile o, per servirsi di un’espressione sempre più ricorrente, non negoziabile.
Alle critiche che da varie parti gli provengono per lo sconfinamento sempre più marcato di cui si rende consapevolmente protagonista, il cardinale Ruini replica sia invocando il dato del dovere di stato imposto dal proprio ufficio presidenziale, normato dallo Statuto della Cei120, sia evidenziando come l’ambito politico e parlamentare fosse investito in misura crescente di questioni di natura etica che esigevano decisioni di carattere legislativo rispetto alle quali la Chiesa riteneva di non poter scegliere il silenzio o l’indifferenza. «Per quanto ciò possa apparire sorprendente e paradossale», scriveva il presidente della Cei in una lettera al «Corriere della sera» rivelativa dell’approccio pregresso ma anche di quello in divenire,
«l’intenzione di fondo che sta alla base di tali posizioni è quella di promuovere non solo un migliore stile di vita ma anche una più grande e più autentica libertà […] l’obiettivo non è quello di restringere lo spazio delle scelte personali, imponendo per legge civile le norme della morale cattolica. Si tratta, invece, o semplicemente di tutelare un bene e un diritto umano primario e non rinunciabile, come avviene ad esempio nella difesa del diritto alla vita di ogni essere umano, o di promuovere l’esercizio concreto di determinate libertà, come quella del lavoro o dell’educazione, – o anche di salvaguardare la specificità di istituti, come la famiglia, che svolgono un ruolo fondamentale proprio per la formazione della persona e lo sviluppo della sua libertà, che ha bisogno, per crescere e consolidarsi, di un contesto relazionale ed affettivo favorevole»121.
Non è quindi difficile comprendere perché la Cei di Ruini, sempre più tale dopo che il papa nel marzo 2001 affida al vicario di Roma un terzo mandato122, accolga la fine della XIII legislatura e la contestuale riaffermazione dello schieramento di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi con evidente soddisfazione123. Il presidente della Cei ha già individuato da tempo in questa coalizione l’interlocutore più favorevole alle istanze della Conferenza episcopale, una volta di più riproposte, accanto ai consueti inviti a prendersi carico dell’emergenza lavorativa, dell’immigrazione e della sicurezza dei cittadini, nel Consiglio permanente riunitosi il 26-29 marzo (la «tutela della vita umana in ogni istante della sua esistenza», il «rispetto integrale degli embrioni umani e il rifiuto della clonazione, oltre che dell’eutanasia», la «famiglia «come società naturale fondata sul matrimonio e non assimilabile ad altre forme di convivenza»)124. Ne è ulteriore riprova il totale disinteresse mostrato verso il tentativo elettorale neocentrista prodotto dalla Democrazia europea di Sergio D’Antoni e Giulio Andreotti, che pure hanno marcato fortemente la propria proposta richiamandosi ai valori cattolici. Il sentimento profondo dei vertici ecclesiali emergerà anche dalla dichiarazione compiuta da Giovanni Paolo II all’indomani delle elezioni, quando ricorderà che «dopo aver attraversato un decennio di forti contrasti e cambiamenti, [l’Italia] ha bisogno di stabilità e di concordia per poter esprimere nel modo migliore le sue grandi potenzialità»125, lasciando intendere in tal modo che proprio il risultato elettorale del 2001 fosse la premessa essenziale per innescare questo processo virtuoso. A tutti gli effetti la Cei ruiniana ottiene finalmente ascolto dal governo o dai presidenti di regione affini alla nuova maggioranza su svariate questioni: dall’inquadramento degli insegnanti di religione nelle scuole pubbliche, a quello dei cappellani degli ospedali, alle sovvenzioni per la scuola privata. Tutte cose di cui il card. Ruini rende merito alla maggioranza di governo126. Così come, viceversa, censura duramente le iniziative intraprese da alcune regioni per normare giuridicamente la condizione delle coppie di fatto: lo «spettro» che si presenta di fronte al presidente della Cei è quello della vicina Spagna, dove il governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero sta legiferando per un’equiparazione piena ed effettiva dei diritti tra coppie omosessuali e non127.
È precisamente la constatazione di un contrasto tra la difesa dei grandi valori etici – o delle loro più minute espressioni – di cui la maggioranza di centro-destra si è presentata come tutrice e l’iscrizione all’ordine del giorno dei lavori parlamentari di leggi come quelle che depenalizzano il falso in bilancio o introducono nuove forme di condono fiscale che, sempre su un piano etico, contraddicono frontalmente i valori sui quali la Cei si era attestata già con il documento Educare alla legalità del 1991 – dove tra l’altro, ben prima dell’avvento di Silvio Berlusconi, si stigmatizzava «l’insorgente neo-feudalesimo» italiano, «in cui corporazioni e lobbies manovrano la vita pubblica, influenzano il contenuto stesso delle leggi, decise a ritagliare per il proprio tornaconto un sempre maggiore spazio di privilegio»128 – ad indurre forti contestazioni rispetto al ‘silenzio’ scelto strategicamente dal cardinale Ruini129. Il presidente della Cei respingerà le critiche descrivendo come una «tentazione» il «moralismo che usa temi etici come strumenti di lotta politica», aggiungendo anzi che caricare le scelte politiche di valenza etica – cosa che a suo dire aveva già fatto il Pci con De Gasperi – poteva essere rischioso: «allora finisce che la lotta politica stessa peggiora, diventa disprezzo, odio verso le persone»130. Ruini manifestava quindi il proprio disagio di fronte a quella «parte dei cattolici impegnati in politica» – vale a dire i cattolici-democratici – che «ha sempre ritenuto di essere più in sintonia con l’autentico spirito del cristianesimo e del cattolicesimo»; «affermare, o anche solo pensare, che il proprio comportamento sia più cristiano di quello altrui», asseriva il porporato reggiano, «comporta infatti un giudizio che semmai compete alla Chiesa»131.
La reazione di Ruini è emblematica – più che di spregiudicatezza o cinismo – di un elemento che si è sempre più consolidato nel corso del suo mandato al vertice della Cei: vale a dire la profonda sfiducia maturata dal porporato reggiano rispetto alle dinamiche del dibattito politico in generale e al modo di relazionarsi ad esso da parte dei cattolici132. Il cardinale Ruini riscontra in definitiva un’incapacità strutturale da parte dei laici cattolici sia di intercettare il diffuso sentimento religioso presente e radicato nella penisola, sia di fronteggiare adeguatamente le sfide etiche che emergono sempre più potenti sul piano legislativo. La crescente prossimità di Ruini ai settori moderati della politica italiana – ancorché egli riconoscesse in linea teorica che i cattolici erano «legittimamente collocati, dal punto di vista politico-partitico, su diversi versanti e posizioni»133 – non andava dunque compresa come l’eco della storia personale del presidente della Cei e tantomeno come una forma di predilezione, ma piuttosto come la presa d’atto che solo in determinati settori dell’arco parlamentare – e solo in quelli – la Cei avrebbe trovato interlocutori meno problematici che altrove. È anche per questo che Ruini non prende parte al dibattito introdotto da Arturo Parisi all’indomani della sconfitta elettorale dell’Ulivo sui «cattolici irregolari» (ovvero coloro che come divorziati risposati vivevano una condizione personale di oggettiva difformità rispetto alla legislazione canonica) con cui la coalizione di centro-destra aveva saputo stabilire una proficua relazione134. Ruini – ma lo stesso era avvenuto per Parisi – comprende che il profilo del cattolicesimo italiano si è evoluto in maniera radicale e l’‘irregolarità’ è appunto una dimensione che riguarda una massa crescente di persone, pure disponibili ad attivarsi in favore delle istanze ecclesiali; ogni irrigidimento, pure legittimo, rischiava quindi di apparire una battaglia di retroguardia e per di più dannosa in vista degli obiettivi che la Cei si era prefissata.
La strategia ruiniana trova un puntello essenziale nella politica dottrinale intrapresa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede guidata dal cardinale Ratzinger, che nel novembre 2002 pubblica una Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica135. Ancorché non espressamente rivolta ai cattolici italiani, la Nota collimava pedissequamente con le posizioni già espresse dal presidente della Cei sulle finalità dell’azione politica; allo stesso modo sottolineava le sempre più evidenti difficoltà dei vertici della Chiesa italiana a relazionarsi con un ambito democratico che potesse prescindere da quelle coordinate etiche sinora garantite dalla predominanza culturale del cattolicesimo. La Nota affermava infatti che, anche a fronte dell’avanzata delle scoperte scientifiche – invarrà sempre più per l’episcopato il ricorso al termine di «tecnoscienza» – e al supposto pluralismo etico che ne derivava, permanevano alcune «esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili» e veniva perciò ribadita la validità permanente delle posizioni mantenute dalla Chiesa in tema di aborto, eutanasia, embrione umano e famiglia («fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso»); sarebbe stato perciò un «errore confondere la giusta autonomia che i cattolici in politica debbono assumere con la rivendicazione di un principio che prescinde dall’insegnamento morale e sociale della Chiesa». I politici che si qualificavano come cattolici venivano perciò messi in guardia contro ogni possibilità di mediazione sui valori etici cristiani, dal momento che la fede costituiva «un’unità inscindibile» e non era «logico l’isolamento di uno solo dei suoi contenuti a scapito della totalità della dottrina cattolica».
Non è quindi difficile intuire le ragioni della crescente insistenza di Ruini per una profonda revisione del concetto di laicità – tema declinato con ben altri accenti dal cardinale Scola136 – a fronte di un mondo che sta conoscendo poderose evoluzioni scientifiche e tecnologiche, riassunte dal presidente della Cei nella formula della «svolta antropologica»137: alla base sta la fondamentale convinzione di un’incapacità del mondo moderno – dunque non solo dell’Italia – di darsi un fondamento etico autonomo e sostenibile per fronteggiare tali sfide, per di più caricate delle insicurezze generate dagli eventi successivi all’11 settembre 2001138. Così il «non fuggiremo» pronunciato nell’omelia per i funerali delle vittime italiane dell’attentato di Nassirya – che fanno dell’officiante Ruini una sorta di cappellano militare, ma anche di capo di stato maggiore, dell’Italia in guerra – acquista una valenza che va ben oltre la contingenza del rito funebre139, quasi a emblematizzare anche l’ulteriore irrigidimento della Cei nella difesa di ciò che essa riteneva irrinunciabile.
Effettivamente la fase conclusiva della presidenza Ruini, che dall’estate 2002 vede la scomparsa dal Consiglio permanente, con le dimissioni dalla sede vescovile di Milano, di una voce dialettica come quella del cardinale Martini, trova proprio attorno alle questioni etiche i fattori di maggiore attrito con l’ambito politico, in particolare con alcuni settori del laicato cattolico. Nel gennaio 2005, mentre si approssimava la celebrazione dei referendum per l’abrogazione di alcune parti della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita, voluti anche da chi riteneva tale norma viziata dalle ingerenze ecclesiastiche, il presidente della Cei, che era persuaso che la legge, benché non in linea con l’insegnamento etico della Chiesa, restasse comunque un compromesso accettabile in materia, esprimeva una singolare indicazione di voto, invitando ripetutamente i cattolici italiani a non recarsi alle urne e a farlo con «la più grande compattezza», favorendo in questo modo il mancato raggiungimento del quorum140.
La scelta di Ruini, maturata anche nella consapevolezza della plausibilità dell’insuccesso della consultazione per la complessità dei quesiti sottoposti agli italiani141, si rivelerà strategicamente vincente: sia ai fini del mantenimento della legge, sia perché, a dispetto di ogni considerazione sull’ormai evidente logoramento dello strumento referendario, l’esito della consultazione del 12-13 giugno 2005 consente alla presidenza della Cei di accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica come vincente proprio rispetto ad uno di quei temi etici sui quali per decenni ha subito pesanti sconfitte elettorali e coi quali Ruini sta connotando profondamente la sua linea di governo; l’esito del referendum verrà così presentato come la riprova del «sentire profondo» del popolo italiano rispetto alla «nuova questione antropologica»142. La vicenda referendaria costituisce anche un’ulteriore cartina di tornasole delle difficoltà di rapporto tra il presidente della Cei e i cattolici che militano nel centro-sinistra, che si iscrivono precisamente nella scelta di questi ultimi di non agire sotto dettatura dell’episcopato, ma di procedere appunto a una mediazione politica dei valori cristiani rispetto al contesto pubblico in cui vanno calati: ne è un sintomo lampante la durezza delle repliche che seguono alla dichiarazione di Romano Prodi – che si accinge a ripresentare la sua candidatura a Palazzo Chigi per il 2006 – di prescindere dalle indicazioni di voto espresse dalla Conferenza episcopale italiana in quanto «cattolico adulto»143. Né la successiva scelta del leader del partito della Margherita Francesco Rutelli di dare vita ad una nuova corrente di cattolici svincolata dall’esperienza del cattolicesimo democratico – e in una certa misura proprio in contrasto con questa –, poi qualificatisi come «teodem», si rivela produttiva per sanare le difficoltà di relazione con la Cei ruiniana: l’azione dei «teodem», connotata appunto da quell’intransigenza sull’applicazione dei principi dell’etica cristiana che il cardinale Ruini ha elevato a cifra identitaria dell’azione dei cattolici impegnati in politica, finirà piuttosto per esasperare i rapporti interni alla coalizione di centro-sinistra, confermando il presidente della Cei nelle sue personali e antiche convinzioni delle contraddizioni originarie e insanabili che marcano l’esperienza prodiana. Anche la vicenda di Piergiorgio Welby, un malato di distrofia muscolare che è assurto negli anni a simbolo della lotta a favore della legalizzazione dell’eutanasia144, vede Ruini impegnato a tutto campo per ribadire ad oltranza – sino al diniego delle esequie religiose a quello che verrà sostanzialmente qualificato in una Nota del vicariato di Roma come un «suicidio»145 – la posizione ufficiale della Chiesa in materia di difesa della vita – «dal concepimento alla morte naturale»146 –, palesando la totale indisponibilità della Cei ad assecondare ogni innovazione legislativa al riguardo.
Ed è ancora una questione di natura etica a segnare le settimane conclusive della lunga presidenza ruiniana, dopo che l’Unione, la coalizione guidata da Prodi che ha riconquistato il governo nell’aprile 2006, applicando il programma proposto agli elettori, pone all’ordine del giorno dei lavori parlamentari un disegno di legge governativo per regolamentare i «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi» (Dico). Il presidente della Cei, ancora una volta appoggiato pubblicamente dal papa, manifesta apertamente la sua contrarietà a un simile progetto, perché lo giudica, sotto l’apparenza di una tutela giuridica dei diritti dei singoli che compongono le coppie di fatto147, un espediente per «creare, sia pure in forma involuta e indiretta, un modello alternativo e spurio di famiglia», che per di più, fa rilevare il presidente della Cei, si porrebbe in contrasto con la Costituzione repubblicana e «una tradizione culturale e giuridica bimillenaria»148. Ma è più che evidente che la reale preoccupazione che affligge Ruini, ancorché inespressa, è che i Dico, similmente a ciò che è accaduto in altri paesi europei e non, costituiscano il ‘cavallo di Troia’ per preparare il terreno a una più o meno prossima introduzione nell’ordinamento legislativo italiano del matrimonio omosessuale – possibilità rispetto alla quale la Congregazione per la Dottrina della Fede si era già espressa inequivocabilmente149 – arrecando in questo modo un vulnus letale a quello ‘statuto speciale’ – inespresso ma radicatissimo – che la Santa Sede vuole venga conservato all’Italia.
La determinazione del Governo Prodi, a dispetto delle fibrillazioni interne determinate dai «teodem» e nonostante gli interventi dello stesso pontefice150, a portare in fondo la realizzazione dei Dico, induce il presidente della Cei a esasperare proporzionalmente i toni ultimativi, preannunciando un documento dell’episcopato ad hoc: Ruini lo presenta come una «parola meditata, una parola ufficiale che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa»151. Ed è esattamente l’aggettivazione che accompagna questo annuncio, che evidenzia una volta di più l’approccio oramai meramente strumentale di Ruini all’ambito politico, che provoca le immediate reazioni di quei cattolici che giudicano l’iniziativa del presidente della Cei una grave intromissione nell’attività di un organo sovrano quale è il Parlamento italiano: dallo stesso ministro Rosy Bindi, cofirmataria del progetto dei Dico152, a Leopoldo Elia153; da Oscar Luigi Scalfaro154 a Giuseppe Alberigo, voce critica della stagione ruiniana, che in una «supplica» pubblica deplora l’«immeritata involuzione» subita dalla Chiesa italiana ad opera della Cei, giunta a cancellare ogni distinzione tra «ciò che per i credenti è obbligo, non solo di coscienza ma anche canonico, e quanto deve essere regolato dallo stato laico per tutti i cittadini»155. Non v’è dubbio che è anche l’insuperabile difficoltà di rapporto con la Conferenza episcopale italiana, che sopravvive alla fine del mandato presidenziale di Ruini, a concorrere alla caduta del II Governo Prodi nel gennaio 2008, pochi giorni dopo l’annullamento della visita di Benedetto XVI all’Università La Sapienza di Roma, rispetto alla quale l’ancora cardinale-vicario di Roma aveva deplorato – evidentemente riferendosi all’esecutivo in carica – la mancata tempestività di «alcune solidarietà»156.
Romano Prodi confiderà più tardi l’impressione che i rapporti del suo governo con la Cei fossero assimilabili a un vero e proprio scontro «con un’opposizione politica»157 e tracciando un interessante parallelo sui rapporti intessuti con altri episcopati europei, improntati appunto al «dialogo» e alla «mediazione», testimonierà di aver «incontrato difficoltà non marginali» nella sua attività di governo, «durante la quale il presidente della Cei, cardinale Camillo Ruini, forzando il concetto di non negoziabilità dei principi ha, con grande abilità politica, impedito ogni possibilità di mediazione su alcuni temi riguardo ai quali una saggia mediazione è assolutamente necessaria per la convivenza civile e per la concreta applicazione dei principi stessi»158. Ma a ben vedere Ruini era stato drasticamente coerente al programma che aveva enunciato solo pochi mesi prima a Verona, chiudendo il IV Convegno ecclesiale nazionale, quando riassumendo i numerosi interventi compiuti in quindici anni di presidenza della Cei aveva chiarito che la «testimonianza» dei laici cattolici si esprimeva anche attraverso l’«animazione cristiana delle realtà sociali, che i laici devono compiere con autonoma iniziativa e responsabilità e al contempo nella fedeltà all’insegnamento della Chiesa, specialmente per quanto riguarda le fondamentali tematiche etiche ed antropologiche»159.
La rilevanza assunta dalla figura di Ruini nell’ambito della Chiesa italiana, nei poco più di vent’anni che vanno dalla nomina a segretario della Cei alle sue dimissioni nel marzo 2007, risalta anche dalle scelte operative che presiedono alla sua sostituzione da parte di Benedetto XVI. A una consultazione riservata avviata dal nunzio Paolo Romeo tra i vescovi della penisola nei primi mesi del 2006, che lascia una volta di più presagire un’innovazione nel metodo di designazione del presidente della Cei, segue oltre un anno di attesa, marcato tra l’altro dalle elezioni politiche e dal convegno di Verona, che si conclude con la nomina papale dell’arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco. Benedetto XVI interrompeva in questo modo l’abbinamento tra l’ufficio di vicario di Roma e la carica di presidente della Cei stabilito da Giovanni Paolo II, ma allo stesso tempo sceglieva di posticipare un’eventuale modifica del funzionamento della Conferenza episcopale italiana, puntando su un presidente ‘di transizione’, che in sostanza non segnasse una discontinuità immediata – e quindi una sconfessione – rispetto alle linee di governo ruiniane160 e che contestualmente, proprio perché persona dal profilo meno marcato dal punto di vista teologico e politico, introducesse la Conferenza dei vescovi italiani in una nuova stagione, caratterizzata anzitutto da una minore visibilità pubblica del suo presidente.
Perché occorre considerare che quello che avviene nella primavera 2007 è ben più che un avvicendamento al vertice della Cei: rappresenta a tutti gli effetti l’avvio di un riassetto sistemico delle competenze di Segreteria di Stato vaticana e Conferenza episcopale in ordine alle questioni politiche italiane. Con un atto pubblico coincidente con l’insediamento di Bagnasco, il Segretario di Stato Tarcisio Bertone avocherà infatti al suo ufficio la competenza dei rapporti politici con l’Italia161. L’iniziativa, più che all’intraprendenza del porporato salesiano, va compresa alla luce del radicale mutamento dell’assetto partitico intervenuto durante il mandato di Ruini: la scomparsa della Dc e la progressiva marginalizzazione dei frammenti che ne erano derivati nell’ambito dei vari schieramenti avevano fatto di Ruini un interlocutore sempre più diretto e solitario del mondo politico. Con la fine del mandato del porporato reggiano – e ancor prima con la morte nel 2005 di Giovanni Paolo II che ne era stato il massimo protettore – occorreva che a questo stato d’eccezione, in cui il cardinale-presidente aveva goduto di un’autonomia inedita nella storia della Cei, subentrasse finalmente una dinamica ordinaria e gerarchizzata, rappresentata appunto dalla Segreteria di Stato e dai suoi canali diplomatici, così come peraltro era sempre stato sino all’approvazione del Concordato del 1984162. Non erano mancati segnali che anticipavano questa svolta: basti pensare alle vere e proprie consultazioni con i leader politici intraprese dal Segretario di Stato Angelo Sodano nel febbraio 2001, che certamente avevano destato l’impressione di coloro che ricordavano l’approccio diplomatico di altri segretari di Stato, ma che più che uno strumento per l’acquisizione di informazioni sulle intenzioni dei vari schieramenti – che normalmente avveniva attraverso canali ben più discreti – rappresentavano una prova di forza e un chiaro avvertimento alla presidenza della Cei.
La preminenza acquisita da Ruini nell’ambito della Chiesa italiana ha origini e ragioni che in parte certamente afferiscono alle capacità e al carisma del prelato reggiano. Ma d’altro canto è necessario tenere conto del contesto in cui si è dispiegata la sua attività. Ruini s’è infatti mosso nell’ambito della cosiddetta eccezione italiana, che fa davvero della Chiesa peninsulare una realtà anomala rispetto alle altre Chiese nazionali, giacché sottoposta al rigidissimo controllo della Santa Sede. Né Giovanni Paolo II prima, né tantomeno Benedetto XVI poi, intendevano infatti consentire un’attitudine dialettica tra il papa e la Cei, com’era accaduto ad esempio con la Deutsche Bischofskonferenz guidata da Karl Lehmann. La nomina papale del presidente della Conferenza italiana era lo strumento chiave per garantirsi da questo rischio e Giovanni Paolo II aveva individuato proprio in Ruini il personaggio che, meglio dei predecessori, poteva garantire un perfetto allineamento della Cei alla linea pastorale maturata da Karol Wojtyla a metà degli anni Ottanta. La reiterata riconferma di Ruini nella carica presidenziale costituisce il segno più evidente della piena fiducia riposta in lui dal papa; ma è anche interessante rilevare come nel corso del tempo si sia sviluppato e radicato un vero e proprio fenomeno di eco reciproca tra gli interventi del papa – non solo Giovanni Paolo II, ma anche Benedetto XVI – e quelli del presidente della Cei, soprattutto per ciò che atteneva all’ambito politico o le tematiche di carattere etico. Occorre quindi tenere presente che Ruini si trova nella condizione peculiare di essere presidente della Cei con un primate d’Italia che non è italiano (prima Wojtyla e poi Ratzinger): un fattore che facilmente ha indotto una dilatazione del suo spazio d’azione. Un altro fattore che ha radicato la leadership ruiniana nella Chiesa italiana è rappresentato dalle indubbie capacità mostrate dal porporato reggiano nella gestione della macchina della Cei, anche di fronte alla sua crescita e alla sua complicazione seguite all’applicazione del nuovo Concordato.
Ma vi sono pure fattori di altra natura che concorrono a spiegare l’orientamento dato da Ruini alle dinamiche della Cei. La politica dottrinale intrapresa dalla Santa Sede durante il pontificato di Giovanni Paolo II ha inciso infatti pesantemente sulle modalità di funzionamento delle Conferenze nazionali. Stabilendo principi e vincoli insuperabili sulle questioni etiche e sul modo in cui i cattolici impegnati in politica devono approcciarle, il papa e la Congregazione per la Dottrina della Fede hanno di fatto ridimensionato drasticamente gli spazi d’azione dei vescovi, impegnandoli semplicemente a recepire e a far recepire a livello locale ciò che è stato insindacabilmente deciso a Roma. Così il motu proprio Apostolos suos (1998), insistendo sulla questione dell’unità dei vescovi, ha di fatto imposto una unanimità decisionale che rende impraticabile un effettivo dibattito163. Ma anche la dilatazione del concetto di verità «necessariamente legate» alla rivelazione stabilito dal motu proprio Ad tuendam fidem (1998)164 – verità che in sé possono essere definite esclusivamente dal magistero romano, giacché, come ricordava il cardinale Ratzinger, «nessuna Conferenza episcopale ha, in quanto tale, una missione di insegnamento»165 – è un ulteriore segnale del radicamento di questa tendenza a privare le Conferenze nazionali di un’effettiva rilevanza. Ruini non mostra alcun disagio – né personale né, per così dire, ‘corporativo’ – rispetto a questo fattivo ridimensionamento della libertà della Cei; concorre anzi a realizzarlo, dando un contributo fondamentale alla designazione di un episcopato nazionale sempre più orientato ad assecondare pianamente la linea dettata dalla Santa Sede e, in subordine, dal presidente della Conferenza episcopale italiana166. Così anche i convegni nazionali della Chiesa italiana, scaturiti negli anni Settanta da una Cei che, a dispetto delle difficoltà postconciliari, avvertiva la fecondità di uno scambio effettivo e non puramente cerimoniale con il laicato cattolico, conoscono con la presidenza Ruini un progressivo snaturamento, venendo progressivamente egemonizzati dall’episcopato e diventando piuttosto, attraverso un rigido lavoro preparatorio, la cassa di risonanza di programmi e orientamenti già definiti all’interno del Consiglio permanente. Un ancora più radicale disciplinamento è stato esercitato rispetto allo svolgimento delle Settimane sociali.
L’intraprendenza e la determinazione di Ruini sono emerse particolarmente al momento del collasso del pentapartito e della conseguente affermazione di nuovi soggetti politici. Il cardinale-presidente ha tratto le conclusioni più drastiche dalla scomparsa del partito cattolico, rinunciando a stabilire una relazione privilegiata con gli eredi diretti della Dc, presenti in entrambi gli schieramenti. Per Ruini, infatti, la scomparsa della Dc, quantunque subita, ha finito per rappresentare un vantaggio: le richieste della Cei da questo momento sono state poste nella maniera più diretta, senza la mediazione, talora complicante, di un soggetto politico. L’effetto più evidente di questa opzione nel lungo periodo è stato il fattivo ridimensionamento del ruolo del laicato cattolico. La strategia ruiniana, come aveva constatato a sue spese il presidente Prodi, è stata infatti costantemente improntata a una radicale intransigenza: e anche in questo il cardinale reggiano si è mostrato perfettamente in sintonia con una tendenza più generale che ha percorso la Chiesa postconciliare, intesa ad accantonare, perché giudicate inadeguate o erronee, le acquisizioni della stagione montiniana, marcata tra l’altro proprio da una forte valorizzazione del laicato. Anche il ricorso all’immagine della realtà italiana come «Chiesa di popolo», su cui Ruini ha iniziato ad insistere nella fase conclusiva della sua presidenza – prontamente imitato da altri collaboratori del Progetto culturale – è precisamente espressiva di questa determinazione della Cei a farsi direttamente carico degli interessi del cattolicesimo italiano: il bersaglio non espresso è ancora una volta quel cattolicesimo di ‘élite’ che sarebbe costituito dai laici attivi in politica e impegnati in faticose mediazioni che in tal modo vengono rigettate a priori167.
Se c’è qualcosa che però rimane inalterato nell’approccio politico di Ruini tra prima e seconda Repubblica – e prima e dopo il 1989 – è il fondamentale anticomunismo che ispira la sua azione. L’avversione di Ruini all’ideologia marxista e alle sue esplicitazioni partitiche è profonda, davvero di natura culturale e rappresenta un altro fattore di profonda consonanza tanto con Wojtyla che con Ratzinger: nel comunismo Ruini vede infatti la manifestazione di una concezione antropologica radicalmente antitetica a quella cristiana ed è quindi inconcepibile per lui la possibilità di una collaborazione politica – e ancor più di una mediazione sui principi che si rivelerebbe «riduttiva e rinunciataria»168 – tra chi si richiama ai valori del cattolicesimo e chi proviene dall’esperienza comunista. Ma sarebbe erroneo ritenere che la profonda avversione di Ruini per Dossetti – a tratti si ha davvero l’impressione che tutta la vicenda ecclesiale di Ruini sia giocata esattamente in antitesi al fondatore della Piccola famiglia dell’Annunziata, ovvero all’immagine che ne aveva elaborato il prelato reggiano – nasca intorno all’idea dell’Ulivo come luogo di mediazione tra gli eredi del comunismo e il cattolicesimo democratico, della quale Dossetti sarebbe il padre nobile. Il presidente della Cei, per quanto sia disposto a lasciar circolare questa idea, giacché utilissima all’interno di un dibattito politico tutto rivolto alla propria autosemplificazione, sa benissimo che Dossetti e il dossettismo sono realtà ben più complicate e insidiose rispetto ai suoi programmi. La sua ostilità verso l’ex vicesegretario della Dc scaturisce piuttosto dalla differente lettura del concilio Vaticano II come «evento» e dalla differente attitudine rispetto alla cultura occidentale in generale e a quella nordamericana in particolare169, nelle quali il presidente della Cei – come Joseph Ratzinger – individua riserve valoriali e culturali essenziali al cristianesimo170 e sulle quali Dossetti tracciava invece già negli anni Quaranta un giudizio catastrofale171.
Esattamente come Dossetti, Ruini sa che parlare di mondo cattolico riferendosi all’Italia a lui coeva significa parlare di un non-luogo: questo anche a dispetto della tanto insistita eccezionalità del caso italiano. È una cosa di cui sono certamente consapevoli gli interlocutori politici del presidente della Cei, che tuttavia sono anche coscienti di come il cattolicesimo, o quantomeno la diffusa religiosità che ne è scaturita, permei ancora profondamente, magari in maniera inconscia e inerziale, la società italiana e di come sia ognora opportuno – o quantomeno politicamente prudente – tenere conto degli orientamenti dell’episcopato. È questa consapevolezza che ad esempio induce il presidente del Consiglio Berlusconi, nell’imminenza della sua udienza con Benedetto XVI nel giugno 2008, a mettersi anche contro la componente laica del Popolo delle libertà, dichiarando apertamente che il suo nuovo esecutivo «non può che compiacere il pontefice e la sua Chiesa»172. Per Ruini, che non esiterà a riconoscersi un «animale politico» in servizio permanente173, questo margine è comunque sufficiente per agire con un piglio decisionista e una disinvoltura che non hanno precedenti tra coloro che hanno rivestito la medesima carica presidenziale. Ma ciò è stato determinato anche dall’intrinseca debolezza che ha caratterizzato il sistema partitico italiano negli anni della sua presidenza. Così, nei momenti in cui la linea espressa dalla Cei è stata maggiormente a rischio di essere contraddetta o ostacolata, il cardinale-presidente non ha esitato ad alzare il livello dello scontro, anche ricorrendo alla piazza, come nel caso del «Family Day» del 12 maggio 2007, rinverdendo usi di epoca preconciliare e riuscendo, in molti casi, a conseguire il risultato prefissato. In questo senso la strategia adottata, proprio perché espressa dal leader di una minoranza, si è rivelata doppiamente vincente.
È proprio la consapevolezza della precarietà della condizione del cattolicesimo italiano – e la conseguente necessità di rinserrare le fila – a indurre Ruini a quella strategia di forzoso ricompattamento del movimentismo cattolico che si dispiega lungo tutto il suo mandato, che trova nell’estate 2004 un simbolico epilogo con lo scambio di inviti tra Azione cattolica e Comunione e liberazione. È precisamente questo il merito principale che Benedetto XVI ascriverà al cardinale Ruini al momento del suo congedo dalla presidenza della Cei: quello cioè di aver «contribuito validamente a far sì che le diverse Chiese particolari, come pure le associazioni, i movimenti e le comunità ecclesiali, potessero procedere unite sotto la guida del Papa»174. Si tratta di un obiettivo che ha avuto dei precisi costi in termini di svuotamento dell’autonomia e dell’intelligenza del laicato e che non hanno tardato a ripresentarsi come un nuovo problema – o come la soluzione dei problemi esistenti – da inserire nell’agenda della Chiesa italiana: non è infatti un caso che tanto il successore di Wojtyla quanto quello di Ruini abbiano rapidamente espresso l’auspicio della nascita di una nuova generazione di politici cattolici, salvo poi determinarne un profilo che trova ancora nel pieno assoggettamento al magistero ecclesiale una connotazione imprescindibile175.
La forte caratterizzazione assunta dalla Cei negli anni della presidenza Ruini, ha indotto facilmente la convinzione che la fine del mandato del porporato reggiano possa segnare in ogni caso una svolta – da alcuni settori del laicato cattolico caldamente auspicata176 – nel percorso recente della Chiesa italiana. Ma ogni valutazione circa questa eventualità, così come ogni riflessione storica sulla stagione ruiniana o sul ruinismo, non può prescindere dalla considerazione di come la realtà ecclesiale italiana sia stata a lungo soggiogata dal ‘mito’ dell’unità politica dei cattolici, che ha determinato appunto una ininterrotta attitudine della gerarchia alla direzione della loro attività politico-sociale. Un’attitudine che, come ha ricordato Giuseppe Alberigo, è stata coniugata in passato «nelle cangianti stagioni dei “comitati civici”, del “collateralismo”, dei condizionamenti striscianti delle candidature» e che forse, dopo la scomparsa del partito cattolico, ha semplicemente ritrovato con Camillo Ruini e il suo Progetto culturale l’estrema declinazione177.
1 Su questo aspetto si vedano i contributi raccolti in Shock Wojtyla. L’inizio del pontificato, a cura di M. Impagliazzo, Cinisello Balsamo 2010.
2 Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano, a cura di F.M. Biscione, Roma 1993, pp. 81, 116.
3 A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola (19 novembre 1984), Bologna 2003, p. 98.
4 Cfr. V. De Marco, Le barricate invisibili. La Chiesa in Italia tra politica e società (1945-1978), Galatina 1994, pp. 223-258.
5 Evangelizzazione e promozione umana, Atti del I Convegno ecclesiale nazionale (Roma 1976), Roma 1977, pp. 467-468.
6 E. Galli della Loggia, C. Ruini, Confini. Dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo, Milano 2009, p. 89.
7 P. Rodari, Missione per conto di Dio, «Il Riformista», 20 ottobre 2008.
8 Cfr. C. Ruini, La trascendenza della grazia nella Teologia di San Tommaso d’Aquino, Roma 1971.
9 A. Naber, Schema praelectionum: delineantur introductio generalis in universam philosophiam et theoria cognitionis critica, Roma 1932.
10 E. Galli della Loggia, C. Ruini, Confini, cit., p. 181.
11 M. Bellizi, Fede, cultura e secolarizzazione. La nuova missione del cardinale Ruini, «L’Osservatore romano», 28 giugno 2008; cfr. E. Galli della Loggia, C. Ruini, Confini, cit., p. 89.
12 M. Bellizi, Fede, cultura e secolarizzazione, cit.
13 C. Ruini, De Gasperi è vivo e illuminante, «Avvenire», 20 agosto 1994, p. 4; cfr. C. Ruini, Chiesa del nostro tempo, III, Prolusioni 2001-2007, Casale Monferrato 2007, p. 262.
14 Cfr. A. Melloni, La partecipazione di Mons. Gilberto Baroni al Concilio Vaticano II, in Presiedere alla carità. Studi in onore di S.E. Mons. Gilberto Baroni Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla nel 75° compleanno, a cura di E. Mazza, D. Gianotti, Genova 1988, pp. 191-204.
15 Cfr. G. Piacentini, Attese e sperimentazioni nella stagione post-conciliare, in Dalla ricostruzione al post-concilio. Generazioni a confronto, a cura dell’Archivio Osvaldo Piacentini, Reggio Emilia 2008, pp. 223-349; D. Gianotti, Le diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, in Il Vaticano II in Emilia Romagna. Apporti e ricezioni, a cura di M. Tagliaferri, Bologna 2007, pp. 137-170.
16 F. Franzoni, R. Prodi, Insieme, a cura di S. Zampa, Cinisello Balsamo 2005, pp. 66-68; G. Piacentini, Attese e sperimentazioni nella stagione post-conciliare, cit., p. 272.
17 C. Ruini, Il rinnovamento del seminario, in «Lettere ’70», 7, 1970, pp. 16-17.
18 Cfr. C. Ruini, Presentazione a Presiedere alla carità, cit., p. VII.
19 Su questo gruppo si veda il fascicolo monografico dei «Quaderni del centro Giovanni XXIII», 7, 1985.
20 Cfr. S. Ceccanti, La Chiesa cattolica e la politica italiana, http://www.astrid-online.it/DossierL3/ceccantiastrid_29_03_10.pdf (1° ottobre 2010); E. Galli della Loggia, C. Ruini, Confini, cit., p. 90.
21 Cfr. G. Ruggieri, One way: un’esperienza di chiesa a Reggio Emilia, «Communio», 1, 1972, pp. 68-76; Sul Sessantotto, One Way, Reggio Emilia e dintorni. Un’intervista con Giovanni Riva, a cura di A. Nesti, «Religioni e società. Rivista di scienze sociali della religione», 62, 2008, pp. 87-116.
22 Don Camillo Ruini, Premessa, «Quaderni del centro Giovanni XXIII», 1985, 7, p. 1.
23 Gli Atti del Convegno, che includono tra l’altro interventi di Romano Prodi e Giuseppe Lazzati, sono editi in «Chiesa in sinodo», 2, 1983, 9.
24 Sulle fasi preliminari alla celebrazione cfr. M. Galloni, Preparazione di un Sinodo. Le diocesi Reggio Emilia e Guastalla, Casale Monferrato 1986.
25 Don Camillo Ruini Vescovo Ausiliare di Reggio Emilia e di Guastalla. Comunicato di Mons. Vescovo, «Bollettino diocesano ufficiale per gli atti del vescovo e delle curie di Reggio E. e Guastalla», 72, 1983, 3, p. 171.
26 Cfr. Aspettando l’Ordinazione Episcopale e Nomina del Vescovo ausiliare ad altro Vicario Generale delle due diocesi, «Bollettino diocesano ufficiale per gli atti del vescovo e delle curie di Reggio E. e Guastalla», 72, 1983, 5, pp. 284, 297.
27 Cfr. G. Piacentini, Attese e sperimentazioni nella stagione post-conciliare, cit., p. 316.
28 Cfr. C. Ruini, Chiese locali di Reggio Emilia e Guastalla: sinodo sull’evangelizzazione, «Rassegna di teologia», 20, 1979, 3, pp. 234-235; P. Paterlini, Retroterra, tensioni e speranze del sinodo reggiano, «Rassegna di teologia», 20, 1979, 4, p. 300.
29 Cfr. G. Piacentini, Attese e sperimentazioni nella stagione post-conciliare, cit., pp. 319, 323, 347.
30 Ibidem, p. 312.
31 Cfr. G. Alberigo, I sinodi post-conciliari nelle chiese emiliano-romagnole, in Sinodi Diocesani di Bobbio, Reggio Emilia e Guastalla, Fidenza. Dichiarazioni e decreti, Cinisello Balsamo 1991, pp. 23-24 .
32 Cfr. B. Sorge, La Chiesa italiana a Loreto, «La Civiltà cattolica», 136, 1985, 3238, p. 326.
33 G. Battelli, Cattolici. Chiesa, laicato e società in Italia (1796-1996), Torino 1997, p. 180.
34 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 1, 1979, Città del Vaticano 1980, p. 1167.
35 Cfr. B. Sorge, La «ricomposizione» dell’area cattolica in Italia, Roma 1979; Il dibattito sulla «ricomposizione» dell’area cattolica in Italia, a cura di B. Sorge, Roma 1981.
36 Cfr. R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), Bologna 2009, pp. 554-595.
37 Cfr. A. Melloni, L’occasione perduta. Appunti sulla storia della chiesa italiana, 1978-2009, in Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, a cura di A. Melloni, G. Ruggieri, Roma 2010, pp. 79-80.
38 Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana (da qui in poi ECEI), III, 1980-1985, Bologna 1985, pp. 427-445.
39 C. Ruini, Quale presenza della Chiesa nella società italiana di oggi?, «Chiesa in sinodo», 1, 1982, 4-5, p. 181.
40 Cfr. G. Sangiorgi, Piazza del Gesù. La Democrazia cristiana negli anni Ottanta: un diario politico, Milano 2005, pp. 141, 519, 648.
41 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III/1, 1980, Città del Vaticano 1981, p. 1507.
42 A. Ballestrero, Autoritratto di una vita. Padre Anastasio si racconta, Roma 2002, pp. 296-298.
43 Cfr. A. Riccardi, La Chiesa in Italia da Paolo VI a Giovanni Paolo II, «La Rivista del clero italiano», 86, 2005, 7-8, p. 523.
44 A colloquio con Dossetti e Lazzati, cit., p. 99.
45 Cfr. G. Brunelli, Le note di Loreto: maturità e «parresia», «Il Regno-attualità», 30, 1985, 10, pp. 280-281.
46 Sulla celebrazione del convegno di Loreto si veda ora il saggio di Alessandro Santagata nella presente opera.
47 Secondo la testimonianza resa successivamente dall’allora presidente della Cei il movimento di don Giussani fece anche «di tutto per fare cambiare i relatori (il cardinale Salvatore Pappalardo, il teologo Bruno Forte, il professor Armando Rigobello). E Cl non ne voleva sapere, Perché non erano i suoi»: Ballestrero, Autoritratto di una vita, cit., p. 307.
48 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII/1, 1984, Città del Vaticano 1984, p. 1177.
49 Cfr. M. Garzonio, Il Cardinale. Il valore per la Chiesa e per il mondo dell’episcopato di Carlo Maria Martini, Milano 2002, pp. 88, 398.
50 C. Ruini, L’impatto di Giovanni Paolo II sull’Italia e sulla Chiesa italiana, in Shock Wojtyla, cit., p. 449.
51 C. Ruini, Il documento vaticano sulla teologia della liberazione: contesto, contenuto e significato, «Quaderni del centro Giovanni XXIII», 1984, 4, pp. 3-13; poi ripreso in Id., Il Vangelo nella nostra storia. Chiesa, cultura e società in Italia, Roma 1989, pp. 246-270.
52 C. Ruini, Le indicazioni cultural-politiche del Concilio, «Quaderni del centro Giovanni XXIII», 1982, 1, p. 14 (relazione riassunta da C. Agosti).
53 Cfr. Il Concilio Vaticano II e le linee portanti della cultura occidentale. STAB, Anno Accademico 1982-83. Dispense del corso del Prof. Camillo Ruini, cicl., 138 pp.
54 C. Ruini, Occidente e Concilio: una riflessione, «Quaderni del centro Giovanni XXIII», 1982, 3, pp. 8-9. È da rilevare che pochi mesi prima, nell’ambito delle attività del Centro animato da don Ruini, era intervenuto Ermanno Dossetti, che aveva parlato dei rischi della scelta dell’occidentalismo come fattore che poteva impedire l’attività di riflessione e di proposta dei cattolici impegnati in politica: cfr. E. Dossetti, Il passaggio (dopo il referendum e la presidenza laica): quale strategia?, «Quaderni del centro Giovanni XXIII», 1982, 1, p. 5.
55 B. Forte, Il cammino della Chiesa in Italia dopo il Concilio, in Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini, Atti del II Convegno ecclesiale (Loreto 1985), Roma 1985, p. 107.
56 Cfr. S. Oder, S. Gaeta, Perché è santo. Il vero Giovanni Paolo II raccontato dal postulatore della causa di beatificazione, Milano 2010, p. 89; cfr. anche V. Gigante, Camillo Ruini, il cardinale del ventennio, «Adista», 41, 2007, 34, p. 5.
57 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII/1, 1985, Città del Vaticano 1985, pp. 989-1005.
58 Cfr. G. Frosini, I convegni ecclesiali della Chiesa italiana, in A. Acerbi, G. Frosini, Cinquant’anni di Chiesa in Italia. I convegni ecclesiali da Roma a Verona, Bologna 2006, p. 146.
59 C. Ruini, Il Vangelo nella nostra storia. Chiesa, cultura e società in Italia, Roma 1989, p. 107; originariamente in «La rivista del clero italiano», 66, 1985, 7-8, pp. 483-493.
60 Cfr. Riconciliazione cristiana e comunità, cit., p. 463.
61 C. Ruini, Il cammino dottrinale e pastorale della chiesa italiana, «Il Regno-documenti», 32, 1987, 7, p. 221.
62 M. Impagliazzo, La diocesi del Papa. La Chiesa di Roma e gli anni di Paolo VI (1963-1978), Milano 2006, pp. 129-184.
63 Cfr. L. Prezzi, Quattro indicazioni programmatiche per la chiesa italiana. Intervista al presidente CEI, card. U. Poletti, «Il Regno-attualità», 30, 1985, 22, pp. 573-574.
64 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IX/1, 1986, Città del Vaticano 1986, p. 139.
65 C. Ruini, L’impatto di Giovanni Paolo II sull’Italia e sulla Chiesa italiana, in Shock Wojtyla, cit., pp. 448-449.
66 Cfr. A. Acerbi, La Chiesa italiana dalla conclusione del Concilio alla fine della Democrazia Cristiana, in La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di A. Acerbi, Milano 2003, p. 495.
67 Ibidem, p. 496.
68 Ibidem, p. 497.
69 I filo-ciellini dell’Azione Cattolica abbandonano i loro incarichi. Ha inizio la resa dei conti?, «Adista», 20, 1986, 7, p. 5.
70 Cfr. V. Gigante, Camillo Ruini, il cardinale del ventennio, cit., pp. 5-7.
71 Cfr. G. Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nell’Italia del ’900, Trento 2008, pp. 181-187.
72 Censiti da D. Menozzi, La chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993, pp. 240-255; cfr. anche G. Battelli, Cattolici, cit., pp. 183-187.
73 A. Del Noce, introduzione a A. Socci, R. Fontolan, Tredici anni della nostra storia, 1974-1987, supplemento a «Il Sabato», 1988, 13, p. 3.
74 G. Sangiorgi, Piazza del Gesù, cit., p. 572.
75 Cfr. C. Maccari, Quel garofano che non fiorisce, «Avvenire», 26 agosto 1988, p. 5.
76 Cfr. D. Del Rio, Sul caso Lazzati la CEI sceglie di non schierarsi. Le dichiarazioni del segretario Ruini, «la Repubblica», 22 marzo 1988, p. 8.
77 Cfr. V. Gigante, Camillo Ruini, il cardinale del ventennio, cit., p. 7.
78 Ibidem.
79 Cfr. P. Trionfini, G. Vecchio, L’Italia contemporanea. Un profilo storico (1938-2008), Bologna 2008, pp. 317-319.
80 I vescovi condannano Pintacuda e si appellano all’unità dei cattolici. La Conferenza Episcopale si è schierata con il capo dello Stato, «la Repubblica», 25 settembre 1990, p. 2.
81 La formazione all’impegno sociale e politico. Nota pastorale della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro [1° maggio 1989], in ECEI, IV, 1986-1990, Bologna 1991, pp. 833-852.
82 «Rapporti col mondo politico, sì, scuole-quadri di partito, no». Chiuso a Roma il convegno della Cei, «Avvenire», 4 giugno 1989, p. 4.
83 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV/1, 1991, Città del Vaticano 1993, pp. 130-131.
84 Cfr. P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita, a cura di G. Tognon, Roma-Bari 2006, p. 154.
85 Cfr. Sul momento attuale della vita del Paese. Nota della presidenza CEI [9 maggio 1987] e Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno. Documento dei Vescovi italiani [18 ottobre 1989], in ECEI, IV, cit., pp. 399-402, 978-1006.
86 Cfr. le prolusioni al Consiglio episcopale permanente della Cei del 23 settembre 1991, 13 gennaio 1992 e 9 marzo 1992 in C. Ruini, Chiesa del nostro tempo. Prolusioni 1991-1996, Casale Monferrato 1996, pp. 63, 74-75, 85.
87 Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali per gli anni ’90, in ECEI, IV, cit., pp. 1391-1392.
88 A. Acerbi, La Chiesa italiana dalla conclusione, cit., p. 500.
89 E. Galli della Loggia, C. Ruini, Confini, cit., p. 82.
90 Conferenza Episcopale Italiana, Atti della XXXV Assemblea generale (Roma 1992), Roma 1992, p. 429.
91 Cfr. V. Gigante, Camillo Ruini, il cardinale del ventennio, cit., p. 12.
92 Cfr. S. Oder, S. Gaeta, Perché è santo, cit., pp. 122-123; cfr. anche C. Ruini, Chiesa del nostro tempo. Prolusioni 1991-1996, cit., p. 85.
93 Presenza unita dei cristiani nella vita sociale e politica. Messaggio della presidenza della CEI [30 giugno 1993], in ECEI, V, 1991-1995, Bologna 1996, p. 892.
94 Cfr. gli interventi al Consiglio episcopale permanente del 9 marzo 1992 e alla XXXVII Assemblea generale della Cei del 10 maggio 1993 in C. Ruini, Chiesa del nostro tempo. Prolusioni 1991-1996, cit., pp. 76 e 191.
95 Ibidem, pp. 63, 315.
96 Cfr. M. Martinazzoli, A. Valle, Uno strano democristiano, Milano 2009, p. 159.
97 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVI/1, 1993, Città del Vaticano 1995, p. 1209.
98 C. Ruini, Chiesa del nostro tempo. Prolusioni 1991-1996, cit., pp. 218-219.
99 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVII/1, 1994, Città del Vaticano 1996, pp. 45-52; cfr. anche C. Ruini, Chiesa del nostro tempo. Prolusioni 1991-1996, cit., p. 266.
100 C. Ruini, Chiesa del nostro tempo. Prolusioni 1991-1996, cit., p. 314.
101 Cfr. L. Prezzi, Il mondo cattolico è finito?, in Chiesa in Italia, 1994-1995, supplemento a «Il Regno», 1995, 10, p. 111.
102 C. Ruini, Chiesa del nostro tempo. Prolusioni 1991-1996, cit., p. 264.
103 Cfr. P. Castagnetti, Un maestro di molte generazioni, in Dossetti a Rossena. I piani e i tempi dell’impegno politico, a cura di R. Villa, Reggio Emilia 2008, p. 15.
104 Cfr. U. Allegretti, Dossetti, difesa e sviluppo della Costituzione, in Giuseppe Dossetti: la fede e la storia. Studi nel decennale della morte, a cura di A. Melloni, Bologna 2007, pp. 67-146.
105 C. Ruini, Chiesa del nostro tempo. Prolusioni 1991-1996, cit., p. 263.
106 Ibidem, pp. 314-315.
107 G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico 1990-1996, Roma-Bari 1997, pp. 167-168, 173-174.
108 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVIII/2, 1998, Città del Vaticano 1991, p. 1204.
109 C.M. Martini, Parola alla Chiesa, parola alla città, Bologna 2002, p. 1557.
110 C. Ruini, Evangelizzazione e testimonianza della carità nel ministero del Cardinale Giacomo Lercaro, in L’eredità pastorale di Giacomo Lercaro. Studi e testimonianze, a cura del Centro servizi generali dell’arcidiocesi di Bologna, Bologna 1992, p. 310.
111 C. Ruini, Chiesa del nostro tempo. Prolusioni 1991-1996, cit., p. 292.
112 C. Ruini, Dalla Parola alla cultura, «Vita e pensiero», 70, 1985, 5, pp. 322-338; ripreso in Id., Il Vangelo nella nostra storia. Chiesa, cultura e società in Italia, Roma 1989, pp. 37-59. Importante anche il lungo inciso compiuto nel 1992 in occasione della commemorazione del cardinale Lercaro a Bologna, dove Ruini aveva indicato tra l’altro che «in una cultura che nega la complessità dell’uomo – riducendolo a un elemento della natura o, di contro, pretendendo di negare i condizionamenti e le dipendenze che l’uomo ha nei confronti della natura stessa – occorre far riemergere, attraverso la libertà rivelata, la verità antropologica, restituire l’uomo al suo vero essere e al suo vero destino: riconoscere la solidarietà dell’uomo con la natura, e nello stesso tempo riconoscere la sua trascendenza sulla natura»: C. Ruini, Evangelizzazione e testimonianza della carità nel ministero del Cardinale Giacomo Lercaro, cit., p. 323.
113 C. Ruini, Chiesa del nostro tempo. Prolusioni 1991-1996, cit., p. 278.
114 Cfr. A. Melloni, L’occasione perduta, cit., pp. 92-93.
115 Cfr. A.F., Antonio Poma, padre della CEI, «Regno-attualità», 30, 1985, 18, p. 467.
116 Cfr. Il pluralismo e la coerenza. Intervista a Romano Prodi, a cura di G. Brunelli, «Il Regno-attualità», 40, 1995, 8, p. 195.
117 Cfr. R. Prodi, Rinascita ed autonomia del civile nella vita economica, in Società politica e società civile in Italia: prospettive oltre la crisi, a cura di P. Colliva, Bologna 1978, p. 60.
118 Scenario nuovo, incognite antiche, «Avvenire», 23 aprile 1996, p. 11.
119 Cfr. C. Ruini, Chiesa del nostro tempo, II, Prolusioni 1991-1996, Casale Monferrato 2001.
120 E. Galli della Loggia, C. Ruini, Confini, cit., p. 54.
121 C. Ruini, Che cos’è la libertà per la Chiesa, «Corriere della sera», 12 dicembre 1999, p. 5.
122 È una decisione che si iscrive nella più generale tendenza di Giovanni Paolo II di non privarsi, nella fase finale del pontificato, di quei collaboratori di fiducia – come il Segretario di Stato Angelo Sodano e il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger – pure giunti oltre la scadenza naturale del loro mandato.
123 Nell’editoriale che esce sul quotidiano della Cei si rileva che con il voto del 13 maggio 2001 «comincia una nuova stagione del “fare” in un’Italia che vuol continuare a crescere e che reclama determinazione, trasparenza, equilibrio e serenità»; M. Tarquinio, Un vincitore, anzi due (col bipolarismo), «Avvenire», 15 maggio 2001, p. 1.
124 C. Ruini, Chiesa del nostro tempo, III, cit., p. 16.
125 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXIV/1, 2001, Città del Vaticano 2003, p. 985.
126 C. Ruini, Chiesa del nostro tempo, III, cit., pp. 195-196.
127 Ibidem, p. 273.
128 ECEI, V, cit., p. 208.
129 G.G. Vecchi, Dai condoni al falso in bilancio. Castagnetti critica il «silenzio» dei vescovi, «Corriere della sera», 2 dicembre 2002, p. 11; cfr. anche F. Monaco, Cari vescovi, perché tanto silenzio sull’Italia?, «Jesus», 25, 2003, 10, pp. 6-7; B. Sorge, Il silenzio dei vescovi sull’Italia, «Aggiornamenti sociali», 55, 2004, 3, pp. 161-166.
130 Cfr. Diavolo edonista, «L’Espresso», 12-19 dicembre 2002.
131 E. Galli della Loggia, C. Ruini, Confini, cit., p. 75.
132 Cfr. G. Formigoni, La lunga stagione di Ruini, «Il Mulino», 54, 2005, 5, pp. 840-841.
133 Cfr. C. Ruini, Nuovi segni dei tempi. Le sorti della fede nell’età dei mutamenti, Milano 2006, p. 69 (introduzione ai lavori della 44a Settimana sociale dei cattolici italiani, 7 ottobre 2004).
134 Cfr. A. Parisi, Scelte e riconoscibilità del cristiano nella transizione italiana, in Non passare oltre. I cristiani e la vita pubblica in Europa, Bologna 2003, pp. 103-104.
135 Cfr. Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, XXI, 2002, Bologna 2005, pp. 1022-1037.
136 Cfr. A. Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Padova 2007.
137 Cfr. C. Ruini, Chiesa contestata. 10 tesi a sostegno del cattolicesimo, Casale Monferrato 2007.
138 Cfr. G. Miccoli, In difesa della fede. La Chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Milano 2007, p. 192.
139 C. Ruini, «Morti in una nobile missione li affidiamo a Dio uno per uno», «Avvenire», 19 novembre 2003, p. 5.
140 Cfr. V. Gigante, Camillo Ruini, il cardinale del ventennio, cit., pp. 19-20.
141 Cfr. M. Politi, La Chiesa del no. Indagine sugli italiani e la libertà di coscienza, Milano 2009, pp. 126-129.
142 Intervento conclusivo di S.Em. il Card. Camillo Ruini, in Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, Atti del IV Convegno ecclesiale nazionale (Verona 2006), Bologna 2008, p. 539.
143 74,1%. Un’Italia adulta, titola a caratteri cubitali «Avvenire», 14 giugno 2005, p. 1. Il 28 giugno 2009 sarà lo stesso Benedetto XVI a stigmatizzare indirettamente la posizione assunta dal presidente Prodi indicando come «la parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Ma lo si intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere o non credere – una fede “fai da te” quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire al magistero della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo»: cit. in G. Miccoli, Prima e dopo il Vaticano II: a proposito di una continuità dimenticata, in Tutto è grazia. In omaggio a Giuseppe Ruggieri, a cura di A. Melloni, Milano 2010, p. 353.
144 P. Welby, Lasciatemi morire, Milano 2006.
145 Cfr. M. Politi, La Chiesa del no, cit., p. 30.
146 Intervento conclusivo di S.Em. il Card. Camillo Ruini, cit., p. 551.
147 Cfr. L. Palmerini, Romano e Camillo, eravamo tanto amici, «Il Sole-24 Ore», 26 marzo 2010, p. 14.
148 Il perché del nostro leale «non possumus». Circa la bozza sulle unioni di fatto, «Avvenire», 6 febbraio 2007, p. 1.
149 Il riconoscimento legale delle unioni omosessuali, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, XXII, 2003-2004, Bologna 2006, pp. 325-335.
150 Così il 13 maggio 2006 Benedetto XVI invitava politici e legislatori a salvaguardare «i diritti della famiglia. È noto infatti come vadano accreditandosi soluzioni giuridiche per le cosiddette “unioni di fatto” che, pur rifiutando gli obblighi del matrimonio, pretendono di godere di diritti equivalenti»; il 18 maggio affermava come le «pseudo-forms of ‘marriage’ distort the Creator’s design and undermine the truth of our human nature»; il 28 settembre poneva «an erster Stelle den im Grundgesetz verbrieften Schutz von Ehe und Familie, der auf Grund eines sich verändernden Verständnisses ehelicher Gemeinschaft in der politischen Öffentlichkeit einerseits und neuer vom Gesetzgeber vorgesehener Formen, die sich von der natürlichen Familie entfernen, andererseits von der Aushöhlung bedroht ist»; l’8 gennaio 2007 stigmatizzava le «menaces contre la structure naturelle de la famille, fondée sur le mariage d’un homme et d’une femme, et des tentatives de la relativiser en lui donnant le même statut que d’autres formes d’union radicalement différentes»; l’11 gennaio definiva «pericolosi e controproducenti quei progetti che puntano ad attribuire ad altre forme di unione impropri riconoscimenti giuridici, finendo inevitabilmente per indebolire e destabilizzare la famiglia legittima fondata sul matrimonio»; il 12 febbraio 2007 – il giorno stesso in cui interveniva Ruini – il papa, riferendosi precisamente alla famiglia, affermava ancora che «nessuna legge fatta dagli uomini può perciò sovvertire la norma scritta dal Creatore, senza che la società venga drammaticamente ferita in ciò che costituisce il suo stesso fondamento basilare»: Insegnamenti di Benedetto XVI, II/1, 2006, Città del Vaticano 2007, pp. 590, 638; Insegnamenti di Benedetto XVI, II/2, 2006, Città del Vaticano 2007, p. 362; Insegnamenti di Benedetto XVI, III/1, 2007, Città del Vaticano 2008, pp. 40, 57, 211.
151 Cfr. R. Zuccolini, Ruini sui Dico: una nota impegnerà i cattolici, «Corriere della sera», 13 febbraio 2007, p. 14. La Nota del Consiglio Episcopale Permanente a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto verrà resa nota il 28 marzo 2007, dopo l’avvicendamento tra Ruini e Bagnasco: «Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana», 2007, 2, pp. 90-93.
152 R. Bindi, «Né consigli, né imperativi alla Chiesa», «La Stampa», 16 febbraio 2007, p. 15.
153 Cfr. A. Cazzullo, Leopoldo Elia: la Chiesa sbaglia, mai così intransigenti con un governo, «Corriere della sera», 13 febbraio 2007, p. 15.
154 Cfr. V. Ragone, L’altolà di Scalfaro a Ruini. «Sulla legge nessuna imposizione», «la Repubblica», 15 febbraio 2007, p. 13.
155 Cfr. A. Melloni, L’occasione perduta, cit., p. 105. Sull’origine dell’iniziativa di Alberigo si veda la Testimonianza della moglie Angelina Nicora in Giuseppe Alberigo (1926-2007). La figura e l’opera storiografica, «Cristianesimo nella storia», 29, 2008, 3, p. 907.
156 Cfr. A. Cazzullo, Ruini: solidarietà tardive al Papa, «Corriere della sera», 17 gennaio 2008, p. 10.
157 M. Marozzi, Prodi: «I leader della Cei sempre contro di me», «la Repubblica», 7 giugno 2008, p. 3.
158 R. Prodi, Quei cattolici che fecero laica l’Europa, «Il Sole-24 Ore», 25 marzo 2010, p. 13.
159 Intervento conclusivo di S.Em. il Card. Camillo Ruini, cit., p. 545.
160 Emblematico di ciò il passaggio della prima prolusione di monsignor Bagnasco dedicata al progetto legislativo dei Dico, definito «inaccettabile sul piano dei principi, ma anche pericoloso sul piano sociale ed educativo» La speranza cristiana nostra guida e motore, «Avvenire», 27 marzo 2007, p. 7.
161 Cfr. Lettera del Card. Tarcisio Bertone Segretario di Stato all’Arcivescovo Angelo Bagnasco, «L’Osservatore romano», 28 marzo 2007, p. 7.
162 Cfr. G. Alberigo, Vescovi. Le radici del nuovo potere temporale, «la Repubblica», 9 marzo 2007, p. 59.
163 Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, XVII, 1998, Bologna 2000, pp. 518-555.
164 Ibidem, pp. 508-517. Sulla questione si vedano G. Ruggieri, La politica dottrinale della curia romana nel postconcilio; A. Melloni, Definitivus/definitive, in Disciplinare la verità? A proposito del «motu proprio» Ad tuendam fidem, a cura di G. Ruggieri, «Cristianesimo nella storia», 21, 2000, 1, pp. 103-131, 171-205.
165 Cfr. Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Cinisello Balsamo 1985, p. 60.
166 Un puntuale inventario delle nomine episcopali italiane è rinvenibile, a partire dal 1992, nell’annale Chiesa in Italia della rivista «Il Regno» dei padri dehoniani di Bologna.
167 Cfr. E. Galli della Loggia, C. Ruini, Confini, cit., pp. 79-80.
168 C. Ruini, prefazione a K. Wojtyla, Alle fonti del rinnovamento. Studio sull’attuazione del Concilio Vaticano Secondo, Soveria Mannelli 2007, p. VII.
169 Cfr. E. Galli della Loggia, C. Ruini, Confini, cit., pp. 129-130.
170 Cfr. C. Ruini, «De Gasperi è vivo e illuminante», cit.
171 Cfr. P. Pombeni, Alle origini della proposta culturale di Giuseppe Dossetti (1 novembre 1946), «Cristianesimo nella storia», 1, 1980, 1, pp. 261-263.
172 Così in una dichiarazione resa in televisione il 6 giugno 2008, poche ore prima di incontrare in udienza Benedetto XVI: R. Monteforte, Scuole cattoliche, legge 40 e la benedizione vaticana, «L’Unità», 7 giugno 2008, p. 3.
173 Cfr. M. Politi, Ruini: Io sono un animale politico, «la Repubblica», 6 novembre 2007, p. 40.
174 Lettera di Benedetto XVI al Cardinale Camillo Ruini, «L’Osservatore romano», 28 marzo 2007, p. 1. D’altra parte si trattava di un merito che Ruini si era già attribuito pochi mesi prima intervenendo al Convegno ecclesiale di Verona, indicando che negli ultimi anni si erano rafforzati «i sentimenti e gli atteggiamenti di comunione tra le diverse componenti ecclesiali, e in particolare tra le aggregazioni laicali […]. È cresciuto inoltre, in maniera visibile, il ruolo della Chiesa e dei cattolici italiani in alcuni aspetti qualificanti della vita dell’Italia: in particolare nel porre all’attenzione di tutti il significato e le implicazioni della nuova questione antropologica», Intervento conclusivo di S.Em. il Card. Camillo Ruini, cit., p. 539.
175 Cfr. Insegnamenti di Benedetto XVI, IV/2, 2008, Città del Vaticano 2009, p. 229; G. Galeazzi, Bagnasco: è l’ora dei laici, «La Stampa», 18 maggio 2010, p. 14.
176 Cfr. V. Schiavazzi, Bindi e Castagnetti alla Chiesa: il «ruinismo» va chiuso, «Corriere della sera», 2 luglio 2007, p. 11.
177 G. Alberigo, Gedda ieri... e anche oggi?, «Cristianesimo nella storia», 21, 2000, 3, p. 690.
Desidero esprimere in questa sede un sentito ringraziamento a Nicola Apano, Carlo Cavicchioli, Daniele Pivetti ed Enrico Zini, che hanno avuto la cortesia e la pazienza di leggere queste pagine correggendomi e offrendomi consigli preziosi: confido di averne fatto tesoro, ma se così non fosse la responsabilità è totalmente mia. E.G.