Il ruolo economico dello Stato
Il ruolo dello Stato nelle economie capitalistiche è sempre stato definito dalla teoria economica sulla base di tre elementi: a) le modalità di funzionamento del sistema economico, considerato nella sua capacità di autoregolazione sotto il duplice aspetto della piena utilizzazione delle risorse produttive e della promozione dello sviluppo; b) le valutazioni di ordine equitativo riguardanti gli effetti che i meccanismi di mercato producono sulla distribuzione del reddito e della ricchezza e, quindi, sulla coesione sociale in senso lato; c) l’idoneità dei processi decisionali concretamente ipotizzabili a favorire scelte e comportamenti coerenti con un’ordinata evoluzione della vita economica.
Con riferimento al primo punto, la teoria neoclassica ha dimostrato che un sistema concorrenziale, verificate alcune condizioni, per una certa distribuzione delle risorse e in assenza di vincoli non riconducibili alla tecnologia e alla dotazione di fattori produttivi, è in grado di produrre risultati ottimali, nel senso dato al termine da Vilfredo Pareto (è impossibile raggiungere una configurazione di prezzi e quantità che comporti il miglioramento del livello di utilità di un individuo senza che a esso sia associata la diminuzione dell’utilità di almeno un altro individuo). Le condizioni che devono essere verificate perché sia possibile associare un sistema di concorrenza perfetta e l’ottimalità, nel senso inteso da Pareto, sono stringenti, in quanto riguardano l’informazione completa e simmetrica per tutti gli operatori economici, la completezza dei mercati, l’assenza di rendimenti crescenti di scala, oltre che l’inesistenza di esternalità e di beni pubblici. Dalla realistica ipotesi che alcune o tutte queste condizioni non siano in concreto verificate emerge un ruolo necessariamente di competenza dello Stato, complementare al (oppure sostitutivo del) funzionamento del sistema capitalistico.
Per quanto riguarda il secondo punto, la definizione in base a meccanismi di mercato delle remunerazioni dei titolari dei fattori produttivi e dell’allocazione dei diritti di proprietà, anche se coerente con principi di razionalità economica, può determinare processi di concentrazione del reddito o delle ricchezze incompatibili con il mantenimento di un equilibrio sociale riconducibile allo stesso concetto di democrazia politica. Da questa considerazione emerge un ruolo dell’autorità pubblica con finalità redistributive o di controllo della distribuzione del reddito, che trova concreta realizzazione con il sistema tributario e con la spesa pubblica a finalità sociale.
Infine, la stessa dinamica della vita politica in tutte le epoche storiche ha dimostrato che l’intervento pubblico nella sfera economica e sociale deve trovare un adeguato inquadramento in norme che regolino l’attività di governi e Parlamenti. Gli effetti disincentivanti prodotti da una pressione fiscale eccessiva o i fenomeni inflazionistici associabili a inappropriate forme di finanziamento dell’attività pubblica rappresentano, nella sostanza, manifestazioni di mancato rispetto di norme fondamentali.
L’individuazione del ruolo dello Stato all’inizio di questo secolo deve necessariamente partire da un esame delle aree problematiche prima indicate. Le conclusioni non possono tuttavia essere univoche, dipendendo essenzialmente dalla più generale impostazione ideologica dell’osservatore, oltre che dalle specifiche circostanze di carattere economico e sociale del Paese o dell’area politica oggetto di analisi. Un giudizio di rilevanza concreta, e di superabilità con appropriati interventi di politica economica, dei fattori di allontanamento dai presupposti analitici del modello concorrenziale, porta a conclusioni, in termini di estensione dell’intervento pubblico, più radicali di quanto non si verifichi quando si valuti fondamentalmente realistico il modello concorrenziale (o comunque in concreto non migliorabile). Analogamente, il diverso peso attribuibile agli effetti disincentivanti o alle considerazioni equitative porta a soluzioni non univoche per i problemi redistributivi. Infine, le stesse regole di governo della finanza pubblica trovano necessariamente fondamento e giustificazione nella lettura che viene data delle specifiche situazioni politiche ed economiche.
Le opzioni di fondo in tema di definizione del ruolo economico dello Stato possono essere colte, secondo il nostro giudizio, organizzando la materia in quattro nuclei: a) interventi nella sfera sociale, rientranti nell’ambito del welfare state; b) regolazione dei processi produttivi; c) sistema tributario; d) regole decisionali in materia di bilancio.
Interventi nella sfera sociale
Lo Stato sociale, o welfare state, è l’insieme delle istituzioni, pubbliche e private, che svolgono due funzioni essenziali: a) garantire a tutti i cittadini le risorse necessarie per un’esistenza dignitosa (cosiddetta funzione assistenziale); b) fornire copertura contro i grandi rischi dell’esistenza (ignoranza, malattia, vecchiaia e disoccupazione), a fronte dei quali le capacità individuali e le funzionalità di mercato sono limitate (funzione assicurativa).
In termini di teoria economica, sulla base dei sintetici riferimenti precedentemente fatti, nell’articolazione dello Stato sociale si possono individuare sia finalità di coesione sociale (quando si assicura a tutti i cittadini un minimo di risorse), sia, e più significativamente, finalità assicurative, giustificate dal venir meno di alcune delle condizioni che determinano l’ottimalità del meccanismo concorrenziale (Barr 2001). È su questa seconda funzione, a nostro giudizio predominante sia sul piano quantitativo sia sul piano dei principi ispiratori nella costituzione dello Stato sociale, che ci concentriamo in modo particolare. Con riferimento alle ipotesi sull’informazione, certamente si può affermare che l’individuo vive in condizione di informazione limitata in relazione all’accesso ad alcuni servizi (si pensi alla sanità); è inoltre tendenzialmente miope, ossia non in grado di prevedere adeguatamente il futuro, e si giustificano quindi forme sostitutive delle scelte individuali (si pensi all’istruzione obbligatoria o a meccanismi previdenziali non volontari). Con riferimento alla completezza dei mercati, nella realtà alcuni di quelli in cui gli individui potrebbero acquistare determinati beni o servizi da loro desiderati non esistono: la copertura assicurativa sanitaria privata è preclusa agli individui ad alto rischio, quali sono, per es., gli individui in età avanzata. Inoltre, le imprese private non sono tipicamente in grado di coprire i rischi sociali, quale l’inflazione, riuscendo pertanto fortemente limitata la possibilità di ottenere adeguate forme di garanzia contro la caduta del reddito reale nella vecchiaia.
Come sintetizza Kenneth J. Arrow (Uncertainty and the welfare economics of medical care, «The Amer-ican economic review», 1963, 53, 5, pp. 941-73), quando il mercato non è in grado di condurre a uno stato ottimale (come accade in un contesto di asimmetria informativa o d’incompletezza dei mercati), la società prenderà, almeno parzialmente, coscienza del problema e istituzioni sociali sorgeranno con il fine di migliorare gli esiti di mercato.
Le precedenti considerazioni spiegano per quale motivo in tutti i Paesi, e in particolare in quelli sviluppati, sia presente un sistema di protezione sociale strutturato. Ma la diversa lettura dei fallimenti di mercato, o dell’allontanamento dalle condizioni ottimali, spiega perché le concrete articolazioni siano anche molto differenziate.
In questo quadro è utile fare riferimento alla tradizionale classificazione dei modelli di welfare state: welfare pubblico, welfare aziendale e welfare fiscale. Nel welfare pubblico la copertura è tendenzialmente universale, anche se le prestazioni, in particolare quelle di natura previdenziale, sono differenziate, dipendendo dalla storia contributiva o retributiva individuale; il finanziamento deriva dai contributi sociali o dalla fiscalità generale. Nel welfare aziendale il diritto alla prestazione deriva da un contratto di lavoro con uno specifico datore, i cui effetti si possono estendere anche a un periodo successivo alla cessazione del rapporto. Le prestazioni sono finanziate da contributi a carico del datore di lavoro o del lavoratore. Il welfare fiscale si risolve invece nella concessione di agevolazioni sotto forma di deduzioni o di detrazioni d’imposta subordinate alla stipulazione di assicurazioni individuali o sanitarie o previdenziali; sono comunque previste forme di tutela destinate alle fasce più povere della popolazione.
I tre modelli nella realtà di ogni Paese si sovrappongono, non essendo possibile individuare un modello puro. È tuttavia possibile distinguere l’ispirazione fondamentale, e le linee di tendenza, nelle principali aree geografiche. È certo che il modello pubblico caratterizza i Paesi europei, con l’unica eccezione rilevante costituita dal sistema pensionistico del Regno Unito, che ha una forte componente non pubblica. Il modello aziendale è invece tipico degli Stati Uniti, sia per la sanità sia per la previdenza, anche se l’intervento diretto pubblico è molto importante in entrambi questi comparti del sistema di protezione sociale: per gli Stati Uniti è ragionevole parlare di sistema misto. Infine, il welfare fiscale, pur essendo riconoscibile in varia forma in tutti i Paesi, non ha avuto finora uno sviluppo organico: merita di essere tuttavia richiamato in questa sede, perché le proposte di riforma del welfare portate avanti negli Stati Uniti negli ultimi anni sembrano tendere a un rafforzamento della componente individuale previdenziale e alla progressiva introduzione di conti sanitari individuali, superando il modello di assicurazione fondato sul rapporto di lavoro. Sulla stessa linea di sviluppo delle componenti individuali si collocano inoltre le proposte di introduzione di vouchers scolastici, al fine di garantire la possibilità di scelta delle famiglie in un quadro di neutralità da parte dello Stato nel finanziamento delle scuole pubbliche e di quelle private.
La valutazione delle implicazioni dei diversi modelli di Stato sociale è essenziale in ogni analisi del ruolo dell’operatore pubblico, sia perché gli interventi per la protezione sociale costituiscono la componente più rilevante dell’azione delle amministrazioni pubbliche (sia direttamente attraverso la spesa, sia indirettamente attraverso le agevolazioni fiscali), sia perché le erogazioni assegnate alla protezione sociale sembrano destinate ad aumentare in futuro, se non altro per ragioni di carattere demografico. Gli effetti del welfare state saranno di seguito considerati sotto diverse angolature: universalismo, collocazione del rischio e sostenibilità macroeconomica.
L’universalismo
Al di là di specifiche articolazioni, il welfare pubblico è tendenzialmente universalistico. L’assistenza sanitaria è riconosciuta a tutti i cittadini senza che, in teoria, sia ammessa alcuna discriminazione sulla base del reddito individuale, configurando il diritto alla salute come un diritto di cittadinanza. Il diritto alla pensione è esteso a tutta la popolazione, o perché deriva da un precedente rapporto di lavoro o perché manifestazione di una componente strettamente assistenziale, sotto forma di assegno o pensione sociale. In tutti i Paesi, in forme più o meno strutturate o con vincoli all’accesso più o meno stringenti, la comunità si fa carico delle situazioni di indigenza.
All’ispirazione universalistica non corrisponde tuttavia omogeneità delle prestazioni per alcuni importanti comparti. Escludendo la sanità, le pensioni pubbliche sono nei Paesi europei differenziate in ragione della storia contributiva o retributiva individuale. Quando si fa riferimento alla storia reddituale, le prestazioni tendono a garantire, in condizioni di massima durata del rapporto di lavoro, il mantenimento del tenore di vita nel periodo di pensionamento. Quando si fa riferimento alla storia contributiva, si garantisce un’uguaglianza di rendimento dei contributi versati. Per quanto riguarda invece l’istruzione, al di là della scuola dell’obbligo, l’accesso ai gradi superiori viene nella maggior parte dei casi a dipendere dal merito individuale in un contesto di finanziamento fondato sulla fiscalità generale.
Con riferimento a sanità e previdenza, le conseguenze del welfare aziendale sono diverse in termini di accesso rispetto a quello pubblico. Negli Stati Uniti il sistema pensionistico privato copre la totalità dei dipendenti pubblici e circa il 50% di quelli privati. Nel settore privato la partecipazione non è peraltro distribuita in modo omogeneo, aumentando al crescere del reddito, oltre a essere più elevata nelle grandi imprese, nei settori sindacalizzati e fra i lavoratori a tempo pieno. Una distribuzione analoga vale per le assicurazioni sanitarie private promosse dai datori di lavoro (Artoni, Casarico 2008).
L’accesso relativamente circoscritto al welfare aziendale spiega la presenza di significative componenti pubbliche negli Stati Uniti. La Social security eroga prestazioni decrescenti al crescere del reddito alla generalità dei lavoratori, per importi comunque relativamente bassi: solo i lavoratori che godono della doppia protezione pubblica e privata raggiungono prestazioni assimilabili a quelle europee. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, due importanti programmi pubblici (Medicaid e Medicare) sono destinati a poveri e anziani, rimanendo comunque non assicurato circa il 17% della popolazione.
Non è possibile in questa sede interrogarsi sulle cause che hanno portato negli Stati Uniti a un modello sostanzialmente discriminante fra i diversi segmenti della popolazione. Qui è possibile solo accennare al fatto che la presenza di forti minoranze etniche, rinnovatesi nel tempo, ha reso possibile limitare il pieno accesso al sistema della protezione sociale. Si può ancora ricordare che il sindacato americano è stato tradizionalmente più corporativo e legato a specifiche realtà aziendali. Questo ha portato a ricercare benefici legati all’appartenenza a grandi imprese, o al settore pubblico, senza che analoga attenzione fosse rivolta alla generalità della popolazione.
In estrema sintesi, si può affermare che il welfare aziendale e quello pubblico si distinguono fortemente per l’elemento universalistico, presente soltanto nel secondo. Rimane il fatto che anche in modelli caratterizzati dal welfare aziendale la presenza pubblica è comunque consistente (negli Stati Uniti la spesa pubblica per welfare raggiunge circa il 12%, un livello analogo a quella privata).
Nelle forme che va assumendo, il welfare fiscale si può ritenere un’evoluzione di quello aziendale: si riduce fortemente il ruolo del datore di lavoro che, in linea generale, viene sostituito da agevolazioni fiscali finalizzate a ridurre il costo dell’accesso, in particolare, ad assicurazioni sanitarie e previdenziali. In questo caso emerge il problema della capacità di larghe fasce della popolazione di far fronte agli oneri corrispondenti; si può ragionevolmente ritenere che i problemi di copertura universalistica, di garanzia di prestazioni adeguate sul piano quantitativo e qualitativo, si accentueranno ulteriormente nel welfare fiscale rispetto a quello aziendale.
La collocazione del rischio
Nei modelli pubblici, che si articolano e si fondano per il loro finanziamento sul potere impositivo dell’autorità pubblica, il rischio di inadeguatezza o di annullamento delle prestazioni è a carico della collettività che, in linea di principio, è in grado di rispondere a shock di segno negativo.
Nel welfare aziendale il rischio è posto a carico dell’impresa. Storicamente il welfare aziendale, nelle forme assunte negli Stati Uniti, è stato associato alla crescita delle grandi imprese manifatturiere, in grado di garantire ai loro dipendenti rilevanti benefici sotto forma di piani sanitari e di piani pensionistici; nelle forme previdenziali era caratteristica la commisurazione della prestazione al salario raggiunto nella fase finale della vita lavorativa. In questi piani, a beneficio definito, il rischio in caso di evoluzione negativa per mancata costituzione delle riserve oppure per cattivo andamento dei mercati finanziari era interamente a carico delle imprese, così come a loro carico era il rischio connesso all’allungamento della vita media dei lavoratori in pensione o all’aumento delle spese mediche, quando l’assistenza sanitaria si estendeva al periodo del pensionamento.
Le modifiche nella struttura economica mondiale, con l’indebolimento relativo dei settori manifatturieri nei Paesi di originaria industrializzazione, spiegano perché in molte imprese sia diventato arduo il mantenimento delle prestazioni ai livelli previsti dai piani originari. Dal punto di vista istituzionale, è stato avviato un processo di trasformazione dei piani pensionistici che progressivamente hanno abbandonato il beneficio definito per spostarsi alla contribuzione definita (in cui la prestazione dipende dall’andamento dei mercati finanziari), con la conseguente attribuzione del rischio al singolo lavoratore. In sintesi, le modifiche intervenute negli ultimi anni sono state caratterizzate dallo spostamento del rischio dalle imprese ai lavoratori, avviando la formazione, in alcuni casi, o il rafforzamento, in altri, di un welfare fondato su contratti individuali.
Come abbiamo già osservato, in molti Paesi le linee di riforma, attuate o annunciate, si muovono in questo senso. Nell’individuazione del ruolo dello Stato, ci si deve chiedere fino a che punto l’individuo è in grado di accollarsi rischi, sia pure attraverso la mediazione assicurativa, che investono la sua esistenza in un contesto di radicale incertezza sugli andamenti economici e demografici o per eventi che investono la generalità della popolazione. Si pongono in altri termini due problemi: la capacità individuale di sostenere gli oneri assicurativi e la capacità dei meccanismi assicurativi privati di fronteggiare i rischi sociali.
La sostenibilità macroeconomica
Nella gestione di un sistema di protezione sociale, compito fondamentale dello Stato è il mantenimento di condizioni di sostenibilità macroeconomica. Nei Paesi sviluppati, le prestazioni sociali, comprensive delle componenti private e al netto delle imposte gravanti sulle stesse prestazioni, si sono collocate negli ultimi anni fra il 25% del prodotto interno lordo (PIL) in Italia e negli Stati Uniti e il 30% in Germania, Francia e Paesi scandinavi.
Le prospettive per i due comparti fondamentali della previdenza e della sanità sono determinate essenzialmente dall’evoluzione demografica: si prevedono, infatti, un rilevante allungamento della vita media, con il conseguente aumento della popolazione anziana, e tassi di natalità a livelli contenuti in molti Paesi. Conseguentemente, le previsioni economiche, per quanto di lunghissimo periodo, indicano un cospicuo aumento, assoluto e relativo, delle spese sociali. La Social security americana, in assenza di qualsiasi intervento normativo, dovrebbe esaurire le sue riserve finanziarie nel 2052 (anche se pochi anni fa il limite era posto al 2030). Gli interventi specifici su un sistema pubblico, se preservato nelle sue caratteristiche essenziali, devono riguardare il controllo della dinamica delle prestazioni. Nel settore pensionistico sono già stati attuati numerosi interventi finalizzati al contenimento della spesa attraverso lo spostamento in avanti nell’età di pensionamento o la riduzione delle prestazioni potenzialmente ottenibili. Risulta tuttavia evidente che la riduzione delle prestazioni non deve compromettere radicalmente l’obiettivo del mantenimento di un ragionevole tenore di vita dopo la cessazione dell’attività lavorativa. Nonostante la spesa cresca in termini di prodotto interno, l’aumento della quota di popolazione anziana comporterà infatti un allargamento del divario tra il reddito medio pro capite di quella attiva e le pensioni.
Nel settore sanitario i sistemi pubblici, attraverso la definizione centralizzata del livello delle remunerazioni e di altre voci di spesa, hanno sempre garantito una dinamica moderata degli esborsi. Anche in questo caso un eccesso di contenimento della spesa, oppure remunerazioni inadeguate, provocano lo svuotamento del servizio pubblico e la conseguente ricerca di modalità di cura alternative.
La delimitazione sostanziale del livello delle prestazioni o della loro accessibilità comporterebbe, di fatto, lo spostamento della responsabilità nella fornitura dei servizi dalla collettività ad altri, siano essi imprese o individui. L’esperienza di alcuni Paesi dimostra che in presenza di domanda rigida, come accade per la sanità, esiste un’ineliminabile tendenza all’aumento del prezzo della prestazione. Qui basti ricordare che negli Stati Uniti i premi assicurativi pagati dalle imprese sono cresciuti negli ultimi anni a un tasso del 10% contro un tasso d’inflazione media del 3%. Sotto questo aspetto si dà un’ulteriore ragione dell’esistenza nei sistemi sanitari a orientamento privato di importanti componenti pubbliche.
Si può concludere questo punto osservando che non esistono soluzioni semplici per il problema del contenimento della spesa sociale. La riduzione della spesa può essere in alcuni casi giustificata come necessaria per la compatibilità con l’evoluzione demografica. Occorre però tenere in dovuta considerazione che la conseguente limitazione delle prestazioni può compromettere obiettivi essenziali di copertura da rischi fondamentali, sovvertendo alcune priorità che dovrebbero essere osservate nella vita collettiva. Nel caso in cui poi la dinamica dei costi degli operatori privati non sia facilmente controllabile, il contenimento della spesa attraverso lo spostamento delle competenze dal settore pubblico a quello privato è molto spesso soltanto apparente.
La sostenibilità non solo economica, ma anche sociale, di un compiuto sistema di protezione dipenderà in generale dai tassi di crescita che si riusciranno a realizzare: tassi di crescita medi annui del prodotto reale dell’ordine del 2% si ritiene renderanno relativamente agevole la soluzione dei problemi di sostenibilità che si manifesteranno.
Regolazione dei processi produttivi
L’ottimalità di un meccanismo di mercato concorrenziale richiede la presenza di una pluralità di operatori, oppure un tendenziale equilibrio nel potere contrattuale quando si confrontino due parti con interessi contrapposti: le configurazioni di mercato non devono in altri termini portare alla formazione di rendite di monopolio, comunque originate.
Considerando la prima ipotesi, una pluralità di imprese non può mantenersi nel tempo in presenza di rendimenti crescenti di scala (che si hanno quando il costo medio diminuisce all’aumentare dei livelli produttivi); è economicamente efficiente la concentrazione della produzione presso un numero estremamente ridotto d’imprese e, al limite, presso una. Questa situazione, definita monopolio naturale, è tipica delle imprese di pubblica utilità (per es., produzione e distribuzione dell’energia elettrica e del gas, telecomunicazioni e trasporti). Considerando la seconda ipotesi, le asimmetrie di potere contrattuale sono invece tipiche del mercato del lavoro.
Gli interventi nel settore delle pubbliche utilità e le misure volte a regolare il mercato del lavoro sono manifestazioni del ruolo economico dello Stato, secondo modalità che si sono modificate radicalmente nel corso degli ultimi decenni.
Le pubbliche utilità
In tutta l’Europa occidentale è stata tradizionalmente dominante la proprietà pubblica, centrale o locale, nei settori dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni. Alla base di questa scelta stavano, in primo luogo, motivazioni di ordine tecnologico cui abbiamo già accennato: in presenza di rendimenti crescenti di scala è giustificata la presenza di una sola impresa. Il comportamento di tale impresa, se la proprietà fosse privata, dovrebbe essere disciplinato dall’autorità pubblica. D’altro canto la tariffazione efficiente, che richiede un prezzo uguale al costo marginale, avrebbe comportato un prezzo inferiore al costo medio di produzione e quindi profitti negativi per l’impresa. L’autorità pubblica, ove avesse assunto come obiettivo l’efficienza economica, avrebbe dovuto erogare sussidi di non facile definizione e comunque portatori di contaminazione fra interessi privati e decisioni pubbliche.
Oltre a considerazioni di efficienza microeconomica statica, la scelta della proprietà pubblica è stata anche ricondotta al riconoscimento che le imprese di pubblica utilità erano e sono produttrici di forti esternalità: in Paesi che non avevano ancora raggiunto il pieno sviluppo economico, il potenziamento di questi settori era giudicato una precondizione per accelerarne il processo di crescita. Questa considerazione ha motivato, in molti casi, la scelta della nazionalizzazione di settori di pubblica utilità nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. La nazionalizzazione ha poi comportato processi di concentrazione e razionalizzazione produttiva, oltre che stimolato l’accumulazione attraverso una forte spinta agli investimenti. Si noti che, in questo processo, le imprese di pubblica utilità si sono molto spesso verticalmente integrate, coprendo tutti gli stadi della produzione e della distribuzione. Non si dubitava inoltre che ci fosse coincidenza fra comportamento delle imprese e interessi generali, non ritenendosi rilevanti i fenomeni di cattiva gestione o di collusione con il potere politico.
Sulla base di importanti elaborazioni analitiche, l’atteggiamento di favore, teorico e pratico, nei confronti delle imprese pubbliche è rapidamente cambiato: a partire dagli anni Ottanta, in tutti i Paesi sviluppati e in via di sviluppo, è stato quindi avviato un importante processo di privatizzazione che ha fortemente ridotto l’area di proprietà pubblica. Si è in primo luogo sostenuto che la situazione di monopolio naturale era relativamente circoscritta e certamente non riconoscibile nell’intera filiera produttiva: in particolare nel settore elettrico la produzione e la vendita all’ingrosso si potevano svolgere in un quadro concorrenziale, mentre il monopolio poteva essere riconosciuto nella fase della trasmissione ed eventualmente in quella della distribuzione. Da qui sono derivati i numerosi interventi finalizzati alla liberalizzazione dei settori potenzialmente competitivi e alla disintegrazione verticale della filiera produttiva, fino a quel momento facente capo a una sola impresa.
È stato inoltre affermato che la proprietà pubblica era, in quanto tale, tendenzialmente inefficiente o comunque meno efficiente di quella privata. Alla luce di queste considerazioni si è dato avvio a importanti processi di modificazione degli assetti proprietari, con il passaggio di quote azionarie, anche se non sempre del controllo, a operatori privati. Il permanere di fasi di monopolio naturale, per es. nella fase di trasmissione o per ‘l’ultimo miglio’, e il riconoscimento che l’attivazione di un meccanismo di mercato effettivamente concorrenziale avrebbe richiesto del tempo, sempre se realizzabile, hanno tuttavia portato all’introduzione universale di autorità di controllo e di regolazione del comportamento degli operatori ormai svincolati dal riferimento pubblico. Le autorità fissano in particolare l’evoluzione dei prezzi, utilizzando opportuni meccanismi d’incentivazione all’efficienza. È stato infine sostenuto che solo nei meccanismi di mercato le imprese avrebbero trovato la spinta a sviluppare la capacità produttiva sulla base di corretti criteri di razionalità economica, evitando le suggestioni programmatorie proprie delle imprese pubbliche controllate dal potere politico.
Il processo di riorganizzazione produttiva e di ridefinizione degli assetti proprietari delle imprese di pubblica utilità è ancora in corso, con la conseguenza che non è facile fornirne una valutazione compiuta.
Per alcuni settori, come le telecomunicazioni, l’evoluzione tecnologica ha portato al superamento di molte delle barriere preesistenti con la creazione di contesti ragionevolmente concorrenziali. In altri settori (per es., elettricità e gas) la formazione di strutture concorrenziali è ancora relativamente circoscritta, essendosi anzi manifestati fenomeni di concentrazioni trans-nazionali (a forte carattere monopolistico), giustificati forse in presenza di un’efficiente autorità di controllo sovranazionale, quale potrà essere l’Unione Europea, ma in altri casi potenzialmente pericolosi per gli interessi strategici dei singoli Paesi. Tutto ciò ha rallentato in molti casi il completamento dei processi di privatizzazione e i tentativi di liberalizzazione.
In ogni caso, non sono sorti rapidamente quei mercati concorrenziali che all’inizio del processo di privatizzazione si ritenevano realizzabili in tempi brevi. Il ruolo delle autorità di regolazione (di emanazione politica) continua a ricoprire un ruolo essenziale e sembra destinato a protrarsi nel tempo, con tutti gli aspetti problematici riconducibili ai problemi di acquisizione e di elaborazione delle informazioni da parte di queste autorità. Sia pure in forma diversa rispetto al passato, il ruolo dello Stato continua a essere importante, e lo sarà ancora di più in futuro se si dimostrerà che imprese private operanti in settori a carattere fortemente monopolistico non hanno adeguati incentivi allo sviluppo della loro capacità produttiva e all’innovazione (Guthrie 2006).
Il mercato del lavoro
Attraverso un processo secolare si è formato in tutti i Paesi un insieme di norme che regolano il mercato del lavoro. Si possono distinguere norme finalizzate alla salvaguardia dell’integrità fisica del lavoratore da norme che proteggono il prestatore di lavoro da comportamenti arbitrari del datore di lavoro, impedendo in particolare il licenziamento immotivato. Infine, per garantire un tendenziale equilibrio di potere contrattuale fra le parti sociali, è stata affermata la centralità della contrattazione collettiva.
Alla base di questa complessa costruzione si possono riconoscere importanti ispirazioni teoriche. In primo luogo, vale un principio di democrazia sostanziale, per il quale il lavoratore non è semplicemente una merce, ma piuttosto un cittadino. Nelle parole di Karl Polanyi, «la presunta merce ‘forza-lavoro’ non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull’individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare» (The great transformation, 1944; trad. it. 1974, p. 94).
Nelle impostazioni keynesiane, che valutano in termini problematici le capacità di autoregolazione dei sistemi capitalistici, è stata sempre sottolineata l’importanza di politiche economiche capaci di garantire un’equilibrata distribuzione del reddito fra le parti sociali, vista come presupposto per il mantenimento della domanda aggregata a livelli appropriati. I processi di contrattazione collettiva costituiscono un elemento essenziale delle cosiddette politiche dei redditi, a cui si è fatto ampio riferimento nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale per garantire una crescita elevata in un contesto non inflazionistico.
I sistemi di regolazione del mercato del lavoro appena descritti sono stati radicalmente posti in discussione a partire dagli anni Ottanta su linee analoghe a quelle che hanno portato alla privatizzazione delle pubbliche utilità. I regimi di protezione del lavoro, opportunamente classificati, sono stati considerati causa di inefficienza economica, poiché allontanano i sistemi dalla piena occupazione o favoriscono la formazione di rendite a favore di coloro che erano già occupati. Il potere dei sindacati doveva essere circoscritto, in quanto nella generalità dei casi le associazioni dei lavoratori si sono rivelate fattori di distorsione e non di equilibrio dei rapporti contrattuali (salvo il caso di un loro coinvolgimento istituzionale nelle politiche di contenimento della dinamica salariale). Più in generale, le politiche economiche in molti Paesi hanno promosso mercati del lavoro flessibili, con un evidente e immediato richiamo alle più elementari formulazioni del modello concorrenziale (Artoni, D’Antoni, Del Conte, Liebman 2006).
Il tutto trova una sintesi nelle posizioni delle organizzazioni internazionali, in particolare l’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development), che sostengono che le performances economiche mi-gliori sono associate positivamente alla liberalizzazione del mercato del lavoro: quanto più rigido è il mercato del lavoro, tanto peggiori sono i tassi di crescita o i tassi di occupazione. Questa valutazione dev’essere accolta con cautela. L’evidenza empirica non è univocamente interpretabile, dovendosi comunque sviluppare ricerche più articolate: è stato infatti osservato che la liberalizzazione del mercato del lavoro ha portato alla coesistenza di due modalità contrattuali, a tempo determinato e tempo indeterminato. È dubbio, nell’opinione di Olivier J. Blanchard (2005, p. 32), che tutto ciò abbia portato alla diminuzione della disoccupazione; è peraltro certo che è stato creato un mercato del lavoro duale con lavoratori protetti, da un lato, e lavoratori marginali e scarsamente tutelati, dall’altro.
È evidente che l’accettazione della visione liberista del funzionamento del mercato del lavoro porta a definire un ruolo dello Stato molto circoscritto, di fatto quasi assistenziale, per i lavoratori che si trovano disoccupati come conseguenza di frizioni nel processo di riallocazione della forza lavoro. Recentemente sono tuttavia emerse, o riemerse, visioni differenti da quelle dominanti negli ultimi vent’anni. Sembra ormai acquisito che il processo di liberalizzazione del mercato del lavoro, con l’associato indebolimento delle rappresentanze sindacali, abbia prodotto un forte spostamento nella distribuzione funzionale del reddito. Gli effetti negativi sulla dinamica della domanda aggregata in certi Paesi, come l’Italia, sono evidenti e si traducono in tassi di crescita complessivi molto ridotti.
In altri Paesi la modifica della distribuzione dei redditi è stata compensata, come già osservato, da un forte indebitamento delle famiglie, che ha per alcuni anni sostenuto la domanda di consumi privati e quindi la crescita del prodotto interno: questa compensazione, come dimostrano in modo evidente gli eventi del 2007-08, non può tuttavia essere protratta oltre un certo limite. In altri termini, la forte crescita relativa delle economie dei Paesi anglosassoni nell’ultimo decennio, più che alle conseguenze della flessibilizzazione del mercato del lavoro, sembra essere il frutto, appunto, dell’indebitamento e della caduta della propensione al risparmio delle famiglie.
Stanno poi emergendo le preoccupazioni sugli effetti sociali della precarizzazione dei rapporti di lavoro, che coinvolge anche le classi medie, in un quadro interpretativo prefigurato dalla precedente citazione di Polanyi. In questo contesto, il ruolo regolatore dello Stato torna a essere necessariamente più pregnante di quanto non si pensasse solo alcuni anni fa.
Il sistema tributario
Adottando una rappresentazione schematica, possiamo affermare che i sistemi tributari si fondano su un’imposta personale progressiva più o meno strettamente integrata con l’imposta societaria; una o più imposte sul patrimonio, sia ricorrenti sulla proprietà immobiliare, sia saltuarie sui trasferimenti di ricchezza per donazione e successione; un’imposta generale sulle vendite applicata ai consumi, oltre ad accise su particolari beni e servizi. Il prelievo obbligatorio è poi completato dai contributi sociali (oppure da imposte introdotte in loro sostituzione) destinati al finanziamento delle prestazioni sociali.
Ovviamente, anche all’interno di una struttura sostanzialmente omogenea, le possibili articolazioni dei singoli istituti possono portare a risultati molto diversi in termini di livello del gettito o di distribu-zione del carico tributario. In questa sede, per la sua rilevanza, conviene soffermarsi sulle principali caratteristiche dell’imposizione personale, così come si è configurata negli ultimi anni, sia per autonoma determinazione dei singoli Paesi, sia come conseguenza ne-cessaria della comune evoluzione economica.
L’imposta personale sul reddito si caratterizza, in primo luogo, per i criteri di determinazione della base imponibile. La letteratura economica distingue tre possibili basi imponibili. Quando si adotta il concetto di reddito prodotto, sono oggetto di tassazione solo le remunerazioni dei fattori produttivi (salari, rendite, profitti o interessi). In una seconda accezione, la base imponibile è costituita da tutte le entrate afferenti al contribuente, incluse anche le plusvalenze patrimoniali. Infine, oggetto di tassazione personale può essere la spesa per consumo effettuata nel periodo d’imposta, venendosi pertanto a escludere dalla tassazione il risparmio, oltre che le plusvalenze non destinate al finanziamento del consumo.
Se la tassazione personale sulla base del reddito prodotto costituisce la forma più antica, la tassazione che si richiama al reddito entrata è invece tipica dei Paesi con mercati finanziari evoluti. La tassazione fondata sul reddito consumo ha trovato solo parziale applicazione, anche se rappresenta il modello cui, in qualche modo, tendono molti sistemi tributari.
Il riferimento a modelli compiuti, se utile a fini classificatori, può spesso allontanare da una corretta lettura della realtà. Anche in Paesi come l’Italia, l’applicazione del criterio del reddito prodotto ha trovato sempre fortissime attenuazioni nel momento della tassazione dei redditi di capitale, che sono sempre stati in larga misura sottratti all’applicazione dell’imposta personale e fatti oggetto di tassazione con aliquote ridotte (oggi in Italia l’aliquota tipica è pari al 12,5%). È ragionevole definire un’imposta così configurata, più che un’imposta sul reddito complessivo, un’imposta sui redditi di lavoro dipendente.
Anche i Paesi anglosassoni, che sulla base del reddito entrata avrebbero dovuto tassare in sede d’imposta personale, oltre che i redditi di capitale, anche le plusvalenze, si sono fortemente avvicinati a un’imposta personale progressiva applicata essenzialmente ai redditi di lavoro; sono state infatti introdotte tali e tante eccezioni alla tassazione onnicomprensiva che, anche per questi Paesi, si può ragionevolmente parlare di una wage tax associata a una tassazione molto contenuta, non lontana da quella italiana, dei redditi di capitale afferenti alle persone fisiche. L’omogeneità tra i due modelli di sistema tributario descritti può essere intuita dal fatto che il gettito dell’imposizione diretta è nell’area euro pari al 12,2% del prodotto interno, contro il 12,8% degli Stati Uniti; l’Italia si segnala per un gettito relativamente più elevato, pari al 14,5%, dato il livello relativamente elevato delle aliquote effettive sugli scaglioni di reddito più bassi.
La tassazione personale del consumo, se è stata finora quasi esclusivamente applicata attraverso l’esenzione dall’imposta degli accantonamenti previdenziali, ha trovato un forte sostegno teorico in quanto è l’unico sistema d’imposizione personale in grado di evitare la doppia tassazione del risparmio (prima, nel momento della formazione del reddito, poi, nella percezione dei frutti). Da questo punto di vista la tassazione sulla base del ‘reddito consumo’ è compatibile con politiche favorevoli all’accumulazione di capitale e quindi con la crescita economica.
Risulta evidente che la capacità redistributiva di un’imposta, che tassi in misura molto contenuta i redditi di capitale o le plusvalenze, in particolare quelle mobiliari, e che esenti per importi consistenti alcune forme d’impiego del risparmio, è molto limitata. La redistribuzione avviene solo all’interno dei redditi di lavoro e il grado di redistribuzione desiderata dalla collettività è raggiunto solo a condizione che, a monte, non operino meccanismi di definizione dei differenziali salariali tra diversi individui che anticipino e scontino la progressività dell’imposizione.
Il grado di progressività dell’imposta personale, sia pure circoscritta ai redditi di lavoro, è stato ulteriormente attenuato dalla riduzione delle aliquote marginali applicate agli scaglioni più elevati, scesi dal 70% riscontrabile in molti Paesi negli anni Ottanta a circa il 40% attualmente predominante. Considerazioni di equità (l’imposta si applica solo su poche tipologie di reddito) e di incentivo, riconducibili alle analisi empiriche, peraltro non concordanti, sull’elasticità dell’offerta di lavoro alle variazioni della remunerazione netta, spiegano il processo quasi universale di riduzione delle aliquote marginali.
In concorso con la complessiva evoluzione economica, l’erosione della base imponibile e la riduzione delle aliquote marginali più alte dell’imposta personale – la componente più redistributiva di tutti i sistemi tributari – hanno contribuito in molti Paesi ad aumentare l’indice di Gini (che misura la concentrazione nella distribuzione del reddito). Su questa evoluzione ha peraltro influito, o forse ne è stata all’origine, la piena liberalizzazione dei movimenti di capitale, senza che parallelamente si sviluppassero efficaci forme di cooperazione internazionale per il reperimento di materia imponibile. La difficoltà di tassazione delle basi imponibili mobili, quali sono tipicamente i redditi di capitale, associata all’esigenza di salvaguardare gli equilibri dei bilanci pubblici, ha determinato l’inasprimento del peso relativo delle imposte gravanti sui redditi di lavoro. Oggi il capitale sconta un prelievo medio effettivo del 24% e il lavoro è gravato da un’aliquota media effettiva pari a quasi il 38%.
Si deve infine osservare che le imposte patrimoniali (in particolare sotto forma di imposte sulle successioni e donazioni), cui i riformatori di tutti i tempi avevano attribuito un ruolo potenzialmente importante per colpire le fortune immeritate a vantaggio di quelle meritate e per contrastare la concentrazione delle ricchezze, si sono rivelate ovunque assolutamente inefficaci, al punto di essere abolite in molti Paesi.
Il ruolo dello Stato in materia tributaria all’inizio del 21° sec. non può quindi prescindere dai due elementi che abbiamo cercato di evidenziare: erosione tecnica della capacità redistributiva del sistema tributario e limitazione della sovranità nazionale, sotto forma di impossibilità di controllare la localizzazione delle basi imponibili mobili. Questa situazione permarrà fino a quando non si formerà una struttura sovranazionale dotata di poteri adeguati. Le scelte effettivamente aperte ai singoli Stati sono strettamente collegate alla configurazione del sistema di protezione sociale, essendo ineludibile il collegamento fra il livello del gettito tributario, di cui le imposte personali costituiscono una componente essenziale, e l’estensione della spesa pubblica, di cui le spese per la protezione sociale costituiscono la componente più importante. In tutti i Paesi in cui imposte e spese sono elevate, si realizza uno scambio fra la disponibilità di servizi sociali qualificati e il pagamento attraverso la fiscalità generale di questi servizi: data la concentrazione non solo del carico fiscale ma anche delle prestazioni sulle classi medie, gli effetti redistributivi, nell’arco di vita di una persona, sono relativamente limitati. Quando invece la pressione fiscale è bassa e la spesa sociale di diretta competenza delle pubbliche amministrazioni è contenuta, l’accesso ai servizi sociali fondamentali (sanità, previdenza, istruzione) deve trovare un riferimento nel rapporto di lavoro o nei contratti individuali e un sostegno in agevolazioni fiscali, in alcuni casi particolarmente generose. In altra parte di questo saggio abbiamo già visto gli effetti in termini di universalismo e di realizzazione dei diritti di cittadinanza delle diverse tipologie di welfare state. Qui possiamo sottolineare come questa seconda modalità di garanzia dei servizi sociali sia con tutta probabilità più regressiva della precedente (Lindert 2004).
Il processo decisionale in materiadi bilancio
Il processo decisionale in materia di bilancio rappresenta la sede di discussione e individuazione delle priorità di politica economica e di successiva deliberazione delle modalità di intervento nelle varie aree precedentemente discusse. La legge di bilancio e i documenti a essa associati incarnano e definiscono, infatti, gli indirizzi che l’operatore pubblico intende imprimere alla sua azione.
Con l’espandersi del ruolo dello Stato nell’economia che si è verificato, anche se con diversa intensità, in tutti i Paesi industrializzati, si è posta la questione della compatibilità tra i meccanismi di scelta e di decisione delle politiche pubbliche e la crescita controllata ed equilibrata di spese ed entrate, nel rispetto di compatibilità macroeconomiche. Una pressione fiscale eccessiva potrebbe porre problemi di incentivo all’offerta di lavoro e al risparmio. Livelli elevati di spesa pubblica possono spiazzare la spesa privata e, se non accompagnati da un adeguato aumento delle entrate, comportano squilibri di bilancio che impongono emissione di debito. La crescita del debito genera questioni di equità, sia intragenerazionale, sia intergenerazionale: un debito crescente si associa in genere a tassi di interesse crescenti, che ridistribuiscono risorse tra chi presta e chi prende a prestito e trasferisce sulle generazioni future il carico legato a eventuali manovre di risanamento. Un debito elevato può inoltre essere fonte di instabilità finanziaria nel momento in cui si verifichino crisi di fiducia sulla capacità da parte dello Stato di ricondurre le grandezze di bilancio su un sentiero equilibrato.
Il contesto in cui vengono prese le decisioni, ossia gli aspetti procedurali che caratterizzano e in cui si inseriscono le scelte di bilancio, sono visti come un primo e imprescindibile elemento a garanzia di una gestione ordinata della finanza pubblica. Tutte le normative nazionali prevedono regole per la definizione degli obiettivi e per l’implementazione delle politiche di bilancio, distribuendo a documenti o leggi differenti il compito di delineare e attuare le manovre sugli aggregati di finanza pubblica. A partire dalla fine degli anni Ottanta, gli squilibri di finanza pubblica, che cominciavano a manifestarsi in alcuni Paesi, e il processo di costituzione di una unione monetaria in Europa hanno portato al centro del dibattito sulle procedure di bilancio il tema del rafforzamento della disciplina fiscale e dell’individuazione degli strumenti appropriati con i quali conseguirla. L’introduzione di regole costituzionali in materia di finanza pubblica, l’applicazione di procedure automatiche per il controllo dei disavanzi e l’individuazione di obiettivi sui saldi di bilancio e sul debito a livello sovranazionale costituiscono i principali strumenti discussi o implementati come fattori di garanzia di scelte responsabili in materia di finanza pubblica. Norme costituzionali e procedure automatiche (quali quelle contemplate a metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti dalla legge Gramm-Rudman-Hollings, che prevedeva un percorso di rientro dagli squilibri di finanza pubblica caratterizzato da progressive riduzioni del deficit federale, fino a un suo azzeramento su un orizzonte temporale definito) vengono considerate come forme di limitazione della discrezionalità politica che potrebbe generare risultati non desiderabili per l’economia nel suo complesso. L’avversione nei confronti della discrezionalità e la preferenza per le regole trovano il loro fondamento teorico nella letteratura sull’incoerenza temporale delle politiche ottimali. L’individuazione di vincoli sovranazionali all’autonomia nazionale in materia fiscale è riconducibile alle esternalità negative generate da politiche di bilancio scarsamente disciplinate nei Paesi membri di una Unione che condivide una politica monetaria unica.
Senza entrare nella discussione teorica su come qualificare il grado di disciplina di una determinata politica di bilancio, nel Trattato di Maastricht approvato nel 1992 il concetto di finanze pubbliche sane è stato incarnato dall’individuazione di un limite massimo al disavanzo complessivo (3% del PIL) e al debito pubblico (60% del PIL). L’obiettivo è stato reso ancora più ambizioso con il Patto di stabilità e crescita, che nel 1997 ha da un lato individuato la procedura con cui imporre una correzione ai Paesi che siano incorsi in disavanzi eccessivi, dall’altro ha richiesto che il bilancio sia in pareggio o in surplus nel medio periodo. Il mancato adeguamento da parte di Francia e Germania alla procedura formale prevista dal Patto in caso di disavanzi eccessivi ha portato a una revisione ulteriore del Patto stesso nel 2005, nella direzione di una maggiore flessibilità e considerazione delle condizioni delle economie locali.
L’esperienza di controllo delle finanze pubbliche nazionali, evidenziata dalle vicende che hanno caratterizzato l’introduzione del Trattato di Maastricht e la sua implementazione tramite il Patto di stabilità e crescita, sottolinea l’importanza della reciproca influenza tra andamento dell’economia e risultati di bilancio. I saldi di bilancio sono grandezze endogene il cui valore dipende strettamente dal quadro macroeconomico. Questo rappresenta il condizionamento principale e ineliminabile cui è subordinato il ricorso a regole rigide quale strumento di controllo degli aggregati di finanza pubblica. In quest’ottica possiamo leggere la difficoltà di individuazione di regole costituzionali come strumento di disciplina delle politiche di bilancio. La nostra Costituzione è forse l’unica che prescriva, all’art. 81, un obbligo di copertura che, se rigidamente interpretato, vieta l’indebitamento per le spese di parte corrente. Più che imporre un limite quantitativo prestabilito, la Costituzione suggerisce una metodologia decisionale che dovrebbe garantire un’assunzione di responsabilità da parte del decisore in materia di politica di bilancio.
La semplicità dell’individuazione di un limite numerico a un saldo di bilancio si è accompagnata, nei fatti, all’individuazione di condizioni cui subordinare il rispetto del vincolo. Queste condizioni riguardano sia il contesto economico in cui l’obiettivo deve essere raggiunto, sia le voci di entrata e spesa su cui è maggiormente opportuno operare, sia le componenti di spesa che dovrebbero sfuggire alle limitazioni, quali, per es., le spese in conto capitale. Il pareggio di bilancio sarebbe richiesto per le spese in conto corrente, mentre l’indebitamento sarebbe ammesso per le spese per investimento (la golden rule come adottata nel Regno Unito). Più in generale, non è corretto considerare la politica di bilancio come un fatto puramente finanziario interamente governabile con la selezione di obiettivi numerici: è piuttosto l’espressione di scelte sull’assetto istituzionale che si vuole dare all’intervento dello Stato nell’economia.
Questa considerazione diventa ancora più stringente quando, invece di considerare vincoli sui saldi di bilancio, si considerino vincoli alternativamente sulla spesa pubblica o sulla pressione fiscale. Un limite sul livello della spesa pubblica (o della sua crescita, come sperimentato nel Regno Unito e, con qualche tentativo di emulazione, nel nostro Paese) genera distorsioni nella sua composizione, secondo il diverso grado di comprimibilità o rigidità delle diverse voci. Le spese che hanno destinazione individuale diretta (le pensioni, gli ammortizzatori sociali) o la spesa per interessi dipendono dall’acquisizione di un diritto soggettivo. Anche escludendo, necessariamente, queste componenti dal vincolo alla crescita, un limite così strutturato, soprattutto se omogeneo tra varie categorie di spesa, impone una rinuncia a definire le priorità tra i diversi interventi.
Conclusioni
Dalla nostra esposizione risulta evidente che ogni tentativo di definizione del ruolo dello Stato nel contesto attuale presenta ineliminabili elementi d’indeterminatezza. La lettura del funzionamento del sistema economico, visto nella sua capacità autonoma di produrre risultati ottimali, predetermina in buona misura le indicazioni istituzionali e le proposte di politica economica.
Estraendo alcuni spunti interpretativi dalla nostra analisi, possono tuttavia essere colti alcuni dubbi o alcune incertezze, frutto dell’esperienza dell’ultimo decennio, che rendono meno assertive le tesi liberiste progressivamente accumulatesi nel corso dell’ultimo quarto del secolo scorso.
Il funzionamento dei meccanismi assicurativi privati, visti come sostitutivi dei sistemi pubblici di protezione sociale, lasciano aperti importanti problemi di accesso e di garanzia contro rischi individualmente incontrollabili, non solo per i ceti più poveri, ma anche per le classi medie. Sotto questo aspetto il ruolo dello Stato non sembra essere significativamente circoscrivibile: lo testimoniano il dibattito negli Stati Uniti sull’introduzione di un sistema sanitario obbligatorio e la mancata realizzazione di progetti di delimitazione del sistema pensionistico pubblico. Nella sfera sociale, il ruolo dello Stato richiede un controllo finanziario ed economico della dinamica delle prestazioni alla luce delle prevedibili tendenze demografiche, ma in un contesto di salvaguardia sostanziale dei principi ispiratori dello Stato sociale.
Le tesi concorrenziali a sostegno delle politiche di privatizzazione hanno portato molto spesso alla formazione di monopoli privati, con la creazione, in alcuni casi, di imprese operanti su scala sovranazionale. Oggi, in settori cruciali dell’attività economica, il ruolo dello Stato è certamente diverso rispetto al passato, ma non per questo meno pregnante. È ragionevole affermare che si è alla ricerca di nuovi equilibri.
Analogamente, la flessibilizzazione delle regole del mercato del lavoro, con l’implicita assimilazione del lavoro a una normale merce, lungi dal produrre assetti armoniosi, ha concorso a innescare importanti processi di concentrazione nella distribuzione del reddito. Conseguentemente, stanno emergendo importanti problemi di coesione sociale, con l’effetto di rendere meno accettabili nell’opinione comune i processi di integrazione economica su scala internazionale, che sono stati una caratteristica importante e positiva della storia economica degli ultimi decenni. Anche in questo caso non sembra che il ruolo dello Stato, nella sua funzione regolatoria, possa essere marginalizzato nei termini previsti solo alcuni anni fa.
Infine, un fattore potentemente innovatore, all’interno dei singoli Stati e nei rapporti internazionali, è costituito dal ridimensionamento della sovranità nazionale in materia tributaria e in materia di individuazione degli obiettivi generali delle politiche di bilancio. Anche se qualcuno considera la perdita della potestà impositiva nazionale sui redditi di capitale un intelligente strumento per indurre la riduzione della spesa pubblica, è certo che un processo così oscuro o così poco trasparente corre il rischio di compromettere gli equilibri sociali fin qui accettati. Allo stesso modo, la fissazione di saldi obiettivo a livello comunitario se, in linea di principio, contribuisce a definire una gestione più disciplinata delle politiche fiscali, si accompagna in realtà con problemi di applicazione effettiva delle norme che dovrebbero regolare la buona gestione della finanza pubblica in tutti i casi in cui l’evoluzione macroeconomica non risultasse favorevole. La storia della nostra finanza pubblica negli anni Settanta per molti versi insegna. Anche in questo caso si può, o si deve, individuare un ruolo dello Stato innovativo rispetto al passato, in quanto necessariamente collocato in un contesto sovranazionale.
Bibliografia
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