Il ruolo geopolitico del Caucaso
La frontiera caucasica
Per il Caucaso, così come per tutte le altre repubbliche postsovietiche, il 21° sec. è iniziato di fatto nel 1991. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha invero determinato non solo un radicale cambiamento politico e socioeconomico, ma anche la fine dell’inserimento dell’intero Caucaso in un’unica compagine statale – dapprima zarista, poi sovietica – che aveva rappresentato una fondamentale innovazione nella storia di questa regione. Prima della conquista russa, infatti, il Caucaso era stato per millenni il confine tra le culture prevalentemente nomadi delle steppe eurasiatiche e gli imperi che si sono susseguiti nel Vicino Oriente, senza essere mai inserito in maniera stabile e completa all’interno di un solo Stato (Ferrari 2007). Dopo il crollo dell’Unione Sovietica questa frattura si è presentata nuovamente, sia pure in circostanze storiche del tutto nuove.
Il contesto internazionale
Se la dissoluzione dell’URSS ha consentito alle tre repubbliche del Caucaso meridionale (Georgia, Armenia, Azerbaigian) di trovare una pur sofferta indipendenza da Mosca, le popolazioni del Caucaso settentrionale, tradizionalmente le più avverse al dominio russo e sovietico, sono rimaste invece inserite nel quadro della Federazione Russa.
Con il disfacimento del sistema sovietico e il conseguente indebolimento del controllo di Mosca, il Caucaso è venuto a trovarsi in una situazione di grande incertezza rappresentando «in termini geopolitici, il luogo più frammentato e più critico dell’ex URSS» (La Russia e i conflitti nel Caucaso, 2000, p. X). La compresenza di conflitti etnoterritoriali interni e di contrastanti spinte esterne ne ha fatto una delle regioni più conflittuali del panorama internazionale. Il Caucaso, inoltre, è divenuto una frontiera in cui si intrecciano enormi interessi internazionali, in primo luogo quelli di Russia, Turchia e Irān. Occorre però dire che in questi anni il ruolo della Turchia e dell’Irān nel Caucaso (come anche in Asia centrale) è stato più limitato di quanto si pensasse subito dopo la fine dell’URSS. I progetti di penetrazione nelle repubbliche musulmane ex sovietiche si sono rivelati troppo ambiziosi per le limitate risorse di cui Ankara dispone realmente, mentre l’Irān ha condotto nel Caucaso una politica estremamente prudente, evitando ogni forma di esportazione del suo regime teocratico. Nonostante la profonda crisi postsovietica, è invece Mosca a giocare nel Caucaso una partita decisiva per la sua sopravvivenza come grande potenza, almeno regionale. Il Caucaso settentrionale, inoltre, è ancora parte integrante della Russia e il suo abbandono potrebbe essere legittimamente interpretato come una manifestazione di debolezza, incoraggiando alla secessione altri soggetti federali, non solo caucasici. L’ambizione russa di mantenere una posizione dominante nel Caucaso meridionale anche dopo l’indipendenza di Georgia, Armenia e Azerbaigian deve invece fare i conti non solo con le aspirazioni di queste repubbliche, ma anche con la forte competizione che si è venuta a creare in tale area con gli Stati Uniti.
L’interesse statunitense a ridurre la dipendenza petrolifera dalla regione del Golfo rende, inoltre, di primario significato per Washington l’area caucasica, collocata com’è al centro del Grande Medio Oriente (o Grande Asia centrale), vale a dire l’enorme spazio che si estende dalle coste orientali del Mar Nero alle frontiere della Cina, fondamentale su scala globale per le sue ricchezze energetiche. Nel Caucaso, così come in Asia centrale, ci si trova quindi di fronte a una situazione che ricorda per alcuni aspetti il great game ottocentesco di kiplinghiana memoria, nel quale la Russia postsovietica si confronta in effetti con un antagonista occidentale rappresentato questa volta non dalla Gran Bretagna, ma dagli Stati Uniti. Al tempo stesso, però, la suggestione di questo parallelo storico non deve condizionare oltre misura l’analisi della situazione odierna, che è determinata da fattori in larga parte differenti da quelli ottocenteschi. In particolare, occorre tener presente la pluralità di agenti statuali locali (Georgia, Armenia, Azerbaigian, Turchia, Irān), superstatuali (NATO; UE, Unione Europea; OSCE, Organization for Security and Co-operation in Europe; GUAM, Georgia Ucraina Azerbaigian Moldavia, Organizzazione per la democrazia e lo sviluppo economico) e substatuali (società multinazionali, ONG, lobby di vario tipo, diaspore, organizzazioni criminali, gruppi terroristici e così via) che interagiscono a livelli diversi nella regione.
L’espansione statunitense nel Caucaso ha luogo a diversi livelli: l’aspetto economico, in primis il controllo delle fonti energetiche, è in realtà inscindibile da quello politico e strategico. Il colossale progetto di un asse geoeconomico mirante a collegare il petrolio e il gas dell’Asia centrale con il Mediterraneo – noto con l’immaginifica denominazione di via della seta del 21° secolo – tende in effetti a ridurre o eliminare del tutto il ruolo tradizionale della Russia. L’insistenza occidentale sulla costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, in funzione dal 2005 e alternativo a quello tradizionale Baku-Novorossijsk, ha mirato proprio a eliminare il controllo di Mosca sulle risorse energetiche dell’Asia centrale per mezzo di un tracciato che attraversa i due Paesi caucasici più desiderosi di sottrarsi all’orbita russa, vale a dire l’Azerbaigian e la Georgia. Da un punto di vista politico, è proprio facendo riferimento alle aspirazioni politiche di tali Paesi, in particolare della Georgia, che Washington ha potuto trovare dei punti di appoggio nella regione.
In questi decenni postsovietici la regione caucasica si è dunque trovata al centro di una contrapposizione tra un asse verticale (Russia-Armenia, comprendente in una certa misura anche l’Irān) e uno orizzontale, sostenuto dagli Stati Uniti (Azerbaigian, Georgia, Turchia). È a questo scontro di interessi internazionali che vanno almeno in parte collegati anche i numerosi conflitti interni, di carattere etnoterritoriale, scoppiati nella regione in concomitanza con la dissoluzione dell’Unione Sovietica.
La Russia e il Caucaso settentrionale
Nel Caucaso settentrionale, che continua dunque a far parte dello Stato russo ed è organizzato in repubbliche autonome, sono ormai venuti al pettine i nodi creati dalla politica sovietica delle nazionalità. In particolare, tale politica determinò una territorializzazione delle identità locali, in precedenza di carattere sostanzialmente religioso e tribale, che avviò una serie di conflitti latenti aggravati dalle deportazioni avvenute alla fine della Seconda guerra mondiale e dalla infelice gestione del ritorno dei popoli deportati dopo il 1956 (Ferrari 2007).
Un primo conflitto esplose nel 1992 tra ingusci e osseti per il controllo del distretto di Prigorodnyj. Nella questione, Mosca appoggiò gli osseti, prevalentemente cristiano-ortodossi e tradizionali alleati dei russi nella regione, a scapito degli ingusci, musulmani come i loro consanguinei ceceni. Altri conflitti rimasero invece relativamente sotto controllo, come quelli insorti nelle due repubbliche autonome dei Caraciai e Circassi e dei Cabardini e Balcari tra le popolazioni caucasiche (circassi, adighi e cabardini, che costituiscono in sostanza un’unica etnia) e turche (caraciai e balcari). Diverso il caso della repubblica autonoma del Dagestan, dimostratosi per lungo tempo insieme alla Cecenia il territorio più ostile alla dominazione russa. La regione non venne però coinvolta nella deportazione dei popoli nel corso della Seconda guerra mondiale e forse per questo godette di una relativa tranquillità negli anni postsovietici. Nel Dagestan è rimasta sinora al potere un’élite di origine comunista e di orientamento non ostile alla Russia. Inoltre, l’estrema frammentazione etnica del Paese rende poco agevole organizzare un’opposizione a Mosca dalla quale il Dagestan dipende economicamente in maniera pressoché assoluta. Non vi è dubbio, peraltro, che anche in Dagestan, dove l’identità islamica è particolarmente forte, numerosi appaiono i segnali di un peggioramento della situazione interna.
Sin dalla dissoluzione dell’URSS, il problema di maggior rilevanza del Caucaso settentrionale fu dunque rappresentato dalla Cecenia (Bensi 2005) che, sotto la guida di un leader energico come l’ex generale sovietico Džochar Dudaev, si proclamò indipendente – unica tra le repubbliche della Federazione Russa – alla fine del 1991. Dopo tre anni di esitazione, alla fine del 1994 Boris El´cin decise di invadere la Cecenia, iniziando una guerra rivelatasi rovinosa. Le truppe russe riuscirono dopo molti sforzi a occupare la parte pianeggiante della Cecenia, inclusa Groznyj (ridotta in macerie dai bombardamenti aerei), ma la resistenza cecena si concentrò sulle montagne. Nell’aprile del 1996 venne sottoscritto un accordo in base al quale la decisione sullo status definitivo della Cecenia sarebbe stata rinviata di cinque anni. Sotto la presidenza di Aslan Maschadov, eletto nel gennaio 1997, la Cecenia conobbe alcuni anni di confusa e precaria indipendenza, ampiamente segnati da disordine, illegalità e violenze. La situazione precipitò nell’estate del 1999 in circostanze alquanto confuse. Ai primi di agosto reparti di ceceni sconfinarono nel vicino Dagestan e poco dopo alcuni attentati, attribuiti dalla Russia a terroristi ceceni, peraltro senza presentare prove convincenti, provocarono centinaia di vittime a Mosca e in altre località del Paese. In reazione a tali fatti la macchina militare russa si rimise in moto, questa volta sotto l’impulso di Vladimir Putin che, da poco nominato capo del governo, impresse un andamento deciso alle operazioni nella regione. In primo luogo si procedette all’espulsione dal Dagestan dei guerriglieri islamici che vi si erano infiltrati, poi la Cecenia venne nuovamente invasa, con una sostanziale ripetizione delle diverse fasi del precedente conflitto: occupazione della zona pianeggiante e delle principali città, ardua penetrazione nelle zone montagnose da dove la resistenza cecena organizzava violenti contrattacchi. Questa seconda occupazione della Cecenia, la cui energica realizzazione contribuì non poco all’elezione di Putin a presidente nel marzo del 2000, vide un forte imbarbarimento del conflitto. Da un lato le milizie cecene infierirono crudelmente sui prigionieri russi, dall’altro le forze federali, servendosi soprattutto di reparti speciali e mercenari, condussero un’azione di repressione estremamente brutale, compiendo numerosissime operazioni ‘antiterroristiche’ che si conclusero spesso con l’uccisione e il rapimento di civili, poi scomparsi nel nulla. Questa violenza nella sfera militare venne accompagnata da una totale chiusura politica. Le autorità russe si rifiutarono di trattare non solo con i comandanti militari di orientamento islamico radicale come Šamil Basaev, ma anche con il più moderato presidente Maschadov. Il fine di questa politica fu infatti quello di creare una leadership completamente fedele a Mosca, prescindendo dalla sua rappresentatività nei confronti della popolazione cecena. Un interlocutore di questo genere venne individuato a partire dal giugno del 2000 nella più alta autorità religiosa cecena, il muftì Achmad Kadyrov. Una parte consistente della popolazione cecena, stremata da una situazione ormai insostenibile, accettò allora il ritorno della sovranità russa e il suo rappresentante. I combattenti più irriducibili, invece, asserragliati sulle montagne, rinforzati da volontari islamici di diversa provenienza, continuarono a resistere.
Il conflitto ha prodotto una profonda radicalizzazione da entrambe le parti. Nel campo ceceno si trovano indubbiamente numerosi estremisti, molti dei quali provenienti da Paesi arabi e legati al radicalismo islamico, che perseguono l’obiettivo politico di costituire uno Stato musulmano nel Caucaso settentrionale. Si tratta evidentemente di uno scenario politico che potrebbe avere conseguenze disastrose per la Russia. Mosca ha continuato invece a rifiutare ogni soluzione politica diversa dalla completa sconfitta dei ‘terroristi’ per mezzo di una brutale repressione – che non può neppure essere definita militare – e la creazione di un governo lealista. La demonizzazione del nemico ha dunque determinato una percezione non politica, bensì metafisica e strumentale al tempo stesso del conflitto in corso. In questo senso l’inserimento della resistenza cecena nella onnicomprensiva categoria del terrorismo internazionale è stata un’arma a doppio taglio: da un lato ha aiutato a legittimare la repressione militare, ma al tempo stesso ha ostacolato a lungo una soluzione politica, senza impedire inoltre l’organizzazione di gravissimi atti terroristici, sia in Cecenia e nelle regioni limitrofe del Caucaso, sia in Russia. I drammatici eventi del teatro Dubrovka a Mosca, nell’ottobre del 2002 – in cui persero la vita non solo tutti i componenti del commando che se ne era impadronito, ma anche 129 civili russi –, e più ancora la tragedia di Beslan del settembre del 2004, con la strage di centinaia di persone, soprattutto bambini, rimarranno a lungo nella memoria come simboli della ferocia di questo conflitto.
Dopo la morte di A. Kadyrov in un attentato avvenuto il 9 maggio 2004, nuovo presidente della Cecenia divenne Alu Alchanov, in precedenza ministro degli Interni. Il potere reale passò tuttavia nelle mani di Ramzan Kadyrov, figlio del leader ucciso, che lo esercitò per mezzo di una brutale milizia privata. Negli ultimi anni Mosca riuscì progressivamente a ‘cecenizzare’ il conflitto, riducendo tra l’altro l’impiego di soldati russi. Da un punto di vista militare questa politica ottenne notevoli successi portando duri colpi alla resistenza cecena ed eliminandone tutti i leader principali (tra i quali tanto Maschadov quanto Basaev). Nel febbraio 2007 il giovane Kadyrov fu eletto presidente dal Parlamento della Cecenia su proposta di Putin. Una nomina che sembrò segnare la fine della fase più acuta del conflitto. Il campo separatista appariva ormai molto indebolito e la resistenza militare non era più appoggiata dalla maggioranza della popolazione. Nel frattempo iniziarono i lavori di ricostruzione, soprattutto a Groznyj, e l’economia cominciò a dare segnali di miglioramento. La regione appare tuttavia ancora instabile e il rischio di un’estensione delle ostilità alle repubbliche vicine, in particolare all’Inguscezia e al Dagestan, è ancora reale anche perché il conflitto ceceno ha contribuito notevolmente ad aggravare la situazione socioeconomica del Caucaso settentrionale, una delle zone più depresse di tutti i territori ex sovietici. Il miglioramento della situazione in Cecenia potrebbe in effetti contribuire notevolmente allo sviluppo dell’intera regione nord-caucasica.
Georgia, Armenia e Azerbaigian
Alla fine del 1991 Georgia, Armenia e Azerbaigian proclamarono la loro indipendenza, dimostratasi tuttavia molto problematica. L’evoluzione di queste repubbliche nel primo periodo di indipendenza fu infatti fortemente condizionata dal lascito sovietico, per quel che riguarda sia la situazione politica e socioeconomica, sia le questioni etnoterritoriali.
In Georgia l’impetuoso sentimento indipendentista portò al potere Zviad Gamsakhurdia (1991-92), esponente di un nazionalismo radicale e intollerante nei confronti delle rivendicazioni delle altre etnie comprese nel territorio della repubblica che secondo il censimento del 1989 costituivano il 30% degli abitanti del Paese. Durante la sua breve e convulsa presidenza, Tbilisi rifiutò di aderire alla Comunità degli Stati indipendenti (CSI) e portò avanti una politica microimperiale ostile tanto alla Russia quanto alle minoranze etniche presenti sul suo territorio, cercando in particolare di sopprimere le autonomie regionali di osseti e abkhasi. Queste due popolazioni riuscirono a rendersi de facto indipendenti dopo brevi ma violenti conflitti nel periodo 1992-93, grazie anche all’aiuto di volontari nord-caucasici e della Russia, peraltro in forma non ufficiale. Nei primi mesi del 1992 un colpo di Stato paramilitare estromise dal potere Gamsakhurdia e al suo posto venne eletto l’antico ministro degli esteri di Michail Gorbačëv, Eduard Shevarnadze, che nell’ottobre 1993 firmò il decreto di adesione alla CSI. Dal 1994 truppe della CSI a guida russa si frapposero tra georgiani, abkhasi e osseti.
Né la sconfitta con i secessionisti abkhasi e osseti, né la gravissima situazione economica in cui è precipitata modificarono l’aspirazione georgiana a fuoriuscire dall’orbita russa e ad avvicinarsi all’Occidente. Da un punto di vista economico questa scelta indusse la Georgia ad appoggiare la richiesta occidentale di accogliere sul suo territorio vie di transito energetico che escludessero la Russia. Sotto la guida di Shevarnadze la Georgia mantenne tuttavia un atteggiamento oscillante tra la propensione filoccidentale e la necessità di non irritare ulteriormente il vicino russo, militarmente minaccioso e dal quale dipendono largamente le forniture energetiche del Paese, soprattutto per quel che riguarda il gas e l’elettricità. Le scelte politico-economiche effettuate da Tbilisi cominciarono a dare qualche frutto visibile a partire dal 1999, quando venne inaugurato l’oleodotto che da Baku porta il petrolio a Supsa, sul litorale georgiano del Mar Nero, ponendo così fine all’egemonia russa sull’esportazione del petrolio caspico. Sempre nello stesso anno la Georgia denunciò il trattato di sicurezza collettiva della CSI, avvicinandosi alla NATO, e divenne membro del Consiglio d’Europa.
In Armenia il plebiscito per l’indipendenza, del settembre 1991, fu seguito a ottobre dall’elezione a presidente di Levon Ter Petrosyan, uno tra i pochi leader postsovietici che non fosse stato in precedenza ai vertici del partito comunista o del KGB (Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti, Comitato per la sicurezza dello Stato). Minuscola, priva di sbocco sul mare e di risorse energetiche, l’Armenia soffrì in modo particolare della rottura delle relazioni economiche dell’epoca sovietica, durante la quale questa repubblica era tra le più sviluppate. Alla difficile situazione economica va aggiunta una collocazione geopolitica quanto mai sfavorevole. Alla frontiera meridionale dell’Armenia si trova la Turchia, erede di quell’Impero ottomano che annientò la popolazione armena nei territori anatolici e pervicace nel negare ancora oggi il genocidio del 1915. La presenza di questo vicino ostile rende particolarmente grave il contrasto dell’Armenia con l’Azerbaigian, Paese turco e musulmano, provocato dal conflitto per l’Alto Karabakh, regione che appartiene giuridicamente a Baku. Dopo la fine dell’URSS, questo territorio, abitato prevalentemente da armeni, si proclamò indipendente. Benché, almeno ufficialmente, il conflitto coinvolgesse solo l’Alto Karabakh, la Turchia chiuse la frontiera con la repubblica armena minacciando anche di intervenire militarmente. Il blocco economico azero e turco, sommandosi al crollo della produzione industriale, determinò negli anni 1992-93 un’impressionante crisi economica. Ebbe allora inizio un notevole fenomeno migratorio, in particolare verso la Russia, che in questa situazione costituiva un’ancora di salvezza per l’Armenia. Non sorprende quindi che Erevan manifestò immediatamente la volontà di mantenere un legame preferenziale con Mosca, concedendole il diritto di mantenere per 25 anni basi militari sul suo territorio. In questo periodo difficilissimo la piccola repubblica armena godette inoltre di buone relazioni con il vicino Irān, Paese in difficili rapporti sia con Ankara, sia con Baku. La sanguinosa guerra nell’Alto Karabakh vide comunque il netto successo militare degli armeni, che non si limitarono a espellere la popolazione azera della regione, ma conquistarono anche vasti territori dell’Azerbaigian. Nel maggio del 1994 questa situazione venne sanzionata con un cessate il fuoco. Da allora, quindici anni di negoziati non sono stati sufficienti a sbloccare la situazione. Anzi, nel 1998 il presidente Ter Petrosyan fu costretto alle dimissioni di fronte alla decisa opposizione popolare contro la sua disponibilità a una soluzione di compromesso sulla questione. Al suo posto venne eletto Robert Kocharian, originario dell’Alto Karabakh.
Dopo la fine dell’URSS, il segretario del Partito comunista dell’Azerbaigian Ayaz Mutalibov venne eletto presidente e portò il Paese nella CSI. Tuttavia, già nel maggio 1992 egli fu costretto alle dimissioni, principalmente a causa delle sconfitte subite nell’Alto Karabakh. A giugno divenne presidente Abulfaz Elchibey, di tendenza nazionalista, filoturca e antirussa. Questi ritirò l’adesione dell’Azerbaigian alla CSI e cercò di invertire l’andamento sfavorevole del conflitto con gli armeni. Le ulteriori disfatte e i disordini interni lo costrinsero però alla fuga nel giugno del 1993. Il suo posto fu preso dal già anziano Heydar Aliyev, che era stato segretario del partito comunista azero prima di Mutalibov. Nella politica interna Aliyev riuscì a stabilizzare la caotica amministrazione statale collocando nei posti chiave parenti o persone a lui vicine, ma non riuscì a risolvere la difficile questione dell’Alto Karabakh, dove la guerra si concluse nel 1994 con un armistizio che lasciava in mano armena non solo la regione contesa, ma anche vasti e importanti territori etnicamente azeri, con più di mezzo milione di profughi.
Negli oltre dieci anni di permanenza al potere, Aliyev si dimostrò un politico molto accorto e, pur mantenendo il Paese nella CSI, non accolse truppe di Mosca sul territorio dell’Azerbaigian. Ma soprattutto, nel settembre del 1994 firmò quello che è stato definito ‘l’affare del secolo’, vale a dire l’accordo con un consorzio occidentale per lo sfruttamento dei grandi giacimenti petroliferi azeri situati nel Mar Caspio. Negli anni successivi, tuttavia, i rapporti di Baku con la Russia furono resi difficili dalla scelta azera di appoggiare il progetto statunitense di un nuovo oleodotto che da Baku portasse il petrolio dell’Asia centrale e del Caspio verso il porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, attraversando la Georgia (ma non l’Armenia) e tagliando fuori il tradizionale percorso russo. Il forte autoritarismo di Aliyev e la sua gestione familistica delle risorse del Paese suscitarono una tenace opposizione che tuttavia non riuscì a coalizzarsi e a impedirne la rielezione nel 1998.
Il mutamento dello scenario internazionale seguito all’11 settembre 2001 coinvolse in misura notevole anche il Caucaso meridionale, in particolare la Georgia. Nel febbraio 2002, infatti, Washington inviò in questa repubblica un contingente militare, sia pur limitato (200 uomini), preposto all’addestramento antiterroristico. Tale fatto – che seguiva di poco l’apertura di basi statunitensi nelle repubbliche centroasiatiche ex sovietiche – aveva un significato decisamente preoccupante per la Russia, la cui dottrina strategica rivendicava il mantenimento della stabilità nel territorio dell’intera CSI e la formazione di una fascia di ‘buon vicinato’ ai suoi confini. La politica di equilibrio tra Russia e Occidente condotta da Shevarnadze risultava ormai insoddisfacente all’interno e verso l’esterno; nel 2003 la popolarità dell’anziano presidente era ormai al minimo, soprattutto alla luce di una situazione economica sempre difficilissima. A partire dalle elezioni locali che si svolsero a giugno in un’atmosfera di disordine e violenza, il potere di Shevarnadze iniziò a sgretolarsi rapidamente. Gli Stati Uniti appoggiarono direttamente e indirettamente i suoi oppositori (soprattutto con i finanziamenti di George Soros a movimenti giovanili e reti televisive). La cosiddetta rivoluzione delle Rose fu guidata da persone di netto orientamento filoccidentale come Nino Burjanadze, Zurab Zhvania e soprattutto Mikheil Saakashvili, impostosi come la figura dominante dell’opposizione. Dopo i clamorosi brogli elettorali nelle elezioni parlamentari di novembre, che videro la contestata vittoria delle forze filopresidenziali, la situazione sfuggì di mano a Shevarnadze che fu costretto alle dimissioni. Nel gennaio 2004 Saakashvili venne eletto presidente con il 97,5% dei voti, stranamente senza che si parlasse di percentuale ‘bulgara’. La Rivoluzione delle rose georgiana beneficiò in effetti di un notevole credito da parte dell’Occidente inaugurando il processo di cambiamento geopolitico indicato con l’espressione rivoluzioni colorate, proseguito con incerto successo in Ucraina, Kirghizistan e Moldavia.
Questa evoluzione politica della Georgia è avvenuta indubbiamente con il favore e il sostegno degli Stati Uniti. Washington appare infatti intenzionata a fare della Georgia il Paese chiave del suo ridispiegamento strategico e militare nella regione caucasica, più di quanto – per differenti ragioni – possano divenirlo l’Armenia e l’Azerbaigian (Ferrari 2007). Si tratta comunque di un processo non esente da rischi, soprattutto per la tentazione, forte a Tbilisi, di sfruttare l’appoggio statunitense per porre fine alla virtuale indipendenza delle repubbliche secessioniste di Abkhasia e Ossezia meridionale. Scontri armati si verificarono in Ossezia meridionale già nell’estate del 2004, mentre nel 2006 i georgiani riuscirono a riprendere il controllo della valle di Kodori in Abkhasia. L’intensificarsi delle rivendicazioni georgiane su queste regioni dopo la rivoluzione delle Rose ebbe l’effetto di ravvivare la prospettiva di un loro incorporamento nella Federazione Russa. Più volte sollecitata dai dirigenti di Abkhasia e Ossezia meridionale, l’annessione di territori giuridicamente appartenenti alla Georgia fu però evitata da Mosca, soprattutto alla luce delle forti ripercussioni interne (si pensi alla Cecenia) e internazionali che un’operazione del genere avrebbe potuto avere. Le relazioni tra Mosca e una Tbilisi sempre più orientata in senso filoccidentale, tuttavia, peggiorarono progressivamente: la Russia mise in sostanza al bando i prodotti agricoli georgiani, espulse numerosi georgiani dal suo territorio e aumentò notevolmente il prezzo delle forniture energetiche, rendendo assai difficile la situazione economica di Tbilisi. In Georgia la grande popolarità iniziale di Saakashvili diminuì rapidamente e l’opposizione cominciò a rafforzarsi denunciando il crescente autoritarismo del presidente e la sua incapacità di risolvere i problemi reali del Paese. La dura repressione delle manifestazioni dell’opposizione nel novembre 2007 in effetti gettò un’ombra non da poco sulla democratizzazione della Georgia. Il ristretto margine (52%) con il quale Saakashvili venne rieletto presidente nel gennaio 2008 dimostrò senza dubbio l’indebolimento del suo prestigio all’interno del Paese.
L’evoluzione della situazione internazionale dopo l’11 settembre 2001 ha posto l’Armenia in una posizione estremamente complessa. In primo luogo, i suoi buoni rapporti con l’Irān hanno creato delle difficoltà con Washington. Inoltre, il dislocamento di militari statunitensi nella vicina repubblica georgiana è stato visto a Erevan con una certa inquietudine, in quanto potrebbe preludere a una completa esclusione dal Caucaso della Russia, che dell’Armenia resta il sostegno principale contro l’Azerbaigian e soprattutto la Turchia. Negli ultimi anni, anzi, Mosca ha ulteriormente esteso la sua penetrazione economica in Armenia, mentre nella sfera militare è stata riconfermata la stretta alleanza tra i due Paesi. La specificità storica e geopolitica dell’Armenia ha continuato dunque a farne un fedele alleato della Russia e a ostacolare la penetrazione strategica degli Stati Uniti. Il Paese, inoltre, ha risentito di una forte involuzione politica iniziata nell’ottobre 1999 con l’assassinio – avvenuto in Parlamento – del primo ministro, del presidente del Parlamento e di alcuni altri deputati. L’atto è stato compiuto da estremisti nazionalisti, ma le sue motivazioni rimangono in larga misura oscure (Bensi 2005). Anche le elezioni presidenziali del 2003, che riconfermarono R. Kocharian, sono state giudicate dagli osservatori internazionali tutt’altro che regolari e libere. La situazione di questa repubblica rimane molto difficile, soprattutto a causa della mancata soluzione della questione dell’Alto Karabakh che la esclude da diverse prospettive di sviluppo economico, in particolare dal transito delle risorse energetiche dell’Asia centrale e del Caspio. Nel frattempo, tuttavia, l’economia armena ha iniziato a crescere in maniera rilevante e nel dicembre 2002 il Paese è divenuto membro della WTO (World Trade Organization). Il miglioramento della situazione economica non si riversa però in maniera omogenea sul territorio e sulla società armena, al cui interno permane una forte insoddisfazione che fatica tuttavia a tradursi in un’opposizione politica unita ed efficace, anche a causa del crescente autoritarismo della dirigenza. Le elezioni presidenziali tenutesi nel febbraio 2008, che hanno visto l’elezione di Serzh Sarkissian – anch’egli originario dell’Alto Karabakh – sono state seguite da violenti disordini che hanno provocato alcune vittime.
Nei primi anni della presidenza di Putin, che ha acconsentito, sia pure in maniera ambigua, alla costruzione del tanto contestato oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, i rapporti russo-azeri sono in parte migliorati. Occorre anche tener presente che numerosi azeri lavorano in Russia, contribuendo non poco con le loro rimesse all’economia del Paese. Questo relativo miglioramento delle relazioni russo-azere ha in qualche modo limitato la penetrazione statunitense anche dopo l’11 settembre 2001, nonostante i rapporti di cooperazione anche militare tra Washington e Baku siano progressivamente aumentati.
Di particolare rilievo politico è stata la transizione del potere da padre a figlio avvenuta a Baku nel corso del 2003. Nonostante le violente polemiche interne e le perplessità degli osservatori esterni, le modifiche costituzionali proposte dal presidente H. Aliyev e confermate da un referendum hanno reso possibile il trasferimento ereditario del potere a suo figlio Ilham con le elezioni presidenziali dell’ottobre del 2003. La forte divisione esistente tra l’opposizione azera ha facilitato la vittoria del giovane Aliyev, ma le elezioni sono state seguite da gravissimi disordini che hanno gettato un’ombra sinistra su questa transizione dinastica. Tale trasmissione ereditaria del potere, peraltro, è stata bene accolta sia dalla Russia, sia dagli Stati Uniti. Per quel che riguarda Washington, gli interessi connessi al transito petrolifero e al controllo del radicalismo islamico nella regione sono troppo grandi perché si guardi eccessivamente alle incerte credenziali democratiche del nuovo presidente. Mosca sperava invece che I. Aliyev, che per rafforzare la sua ancora debole posizione aveva un forte bisogno dell’appoggio del grande vicino settentrionale, potesse essere più malleabile del padre. La successione al vertice non ha comunque modificato l’assetto politico del Paese che ha continuato a esprimere un forte autoritarismo e una notevole limitazione delle libertà politiche e di espressione. Alle recenti elezioni presidenziali dell’ottobre 2008 i principali partiti di opposizione non si sono neppure presentati e I. Aliyev è stato riconfermato con l’89% dei voti. Un successo che, insieme alla limitata libertà politica del Paese, può essere spiegato tuttavia anche con la forte crescita dell’economia azera negli ultimi anni. L’inaugurazione nel maggio 2005 dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan ha determinato infatti un cambiamento importante nella situazione economica e strategica del Paese. Ora che il petrolio di questo oleodotto può finalmente entrare nel mercato internazionale, l’Azerbaigian si trova nella condizione di trarre profitto dalla posizione filoccidentale assunta in epoca postsovietica. In particolare, il forte miglioramento dell’economia potrebbe avere ricadute anche sulla situazione militare nell’Alto Karabakh. Considerato lo stallo negoziale, la possibilità che nel territorio conteso torni a divampare la guerra rimane sempre reale, anche perché l’esercito di Baku, sinora più numeroso, ma meno organizzato e motivato di quello armeno, si sta rapidamente riarmando grazie ai proventi del petrolio. Il recente inasprimento dei rapporti con la Russia in seguito all’offensiva energetica lanciata negli ultimi anni da Mosca sta inoltre avvicinando ulteriormente Baku alla Georgia, agli Stati Uniti e alla NATO.
Un aspetto importante della recente evoluzione politica delle tre repubbliche indipendenti del Caucaso meridionale è l’avvicinamento all’Unione Europea. Dopo oltre un decennio di scarso interesse nei confronti della regione, a partire dal 2003 Bruxelles l’ha invece posta tra le priorità della sua politica estera e nel giugno 2004 Georgia, Armenia e Azerbaigian sono state incluse nella Politica europea di vicinato (PEV). Il nuovo atteggiamento dell’UE è dettato da diverse motivazioni. In primo luogo è collegato con la questione della candidatura della Turchia, il cui eventuale ingresso porterebbe le frontiere europee direttamente sul Caucaso; ma anche con la rivoluzione delle Rose in Georgia, che ha profondamente modificato la situazione di questo Paese, facendone il principale motore dell’avvicinamento all’Unione Europea. Infine, la crescente preoccupazione europea per l’affidabilità delle forniture energetiche ha reso particolarmente rilevante la regione come via alternativa del transito di gas e petrolio. Da questo punto di vista, nonostante tutti i dubbi e le difficoltà, l’inserimento delle tre repubbliche del Caucaso meridionale nella Politica europea di vicinato può costituire uno sviluppo potenzialmente positivo. Tuttavia, per renderlo efficace nel medio e lungo termine, occorrerà che Bruxelles sia capace di impostare una strategia coerente e unitaria, muovendosi con estrema prudenza e valutando attentamente le prospettive e i rischi di un suo maggior coinvolgimento in un’area tanto complessa.
Il conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008
Il breve conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008 è in effetti destinato a segnare in profondità la storia del Caucaso contemporaneo, portandolo definitivamente al centro dell’attenzione internazionale. Tra le cause principali va individuata in primo luogo la volontà della dirigenza georgiana di riprendere il controllo delle repubbliche secessioniste nella convinzione di avere l’appoggio statunitense. Ma occorre ricordare altri due fatti rilevanti. Il primo è il riconoscimento unilaterale dell’indipendenza del Kosovo da parte degli Stati Uniti e della maggior parte dei Paesi europei. Tale riconoscimento, avvenuto nel febbraio 2008, ha infatti inevitabilmente alimentato le analoghe aspirazioni delle repubbliche secessioniste del Caucaso meridionale. Sin da marzo Abkhasia e Ossezia meridionale hanno infatti avanzato analoga richiesta alla comunità internazionale, ricevendo peraltro un netto rifiuto. Il secondo è l’insistente richiesta della Georgia di entrare nella NATO nonostante la netta opposizione di Mosca che si sente minacciata da un allargamento ormai giunto ai suoi confini. Per quanto sostenuta caldamente da Washington, la candidatura di Georgia (e Ucraina) è stata rimandata dal vertice NATO di Bucarest di aprile 2008, in primo luogo per la resistenza di alcuni Paesi europei, preoccupati del sicuro peggioramento dei rapporti con Mosca che tale decisione avrebbe determinato. I mesi estivi del 2008 hanno visto poi numerosi incidenti militari nelle due regioni secessioniste della Georgia, cosicché lo scoppio del conflitto di agosto in Ossezia meridionale non può essere considerato inaspettato. Al momento non è possibile ricostruire con certezza tutte le dinamiche iniziali del conflitto, la cui fase acuta – la cosiddetta guerra dei 5 giorni – è comunque iniziata nella notte tra il 7 e l’8 agosto con il bombardamento e l’attacco georgiano della capitale dell’Ossezia meridionale, Chinvali. La reazione di Mosca, motivata dalla necessità di difendere i propri cittadini nella regione e i soldati russi inquadrati nelle forze di peacekeeping, è stata veemente e nel giro di pochi giorni i georgiani hanno conosciuto una rovinosa disfatta militare. Le truppe russe, infatti, non solo li hanno completamente scacciati dall’Ossezia meridionale, ma sono anche penetrate nel territorio georgiano, occupando la città di Gori (posta al centro del Paese e snodo considerato nevralgico per i collegamenti tra la parte orientale e quella occidentale della Georgia), il porto di Poti sul Mar Nero e altre località strategiche. La via verso Tbilisi era aperta, ma il 12 agosto si giunse a un cessate il fuoco grazie al piano in sei punti proposto dal presidente di turno dell’Unione Europea, Nicolas Sarkozy. Successivamente a tale accordo le truppe russe hanno arrestato la loro avanzata mantenendo però le posizioni conquistate. Nel frattempo, peraltro, le forze dell’Abkhasia avevano espulso dalla valle di Kodori i militari georgiani che vi si erano insediati nel 2006, riprendendone il pieno controllo. Di notevole importanza politica è stato inoltre il riconoscimento unilaterale dell’indipendenza di Abkhasia e Ossezia meridionale il 25-26 agosto da parte della Russia. Nei primi giorni di ottobre l’esercito russo si è ritirato dai territori georgiani rafforzando però la sua presenza in quelli abkhasi e osseti meridionali.
La prova di forza fornita dalla Russia, la disastrosa sconfitta militare subita da Tbilisi e l’incapacità statunitense di frenare l’alleato georgiano o di aiutarlo nel conflitto sono destinate ad avere notevoli conseguenze non solo nel Caucaso, ma anche negli scenari politici internazionali. Il conflitto russo-georgiano ha infatti evidenziato una netta contrapposizione tra la Russia e l’Occidente – soprattutto NATO e Stati Uniti, mentre l’Europa si è mostrata divisa tra un fronte antirusso capeggiato da Polonia e repubbliche baltiche e i Paesi della ‘vecchia’ Europa (Germania, Francia e Italia), meno propensi a pregiudicare i rapporti con Mosca – che ha fatto parlare persino di un ritorno alla guerra fredda. Si tratta evidentemente di una esagerazione, ma senza dubbio le modalità di questo conflitto e le reazioni che ha suscitato mostrano come il Caucaso costituisca oggi una vera e propria faglia geopolitica, estremamente pericolosa per gli equilibri globali. In questa regione si confrontano in effetti le ambizioni egemoniche di Stati Uniti e Russia: i primi hanno posto il Caucaso al centro di una più vasta strategia di ampliamento verso sud-est, sia per il controllo delle fonti energetiche del Mar Caspio e dell’Asia centrale, sia come piattaforma di controllo del Medio Oriente; la seconda è ritornata nei primi anni del nuovo secolo al livello di grande potenza, almeno regionale, e percepisce il Caucaso non solo come una sorta di bastione territoriale avanzato, ma anche alla stregua di un banco di prova della rinnovata capacità di riprendere almeno parzialmente posizioni e interessi che sono ritenuti vitali (Degoev 2006). In effetti, il conflitto di agosto ha dimostrato che la transizione egemonica da Mosca a Washington, che sembrava inevitabile in questa regione solo alcuni anni addietro, appare ora una prospettiva non più sicura, né comunque immediata. In questa situazione l’Unione Europea, che ha forti interessi economici e di sicurezza nell’area caucasica, ma non ambizioni egemoniche, potrebbe rappresentare un elemento di mediazione e stabilizzazione se riuscisse a portare avanti una visione politica maggiormente coesa di quanto sia avvenuto sinora.
Bibliografia
La Russia e i conflitti nel Caucaso, a cura di P. Sinatti, Torino 2000.
S.E. Cornell, Small nations and great powers: a study of ethnopolitical conflict in the Caucasus, Richmond 2001.
K.S. Gadžiev, Geopolitika Kavkaza (La geopolitica del Caucaso), Moskva 2001.
Ch. King, The Black Sea: a history, Oxford-New York 2004 (trad. it. Roma 2005).
F. Thual, Géopolitique des Caucases, Paris 2004.
V. Avioutskii, Géopolitique du Caucase, Paris 2005.
G. Bensi, La Cecenia e la polveriera del Caucaso. Popoli, lingue, culture, religioni, guerre e petrolio fra il Mar Nero e il Mar Caspio, Rovereto 2005.
A.A. Cuciev, Atlas étnopolitičeskoj istorii Kavkaza, 1774-2004 (Atlante di storia etnopolitica del Caucaso, 1774-2004), Moskva 2006.
V.V. Degoev, Rossija, Kavkaz i postsovetskij mir (La Russia, il Caucaso e il mondo postsovietico), Moskva 2006.
A. Ferrari, Breve storia del Caucaso, Roma 2007.